Ostermeier inizia da Amleto Energia e libertà, il

68 — prosa
Energia e libertà,
il teatro secondo
Jan Lauwers
a cura di Arianna Silvestrini
Con Jan Lauwers prosegue l’avvicinamento ai sette registi chiamati da Álex Rigola in laguna a svolgere un laboratorio nell’ambito del xli Festival Internazionale del Teatro. Dopo Romeo
Castellucci, Rodrigo García e Ricardo Bartís (cfr. VMeD n.
38, pp. 86-87), insieme all’artista fiammingo incontriamo ora
anche Thomas Ostermeier e Calixto Bieito.
C
lavoro, la scelta degli attori è
un momento importantissimo nella creazione
dello spettacolo, è la base di ogni allestimento.
Questo comporta che io scriva il testo sugli artisti; anzi,
si può proprio dire che compongo il testo sulla pelle degli
artisti. La pelle degli attori è la pelle del mondo: per questo motivo ritengo che la selezione degli interpreti sia un
momento davvero cruciale e che il materiale dello spettacolo siano gli attori stessi. Lo scorso ottobre, nell’ambito
delle cinque giornate di laboratorio, ho chiesto ai partecipanti di raccontare la propria vita; sono partito da queste storie e, nella scrittura, le ho combinate tra loro. Un altro punto su cui ho lavorato è la costituzione di un gruppo che affrontasse l’impegno con entusiasmo ed energia.
Questo è molto importante soprattutto perché il laboratorio deve servire ai partecipanti. Ho raccomandato loro
di considerare con attenzione quale possa essere il contributo della propria esperienza personale nella creazione dello spettacolo».
Avete già scelto il peccato capitale contemporaneo che presenterete alla Biennale Teatro 2011?
Stiamo lavorando sull’indifferenza. A questo proposito voglio citare il romanzo di Alberto Moravia
Gli indifferenti, davvero molto interessante. Ritengo
che l’indifferenza sia precisamente un peccato capitale, uno dei peggiori mali della nostra società: l’indifferenza nei confronti della salute del pianeta, nei confronti delle esigenze delle altre persone, delle questioni ambientali ed ecologiche, delle discriminazioni razziali… tutti queste sottospecie di indifferenza sono la
causa principale dei problemi della società
contemporanea.
Qual è la sua opinione in merito alla Biennale di Álex Rigola?
Credo che sia stata un’idea meravigliosa quella di realizzare un programma di incontri con registi come ad
esempio Romeo Castellucci, con il quale sto
organizzando dei momenti di connessione
tra diversi laboratori. È fantastico offrire agli attori l’opportunità di lavorare
con sette registi differenti e ai registi
di incontrarne altri. Vedremo cosa
accade. L’arte è fatta di energia e di
libertà e credo ci sarà molta energia
e libertà nei prossimi incontri. ◼
prosa
«
ome in ogni mio
Jan Lauwers.
Ostermeier
inizia da Amleto
a cura di Enrico Bettinello
Era il 1999 quando Thomas Ostermeier – con la folgorante quanto
controversa regia di Shopping & Fucking di Mark Ravenhill – faceva la sua prima apparizione alla Biennale di Venezia e si
faceva conoscere come
uno dei talenti più dotati della nuova generazione tedesca. Parte da Amleto questa
sua nuova avventura
veneziana all’interno
del nuovo progetto (laboratorio + spettacolo) che costituisce l’idea
del direttore della Biennale Teatro, Álex Rigola: Ostermeier ha infatti
scelto il tormentato Principe di Danimarca e la sua Ofelia come oggetto del lavoro con gli iscritti al laboratorio.
I
«
l lavoro è organizzato in due parti: una di allenamen-
to fisico piuttosto tradizionale da un lato, mentre dall’altro ho chiesto ai partecipanti di raccontare delle storie
della loro vita personale che in qualche maniera possano essere assimilabili a quelle dei personaggi della tragedia. Da queste
storie ho chiesto loro di trarre una messinscena con gli altri,
utilizzando alcuni elementi di quello che propongono per le
scene. Penso sia molto importante costruire delle connessioni tra la propria vita e il teatro, che è qualcosa che, anche affrontando un classico, parla sempre di noi e a noi».
Come hanno reagito a questa richiesta i partecipanti?
Una cosa interessante di questo nucleo è che è molto internazionale: in questo senso ciascuno è, in qualche modo, straniero all’interno del gruppo e si evitano quelle tipiche corse
a dimostrarsi più scaltri degli altri che solitamente funestano
l’esperienza di laboratorio. Sono poi rimasto piacevolmente
sorpreso da come si sono immedesimati subito nel processo, divertendosi e dandomi del fantastico materiale narrativo.
Pensi che Amleto e la performance contemporanea condividano le stesse condizioni di dubbio e l'ansia di essere sotto la minaccia costante della politica?
Amleto ha una missione, ma non è abbastanza coraggioso
da portarla a termine. Deve distruggere un sistema politico
corrotto e ingiusto, ma dubita e trova un sacco di scuse per
non agire. È qualcosa che ci accomuna in un mondo in cui
tutti conosciamo le ingiustizie, le guerre, la corruzione e lo
stesso non facciamo nulla! Come vedi il problema di Amleto è così contemporaneo…
Su quale peccato capitale lavorerai per la seconda parte del progetto pensato da Rigola?
Ho scelto quello che penso sia il reale tabù dei nostri
giorni, la pedofilia, e un collegamento che mi è subito
venuto spontaneo è con Morte a Venezia, di cui metterò in scena alcuni materiali, sia dalla versione letteraria che da quella cinematografica. ◼
Il laboratorio di Thomas Ostermeier (foto di Roberto Canziani).
prosa — 69
a cura di Leonardo Mello
Nell’indagine delle infinite potenzialità che offre la scena teatrale,
iniziata da Álex Rigola con i sette laboratori della sua Biennale
Teatro – che si concluderanno a breve con l’arrivo di Jan Fabre –
non poteva mancare un artista come Calixto Bieito, famoso per le
sue acclamate e controverse regie liriche nonché sul versante della
prosa, dove ha letto in modo magistrale autori come Calderón de
la Barca e Ibsen. A conclusione del suo soggiorno lagunare, il regista spagnolo illustra il lavoro svolto con gli attori.
A
testi di Edgar Allan
Poe, accompagnandoli sempre con la musica:
a volte creando improvvisazioni, altre utilizzando brani di Ligeti e altre ancora canzoni di Lou Reed. Abbiamo costruito scene in italiano, francese, catalano, tedesco, inglese, servendoci sempre di un testo e del
pianoforte. Abbiamo ballato e corso per la sala, siamo saliti sulle colonne. In quest’occasione non ho voluto partire da un’opera classica, perché non avevo voglia di affrontare di nuovo il repertorio: volevo lavorare su qualcosa di differente».
«
bbiamo scelto poesie e
Come mai la scelta è ricaduta su Edgar Allan Poe?
Perche ha tutto dentro, divertimento, bellezza, romanticismo, amore, morte, paura. Ed è stato un modo
per tornare a sentirmi giovane, riprendendo in mano
letture che facevo quando avevo sedici, diciassette anni. Rileggerlo ora mi è sembrato formidabile.
Sai già quale sarà il «peccato contemporaneo» che affronterai al
tuo ritorno in Biennale?
Non ho ancora deciso definitivamente, forse mi
orienterò sull’avarizia, perché odio la mancanza di generosità. E in più è un difetto molto attuale.
Come giudichi l’idea di Álex Rigola di mettere in contatto approcci al teatro così differenti tra loro?
Mi sembra molto aperta e innovativa. Riunire artisti e percorsi così diversi mi sembra una grande
opportunità.
Alla fine del percorso il direttore artistico prevede quindici minuti per ciascun «peccato». Riuscirai a stare dentro questi tempi un po’ angusti?
Senza dubbio, e forse il lavoro sarà anche più breve. ◼
Un momento del laboratorio.
«L’artista
è la sua opera»
L’indagine di Anagoor
sulla figura di Fortuny
L
di Filomena Spolaor
a performance in site specific Ballo a Venezia del-
la compagnia teatrale Anagoor ha debuttato nel
Museo Fortuny, il 19 febbraio scorso, sviluppando
l’opera dello scenografo e pittore spagnolo in una drammaturgia iconografica con installazioni visuali. Disseminati nell’area d’ingresso al piano terra, sono collocati degli schermi in cui si interfacciano dei video, che riprendono giovani danzanti sullo sfondo del palazzo gotico Pesaro degli Orfei nell’atto di impugnare una mazza, simulando le gesta eroiche di quelle compagnie di giovani che
nel 1507 distrussero tutte le gondole in Canal Grande.
Tra le immagini prodotte
dalla compagnia di Castelfranco Veneto, ve n’è una
in cui compaiono tre esseri
alieni, ritratti
nell’azione di
infilarsi all’interno di una mummia che diventa oggetto, come nel caso
della gondola presente in altre inquadrature, di gesti sensitivi come quello dell’accarezzare. Il linguaggio visivo degli Anagoor narra coreuticamente il mito del Minotauro.
All’interno di un grande salone si assiste all’apparizione di
una dea rivestita di una pelle dorata. Dietro di lei i corpi di
otto giovani s’infatuano nella mimesi delle sue pose scultorie, nella rituale partitura danzata di un coro che riprende l’esperienza della «stoa», scuola di movimento ritmico
che Claudia Castellucci condusse anni fa a Cesena, scandito dal ritmo percussivo della musica elettronica. Un sipario di seta nera svela la presenza di un gruppo di ragazze sullo sfondo di un telo composto dall’intarsio di differenti tessuti Fortuny, decorati con i disegni orientali degli arazzi medioevali cui s’ispirò il costumista spagnolo.
Le giovani si muovono in cerchio intorno alla dea, mentre i maschi eseguono una coreografia scandita dall’uso
dilatato e spigoloso degli arti. L’interesse iconografico per
l’archivio fotografico di Fortuny si manifesta nella proiezione delle sue immagini di Venezia su uno schermo
in proscenio. L’assenza della recitazione di un testo caratterizza anche la visita del Museo al piano nobile, dove
in una stanza si scoprono le due esecutrici in diretta della composizione vocale dello spettacolo. La performance scenografica degli Anagoor evidenzia la fattura estetica dell’opera di Fortuny, sintetizzando per frammenti
un pensiero come quello dell’eroismo giovanile postmoderno nel contesto della memoria culturale, esponendolo a un tragitto anacronistico in gioco con l’immagine. ◼
Anagoor, Ballo a Venezia.
prosa
Calixto Bieito parte
da Edgar Allan Poe
(con tanta musica)
70 — prosa
Marco Paolini
in «itis Galileo»
delle cose che ho presentato ad esempio – tra luglio e settembre dell’anno scorso – al Festival di Bassano. L’ho poi
proposto in alcuni Istituti di Scuola Media Superiore in
forma di lezione-spettacolo. È quindi seguito un periodo di “decantazione” in cui mi sono dedicato anche ad ala cura di Ilaria Pellanda
tro e a gennaio di quest’anno ho riallestito lo spettacolo».
Com’è articolato?
re anni fa M arco Paolini e Francesco NiccoliLa sua forma comprende anche delle parti dialogate e
ni hanno dato inizio a un lavoro di approfondisiccome sono da solo sulla scena, il mio interlocutore dimento dedicato alla figura di Galileo Galilei, sfoventa lo spettatore, uno solo o anche più alla volta, e con
ciato nell’opera itis Galileo, che Paolini porterà a marzo
loro ragiono, leggo delle fonti, che se all’inizio erano molsulle scene del Teatro Verdi di Padova e del Goldoni di
te, si sono via via ridotte per ragioni di agilità. L’idea che
Venezia.
si potesse ragionare intorno a Galileo mi sembrava un
«Lo spettacolo nasce da una mia suggestione: quella di
po’ velleitaria all’inizio e nutrivo molti dubbi su quanto
provare a raccontare il Dialogo sopra i due
un’operazione di questo tipo avrebbe
massimi sistemi del mondo. In realtà mi parpotuto incontrare il gusto, l’attenziove fin da subito una sfida più grande di
ne e la disponibilità della gente. In realPadova – Teatri Verdi
me e pensai che non sarebbe stato possità devo ricredermi, e anche se senz’aldal 15 al 19 marzo, ore 20.45
bile realizzare a teatro una simile operatro c’è chi viene ad assistere a questo
20 marzo, ore 16.00
zione. È stato Francesco, con il quale ho
spettacolo senza un interesse specifico
itis Galileo
collaborato fin dal germogliare dell’idea,
sull’argomento ma per la sola curiosità
ad aiutarmi nell’orientamento in una madi conoscere ciò che ho realizzato, creVenezia – Teatro Goldoni
dal 23 al 26 marzo, ore 20.30
teria molto complicata: non si è semplicedo che alla fine sia anche il tipo di storia
27 marzo, ore 16.00
mente partiti da un testo ma da un pernarrata ad attirare le persone: durante
itis Galileo
sonaggio, da un contesto, dalla storiograla messinscena vedo un pubblico coinfia della scienza, tutta una serie di ambiti
volto, che si interessa e si scalda. E io
Noventa di Piave
che celavano il pericolo di farci perdere.
mi diverto molto. Non mi accadeva dai
17 aprile
Abbiamo condiviso un lungo periodo di
tempi del Milione.
La macchina del capo
studio, durante il quale le prime tracce di
Che tipo di riflessione proponi?
racconto le ha composte proprio FranceLa mia analisi non va tanto ad insco. Successivamente vi ho ricamato un po’ su per adatdagare la genialità del personaggio, quanto piuttotarle all’oralità. A questo sono seguiti una serie di “stusto la sua capacità di utilizzare la propria mente sendi” durante i quali ho preza farsi condizionare dalla rigidità della sua epoca.
parato una versione del
Non mi interessa Galileo per ciò che ha realizzato ma
lavoro priva di scenoper il suo sforzo di porre continue domande, di essegrafia, senza luci, un
re un’intelligenza sempre aperta al dubbio. Credo inolsemplice racconto,
tre che il racconto che ne faccio a teatro – pur non
una messa in fila
avendo inventato io nulla di nuovo – possa stimolare
la voglia di leggere del suo genio e di saperne di più. ◼
prosa
T
Marco Paolini (foto di Tommaso Savoia).
prosa — 71
Claudio Santamaria
nella sua
«Notte poco prima
della foresta»
Il monologo di Koltès
nel ventennale della morte
A
rriva in Veneto nel mese di marzo – a Padova,
Verona e Mestre grazie alla collaborazione con
Arteven – La notte poco prima della foresta, testo del
drammaturgo parigino Bernard-Marie Koltès, messo in
scena da Juan Diego Puerta Lopez e interpretato da Claudio Santamaria. La notte e la foresta vanno a richiamare un immaginario legato al buio e all’indefinito, idea che
ben si iscrive nel testo di Koltès, autore geniale di cui
ricorre il ventennale della morte: un monologo dirompente, senza respiro, nel quale è lo stesso Santamaria a
introdurci.
«Si tratta di un flusso di coscienza con notevoli salti illogici. Il
protagonista è uno straniero, così
come lui si presenta fin dall’inizio.
tra donna, con la quale vive una notte d’amore e che gli
dice di chiamarsi Mamma per poi scomparire. Non viene raccontata una storia nel senso classico del termine: si
tratta piuttosto di una narrazione per immagini».
La parola è forse il vero demiurgo di questo spettacolo, che mette
in luce alcune tematiche fondamentali, com’è quella della condizione
dello straniero e della solitudine dell’uomo stesso. In qualche maniera può esserci un richiamo, anche drammatico, alla società contemporanea, che nonostante o forse proprio a causa del progresso tecnologico rischia di rimanere chiusa in un individualismo e in una solitudine spesso desolanti?
Sì. Il testo di Koltès, pur essendo stato scritto nel 1977, è
molto attuale. Proprio per questo, con il regista Juan Diego Puerta Lopez abbiamo scelto di non dare alcuna connotazione geografica al personaggio, né alcuna cadenza o accento, affinché lo spettatore potesse identificarsi
con il suo sentirsi straniero, isolato, sensazione che molto spesso può capitare di percepire anche in casa propria.
Volevamo che questo sentire fosse universale, senza concedere la possibilità di tirarsene fuori per essere semplicemente spettatori.
Per quel che riguarda l’approccio fisico e vocale, come ti sei
preparato?
È solo, e si ritrova a vagare in un
non-luogo e ad abbordare un passante che in realtà potrebbe anche
essere immaginario. La scenografia non permette di individuare un
ambito riconoscibile e va piuttosto a rappresentare l’interiorità di questo personaggio: sulla scena ci sono delle macerie a simboleggiare proprio il suo essere dilaniato
dalla propria condizione di straniero e dal non riuscire a
trovare uno spazio per sé in un mondo in cui tutti gli spazi sono delimitati e demarcati. È un uomo che sente forte
la frustrazione di non poter combattere contro i suoi veri nemici, che non sono i delinquenti di strada ma, come
si legge nel testo, sono un piccolo clan di bastardi invisibili che stanno lassù, irraggiungibili, al di sopra di tutto
e che hanno facce da assassini e stupratori. E la medesima frustrazione la vive per il fatto che, se prima lavorava,
ora non cerca nemmeno più un’occupazione, che lo porterebbe solo a dover andare sempre più lontano. Questa
è forse la parte più politicamente connotata del testo di
Koltès, che si esprime poi in ricordi, visioni e apparizioni
di due donne, sorta di fantasmi che vengono evocati: una
puttana, che il protagonista dice di aver visto; e poi un’al-
prosa
Padova
Multisala Pio x
9 marzo, ore 21.00
Verona
Teatro Camploy
10 marzo, ore 20.45
Mestre
Teatro Toniolo
11 marzo, ore 21.00
Il lavoro sul corpo, soprattutto, è stato fondamentale. Juan Diego è anche un coreografo e abbiamo curato moltissimo la parte fisica per cercare di rendere, anche attraverso le posture, il senso di inadeguatezza e costrizione che attraversa l’opera. Puerta Lopez, mentre recitavo, mi «manipolava» facendomi contorcere in posizioni davvero complicate, che facessero passare il testo
attraverso le ossa, i muscoli e il sangue – come si legge nella drammaturgia – prima che attraverso il cervello. In scena sto molto curvo, in assetto di chiusura, con
il collo che tuttavia si sporge in avanti in un crescendo di apertura, che porta a un finale che va a demolire
quanto di claustrofobico ha pervaso lo spettacolo. (i.p.) ◼
Claudio Santamaria nella Notte poco prima della foresta
secondo Juan Diego Puerta Lopez (foto di Pino Le Pera).
72 — prosa
L’anarchia
dell’immaginazione
co, disposto a seguire le scelte difficili che realizziamo
sulla scena. Angels in America ha un sottotitolo: Fantasia
gay su temi nazionali. Eppure lo vedono tutti i pubblici, anche quelli più tradizionali e borghesi d’Italia.
Cosa significa specchiarsi in quest’opera e nella sua ironia?
La vita presa dal verso puramente tragico, senza ironia,
non è completa. La completezza di Kushner sta nel fatto
che anche nei momenti più drammatici è sempre ravvisabile una leggerezza ironica che crea quel minimo di staca cura di Ilaria Pellanda
co che permette di non cadere nella tragedia a discapito
della speranza. Secondo Kushner l’esistenza è un dolororriva al Toniolo di Mestre la comso progresso, vissuto tuttavia per conservapagnia dell’Elfo con Angels in Amerire un po’ di speranza nel mutamento, anche
ca Parte i di Tony Kushner, bestseller
quando sembra che questo mutamento non
Mestre – Teatro Toniolo
del teatro americano che ha portato fortuna
debba mai avvenire. Si tratta di un inno alla
dal 5 al 7 aprile, ore 21.00
al cast guidato da Elio De Capitani, Premio
vita, al doloroso avanzare dell’esistenza ma
Ubu 2007 come attore non protagonista nel ruolo di Roy
anche alla necessità della speranza – e l’ironia è una parte
Cohn. Con Si avvicina il millennio - Fantasia gay su temi naziodella speranza – come unica condizione esistenziale posnali – appunto la prima parte di Angels in America, coprosibile per l’uomo. Negare la propria identità, per esempio
dotta con ert/Emilia Romagna Teatro Fondazione e anla propria omosessualità, significa uccidere se stessi, codata in scena con successo al Teatro delle Passioni di Mome accade a molti dei personaggi di questa storia, destidena nel maggio 2007 – Elio De Capitani e Ferdinando
nati a rimanere un guscio vuoto.
Bruni hanno da subito ottenuto (oltre ad altri riconosciChi è Roy Cohn?
menti quali ad esempio il Premio Hystrio 2008 alla regia
Il mio personaggio, Roy, appunto, è una figura storie due Premi eti-Gli Olimpici del Teatro 2008, come mica, assolutamente deteriore, avvocato di mafiosi, un esglior regia e miglior spettacolo di prosa) il Premio anct
sere senza scrupoli, omosessuale e omofobo nelle sue di(Associazione Critici di Teatro) per la regia, «che segue
chiarazioni pubbliche. Tuttavia possiede un qualcosa che
uno sviluppo scenico più vicino all’allegoria che alla semKushner rende molto bene: una disumana vitalità, l’esplice metafora: dilata l’ampia scena oltre se stessa con virsere un cultore della vita come animalità pura. Nonotuali proiezioni cinematografiche di grande effetto, con
stante non si possa non giudicarlo, tuttavia se ne rimalivelli sonori a volte alterati, che riescono a restituire tanti
ne incantati.
piani di realtà, da quelli più chiaramente
Che ambienti ha creato lo scenografo Carlo
onirici a quelli di un realismo più tragico
Sala?
e concreto, in un insieme di grande intenGli oggetti usati sono pochissimi: è la
Tony Kushner, Angels in America,
sità emotiva». Ed è dalla viva voce di De
fantasia
dello spettatore che trasforma un
(parte prima e parte seconda),
Capitani che veniamo introdotti in questa
tavolo in una scrivania o in un ristoranUbulibri, Milano 2009
saga provocatoria e commovente.
te di lusso. È stato ricostruito uno spazio
«Questa regia a quattro mani mette sulla scena, oltre a
molto neutro, in cui vengono realizzate delle proieziome, anche Ida Marinelli (premio Ubu 2010 come attrice
ni a differenziare i luoghi: l’evocazione visiva serve a tranon protagonista per Angels in America - Perestroika), Crisformare rapidamente lo spazio e a suggerire il viaggio
stina Crippa, Elena Russo, vere colondella fantasia. Un intreccio di sensibilità ed evocazione.
ne dell’Elfo, e inoltre alcuni giovaIl nostro slogan è sempre l’anarchia dell’immaginazione
ni attori selezionati con una seche guida gli artisti. La forza grande del teatro è l’emorie di provini: sono loro i veri
zione e l’emozione ha comunque un pensiero proprio:
protagonisti dello spettacolo,
non siamo dei puri emotivi,
giovani coppie etero e omoabbiamo anche una mensessuali. Non ci saremmo mai
te; e passare attraverso
aspettati l’enorme successo riil corpo e l’emozione
scosso negli anni e ne siamo
è la grande forma di
felici, perché vuol dire che
pensiero del teatro. ◼
c’è una sensibilità fortissima da parte non sono degli operatori ma
anche del pubbli-
Elio De Capitani racconta
«Angels in America»
di Tony Kushner
prosa
A
Angels in America Parte i (foto di Lara Peviani).
prosa — 73
Illusione d’amore
nel discount
dei corpi
applicare queste parole al teatro di Ricci/Forte. I loro personaggi-non-personaggi sono persone-in-quanto-consumatori, che si identificano prioritariamente con ciò che indossano, con i brand. Individui della più bieca quotidianità trasformati dalla rasoiata poetica degli autori e dalla visceralità emotivo-intellettuale degli interpreti: ma «persone possibili», vive nel loro essere alle prese con l’ordinaria
assurdità dell’esistenza.
Sono gli eroi di questi tempi, che cercano di sopravvivere
nelle nuove arene per battaglie senza senso, per combattidi Andrea Porcheddu
menti contro la solitudine e la disperazione: l’outlet è il nuovo ring o lo spazio antistante le mura di Troia, il luogo di
hissà perché quando si parla del te(non)aggregazione, l’orizzonte di riferimenatro di Ricci/Forte viene naturale
to per la costruzione identitaria come per il
Udine
usare termini americani.
confronto sociale. Per Ricci/Forte il «merTeatro Palamostre
Forse per la dimensione international (eccocato» non è Wall Street, ma il centro comTroia’s Discount
ne uno) del duo, così attento alle poetiche
merciale, dove si compra e si vende tutto. In
19 marzo, ore 20.30
europee contemporanee. O forse perché gli
primo luogo il corpo, se stessi.
spettacoli sono trend (eccone un altro): Ric«Smaltimento»: liberarsi dell’ingombro,
Teatro San Giorgio
ci/Forte attingono a quell’immaginario da Wunderkammer Soap #1_ Didone del superfluo. E cercare ossessivamente il
outlet sociale, a quella cultura italo-statuninuovo. Quel che è vecchio via. Con il ter20 marzo, ore 18.00
tense che è ormai l’unico collante di questo
rore di essere noi i rifiuti, con la paura di esnostro Paese colonizzato.
sere scartati, in questa eterna stagione in cui
Allora, in una carrellata dei loro
tutto è «televoto da casa» o «nominaspettacoli entrano indifferentetion». Entriamo in un mondo
mente termini come postin cui il lattex e il cellophane
modern, snuffmovies,
postmoderni si ritirano,
peepshow, hardcore,
lasciano il campo alla
mash-up, cutting, glacarne, al corpo, al vemour, gay, muffin,
ro, al nudo. Lo scarto
trash, cheap, reality
si muove ai margini,
show, gender, avanelle periferie, negli
tar, scanner, pop
spazi abbandonati.
up, link, MySpace,
Ma nelle perifevintage, pop, blindrie si possono andate, shopping…
cora vedere le lucUna lingua del nociole care a Pasolini.
stro tempo, autorizzata
Ecco, ci siamo arrivadagli autori che miscelano
ti: sembra quasi un silloslang e borgata, dialettaccio di
gismo. Ricci/Forte parlano
centocelle e tecnicismi computedel nostro tempo, di quelle periristici. Nel loro procedere sincretico
ferie e marginalità care al Pasolini di
i due succhiano fonti «alte» e manifestazioni
allora. Parlano delle lucciole. Gli aspri monoculturali basse o diffuse. Nella stagione della riproducibililoghi, gli scontri fisici, le dinamiche relazionali sparate
tà di massa della vita individuale, sancita dal Grande Fratelsul palcoscenico, complici i «classici» chiamati (o usati)
lo Tv, Ricci/Forte hanno capito che la televisione non è un
come riferimento, sembrano proprio un aggiornamendemone, ma una forma di cultura primaria, fondante, alfato della poetica-politica di Pier Paolo Pasolini. E certo
betizzante. Così abbondano i rimandi a Candycandy, Lady
ci sono molti punti di contatto, tra PPP e R/F: ma non
D, Olivia Newton John, Dallas, Dinasty, E.R, Desperate
basta. Perché il cappio che stringe la gola è altro: conHousewife, Julia Roberts, Lost, Sixfeetunder…
sunto, ma implacabile, il sesso è la bastarda malattia del
Insomma, Marlowe si affianca a Gatto Silvestro, Virgilio
corpo che mangia l’anima. Non serve saziare il corpo,
a Mazinga, Eschilo alla Nutella: «Siamo tutto questo», dinon è quello il problema. Perché poi si cerca sempre alce Stefano Ricci. È vero: l’io squassato, devastato, deprestro: affetto, calore, l’illusione di un amore. Eccolo alloso, si moltiplica e si sfaccetta in solitudini sempre troppo
ra, lo scandalo: anche nel momento di maggior depravarumorose, e il grido di chi cerca caparbiamente di non soczione si parla d’amore. Dell’amore che fa tremare i polcombere è il filo conduttore di Troia’s Discount, delle Wunsi, che corre sotto pelle, che è ambizione, illusione, doderkammer, di Pinter’s Anatomy o dello straziante Macadamia.
lore. Sono tracce di umanità, quelle che brillano nel teaScrive Zygmut Bauman: «Siamo consumatori in una sotro di Ricci/Forte. Al di là dei generi, degli scandali, delcietà dei consumi. (…) Siamo tutti nel e sul mercato, al temle provocazioni, c’è una speranza, nonostante tutto: tropo stesso, o in modo intercambiabile, clienti e merci. Non
vare l’amore. Ecco, non ci interessano più Cooper, Marc’è da stupirsi se l’uso/consumo di rapporti si adegua (…)
lowe, Pinter: Stefano Ricci, Gianni Forte, i loro attoripetendo il ciclo che comincia con l’acquisto e termina
ri, attrici e collaboratori, raccontano questa speranza. ◼
con lo smaltimento dei rifiuti».
Troia’s Discount di Ricci/Forte (foto di Lucia Puricelli).
Consumatori, mercato, smaltimento, rifiuti: proviamo ad
A Udine due spettacoli
di Ricci/Forte
prosa
C
74 — prosa
A Trieste il «Trittico»
di Antonio Tarantino
te. È lo stesso Tarantino, in questa breve nota scritta per
VeneziaMusica e dintorni, a precisare meglio i contorni
di questa operazione teatrale: «Trittico è composto di tre
brevi atti: Torino Bacau Roma, Cara Medea e Una casa razzista. Quest’ultimo è preceduto da un prologo dal titolo Telesogni. In Torino Bacau Roma due poveracci, un rottame
della catena di smontaggio dell’industria del Nord Italia e
una giovane immigrata clandestina dell’Est europeo rappresentano due clamorosi fallimenti di dottrine sociali di
di Leonardo Mello
un recente passato. Ovvero il lavoro come pratica capace di riscattare quanto di nobile vi è nell’uontonio Tarantino è indiscutibilmo, trascurandone le note implicazioni di abmente uno dei più importanti e rapbrutimento. E la dottrina dello Stato proprieTrieste
presentati drammaturghi italiani contario e depositario del bene comune che, iro8-12 marzo, ore 21.00
temporanei. Già altre volte in passato il suo
nicamente, si svolge e si presenta come ma13 marzo, ore 17.00
Trittico
nome e le sue opere hanno occupato queste
le comune. In Cara Medea una madre assassipagine (cfr. VMeD n. 27, p. 60, n. 28, p. 75 e
na evoca dalle profondità del mito, riportaVenezia
n. 38, p. 80), anche in relazione al laboratorio
to ai giorni nostri, l’inconciliabilità tragica di
Fondamenta Nuove passione e ragione. Dove, percorrendo l’as«Parole in forma scenica», di cui fu protago- Teatro
3 maggio, ore 21.00
nista e modello di scrittura nel 2009 e al quasurda geografia di un’Europa devastata dalGramsci a Turi
le, in marzo, tornerà a partecipare nella nuola guerra, Medea, liberata da un lager, affron(versione oratoriale)
va edizione, che lo vede insieme a Mariangela
ta un terribile viaggio alla ricerca di un passaGualtieri, Vitaliano Trevisan e Paolo Puppa.
to che, come il suo Giasone, non esiste più, se
Inpossibile tracciare in poche righe l’evolunon nell’ostinata e inestinguibile permanenzione del suo stile, che parte quasi per caso
E a maggio arriva a Venezia
«Gramsci a Turi»
prosa
A
za dei sentimenti. Telesogni è una trash tv danel ’93 con un capolavoro come Stabat Mavanti alle cui telecamere è convocato un anTutto il teatro
ter – scoperto da Franco Quadri e premiato
ziano pensionato, il quale, in un mondo che
di Antonio Tarantino
all’unanimità a Riccione, ai bei tempi in cui
ha cambiato il colore della pelle e il modo delè pubblicato da Ubulibri
lo stesso Quadri era presidente della giuria di
le relazioni “umane”, proietta sugli immigra(www.ubulibri.it)
quella manifestazione – e prosegue senza soti che invadono la sua vita il proprio razzismo
sta tra pièce di piccole dimensioni e kolossal teatrali conutrito di luoghi comuni e, peraltro, grottescamente prime Materiali per una tragedia tedesca e il più recente Trattato
vo di “serietà”. Ma sarà proprio questa circostanza a imdi pace. Basti dire in questa sede che nella diversità delle
pedire il compiersi di un dramma, per il prevalere sulambientazioni, dei contesti e dei personaggi la sua parolo stereotipo – comunque pericolosamente diffuso nella
la, sempre scissa tra ventre e sublime, tra tragico e grotnostra società – del sentimento di umanità semplicementesco, tra citazioni classiche e gag d’avanspettacolo, rete presente in ognuno».
sta – nel suo continuo oscillare tra mito e storia – sempre
Sempre sul versante tarantiniano, si segnala fin
magmatica e potentissima, tanto da affascinare registi
d’ora l’arrivo a Venezia di un altro testo, Gramsci a Tucome – per citarne solo alcuni – Cherif, che nei primi anri, affresco drammatico-umoristico del calvario carni ha molto contribuito alla sua notorietà, Marco Marticerario del grande intellettuale sardo messo in scenelli, Valter Malosti e Antonio Calenda. Ma anche un’arna nel 2009 al Napoli Teatro Festival Italia da Danietista come Cristina Pezzoli, allieva di Dario Fo e Massile Salvo. L’evento, organizzato e promosso dalla Fonmo Castri, con la quale Tarantino rielabora un testo-simdazione di Venezia con Euterpe Venezia nell’ambibolo come Madre coraggio di Brecht, in uno spettacolo del
to delle Esperienze di Giovani a Teatro, sarà ospitato
2008 che vede in scena una superba Isa Danieli. E la stesagli inizi di maggio dal Teatro Fondamenta Nuove. ◼
sa Pezzoli, poco tempo dopo, cura la regia di Trittico, un
allestimento che mette insieme tre testi brevi, e nel quaA sinistra: Trittico di Antonio Tarantino.
le per l’occasione l’autore si fa anche interprete dividenA destra: Gramsci a Turi, regia di Daniele Salvo
do il palcoscenico con Gilda Postiglione e Oreste Valen(foto Napoli Teatro Festival Italia).
prosa — 75
I «Rusteghi»
di Gabriele Vacis
incontro; e allora mettersi nei panni dei propri avversari politici, per esempio, o in quelli dei meridionali se si è
settentrionali e viceversa, sarebbe un modo possibile per
cercare di comprendere le ragioni degli altri.
In scena, ad affiancare gli attori «senior» del cast vi sono quata cura di Ilaria Pellanda
tro giovani che interpretano le parti femminili: Nicola Bremer,
Christian Burruano, Alessandro Marini, Daniele Marmi. Olabriele Vacis si era già cimentatre al rapporto uomini-donne ve n’è anche uno
to con Carlo Goldoni. Era il 1993 Trieste – Politeama Rossetti giovani-vecchi?
quando realizzò per Teatro SettiSì, ed è una lettura a cui tengo molto. La
9, 10, 11, 12 marzo, ore 20.30
mo, in occasione del bicentenario goldorelazione
fra le generazioni mi porta nuo10 e 13 marzo, ore 16.00
niano, lo spettacolo intitolato La villeggiatuvamente a riflettere su ciò che accade in
ra, smanie, avventure e ritorno, pièce in tre atItalia, un Paese di vecchi che trattengono il
ti ricavata rielaborando in un continuum narrativo le tre
potere senza alcuna idea di cederlo alle nuove generaziodistinte commedie sul tema che il drammaturgo veneziani; i giovani, dal canto proprio, non hanno il coraggio e
no scrisse nel 1761.
la forza di strapparlo dalle loro mani. Ecco che i quattro
E quest’anno è andato in scena, in prima nazionale al
ventenni sono allora presenti anche in quanto potenziaTeatro Sociale di Valenza lo scorso 12 febbraio – con un
li «figli» del resto del cast, perché, anagraficamente, popoker di attori del calibro di Eugenio Allegri, Mirko Artrebbero esserlo davvero.
tuso, Natalino Balasso e Jurij Ferrini –, lo
spettacolo che Vacis ha
tratto da un’altra opera goldoniana: si tratta
dei Rusteghi, quei Nemici della civiltà che a marzo sbarcheranno sul
palcoscenico del Politeama Rossetti di Trieste in una rilettura in
chiave moderna della
celebre commedia settecentesca, nella quale è lo stesso regista a
guidarci.
«Si tratta di una rilettura che non ha avuto
bisogno in realtà di accorgimenti particolari.
Ho mantenuto il tema
principale, il rapporto uomini-donne, pensando anche che, con
tutto ciò che sta accadendo nel nostro Paese, fosse interessante spingersi più in profondità a comprendere cosa questa relazione significhi,
Il testo in dialetto è stato tradotto in italiano. Come mai?
cosa voglia dire essere “rusteghi” nei rapporti con il genRiflettendo su Goldoni, non credo sia più possibile
til sesso. E proprio per questo ho fatto una scelta radicamettere in scena un testo antico così com’è, perché i suoi
le, riunendo una compagnia di soli uomini. Ho lavorato
personaggi vivevano in un altro modo, parlavano in macon gli attori al fine di cercare di capire tali rapporti, faniera diversa. Da qui la scelta di tradurre il testo. In una
cendoli mettere anche fisicamente nei panni delle donsola scena s’è mantenuto il dialetto, quella in cui Lunarne. Ma non viene messo in scena uno spettacolo en travedo e Simon rivelano la loro anima profonda di «rustesti, né viene fatto alcun accenno all’omosessualità: si tratghi» dicendo che le donne bisogna tenerle segregate in
ta piuttosto di vestire i panni femminili per cercare di cacasa. Ed è un concetto che in effetti può capitare di senpire le ragioni, di indagare il punto di vista delle donne,
tire, se si è abbastanza sfortunati, in qualsiasi osteria del
senza eccedere in alcun tipo di comportamento stereotiVeneto. I «rusteghi» ci sono ancora, ma con una diffepato. Credo sarebbe un’operazione molto interessante da
renza: che se a Goldoni risultavano simpatici perché non
realizzare anche al di fuori del teatro: penso infatti a queerano una realtà organizzata sul territorio e si trovavasta Italia divisa, in cui sembrano non esserci possibilità di
no nelle loro mura domestiche, a noi risultano pericolosi, in quanto il rischio è che possano diventare la maggioranza. E allora non sarebbero più così simpatici! ◼
Mirko Artuso e Natalino Balasso nei Rusteghi
di Gabriele Vacis (foto di Bepi Caroli).
prosa
G
76 — prosa
La «Recherche»
senza parole
di Teatropersona
Al Fondamenta Nuove
di scena «Aure»
L
di Fernando Marchiori
teatro quale atto fondativo
di un mondo altro e insieme la consapevolezza della
necessaria insignificanza di quanto appare in scena: «un nulla confezionato con le immagini della realtà».
È in questa paradossale tensione a creare il vuoto attraverso la forma che può profilarsi nel lavoro di Teatropersona una
presenza
riverberan-
prosa
a fascinazione per il
bale per scandagliare le altre possibilità espressive con un
criterio compositivo di carattere musicale. Dopo Beckett
Box 2006 (vincitore del premio internazionale Beckett &
Puppet) e Trattato dei manichini (2008, premio eti – Nuove creatività e Premio Lia Lapini per la scrittura di scena), la «trilogia del silenzio» si conclude con un temerario
lavoro sulla Recherche proustiana che è, fin dal titolo, anche un omaggio al magistero di Elémire Zolla: AURE.
Memoria e infanzia, reminiscenza e sogno costituiscono
il materiale di costruzione anche del nuovo lavoro, ancora in fieri, interpretato da Valentina Salerno, Chiara Michelini e Francesco Pennacchia. Come nei lavori precedenti, dell’opera di Marcel Proust non restano né le parole né le storie, ma i meccanismi che ne governano la
natura. Un puro fatto materico che si sostanzia in figure e atmosfere visive e sonore di carattere impressionistico. Una proustiana «seconda stanza» impronta lo spazio scenico. Le sue tre porte disegnano altrettanti campi
magnetici che determinano le dinamiche fisiche degli attori. Tra «scricchiolii organici della boiserie» ed echi beethoveniani, il protagonista-demiurgo resuscita l’enorme
edificio del ricordo. Come in Proust il passaggio dal na-
te. L’attore-talismano che non
ha da rappresentare alcunché, l’oggetto depotenziato di
ogni carica metaforica, la musica mai descrittiva, la plastica calligrafica aprono tra azione e visione una dimensione evocativa e interrogante, lo spazio per un’apparizione misteriosa e intima nello stesso tempo. Scaturisce
con la determinazione di un archetipo, abbaglia chi ne
riconosce la luce. Con una perizia nella scrittura di scena che non ha confronti nelle nuove generazioni del teatro italiano, Alessandro Serra crea spettacoli che risuonano nell’astrazione atemporale della comunicazione tra
anime, si plasmano sulla memoria corporale dei performer in scena per poi espandersi nella percezione dello
spettatore come discorsi interiori. Musica fatta corpo,
membra sublimate in immagini, visioni cristallizzate in
simboli che, appena apparsi, già ritornano flusso sonoro. Una ricerca perseverante che, almeno in questa ampia fase, ha rinunciato completamente al linguaggio ver-
turalismo alla metafisica avviene per gradazioni di colori, così nello spettacolo il trascorrere del tempo è reso dal
mutare della qualità della luce, dalla luminescenza cangiante intorno ai corpi, in virtù di un originale accostamento del mondo dello scrittore francese con quello del
pittore danese Vilhelm Hammershoi, maestro di interni
trascoloranti. La «residenza» veneziana di Teatropersona (dal 24 al 30 marzo al Teatro Fondamenta Nuove) offre l’occasione preziosa di rivedere lo splendido Trattato
dei manichini, ispirato all’omonimo testo di Bruno Schulz,
e uno studio già avanzato su questo atteso AURE. Tra
i due, un incontro con il pubblico e un seminario pratico sul lavoro dell’attore intitolato al Fingitore, esplicito
omaggio a una poesia di Fernando Pessoa che porta alle
estreme conseguenze il paradosso diderottiano: «Il poeta è un fingitore. / Finge così completamente / che arriva a fingere che è dolore / il dolore che davvero sente». ◼
Il trattato dei manichini di Teatropersona (foto di Daniela Neri).
La morte secondo
Babilonia Teatri
Splendido «The End»
al Fondamenta Nuove
Q
di Leonardo Mello
lo spettacolo, i Babilonia Teatri – al secolo Enrico Castellani e Valeria Raimondi – mi avevano accennato
il tema che stavano indagando, vale a dire la morte, The End appunto, o meglio ancora la rimozione che di questo passaggio, inesorabile per tutti, nel nostro
tempo veniva perpetrata a tutti i livelli. Un tema forte, come forti erano stati i pluripremiati e applauditissimi made in italy e Pornobboy, un tema che si
prestava però anche
a derive retoriche o
a sarcasmi apotropaici e in definitiva inutili. Ebbene,
il magnifico lavoro portato in scena – nell’ambito
delle Esperienze
di Giovani a Teatro – al Teatro Fondamenta Nuove il 23
febbraio, dopo l’unico debutto milanese al
Teatro dell’Arte, si tiene
lontano da entrambi i pericoli, trasformandosi, per il
momento almeno, nel capolavoro del gruppo veronese.
Valeria Raimondi, quasi sempre sola sul palco, agisce, utilizza gli oggetti della scarna scenografia, e soprattutto declama – in perfetto stile Babilonia – un testo composto a quattro mani con Enrico, agile e asciugato anche da molteplici momenti laboratoriali. Con le mani insanguinate a richiamare le stimmate, l’attrice attacca il primo «atto», un esilarante vademecum del «morto alla moda», che si preoccupa di apparire giovane e gagliardo, non vuole crisantemi
ma «rose rosse/sempre verdi/di plastica/che non ingialliscono/antiacari/antipolvere/antigelo» e vuole anche
nell’estremo passo dare un’immagine invincibile e immortale si sé: «Ghe metto ‘na foto grande/di quando ero
giovane/sotto i trenta/senza rughe/senza ciccia/senza
macchie in faccia/’na foto de quando gavea i cavei/i denti/la bocca dritta/ghe metto ‘na foto de mi al mare/sorridente/abbronzato/bello e pulito». L’italiano parcamente (e molto efficacemente) screziato di vernacolo culmina con il primo dei tre momenti musicali (il successivo è
uando ancora stavano costruendo
Una scena da The End (foto di Marco Caselli Nirmal).
la struggente «Ciao amore ciao» di Luigi Tenco, a danzare la quale arrivano gli altri tre componenti della compagnia): «S’i’ fosse foco, ardere’ il mondo» di Cecco Angiolieri, resa celebre dal grande Fabrizio De André. Si passa al secondo quadro, intitolato «Inri», dove, in un’atmosfera tragica e beffarda un po’ alla Spoon River, a un Cristo issato in scena dalla performer viene richiesta qualche
indicazione sul «dopo» («Io chiedo/ti chiedo/dammi un
decalogo per la mia morte/sei venuto una volta/torna di
nuovo/vuota il tuo sacco/rendimi edotta di cosa c’è dopo/per la vita ho tempo/la imparo da sola/so cosa bere/
cosa mangiare/so che c’è un tempo per ogni cosa»). È poi
la volta del «Boia», un’invettiva cruda e potente sull’agonia vista dagli occhi dell’agonizzante, che certo tratta il
tema spinoso della libertà di scelta, ma principalmente evoca gli orrori di una via crucis ospedaliera e senza redenzione, cui quotidianamente sono sottoposti migliaia
di anziani e malati terminali, e
alla quale la voce in scena oppone un rabbioso e disperato rifiuto, che ricorda
in parte il teatro visionario di Rodrigo García: «Voglio il mio
boia/non mi vedrete
con le mutande piene de merda/nuotare nel me stesso
pisso/non mi farò
lavare da una troia che non sa la mia
lingua/non passerò gli ultimi anni
col pannolone/non
passeggerò con altri
vecchi rincoglioniti/
mentre voi a casa scopate/non vedrò la vostra
faccia di culo una volta al
mese/non mangerò sbobba
imboccato/non mi alimenterò
con una sonda piantata in pancia/
una flebo in vena/non avrò una sacca
piena di piscio attaccata al me leto/non offrirò lo spettacolo del mio cervello che marcisce/non
aspetterò che mi si formino le piaghe sul culo». Avviandosi alla conclusione viene affrontato l’avvicinamento alla morte dal punto di vista dell’«altro», di chi, vivo, subisce – senza necessariamente accettarlo – il lento, intollerabile processo di degrado del corpo dei propri congiunti. E infine la richiesta estrema di autenticità, intimità e
amore in un dolente, poetico epilogo: «Sogno l’alito di
un bue/di un asinello/sogno che sarai tu a spogliarmi/a
lavarmi/a vestirmi/sogno che mi spazzolerai i capelli/mi
chiuderai gli occhi/mi sistemerai la bocca/mi intreccerai
le dita sul petto/mi adagerai nella bara/sogno che accarezzerai il mio corpo freddo/sfiorerai il mio volto spento». Quando le parole si placano, Valeria esce e rientra in
scena con il suo piccolo, Ettore, e nell’abbracciarlo assume le sembianze di una Vergine cinquecentesca. Un
istante straordinario mentre parte The End di Jim Morrison. Un momento dolcissimo di vita in uno spettacolo
doloroso, crudele, rigoroso. Da vedere assolutamente. ◼
prosa
prosa — 77
78 — prosa
Pedagogia
della scena:
quattro
testimonianze
I
a cura di Maria Antonia Pingitore
l 29 gennaio si è conclusa la prima parte del semina-
prosa
rio triennale «Pedagogia della scena» diretto da Anatolij Vasil’ev che si iscrive all’interno di un progetto di
più ampio respiro ideato da Maurizio Schmidt in collaborazione con Cristina Palumbo e che la Fondazione di Venezia con Euterpe Venezia, in collaborazione con la Fondazione Milano-Scuola Paolo Grassi, hanno avviato nella speranza di creare un luogo di confronto e sperimentazione sulla pedagogia teatrale internazionale: «L’isola
della Pedagogia».
Nei mesi di dicembre-gennaio il maestro Vasil’ev ha lavorato con i suoi 31 allievi, in presenza di 9 uditori e di
alcuni ospiti, alla trasmissione del suo metodo di lavoro.
Tutti gli allievi hanno praticato tale metodologia seguendo la regola che per insegnare bisogna saper fare e questo
sapere si acquisisce solo attraverso la pratica, è un’esperienza prima che una conoscenza. Il gruppo dei partecipanti è molto eterogeneo per formazione, esperienza,
provenienza ed età, ognuno di loro cerca di far proprio il
metodo, non come un attore per usarlo nella propria pratica di palco, ma come chi sa che dovrà trasmettere, ripetere, rielaborare, approfondire la ricerca: il pedagogo.
Questa differenza nell’approccio al lavoro è stata più volte sottolineata anche dallo stesso Vasil’ev che si è prodigato con energia a spiegarla, al di là delle sue abitudini, e
con un’infinita umiltà ha sempre sollecitato e risposto ai
dubbi e alle domande di tutti i presenti in un confronto
aperto e libero.
Abbiamo chiesto a quattro allievi di raccontare l’espe-
rienza appena vissuta, per comprendere meglio cosa è
successo in questi due mesi su quell’isola. È solo il racconto dei primi passi in un territorio ancora tutto da
esplorare, ma che da subito rivela la sua unicità e la sua
potenza. Da seguire...
Intraprendere un cammino di ricerca
attraverso l’Europa e scegliere un Maestro
di Maria Gaitanidi
attrice e docente
A l giorno d’oggi il percorso di un attore può toccare
estremità inattese. Dal capriccio di un futuro incerto alla formazione regolare in un’Accademia, il cammino è sinuoso e senza una reale prospettiva.
Ho cominciato a recitare su un palcoscenico nella nebbia attraverso cui a volte potevo intravedere sprazzi di
cielo blu. La ricerca di quel qualcosa di innominabile non
si definiva che attraverso un cammino negativo. Quando
non si sa cosa si
cerca veramente
è difficile distinguere gli incontri buoni da quelli cattivi.
La formazione classica che
ho ricevuto al
Conser vator io
di Bruxelles non
mi ha dotato della libertà necessaria nell’approccio con l’altro, ma
solo dello smisurato intellettualismo del teatro.
Fuggita a Londra, ho scoperto
il teatro collettivo, la sperimentazione in gruppo dell’atto creativo, cominciava già a soffiare il vento del teatro fisico
venuto dall’Est. In Polonia mi sono ritrovata più o meno
per tre anni sulle tracce di Jerzy Grotowski incontrando
e lavorando con gruppi differenti. La natura della mia ricerca era duplice: cosa cerco nell’atto teatrale? E chi ha
trovato qualcosa che va al di là dell’artista, dell’uomo in
quanto essere?
All’inizio avanzavo come un cieco, non avevo nessuna conoscenza del corpo, del canto assegnato al corpo,
dell’improvvisazione fisica che diventava rito e ho cercato diverse tecniche di training fisico. Molto presto lavorando sulla tragedia greca mi si è posta la questione
dell’uso della parola. Gli «eredi» polacchi di Grotowski
non sembravano interessati al testo duro. Se ne sentiva una
tale mancanza che nessun movimento sublime/ato poteva colmare. Dov’era il senso al di là dell’emozione e
dell’azione? È così che i miei passi mi hanno portato ad
Momenti di lavoro con Anatolij Vasil’ev alla Giudecca.
prosa — 79
L’esperienza pregressa con Thierry Salmon
a confronto con un altro metodo
nell’incontro con Vasil’ev
di Maria Grazia Mandruzzato
attrice e docente
Molti anni fa, quando lavoravo con Thierry Salmon, ci
doveva essere un progetto di incontro a Mosca tra Anatolij e i suoi attori, e Thierry Salmon e noi, suoi attori. Stavamo lavorando sui Demoni di Dostoevskij.
Il progetto andò in porto per metà: con nostro grande dispiacere Vasil’ev in quel periodo non poteva esserci, diede però la possibilità a noi e ai suoi attori di lavorare insieme con Thierry per due studi-spettacolo, uno
presentato a Mosca al Teatro Taganka per la Scuola d’arte
drammatica di Vasil’ev e l’altro alla Drama Teatri S. Geminiano di Modena. Il regista era Thierry e la metodologia su cui si lavorava era la nostra.
L’incontro con gli attori russi, sia da un punto di vista
umano che artistico, fu una grande apertura e un’importante esperienza di confronto. Molte riflessioni ricordo
di quel periodo: Dostoevskij, il lavoro sul personaggio, il
rapporto tra arte e vita.
Per quanto riguarda le diverse metodologie porto con
me sin da allora una riflessione di Liudmilla che diceva
più o meno così: «Quando parliamo di personaggio, noi
mettiamo il personaggio davanti a noi, siamo noi che lo
conduciamo, invece ho la sensazione che voi siate quel
prosa
Epidauro da Anatolij Vasil’ev e alla sua Medea.
Uomo irraggiungibile, ma solo per gli sconosciuti, figura ascetica, sulle prime non sapevo cosa pensare di colui che mi aveva accolta per circa quattro mesi senza che
scambiassimo più di qualche parola. Con estrema forza
l’ho visto attraversare il terreno minato della Grecia rinnovando incessantemente la sua fede nell’attore ed evidentemente nella sua visione del teatro. Il silenzio imposto non fece che accrescere la mia curiosità e la mia
determinazione ad andare al di là dell’aspetto inabituale
del metodo, era molto di più ciò che veniva offerto. Avevo appena trovato qualcuno che ancora nel xxi secolo
professava, come da un manifesto dimenticato, un’etica
dell’essere artista.
Vorrei parlare di questo incontro in termini di libertà. Anatolij Vasil’ev non ha mai preteso una cieca sottomissione, non voleva essere il maestro di nessuno, stava all’individuo scegliere di perseguire una vita dedicata all’arte. Non si tratta di un regalo, è un sacrificio quasi
monastico. La cosa più strana è che non ti viene chiesto
niente, come se l’assoluta libertà facesse crescere progressivamente il desiderio di appartenenza. Non esiste
più nessuna scuola a cui iscriversi in cui insegna
Vasil’ev, da qui il
necessario accanimento per seguirlo di paese in
paese, a qualunque condizione.
Tuttavia è solo dopo quasi tre
anni che finalmente sono cresciuta in questo
incontro, come
un’adolescente
uscita dall’età della pubertà, che riesce a guardare il
maestro come un
allievo che ha già
la responsabilità di una continuità. Questo grazie a «Pedagogia della scena». Sono entrata nel seminario di Venezia come attrice, senza alcuna prospettiva, e ne sono uscita con una missione, un risveglio alla passione per la trasmissione della conoscenza. Attraverso questa sfida non
si tratta di testare le competenze dell’attore, ma di diventare un vero essere umano, pronto a prendere in mano i
futuri artisti. Generosità e tolleranza sono state le prime
due lezioni, il cammino è ancora lungo...
personaggio, che voi lo mettiate dentro». Ho sempre riflettuto su questa frase, anche perché il lavoro sul personaggio era l’inizio, la base del nostro metodo. Partendo
da uno stato neutro si arrivava alla costruzione del personaggio. Il neutro è uno stato di totale disponibilità, uno
svuotarsi per poter contenere, uno stato potenziale. Dal
neutro si passava alle domande sul personaggio. Si trattava di far nascere un personaggio dall’interno, per arrivare a una sua fisicità, attraverso un lavoro che era individuale e collettivo insieme. Ho sempre pensato che ogni
cosa che vada in profondità prima o poi si tocca, qualsiasi sia il modo per arrivarci. Avrei però sempre voluto capire di più di questa diversità di lavoro.
Ho una percezione di cosa volesse dire Liudmilla e conosco e ho praticato troppo poco il metodo degli étude,
che fra l’altro è una parte del lavoro, per poter capire veramente, ma la sensazione che ho è che ci sia più oggettività in quello che fai, un piccolo distacco che aiuta ad
avere una coscienza maggiore, una più lucida capacità di
80 — prosa
prosa
guidare questa entrata e uscita da te al personaggio e viceversa per arrivare a fonderli. È un avvicinarsi graduale, un creare delle basi perché questo appaia senza che tu
te ne accorga.
Ma mi rendo conto che parlare di personaggio è riduttivo. La bellezza del lavoro con Vasil’ev e del metodo è che
c’è tutto contemporaneamente, da subito: l’autore, il testo
letterario, l’attore nella sua integrità di artista e persona,
e la ricerca dell’«oggetto e strumento del nostro mestiere:
l’azione. L’azione è come il colore per un pittore o il suono per un musicista», dice Vassiliev.
La sensazione che ho avuto in questi due mesi di lavoro è di aver ripreso quella che «sono» da dove ho lasciato
molti anni fa quando Thierry se n’è andato. Ho ritrovato
un senso profondo dello «stare» dentro al teatro, che non
è fare lo spettacolo, quanto porsi artisticamente dentro
un luogo di ricerca dove tu puoi esserci con tutta te stessa: con quello che sei artisticamente e come persona. Nel
lavoro con Vasil’ev vieni messa di fronte a te stessa e non
puoi barare. Se bari, bari con te stessa. Imparare a leggere
il testo in vista delle azioni, non vuol dire in vista di un risultato per la scena, ma invece creare dei presupposti perché le azioni possano compiersi dentro di te, per poter saltare nel vuoto con il tuo compagno nella scoperta, nella
sorpresa e nella disponibilità di dare e ricevere. In questi
due mesi ho sempre sentito fluire l’energia, anche quando sbagliavo, perché non si trattava di fare giusto o sbagliato, ma di cercare. Ho ritrovato il piacere dello «stare in
relazione», ho ritrovato il piacere e l’eccitazione del mio
«cercare», come attrice, non mediata da una partitura, e
questo è possibile solo perché c’è un metodo molto preciso che cerca lo stare: stare in relazione con te stesso, con
l’autore, con il tuo compagno.
Thierry diceva che gli artisti russi hanno qualcosa in
più, «il loro grande tesoro è il senso dell’anima». In Vasil’ev io sento un senso del sacro. Nello spettacolo Medea
da Heiner Müller che ci ha mostrato in video, Vasil’ev ha
posto le basi perché qualcosa di verticale apparisse, ed è
apparso. La parola si è fatta carne e la carne, parola.
Scegliere di fare pedagogia
a trent’anni e incontrare un grande Maestro
di Marco Maccieri – Centro Teatrale MaMiMò
attore e docente
Viviamo in un periodo storico molto particolare. Da
quando siamo nati sentiamo parlare di crisi: crisi dei valori, crisi economica, crisi culturale; sembra che da vent’anni
siamo in una costante crisi. Questo mantra l’ho sentito ripetere ancora più spesso da quando ho messo piede nell’ambiente teatrale, prima attraverso la formazione presso la
Scuola d’Arte Drammatica «Paolo Grassi» e poi nel mondo dei teatri stabili quando ho avuto la fortuna di accedervi subito dopo il diploma.
A lungo mi sono chiesto di chi potevano essere le responsabilità di questo nulla che ci circonda, di questa mancanza di opportunità, di denaro, di spazi, poi d’un tratto ho
capito che anch’io
stavo diventando parte di questa macchina infernale, in cui ci si
lamenta costantemente e nel frattempo ci si nutre
di invidie, gelosie
e compromessi.
I l  m e st i e r e
dell’attore, oggi,
è molto pericoloso: basta un nulla e ci si perde in
meccanismi perfidi e disumanizzanti. Ecco, io ho
voluto rinunciare
a tutto questo, abbracciando completamente un
ideale e portandolo avanti nonostante la fatica, le difficoltà, le incertezze. Nonostante tutto. Questo ideale l’ho messo a fuoco quando ho cominciato a credere che la mia generazione dovesse smettere di
aspettarsi qualcosa e dovesse cominciare a costruire qualcosa con le proprie idee, libera di sperimentarsi anche attraverso gli errori.
Dopo le esperienze fatte con i teatri stabili (che spesso di
stabile hanno ben poco tra tournèe e compagnie sempre
diverse), ho deciso di fermarmi nella mia città e provare
a lavorare sul futuro. Pochi investono sulle nuove generazioni, così nel 2004, a ventisette anni, ho deciso di fondare a Reggio Emilia una compagnia e una scuola di teatro. Ciò che ha guidato il mio pensiero fin dall’inizio è stata l’idea che questa struttura non dovesse essere uno strumento per esprimere il mio personale pensiero artistico,
bensì un contenitore per persone e idee che si volessero costruire nel tempo. Così, lentamente, attraverso la pedagogia ho potuto trasmettere ad allievi e attori una pratica non
solo teatrale, ma anche umana: non si lavora per qualcuno,
ma con qualcuno. Sembra banale e scontato, ma non lo è.
E proprio mentre coltivavo questo mio progetto ho avu-
prosa — 81
Cosa vuol dire incontrare un grande Maestro
appena usciti da un’accademia di Teatro?
di Giacomo Veronesi
regista
Mi è stato chiesto di scrivere tante parole. Mi è stato affidato un tema: «Cosa vuol dire incontrare un grande Maestro appena usciti da un’accademia di teatro?» Mi è stato
chiesto di scrivere, perché sono un giovane regista di teatro, appena uscito da una scuola, che ha avuto la fortuna
di entrare nel progetto «Isola della Pedagogia» condotto
dal Maestro Vasil’ev. Mi è stato chiesto e io ho accettato.
La testa… recentemente ho imparato a guardarla con
diffidenza, cerco di farne a meno. Durante questi due mesi di lavoro ho trovato una chiave per iniziare a governar-
mi dal centro, senza dover passare dal cervello. Non c’è altro da aggiungere.
Il centro non è cosa da poco, gli attori lo sanno. Il centro
è il Santo Graal della recitazione, tutti lo nominano, tutti lo cercano. Il centro è una fonte d’impulsi vitali, serve ad
agire e reagire senza passare dalla testa, in modo organico. Nell’arco di una vita, noi occidentali, crescendo ce ne
liberiamo come ci si libera delle rotelle quando s’impara
ad andare in bicicletta. Per una serie di ragioni culturali ci
abituiamo ad allenare solo le meningi e a governarci attraverso la mente. Questa privazione limita le nostre facoltà e genera un monopolio insano nel corpo. La perdita del
centro non impedisce la vita, la impoverisce.
È invece impossibile senza un centro recitare. Il pensiero da solo non può bastare, un attore per affrontare una
scena deve ritrovare ciò che ha perduto come uomo. In
accademia ho avuto la possibilità di esplorare il teatro in
orizzontale, di curiosare tra le sue forme.
L’incontro con il Maestro ha scatenato in me invece un
prosa
to la possibilità di studiare con il maestro Anatolij Vasil’ev,
ed è stato illuminante. Improvvisamente ho potuto vedere come attraverso il suo metodo egli riesca a conciliare un
lavoro approfondito sulla drammaturgia e, insieme, un altrettanto profondo lavoro sulle persone.
Ed è proprio il lavoro che fa sulle persone che lo rende
un grande pedagogo: Vasil’ev ama davvero i suoi allievi e
aspetta che le loro individualità si schiudano, sia come artisti che come esseri umani. Si prende cura dei loro talenti e delle loro fragilità, e sa, vista la sua grande esperienza,
come aiutarli a scoprire se stessi. Ci racconta che l’ambizione del pedagogo non deve mai schiacciare l’allievo, ci
insegna quanto sia dannoso mostrare la via ai nostri studenti anziché fargliela scoprire individualmente, seppure
col nostro aiuto. Il pedagogo non è colui che insegna solo una tecnica, ma è colui che sa lavorare con le persone, le
ama, riesce ad averne cura. Essere un buon pedagogo diventa, a questo punto, un obiettivo importante, che mi investe di responsabilità.
Sono grato al
maestro Anatolij Vasil’ev, che
sta confermando
con grande chiarezza le mie scelte, e ringrazio anche i miei precedenti maestri,
tra cui Maurizio
Schmidt e Massimo Navone, che
mi hanno sempre
spronato a credere in me e nella
pedagogia.
Tutto ciò non
vuole esprimere una morale,
sarebbe naïf dire che questa sarà
una favola a lieto
fine, tuttavia posso affermare con
certezza che almeno sarà una storia con un lieto percorso.
E poi, guardando da questa nuova prospettiva, guardando bene, tutta questa crisi forse non c’è…
processo interiore che agisce in verticale dal centro. Detto questo, non rimpiango il tempo speso a scuola, l’accademia è stata certo un passaggio fondamentale per predispormi a questo incontro.
Questo incontro di cui ancora non riesco a scrivere, con
le giuste parole. Le giuste parole non esistono o le conosce solo Vasil’ev. Lui ne userebbe poche e tutte molto semplici, comuni.
Del lavoro fatto in sala non so che dire ma è colpa del
Maestro che ha tanto insistito fin da subito perché trasformassimo le sue parole esclusivamente in strumenti di lavoro pratici, non in trattati.
Vasil’ev è magro, dimesso, con gli occhi dolci e la barba
folta e riccia. Come ogni Maestro che si rispetti vanta una
lista di «sempre»: è sempre seduto su una sedia di legno,
veste sempre uguale, beve sempre il tè mentre lavora, ripete sempre le stesse frasi.
Non posso nemmeno citarvi le parole del Maestro, perché non ho preso appunti, dice che a furia di scrivere tutto quello che dice impara tutto la penna, vuole che lo si
ascolti in silenzio, composti. ◼