68 — prosa Energia e libertà, il teatro secondo Jan Lauwers a cura di Arianna Silvestrini Con Jan Lauwers prosegue l’avvicinamento ai sette registi chiamati da Álex Rigola in laguna a svolgere un laboratorio nell’ambito del xli Festival Internazionale del Teatro. Dopo Romeo Castellucci, Rodrigo García e Ricardo Bartís (cfr. VMeD n. 38, pp. 86-87), insieme all’artista fiammingo incontriamo ora anche Thomas Ostermeier e Calixto Bieito. C lavoro, la scelta degli attori è un momento importantissimo nella creazione dello spettacolo, è la base di ogni allestimento. Questo comporta che io scriva il testo sugli artisti; anzi, si può proprio dire che compongo il testo sulla pelle degli artisti. La pelle degli attori è la pelle del mondo: per questo motivo ritengo che la selezione degli interpreti sia un momento davvero cruciale e che il materiale dello spettacolo siano gli attori stessi. Lo scorso ottobre, nell’ambito delle cinque giornate di laboratorio, ho chiesto ai partecipanti di raccontare la propria vita; sono partito da queste storie e, nella scrittura, le ho combinate tra loro. Un altro punto su cui ho lavorato è la costituzione di un gruppo che affrontasse l’impegno con entusiasmo ed energia. Questo è molto importante soprattutto perché il laboratorio deve servire ai partecipanti. Ho raccomandato loro di considerare con attenzione quale possa essere il contributo della propria esperienza personale nella creazione dello spettacolo». Avete già scelto il peccato capitale contemporaneo che presenterete alla Biennale Teatro 2011? Stiamo lavorando sull’indifferenza. A questo proposito voglio citare il romanzo di Alberto Moravia Gli indifferenti, davvero molto interessante. Ritengo che l’indifferenza sia precisamente un peccato capitale, uno dei peggiori mali della nostra società: l’indifferenza nei confronti della salute del pianeta, nei confronti delle esigenze delle altre persone, delle questioni ambientali ed ecologiche, delle discriminazioni razziali… tutti queste sottospecie di indifferenza sono la causa principale dei problemi della società contemporanea. Qual è la sua opinione in merito alla Biennale di Álex Rigola? Credo che sia stata un’idea meravigliosa quella di realizzare un programma di incontri con registi come ad esempio Romeo Castellucci, con il quale sto organizzando dei momenti di connessione tra diversi laboratori. È fantastico offrire agli attori l’opportunità di lavorare con sette registi differenti e ai registi di incontrarne altri. Vedremo cosa accade. L’arte è fatta di energia e di libertà e credo ci sarà molta energia e libertà nei prossimi incontri. ◼ prosa « ome in ogni mio Jan Lauwers. Ostermeier inizia da Amleto a cura di Enrico Bettinello Era il 1999 quando Thomas Ostermeier – con la folgorante quanto controversa regia di Shopping & Fucking di Mark Ravenhill – faceva la sua prima apparizione alla Biennale di Venezia e si faceva conoscere come uno dei talenti più dotati della nuova generazione tedesca. Parte da Amleto questa sua nuova avventura veneziana all’interno del nuovo progetto (laboratorio + spettacolo) che costituisce l’idea del direttore della Biennale Teatro, Álex Rigola: Ostermeier ha infatti scelto il tormentato Principe di Danimarca e la sua Ofelia come oggetto del lavoro con gli iscritti al laboratorio. I « l lavoro è organizzato in due parti: una di allenamen- to fisico piuttosto tradizionale da un lato, mentre dall’altro ho chiesto ai partecipanti di raccontare delle storie della loro vita personale che in qualche maniera possano essere assimilabili a quelle dei personaggi della tragedia. Da queste storie ho chiesto loro di trarre una messinscena con gli altri, utilizzando alcuni elementi di quello che propongono per le scene. Penso sia molto importante costruire delle connessioni tra la propria vita e il teatro, che è qualcosa che, anche affrontando un classico, parla sempre di noi e a noi». Come hanno reagito a questa richiesta i partecipanti? Una cosa interessante di questo nucleo è che è molto internazionale: in questo senso ciascuno è, in qualche modo, straniero all’interno del gruppo e si evitano quelle tipiche corse a dimostrarsi più scaltri degli altri che solitamente funestano l’esperienza di laboratorio. Sono poi rimasto piacevolmente sorpreso da come si sono immedesimati subito nel processo, divertendosi e dandomi del fantastico materiale narrativo. Pensi che Amleto e la performance contemporanea condividano le stesse condizioni di dubbio e l'ansia di essere sotto la minaccia costante della politica? Amleto ha una missione, ma non è abbastanza coraggioso da portarla a termine. Deve distruggere un sistema politico corrotto e ingiusto, ma dubita e trova un sacco di scuse per non agire. È qualcosa che ci accomuna in un mondo in cui tutti conosciamo le ingiustizie, le guerre, la corruzione e lo stesso non facciamo nulla! Come vedi il problema di Amleto è così contemporaneo… Su quale peccato capitale lavorerai per la seconda parte del progetto pensato da Rigola? Ho scelto quello che penso sia il reale tabù dei nostri giorni, la pedofilia, e un collegamento che mi è subito venuto spontaneo è con Morte a Venezia, di cui metterò in scena alcuni materiali, sia dalla versione letteraria che da quella cinematografica. ◼ Il laboratorio di Thomas Ostermeier (foto di Roberto Canziani). prosa — 69 a cura di Leonardo Mello Nell’indagine delle infinite potenzialità che offre la scena teatrale, iniziata da Álex Rigola con i sette laboratori della sua Biennale Teatro – che si concluderanno a breve con l’arrivo di Jan Fabre – non poteva mancare un artista come Calixto Bieito, famoso per le sue acclamate e controverse regie liriche nonché sul versante della prosa, dove ha letto in modo magistrale autori come Calderón de la Barca e Ibsen. A conclusione del suo soggiorno lagunare, il regista spagnolo illustra il lavoro svolto con gli attori. A testi di Edgar Allan Poe, accompagnandoli sempre con la musica: a volte creando improvvisazioni, altre utilizzando brani di Ligeti e altre ancora canzoni di Lou Reed. Abbiamo costruito scene in italiano, francese, catalano, tedesco, inglese, servendoci sempre di un testo e del pianoforte. Abbiamo ballato e corso per la sala, siamo saliti sulle colonne. In quest’occasione non ho voluto partire da un’opera classica, perché non avevo voglia di affrontare di nuovo il repertorio: volevo lavorare su qualcosa di differente». « bbiamo scelto poesie e Come mai la scelta è ricaduta su Edgar Allan Poe? Perche ha tutto dentro, divertimento, bellezza, romanticismo, amore, morte, paura. Ed è stato un modo per tornare a sentirmi giovane, riprendendo in mano letture che facevo quando avevo sedici, diciassette anni. Rileggerlo ora mi è sembrato formidabile. Sai già quale sarà il «peccato contemporaneo» che affronterai al tuo ritorno in Biennale? Non ho ancora deciso definitivamente, forse mi orienterò sull’avarizia, perché odio la mancanza di generosità. E in più è un difetto molto attuale. Come giudichi l’idea di Álex Rigola di mettere in contatto approcci al teatro così differenti tra loro? Mi sembra molto aperta e innovativa. Riunire artisti e percorsi così diversi mi sembra una grande opportunità. Alla fine del percorso il direttore artistico prevede quindici minuti per ciascun «peccato». Riuscirai a stare dentro questi tempi un po’ angusti? Senza dubbio, e forse il lavoro sarà anche più breve. ◼ Un momento del laboratorio. «L’artista è la sua opera» L’indagine di Anagoor sulla figura di Fortuny L di Filomena Spolaor a performance in site specific Ballo a Venezia del- la compagnia teatrale Anagoor ha debuttato nel Museo Fortuny, il 19 febbraio scorso, sviluppando l’opera dello scenografo e pittore spagnolo in una drammaturgia iconografica con installazioni visuali. Disseminati nell’area d’ingresso al piano terra, sono collocati degli schermi in cui si interfacciano dei video, che riprendono giovani danzanti sullo sfondo del palazzo gotico Pesaro degli Orfei nell’atto di impugnare una mazza, simulando le gesta eroiche di quelle compagnie di giovani che nel 1507 distrussero tutte le gondole in Canal Grande. Tra le immagini prodotte dalla compagnia di Castelfranco Veneto, ve n’è una in cui compaiono tre esseri alieni, ritratti nell’azione di infilarsi all’interno di una mummia che diventa oggetto, come nel caso della gondola presente in altre inquadrature, di gesti sensitivi come quello dell’accarezzare. Il linguaggio visivo degli Anagoor narra coreuticamente il mito del Minotauro. All’interno di un grande salone si assiste all’apparizione di una dea rivestita di una pelle dorata. Dietro di lei i corpi di otto giovani s’infatuano nella mimesi delle sue pose scultorie, nella rituale partitura danzata di un coro che riprende l’esperienza della «stoa», scuola di movimento ritmico che Claudia Castellucci condusse anni fa a Cesena, scandito dal ritmo percussivo della musica elettronica. Un sipario di seta nera svela la presenza di un gruppo di ragazze sullo sfondo di un telo composto dall’intarsio di differenti tessuti Fortuny, decorati con i disegni orientali degli arazzi medioevali cui s’ispirò il costumista spagnolo. Le giovani si muovono in cerchio intorno alla dea, mentre i maschi eseguono una coreografia scandita dall’uso dilatato e spigoloso degli arti. L’interesse iconografico per l’archivio fotografico di Fortuny si manifesta nella proiezione delle sue immagini di Venezia su uno schermo in proscenio. L’assenza della recitazione di un testo caratterizza anche la visita del Museo al piano nobile, dove in una stanza si scoprono le due esecutrici in diretta della composizione vocale dello spettacolo. La performance scenografica degli Anagoor evidenzia la fattura estetica dell’opera di Fortuny, sintetizzando per frammenti un pensiero come quello dell’eroismo giovanile postmoderno nel contesto della memoria culturale, esponendolo a un tragitto anacronistico in gioco con l’immagine. ◼ Anagoor, Ballo a Venezia. prosa Calixto Bieito parte da Edgar Allan Poe (con tanta musica) 70 — prosa Marco Paolini in «itis Galileo» delle cose che ho presentato ad esempio – tra luglio e settembre dell’anno scorso – al Festival di Bassano. L’ho poi proposto in alcuni Istituti di Scuola Media Superiore in forma di lezione-spettacolo. È quindi seguito un periodo di “decantazione” in cui mi sono dedicato anche ad ala cura di Ilaria Pellanda tro e a gennaio di quest’anno ho riallestito lo spettacolo». Com’è articolato? re anni fa M arco Paolini e Francesco NiccoliLa sua forma comprende anche delle parti dialogate e ni hanno dato inizio a un lavoro di approfondisiccome sono da solo sulla scena, il mio interlocutore dimento dedicato alla figura di Galileo Galilei, sfoventa lo spettatore, uno solo o anche più alla volta, e con ciato nell’opera itis Galileo, che Paolini porterà a marzo loro ragiono, leggo delle fonti, che se all’inizio erano molsulle scene del Teatro Verdi di Padova e del Goldoni di te, si sono via via ridotte per ragioni di agilità. L’idea che Venezia. si potesse ragionare intorno a Galileo mi sembrava un «Lo spettacolo nasce da una mia suggestione: quella di po’ velleitaria all’inizio e nutrivo molti dubbi su quanto provare a raccontare il Dialogo sopra i due un’operazione di questo tipo avrebbe massimi sistemi del mondo. In realtà mi parpotuto incontrare il gusto, l’attenziove fin da subito una sfida più grande di ne e la disponibilità della gente. In realPadova – Teatri Verdi me e pensai che non sarebbe stato possità devo ricredermi, e anche se senz’aldal 15 al 19 marzo, ore 20.45 bile realizzare a teatro una simile operatro c’è chi viene ad assistere a questo 20 marzo, ore 16.00 zione. È stato Francesco, con il quale ho spettacolo senza un interesse specifico itis Galileo collaborato fin dal germogliare dell’idea, sull’argomento ma per la sola curiosità ad aiutarmi nell’orientamento in una madi conoscere ciò che ho realizzato, creVenezia – Teatro Goldoni dal 23 al 26 marzo, ore 20.30 teria molto complicata: non si è semplicedo che alla fine sia anche il tipo di storia 27 marzo, ore 16.00 mente partiti da un testo ma da un pernarrata ad attirare le persone: durante itis Galileo sonaggio, da un contesto, dalla storiograla messinscena vedo un pubblico coinfia della scienza, tutta una serie di ambiti volto, che si interessa e si scalda. E io Noventa di Piave che celavano il pericolo di farci perdere. mi diverto molto. Non mi accadeva dai 17 aprile Abbiamo condiviso un lungo periodo di tempi del Milione. La macchina del capo studio, durante il quale le prime tracce di Che tipo di riflessione proponi? racconto le ha composte proprio FranceLa mia analisi non va tanto ad insco. Successivamente vi ho ricamato un po’ su per adatdagare la genialità del personaggio, quanto piuttotarle all’oralità. A questo sono seguiti una serie di “stusto la sua capacità di utilizzare la propria mente sendi” durante i quali ho preza farsi condizionare dalla rigidità della sua epoca. parato una versione del Non mi interessa Galileo per ciò che ha realizzato ma lavoro priva di scenoper il suo sforzo di porre continue domande, di essegrafia, senza luci, un re un’intelligenza sempre aperta al dubbio. Credo inolsemplice racconto, tre che il racconto che ne faccio a teatro – pur non una messa in fila avendo inventato io nulla di nuovo – possa stimolare la voglia di leggere del suo genio e di saperne di più. ◼ prosa T Marco Paolini (foto di Tommaso Savoia). prosa — 71 Claudio Santamaria nella sua «Notte poco prima della foresta» Il monologo di Koltès nel ventennale della morte A rriva in Veneto nel mese di marzo – a Padova, Verona e Mestre grazie alla collaborazione con Arteven – La notte poco prima della foresta, testo del drammaturgo parigino Bernard-Marie Koltès, messo in scena da Juan Diego Puerta Lopez e interpretato da Claudio Santamaria. La notte e la foresta vanno a richiamare un immaginario legato al buio e all’indefinito, idea che ben si iscrive nel testo di Koltès, autore geniale di cui ricorre il ventennale della morte: un monologo dirompente, senza respiro, nel quale è lo stesso Santamaria a introdurci. «Si tratta di un flusso di coscienza con notevoli salti illogici. Il protagonista è uno straniero, così come lui si presenta fin dall’inizio. tra donna, con la quale vive una notte d’amore e che gli dice di chiamarsi Mamma per poi scomparire. Non viene raccontata una storia nel senso classico del termine: si tratta piuttosto di una narrazione per immagini». La parola è forse il vero demiurgo di questo spettacolo, che mette in luce alcune tematiche fondamentali, com’è quella della condizione dello straniero e della solitudine dell’uomo stesso. In qualche maniera può esserci un richiamo, anche drammatico, alla società contemporanea, che nonostante o forse proprio a causa del progresso tecnologico rischia di rimanere chiusa in un individualismo e in una solitudine spesso desolanti? Sì. Il testo di Koltès, pur essendo stato scritto nel 1977, è molto attuale. Proprio per questo, con il regista Juan Diego Puerta Lopez abbiamo scelto di non dare alcuna connotazione geografica al personaggio, né alcuna cadenza o accento, affinché lo spettatore potesse identificarsi con il suo sentirsi straniero, isolato, sensazione che molto spesso può capitare di percepire anche in casa propria. Volevamo che questo sentire fosse universale, senza concedere la possibilità di tirarsene fuori per essere semplicemente spettatori. Per quel che riguarda l’approccio fisico e vocale, come ti sei preparato? È solo, e si ritrova a vagare in un non-luogo e ad abbordare un passante che in realtà potrebbe anche essere immaginario. La scenografia non permette di individuare un ambito riconoscibile e va piuttosto a rappresentare l’interiorità di questo personaggio: sulla scena ci sono delle macerie a simboleggiare proprio il suo essere dilaniato dalla propria condizione di straniero e dal non riuscire a trovare uno spazio per sé in un mondo in cui tutti gli spazi sono delimitati e demarcati. È un uomo che sente forte la frustrazione di non poter combattere contro i suoi veri nemici, che non sono i delinquenti di strada ma, come si legge nel testo, sono un piccolo clan di bastardi invisibili che stanno lassù, irraggiungibili, al di sopra di tutto e che hanno facce da assassini e stupratori. E la medesima frustrazione la vive per il fatto che, se prima lavorava, ora non cerca nemmeno più un’occupazione, che lo porterebbe solo a dover andare sempre più lontano. Questa è forse la parte più politicamente connotata del testo di Koltès, che si esprime poi in ricordi, visioni e apparizioni di due donne, sorta di fantasmi che vengono evocati: una puttana, che il protagonista dice di aver visto; e poi un’al- prosa Padova Multisala Pio x 9 marzo, ore 21.00 Verona Teatro Camploy 10 marzo, ore 20.45 Mestre Teatro Toniolo 11 marzo, ore 21.00 Il lavoro sul corpo, soprattutto, è stato fondamentale. Juan Diego è anche un coreografo e abbiamo curato moltissimo la parte fisica per cercare di rendere, anche attraverso le posture, il senso di inadeguatezza e costrizione che attraversa l’opera. Puerta Lopez, mentre recitavo, mi «manipolava» facendomi contorcere in posizioni davvero complicate, che facessero passare il testo attraverso le ossa, i muscoli e il sangue – come si legge nella drammaturgia – prima che attraverso il cervello. In scena sto molto curvo, in assetto di chiusura, con il collo che tuttavia si sporge in avanti in un crescendo di apertura, che porta a un finale che va a demolire quanto di claustrofobico ha pervaso lo spettacolo. (i.p.) ◼ Claudio Santamaria nella Notte poco prima della foresta secondo Juan Diego Puerta Lopez (foto di Pino Le Pera). 72 — prosa L’anarchia dell’immaginazione co, disposto a seguire le scelte difficili che realizziamo sulla scena. Angels in America ha un sottotitolo: Fantasia gay su temi nazionali. Eppure lo vedono tutti i pubblici, anche quelli più tradizionali e borghesi d’Italia. Cosa significa specchiarsi in quest’opera e nella sua ironia? La vita presa dal verso puramente tragico, senza ironia, non è completa. La completezza di Kushner sta nel fatto che anche nei momenti più drammatici è sempre ravvisabile una leggerezza ironica che crea quel minimo di staca cura di Ilaria Pellanda co che permette di non cadere nella tragedia a discapito della speranza. Secondo Kushner l’esistenza è un dolororriva al Toniolo di Mestre la comso progresso, vissuto tuttavia per conservapagnia dell’Elfo con Angels in Amerire un po’ di speranza nel mutamento, anche ca Parte i di Tony Kushner, bestseller quando sembra che questo mutamento non Mestre – Teatro Toniolo del teatro americano che ha portato fortuna debba mai avvenire. Si tratta di un inno alla dal 5 al 7 aprile, ore 21.00 al cast guidato da Elio De Capitani, Premio vita, al doloroso avanzare dell’esistenza ma Ubu 2007 come attore non protagonista nel ruolo di Roy anche alla necessità della speranza – e l’ironia è una parte Cohn. Con Si avvicina il millennio - Fantasia gay su temi naziodella speranza – come unica condizione esistenziale posnali – appunto la prima parte di Angels in America, coprosibile per l’uomo. Negare la propria identità, per esempio dotta con ert/Emilia Romagna Teatro Fondazione e anla propria omosessualità, significa uccidere se stessi, codata in scena con successo al Teatro delle Passioni di Mome accade a molti dei personaggi di questa storia, destidena nel maggio 2007 – Elio De Capitani e Ferdinando nati a rimanere un guscio vuoto. Bruni hanno da subito ottenuto (oltre ad altri riconosciChi è Roy Cohn? menti quali ad esempio il Premio Hystrio 2008 alla regia Il mio personaggio, Roy, appunto, è una figura storie due Premi eti-Gli Olimpici del Teatro 2008, come mica, assolutamente deteriore, avvocato di mafiosi, un esglior regia e miglior spettacolo di prosa) il Premio anct sere senza scrupoli, omosessuale e omofobo nelle sue di(Associazione Critici di Teatro) per la regia, «che segue chiarazioni pubbliche. Tuttavia possiede un qualcosa che uno sviluppo scenico più vicino all’allegoria che alla semKushner rende molto bene: una disumana vitalità, l’esplice metafora: dilata l’ampia scena oltre se stessa con virsere un cultore della vita come animalità pura. Nonotuali proiezioni cinematografiche di grande effetto, con stante non si possa non giudicarlo, tuttavia se ne rimalivelli sonori a volte alterati, che riescono a restituire tanti ne incantati. piani di realtà, da quelli più chiaramente Che ambienti ha creato lo scenografo Carlo onirici a quelli di un realismo più tragico Sala? e concreto, in un insieme di grande intenGli oggetti usati sono pochissimi: è la Tony Kushner, Angels in America, sità emotiva». Ed è dalla viva voce di De fantasia dello spettatore che trasforma un (parte prima e parte seconda), Capitani che veniamo introdotti in questa tavolo in una scrivania o in un ristoranUbulibri, Milano 2009 saga provocatoria e commovente. te di lusso. È stato ricostruito uno spazio «Questa regia a quattro mani mette sulla scena, oltre a molto neutro, in cui vengono realizzate delle proieziome, anche Ida Marinelli (premio Ubu 2010 come attrice ni a differenziare i luoghi: l’evocazione visiva serve a tranon protagonista per Angels in America - Perestroika), Crisformare rapidamente lo spazio e a suggerire il viaggio stina Crippa, Elena Russo, vere colondella fantasia. Un intreccio di sensibilità ed evocazione. ne dell’Elfo, e inoltre alcuni giovaIl nostro slogan è sempre l’anarchia dell’immaginazione ni attori selezionati con una seche guida gli artisti. La forza grande del teatro è l’emorie di provini: sono loro i veri zione e l’emozione ha comunque un pensiero proprio: protagonisti dello spettacolo, non siamo dei puri emotivi, giovani coppie etero e omoabbiamo anche una mensessuali. Non ci saremmo mai te; e passare attraverso aspettati l’enorme successo riil corpo e l’emozione scosso negli anni e ne siamo è la grande forma di felici, perché vuol dire che pensiero del teatro. ◼ c’è una sensibilità fortissima da parte non sono degli operatori ma anche del pubbli- Elio De Capitani racconta «Angels in America» di Tony Kushner prosa A Angels in America Parte i (foto di Lara Peviani). prosa — 73 Illusione d’amore nel discount dei corpi applicare queste parole al teatro di Ricci/Forte. I loro personaggi-non-personaggi sono persone-in-quanto-consumatori, che si identificano prioritariamente con ciò che indossano, con i brand. Individui della più bieca quotidianità trasformati dalla rasoiata poetica degli autori e dalla visceralità emotivo-intellettuale degli interpreti: ma «persone possibili», vive nel loro essere alle prese con l’ordinaria assurdità dell’esistenza. Sono gli eroi di questi tempi, che cercano di sopravvivere nelle nuove arene per battaglie senza senso, per combattidi Andrea Porcheddu menti contro la solitudine e la disperazione: l’outlet è il nuovo ring o lo spazio antistante le mura di Troia, il luogo di hissà perché quando si parla del te(non)aggregazione, l’orizzonte di riferimenatro di Ricci/Forte viene naturale to per la costruzione identitaria come per il Udine usare termini americani. confronto sociale. Per Ricci/Forte il «merTeatro Palamostre Forse per la dimensione international (eccocato» non è Wall Street, ma il centro comTroia’s Discount ne uno) del duo, così attento alle poetiche merciale, dove si compra e si vende tutto. In 19 marzo, ore 20.30 europee contemporanee. O forse perché gli primo luogo il corpo, se stessi. spettacoli sono trend (eccone un altro): Ric«Smaltimento»: liberarsi dell’ingombro, Teatro San Giorgio ci/Forte attingono a quell’immaginario da Wunderkammer Soap #1_ Didone del superfluo. E cercare ossessivamente il outlet sociale, a quella cultura italo-statuninuovo. Quel che è vecchio via. Con il ter20 marzo, ore 18.00 tense che è ormai l’unico collante di questo rore di essere noi i rifiuti, con la paura di esnostro Paese colonizzato. sere scartati, in questa eterna stagione in cui Allora, in una carrellata dei loro tutto è «televoto da casa» o «nominaspettacoli entrano indifferentetion». Entriamo in un mondo mente termini come postin cui il lattex e il cellophane modern, snuffmovies, postmoderni si ritirano, peepshow, hardcore, lasciano il campo alla mash-up, cutting, glacarne, al corpo, al vemour, gay, muffin, ro, al nudo. Lo scarto trash, cheap, reality si muove ai margini, show, gender, avanelle periferie, negli tar, scanner, pop spazi abbandonati. up, link, MySpace, Ma nelle perifevintage, pop, blindrie si possono andate, shopping… cora vedere le lucUna lingua del nociole care a Pasolini. stro tempo, autorizzata Ecco, ci siamo arrivadagli autori che miscelano ti: sembra quasi un silloslang e borgata, dialettaccio di gismo. Ricci/Forte parlano centocelle e tecnicismi computedel nostro tempo, di quelle periristici. Nel loro procedere sincretico ferie e marginalità care al Pasolini di i due succhiano fonti «alte» e manifestazioni allora. Parlano delle lucciole. Gli aspri monoculturali basse o diffuse. Nella stagione della riproducibililoghi, gli scontri fisici, le dinamiche relazionali sparate tà di massa della vita individuale, sancita dal Grande Fratelsul palcoscenico, complici i «classici» chiamati (o usati) lo Tv, Ricci/Forte hanno capito che la televisione non è un come riferimento, sembrano proprio un aggiornamendemone, ma una forma di cultura primaria, fondante, alfato della poetica-politica di Pier Paolo Pasolini. E certo betizzante. Così abbondano i rimandi a Candycandy, Lady ci sono molti punti di contatto, tra PPP e R/F: ma non D, Olivia Newton John, Dallas, Dinasty, E.R, Desperate basta. Perché il cappio che stringe la gola è altro: conHousewife, Julia Roberts, Lost, Sixfeetunder… sunto, ma implacabile, il sesso è la bastarda malattia del Insomma, Marlowe si affianca a Gatto Silvestro, Virgilio corpo che mangia l’anima. Non serve saziare il corpo, a Mazinga, Eschilo alla Nutella: «Siamo tutto questo», dinon è quello il problema. Perché poi si cerca sempre alce Stefano Ricci. È vero: l’io squassato, devastato, deprestro: affetto, calore, l’illusione di un amore. Eccolo alloso, si moltiplica e si sfaccetta in solitudini sempre troppo ra, lo scandalo: anche nel momento di maggior depravarumorose, e il grido di chi cerca caparbiamente di non soczione si parla d’amore. Dell’amore che fa tremare i polcombere è il filo conduttore di Troia’s Discount, delle Wunsi, che corre sotto pelle, che è ambizione, illusione, doderkammer, di Pinter’s Anatomy o dello straziante Macadamia. lore. Sono tracce di umanità, quelle che brillano nel teaScrive Zygmut Bauman: «Siamo consumatori in una sotro di Ricci/Forte. Al di là dei generi, degli scandali, delcietà dei consumi. (…) Siamo tutti nel e sul mercato, al temle provocazioni, c’è una speranza, nonostante tutto: tropo stesso, o in modo intercambiabile, clienti e merci. Non vare l’amore. Ecco, non ci interessano più Cooper, Marc’è da stupirsi se l’uso/consumo di rapporti si adegua (…) lowe, Pinter: Stefano Ricci, Gianni Forte, i loro attoripetendo il ciclo che comincia con l’acquisto e termina ri, attrici e collaboratori, raccontano questa speranza. ◼ con lo smaltimento dei rifiuti». Troia’s Discount di Ricci/Forte (foto di Lucia Puricelli). Consumatori, mercato, smaltimento, rifiuti: proviamo ad A Udine due spettacoli di Ricci/Forte prosa C 74 — prosa A Trieste il «Trittico» di Antonio Tarantino te. È lo stesso Tarantino, in questa breve nota scritta per VeneziaMusica e dintorni, a precisare meglio i contorni di questa operazione teatrale: «Trittico è composto di tre brevi atti: Torino Bacau Roma, Cara Medea e Una casa razzista. Quest’ultimo è preceduto da un prologo dal titolo Telesogni. In Torino Bacau Roma due poveracci, un rottame della catena di smontaggio dell’industria del Nord Italia e una giovane immigrata clandestina dell’Est europeo rappresentano due clamorosi fallimenti di dottrine sociali di di Leonardo Mello un recente passato. Ovvero il lavoro come pratica capace di riscattare quanto di nobile vi è nell’uontonio Tarantino è indiscutibilmo, trascurandone le note implicazioni di abmente uno dei più importanti e rapbrutimento. E la dottrina dello Stato proprieTrieste presentati drammaturghi italiani contario e depositario del bene comune che, iro8-12 marzo, ore 21.00 temporanei. Già altre volte in passato il suo nicamente, si svolge e si presenta come ma13 marzo, ore 17.00 Trittico nome e le sue opere hanno occupato queste le comune. In Cara Medea una madre assassipagine (cfr. VMeD n. 27, p. 60, n. 28, p. 75 e na evoca dalle profondità del mito, riportaVenezia n. 38, p. 80), anche in relazione al laboratorio to ai giorni nostri, l’inconciliabilità tragica di Fondamenta Nuove passione e ragione. Dove, percorrendo l’as«Parole in forma scenica», di cui fu protago- Teatro 3 maggio, ore 21.00 nista e modello di scrittura nel 2009 e al quasurda geografia di un’Europa devastata dalGramsci a Turi le, in marzo, tornerà a partecipare nella nuola guerra, Medea, liberata da un lager, affron(versione oratoriale) va edizione, che lo vede insieme a Mariangela ta un terribile viaggio alla ricerca di un passaGualtieri, Vitaliano Trevisan e Paolo Puppa. to che, come il suo Giasone, non esiste più, se Inpossibile tracciare in poche righe l’evolunon nell’ostinata e inestinguibile permanenzione del suo stile, che parte quasi per caso E a maggio arriva a Venezia «Gramsci a Turi» prosa A za dei sentimenti. Telesogni è una trash tv danel ’93 con un capolavoro come Stabat Mavanti alle cui telecamere è convocato un anTutto il teatro ter – scoperto da Franco Quadri e premiato ziano pensionato, il quale, in un mondo che di Antonio Tarantino all’unanimità a Riccione, ai bei tempi in cui ha cambiato il colore della pelle e il modo delè pubblicato da Ubulibri lo stesso Quadri era presidente della giuria di le relazioni “umane”, proietta sugli immigra(www.ubulibri.it) quella manifestazione – e prosegue senza soti che invadono la sua vita il proprio razzismo sta tra pièce di piccole dimensioni e kolossal teatrali conutrito di luoghi comuni e, peraltro, grottescamente prime Materiali per una tragedia tedesca e il più recente Trattato vo di “serietà”. Ma sarà proprio questa circostanza a imdi pace. Basti dire in questa sede che nella diversità delle pedire il compiersi di un dramma, per il prevalere sulambientazioni, dei contesti e dei personaggi la sua parolo stereotipo – comunque pericolosamente diffuso nella la, sempre scissa tra ventre e sublime, tra tragico e grotnostra società – del sentimento di umanità semplicementesco, tra citazioni classiche e gag d’avanspettacolo, rete presente in ognuno». sta – nel suo continuo oscillare tra mito e storia – sempre Sempre sul versante tarantiniano, si segnala fin magmatica e potentissima, tanto da affascinare registi d’ora l’arrivo a Venezia di un altro testo, Gramsci a Tucome – per citarne solo alcuni – Cherif, che nei primi anri, affresco drammatico-umoristico del calvario carni ha molto contribuito alla sua notorietà, Marco Marticerario del grande intellettuale sardo messo in scenelli, Valter Malosti e Antonio Calenda. Ma anche un’arna nel 2009 al Napoli Teatro Festival Italia da Danietista come Cristina Pezzoli, allieva di Dario Fo e Massile Salvo. L’evento, organizzato e promosso dalla Fonmo Castri, con la quale Tarantino rielabora un testo-simdazione di Venezia con Euterpe Venezia nell’ambibolo come Madre coraggio di Brecht, in uno spettacolo del to delle Esperienze di Giovani a Teatro, sarà ospitato 2008 che vede in scena una superba Isa Danieli. E la stesagli inizi di maggio dal Teatro Fondamenta Nuove. ◼ sa Pezzoli, poco tempo dopo, cura la regia di Trittico, un allestimento che mette insieme tre testi brevi, e nel quaA sinistra: Trittico di Antonio Tarantino. le per l’occasione l’autore si fa anche interprete dividenA destra: Gramsci a Turi, regia di Daniele Salvo do il palcoscenico con Gilda Postiglione e Oreste Valen(foto Napoli Teatro Festival Italia). prosa — 75 I «Rusteghi» di Gabriele Vacis incontro; e allora mettersi nei panni dei propri avversari politici, per esempio, o in quelli dei meridionali se si è settentrionali e viceversa, sarebbe un modo possibile per cercare di comprendere le ragioni degli altri. In scena, ad affiancare gli attori «senior» del cast vi sono quata cura di Ilaria Pellanda tro giovani che interpretano le parti femminili: Nicola Bremer, Christian Burruano, Alessandro Marini, Daniele Marmi. Olabriele Vacis si era già cimentatre al rapporto uomini-donne ve n’è anche uno to con Carlo Goldoni. Era il 1993 Trieste – Politeama Rossetti giovani-vecchi? quando realizzò per Teatro SettiSì, ed è una lettura a cui tengo molto. La 9, 10, 11, 12 marzo, ore 20.30 mo, in occasione del bicentenario goldorelazione fra le generazioni mi porta nuo10 e 13 marzo, ore 16.00 niano, lo spettacolo intitolato La villeggiatuvamente a riflettere su ciò che accade in ra, smanie, avventure e ritorno, pièce in tre atItalia, un Paese di vecchi che trattengono il ti ricavata rielaborando in un continuum narrativo le tre potere senza alcuna idea di cederlo alle nuove generaziodistinte commedie sul tema che il drammaturgo veneziani; i giovani, dal canto proprio, non hanno il coraggio e no scrisse nel 1761. la forza di strapparlo dalle loro mani. Ecco che i quattro E quest’anno è andato in scena, in prima nazionale al ventenni sono allora presenti anche in quanto potenziaTeatro Sociale di Valenza lo scorso 12 febbraio – con un li «figli» del resto del cast, perché, anagraficamente, popoker di attori del calibro di Eugenio Allegri, Mirko Artrebbero esserlo davvero. tuso, Natalino Balasso e Jurij Ferrini –, lo spettacolo che Vacis ha tratto da un’altra opera goldoniana: si tratta dei Rusteghi, quei Nemici della civiltà che a marzo sbarcheranno sul palcoscenico del Politeama Rossetti di Trieste in una rilettura in chiave moderna della celebre commedia settecentesca, nella quale è lo stesso regista a guidarci. «Si tratta di una rilettura che non ha avuto bisogno in realtà di accorgimenti particolari. Ho mantenuto il tema principale, il rapporto uomini-donne, pensando anche che, con tutto ciò che sta accadendo nel nostro Paese, fosse interessante spingersi più in profondità a comprendere cosa questa relazione significhi, Il testo in dialetto è stato tradotto in italiano. Come mai? cosa voglia dire essere “rusteghi” nei rapporti con il genRiflettendo su Goldoni, non credo sia più possibile til sesso. E proprio per questo ho fatto una scelta radicamettere in scena un testo antico così com’è, perché i suoi le, riunendo una compagnia di soli uomini. Ho lavorato personaggi vivevano in un altro modo, parlavano in macon gli attori al fine di cercare di capire tali rapporti, faniera diversa. Da qui la scelta di tradurre il testo. In una cendoli mettere anche fisicamente nei panni delle donsola scena s’è mantenuto il dialetto, quella in cui Lunarne. Ma non viene messo in scena uno spettacolo en travedo e Simon rivelano la loro anima profonda di «rustesti, né viene fatto alcun accenno all’omosessualità: si tratghi» dicendo che le donne bisogna tenerle segregate in ta piuttosto di vestire i panni femminili per cercare di cacasa. Ed è un concetto che in effetti può capitare di senpire le ragioni, di indagare il punto di vista delle donne, tire, se si è abbastanza sfortunati, in qualsiasi osteria del senza eccedere in alcun tipo di comportamento stereotiVeneto. I «rusteghi» ci sono ancora, ma con una diffepato. Credo sarebbe un’operazione molto interessante da renza: che se a Goldoni risultavano simpatici perché non realizzare anche al di fuori del teatro: penso infatti a queerano una realtà organizzata sul territorio e si trovavasta Italia divisa, in cui sembrano non esserci possibilità di no nelle loro mura domestiche, a noi risultano pericolosi, in quanto il rischio è che possano diventare la maggioranza. E allora non sarebbero più così simpatici! ◼ Mirko Artuso e Natalino Balasso nei Rusteghi di Gabriele Vacis (foto di Bepi Caroli). prosa G 76 — prosa La «Recherche» senza parole di Teatropersona Al Fondamenta Nuove di scena «Aure» L di Fernando Marchiori teatro quale atto fondativo di un mondo altro e insieme la consapevolezza della necessaria insignificanza di quanto appare in scena: «un nulla confezionato con le immagini della realtà». È in questa paradossale tensione a creare il vuoto attraverso la forma che può profilarsi nel lavoro di Teatropersona una presenza riverberan- prosa a fascinazione per il bale per scandagliare le altre possibilità espressive con un criterio compositivo di carattere musicale. Dopo Beckett Box 2006 (vincitore del premio internazionale Beckett & Puppet) e Trattato dei manichini (2008, premio eti – Nuove creatività e Premio Lia Lapini per la scrittura di scena), la «trilogia del silenzio» si conclude con un temerario lavoro sulla Recherche proustiana che è, fin dal titolo, anche un omaggio al magistero di Elémire Zolla: AURE. Memoria e infanzia, reminiscenza e sogno costituiscono il materiale di costruzione anche del nuovo lavoro, ancora in fieri, interpretato da Valentina Salerno, Chiara Michelini e Francesco Pennacchia. Come nei lavori precedenti, dell’opera di Marcel Proust non restano né le parole né le storie, ma i meccanismi che ne governano la natura. Un puro fatto materico che si sostanzia in figure e atmosfere visive e sonore di carattere impressionistico. Una proustiana «seconda stanza» impronta lo spazio scenico. Le sue tre porte disegnano altrettanti campi magnetici che determinano le dinamiche fisiche degli attori. Tra «scricchiolii organici della boiserie» ed echi beethoveniani, il protagonista-demiurgo resuscita l’enorme edificio del ricordo. Come in Proust il passaggio dal na- te. L’attore-talismano che non ha da rappresentare alcunché, l’oggetto depotenziato di ogni carica metaforica, la musica mai descrittiva, la plastica calligrafica aprono tra azione e visione una dimensione evocativa e interrogante, lo spazio per un’apparizione misteriosa e intima nello stesso tempo. Scaturisce con la determinazione di un archetipo, abbaglia chi ne riconosce la luce. Con una perizia nella scrittura di scena che non ha confronti nelle nuove generazioni del teatro italiano, Alessandro Serra crea spettacoli che risuonano nell’astrazione atemporale della comunicazione tra anime, si plasmano sulla memoria corporale dei performer in scena per poi espandersi nella percezione dello spettatore come discorsi interiori. Musica fatta corpo, membra sublimate in immagini, visioni cristallizzate in simboli che, appena apparsi, già ritornano flusso sonoro. Una ricerca perseverante che, almeno in questa ampia fase, ha rinunciato completamente al linguaggio ver- turalismo alla metafisica avviene per gradazioni di colori, così nello spettacolo il trascorrere del tempo è reso dal mutare della qualità della luce, dalla luminescenza cangiante intorno ai corpi, in virtù di un originale accostamento del mondo dello scrittore francese con quello del pittore danese Vilhelm Hammershoi, maestro di interni trascoloranti. La «residenza» veneziana di Teatropersona (dal 24 al 30 marzo al Teatro Fondamenta Nuove) offre l’occasione preziosa di rivedere lo splendido Trattato dei manichini, ispirato all’omonimo testo di Bruno Schulz, e uno studio già avanzato su questo atteso AURE. Tra i due, un incontro con il pubblico e un seminario pratico sul lavoro dell’attore intitolato al Fingitore, esplicito omaggio a una poesia di Fernando Pessoa che porta alle estreme conseguenze il paradosso diderottiano: «Il poeta è un fingitore. / Finge così completamente / che arriva a fingere che è dolore / il dolore che davvero sente». ◼ Il trattato dei manichini di Teatropersona (foto di Daniela Neri). La morte secondo Babilonia Teatri Splendido «The End» al Fondamenta Nuove Q di Leonardo Mello lo spettacolo, i Babilonia Teatri – al secolo Enrico Castellani e Valeria Raimondi – mi avevano accennato il tema che stavano indagando, vale a dire la morte, The End appunto, o meglio ancora la rimozione che di questo passaggio, inesorabile per tutti, nel nostro tempo veniva perpetrata a tutti i livelli. Un tema forte, come forti erano stati i pluripremiati e applauditissimi made in italy e Pornobboy, un tema che si prestava però anche a derive retoriche o a sarcasmi apotropaici e in definitiva inutili. Ebbene, il magnifico lavoro portato in scena – nell’ambito delle Esperienze di Giovani a Teatro – al Teatro Fondamenta Nuove il 23 febbraio, dopo l’unico debutto milanese al Teatro dell’Arte, si tiene lontano da entrambi i pericoli, trasformandosi, per il momento almeno, nel capolavoro del gruppo veronese. Valeria Raimondi, quasi sempre sola sul palco, agisce, utilizza gli oggetti della scarna scenografia, e soprattutto declama – in perfetto stile Babilonia – un testo composto a quattro mani con Enrico, agile e asciugato anche da molteplici momenti laboratoriali. Con le mani insanguinate a richiamare le stimmate, l’attrice attacca il primo «atto», un esilarante vademecum del «morto alla moda», che si preoccupa di apparire giovane e gagliardo, non vuole crisantemi ma «rose rosse/sempre verdi/di plastica/che non ingialliscono/antiacari/antipolvere/antigelo» e vuole anche nell’estremo passo dare un’immagine invincibile e immortale si sé: «Ghe metto ‘na foto grande/di quando ero giovane/sotto i trenta/senza rughe/senza ciccia/senza macchie in faccia/’na foto de quando gavea i cavei/i denti/la bocca dritta/ghe metto ‘na foto de mi al mare/sorridente/abbronzato/bello e pulito». L’italiano parcamente (e molto efficacemente) screziato di vernacolo culmina con il primo dei tre momenti musicali (il successivo è uando ancora stavano costruendo Una scena da The End (foto di Marco Caselli Nirmal). la struggente «Ciao amore ciao» di Luigi Tenco, a danzare la quale arrivano gli altri tre componenti della compagnia): «S’i’ fosse foco, ardere’ il mondo» di Cecco Angiolieri, resa celebre dal grande Fabrizio De André. Si passa al secondo quadro, intitolato «Inri», dove, in un’atmosfera tragica e beffarda un po’ alla Spoon River, a un Cristo issato in scena dalla performer viene richiesta qualche indicazione sul «dopo» («Io chiedo/ti chiedo/dammi un decalogo per la mia morte/sei venuto una volta/torna di nuovo/vuota il tuo sacco/rendimi edotta di cosa c’è dopo/per la vita ho tempo/la imparo da sola/so cosa bere/ cosa mangiare/so che c’è un tempo per ogni cosa»). È poi la volta del «Boia», un’invettiva cruda e potente sull’agonia vista dagli occhi dell’agonizzante, che certo tratta il tema spinoso della libertà di scelta, ma principalmente evoca gli orrori di una via crucis ospedaliera e senza redenzione, cui quotidianamente sono sottoposti migliaia di anziani e malati terminali, e alla quale la voce in scena oppone un rabbioso e disperato rifiuto, che ricorda in parte il teatro visionario di Rodrigo García: «Voglio il mio boia/non mi vedrete con le mutande piene de merda/nuotare nel me stesso pisso/non mi farò lavare da una troia che non sa la mia lingua/non passerò gli ultimi anni col pannolone/non passeggerò con altri vecchi rincoglioniti/ mentre voi a casa scopate/non vedrò la vostra faccia di culo una volta al mese/non mangerò sbobba imboccato/non mi alimenterò con una sonda piantata in pancia/ una flebo in vena/non avrò una sacca piena di piscio attaccata al me leto/non offrirò lo spettacolo del mio cervello che marcisce/non aspetterò che mi si formino le piaghe sul culo». Avviandosi alla conclusione viene affrontato l’avvicinamento alla morte dal punto di vista dell’«altro», di chi, vivo, subisce – senza necessariamente accettarlo – il lento, intollerabile processo di degrado del corpo dei propri congiunti. E infine la richiesta estrema di autenticità, intimità e amore in un dolente, poetico epilogo: «Sogno l’alito di un bue/di un asinello/sogno che sarai tu a spogliarmi/a lavarmi/a vestirmi/sogno che mi spazzolerai i capelli/mi chiuderai gli occhi/mi sistemerai la bocca/mi intreccerai le dita sul petto/mi adagerai nella bara/sogno che accarezzerai il mio corpo freddo/sfiorerai il mio volto spento». Quando le parole si placano, Valeria esce e rientra in scena con il suo piccolo, Ettore, e nell’abbracciarlo assume le sembianze di una Vergine cinquecentesca. Un istante straordinario mentre parte The End di Jim Morrison. Un momento dolcissimo di vita in uno spettacolo doloroso, crudele, rigoroso. Da vedere assolutamente. ◼ prosa prosa — 77 78 — prosa Pedagogia della scena: quattro testimonianze I a cura di Maria Antonia Pingitore l 29 gennaio si è conclusa la prima parte del semina- prosa rio triennale «Pedagogia della scena» diretto da Anatolij Vasil’ev che si iscrive all’interno di un progetto di più ampio respiro ideato da Maurizio Schmidt in collaborazione con Cristina Palumbo e che la Fondazione di Venezia con Euterpe Venezia, in collaborazione con la Fondazione Milano-Scuola Paolo Grassi, hanno avviato nella speranza di creare un luogo di confronto e sperimentazione sulla pedagogia teatrale internazionale: «L’isola della Pedagogia». Nei mesi di dicembre-gennaio il maestro Vasil’ev ha lavorato con i suoi 31 allievi, in presenza di 9 uditori e di alcuni ospiti, alla trasmissione del suo metodo di lavoro. Tutti gli allievi hanno praticato tale metodologia seguendo la regola che per insegnare bisogna saper fare e questo sapere si acquisisce solo attraverso la pratica, è un’esperienza prima che una conoscenza. Il gruppo dei partecipanti è molto eterogeneo per formazione, esperienza, provenienza ed età, ognuno di loro cerca di far proprio il metodo, non come un attore per usarlo nella propria pratica di palco, ma come chi sa che dovrà trasmettere, ripetere, rielaborare, approfondire la ricerca: il pedagogo. Questa differenza nell’approccio al lavoro è stata più volte sottolineata anche dallo stesso Vasil’ev che si è prodigato con energia a spiegarla, al di là delle sue abitudini, e con un’infinita umiltà ha sempre sollecitato e risposto ai dubbi e alle domande di tutti i presenti in un confronto aperto e libero. Abbiamo chiesto a quattro allievi di raccontare l’espe- rienza appena vissuta, per comprendere meglio cosa è successo in questi due mesi su quell’isola. È solo il racconto dei primi passi in un territorio ancora tutto da esplorare, ma che da subito rivela la sua unicità e la sua potenza. Da seguire... Intraprendere un cammino di ricerca attraverso l’Europa e scegliere un Maestro di Maria Gaitanidi attrice e docente A l giorno d’oggi il percorso di un attore può toccare estremità inattese. Dal capriccio di un futuro incerto alla formazione regolare in un’Accademia, il cammino è sinuoso e senza una reale prospettiva. Ho cominciato a recitare su un palcoscenico nella nebbia attraverso cui a volte potevo intravedere sprazzi di cielo blu. La ricerca di quel qualcosa di innominabile non si definiva che attraverso un cammino negativo. Quando non si sa cosa si cerca veramente è difficile distinguere gli incontri buoni da quelli cattivi. La formazione classica che ho ricevuto al Conser vator io di Bruxelles non mi ha dotato della libertà necessaria nell’approccio con l’altro, ma solo dello smisurato intellettualismo del teatro. Fuggita a Londra, ho scoperto il teatro collettivo, la sperimentazione in gruppo dell’atto creativo, cominciava già a soffiare il vento del teatro fisico venuto dall’Est. In Polonia mi sono ritrovata più o meno per tre anni sulle tracce di Jerzy Grotowski incontrando e lavorando con gruppi differenti. La natura della mia ricerca era duplice: cosa cerco nell’atto teatrale? E chi ha trovato qualcosa che va al di là dell’artista, dell’uomo in quanto essere? All’inizio avanzavo come un cieco, non avevo nessuna conoscenza del corpo, del canto assegnato al corpo, dell’improvvisazione fisica che diventava rito e ho cercato diverse tecniche di training fisico. Molto presto lavorando sulla tragedia greca mi si è posta la questione dell’uso della parola. Gli «eredi» polacchi di Grotowski non sembravano interessati al testo duro. Se ne sentiva una tale mancanza che nessun movimento sublime/ato poteva colmare. Dov’era il senso al di là dell’emozione e dell’azione? È così che i miei passi mi hanno portato ad Momenti di lavoro con Anatolij Vasil’ev alla Giudecca. prosa — 79 L’esperienza pregressa con Thierry Salmon a confronto con un altro metodo nell’incontro con Vasil’ev di Maria Grazia Mandruzzato attrice e docente Molti anni fa, quando lavoravo con Thierry Salmon, ci doveva essere un progetto di incontro a Mosca tra Anatolij e i suoi attori, e Thierry Salmon e noi, suoi attori. Stavamo lavorando sui Demoni di Dostoevskij. Il progetto andò in porto per metà: con nostro grande dispiacere Vasil’ev in quel periodo non poteva esserci, diede però la possibilità a noi e ai suoi attori di lavorare insieme con Thierry per due studi-spettacolo, uno presentato a Mosca al Teatro Taganka per la Scuola d’arte drammatica di Vasil’ev e l’altro alla Drama Teatri S. Geminiano di Modena. Il regista era Thierry e la metodologia su cui si lavorava era la nostra. L’incontro con gli attori russi, sia da un punto di vista umano che artistico, fu una grande apertura e un’importante esperienza di confronto. Molte riflessioni ricordo di quel periodo: Dostoevskij, il lavoro sul personaggio, il rapporto tra arte e vita. Per quanto riguarda le diverse metodologie porto con me sin da allora una riflessione di Liudmilla che diceva più o meno così: «Quando parliamo di personaggio, noi mettiamo il personaggio davanti a noi, siamo noi che lo conduciamo, invece ho la sensazione che voi siate quel prosa Epidauro da Anatolij Vasil’ev e alla sua Medea. Uomo irraggiungibile, ma solo per gli sconosciuti, figura ascetica, sulle prime non sapevo cosa pensare di colui che mi aveva accolta per circa quattro mesi senza che scambiassimo più di qualche parola. Con estrema forza l’ho visto attraversare il terreno minato della Grecia rinnovando incessantemente la sua fede nell’attore ed evidentemente nella sua visione del teatro. Il silenzio imposto non fece che accrescere la mia curiosità e la mia determinazione ad andare al di là dell’aspetto inabituale del metodo, era molto di più ciò che veniva offerto. Avevo appena trovato qualcuno che ancora nel xxi secolo professava, come da un manifesto dimenticato, un’etica dell’essere artista. Vorrei parlare di questo incontro in termini di libertà. Anatolij Vasil’ev non ha mai preteso una cieca sottomissione, non voleva essere il maestro di nessuno, stava all’individuo scegliere di perseguire una vita dedicata all’arte. Non si tratta di un regalo, è un sacrificio quasi monastico. La cosa più strana è che non ti viene chiesto niente, come se l’assoluta libertà facesse crescere progressivamente il desiderio di appartenenza. Non esiste più nessuna scuola a cui iscriversi in cui insegna Vasil’ev, da qui il necessario accanimento per seguirlo di paese in paese, a qualunque condizione. Tuttavia è solo dopo quasi tre anni che finalmente sono cresciuta in questo incontro, come un’adolescente uscita dall’età della pubertà, che riesce a guardare il maestro come un allievo che ha già la responsabilità di una continuità. Questo grazie a «Pedagogia della scena». Sono entrata nel seminario di Venezia come attrice, senza alcuna prospettiva, e ne sono uscita con una missione, un risveglio alla passione per la trasmissione della conoscenza. Attraverso questa sfida non si tratta di testare le competenze dell’attore, ma di diventare un vero essere umano, pronto a prendere in mano i futuri artisti. Generosità e tolleranza sono state le prime due lezioni, il cammino è ancora lungo... personaggio, che voi lo mettiate dentro». Ho sempre riflettuto su questa frase, anche perché il lavoro sul personaggio era l’inizio, la base del nostro metodo. Partendo da uno stato neutro si arrivava alla costruzione del personaggio. Il neutro è uno stato di totale disponibilità, uno svuotarsi per poter contenere, uno stato potenziale. Dal neutro si passava alle domande sul personaggio. Si trattava di far nascere un personaggio dall’interno, per arrivare a una sua fisicità, attraverso un lavoro che era individuale e collettivo insieme. Ho sempre pensato che ogni cosa che vada in profondità prima o poi si tocca, qualsiasi sia il modo per arrivarci. Avrei però sempre voluto capire di più di questa diversità di lavoro. Ho una percezione di cosa volesse dire Liudmilla e conosco e ho praticato troppo poco il metodo degli étude, che fra l’altro è una parte del lavoro, per poter capire veramente, ma la sensazione che ho è che ci sia più oggettività in quello che fai, un piccolo distacco che aiuta ad avere una coscienza maggiore, una più lucida capacità di 80 — prosa prosa guidare questa entrata e uscita da te al personaggio e viceversa per arrivare a fonderli. È un avvicinarsi graduale, un creare delle basi perché questo appaia senza che tu te ne accorga. Ma mi rendo conto che parlare di personaggio è riduttivo. La bellezza del lavoro con Vasil’ev e del metodo è che c’è tutto contemporaneamente, da subito: l’autore, il testo letterario, l’attore nella sua integrità di artista e persona, e la ricerca dell’«oggetto e strumento del nostro mestiere: l’azione. L’azione è come il colore per un pittore o il suono per un musicista», dice Vassiliev. La sensazione che ho avuto in questi due mesi di lavoro è di aver ripreso quella che «sono» da dove ho lasciato molti anni fa quando Thierry se n’è andato. Ho ritrovato un senso profondo dello «stare» dentro al teatro, che non è fare lo spettacolo, quanto porsi artisticamente dentro un luogo di ricerca dove tu puoi esserci con tutta te stessa: con quello che sei artisticamente e come persona. Nel lavoro con Vasil’ev vieni messa di fronte a te stessa e non puoi barare. Se bari, bari con te stessa. Imparare a leggere il testo in vista delle azioni, non vuol dire in vista di un risultato per la scena, ma invece creare dei presupposti perché le azioni possano compiersi dentro di te, per poter saltare nel vuoto con il tuo compagno nella scoperta, nella sorpresa e nella disponibilità di dare e ricevere. In questi due mesi ho sempre sentito fluire l’energia, anche quando sbagliavo, perché non si trattava di fare giusto o sbagliato, ma di cercare. Ho ritrovato il piacere dello «stare in relazione», ho ritrovato il piacere e l’eccitazione del mio «cercare», come attrice, non mediata da una partitura, e questo è possibile solo perché c’è un metodo molto preciso che cerca lo stare: stare in relazione con te stesso, con l’autore, con il tuo compagno. Thierry diceva che gli artisti russi hanno qualcosa in più, «il loro grande tesoro è il senso dell’anima». In Vasil’ev io sento un senso del sacro. Nello spettacolo Medea da Heiner Müller che ci ha mostrato in video, Vasil’ev ha posto le basi perché qualcosa di verticale apparisse, ed è apparso. La parola si è fatta carne e la carne, parola. Scegliere di fare pedagogia a trent’anni e incontrare un grande Maestro di Marco Maccieri – Centro Teatrale MaMiMò attore e docente Viviamo in un periodo storico molto particolare. Da quando siamo nati sentiamo parlare di crisi: crisi dei valori, crisi economica, crisi culturale; sembra che da vent’anni siamo in una costante crisi. Questo mantra l’ho sentito ripetere ancora più spesso da quando ho messo piede nell’ambiente teatrale, prima attraverso la formazione presso la Scuola d’Arte Drammatica «Paolo Grassi» e poi nel mondo dei teatri stabili quando ho avuto la fortuna di accedervi subito dopo il diploma. A lungo mi sono chiesto di chi potevano essere le responsabilità di questo nulla che ci circonda, di questa mancanza di opportunità, di denaro, di spazi, poi d’un tratto ho capito che anch’io stavo diventando parte di questa macchina infernale, in cui ci si lamenta costantemente e nel frattempo ci si nutre di invidie, gelosie e compromessi. I l m e st i e r e dell’attore, oggi, è molto pericoloso: basta un nulla e ci si perde in meccanismi perfidi e disumanizzanti. Ecco, io ho voluto rinunciare a tutto questo, abbracciando completamente un ideale e portandolo avanti nonostante la fatica, le difficoltà, le incertezze. Nonostante tutto. Questo ideale l’ho messo a fuoco quando ho cominciato a credere che la mia generazione dovesse smettere di aspettarsi qualcosa e dovesse cominciare a costruire qualcosa con le proprie idee, libera di sperimentarsi anche attraverso gli errori. Dopo le esperienze fatte con i teatri stabili (che spesso di stabile hanno ben poco tra tournèe e compagnie sempre diverse), ho deciso di fermarmi nella mia città e provare a lavorare sul futuro. Pochi investono sulle nuove generazioni, così nel 2004, a ventisette anni, ho deciso di fondare a Reggio Emilia una compagnia e una scuola di teatro. Ciò che ha guidato il mio pensiero fin dall’inizio è stata l’idea che questa struttura non dovesse essere uno strumento per esprimere il mio personale pensiero artistico, bensì un contenitore per persone e idee che si volessero costruire nel tempo. Così, lentamente, attraverso la pedagogia ho potuto trasmettere ad allievi e attori una pratica non solo teatrale, ma anche umana: non si lavora per qualcuno, ma con qualcuno. Sembra banale e scontato, ma non lo è. E proprio mentre coltivavo questo mio progetto ho avu- prosa — 81 Cosa vuol dire incontrare un grande Maestro appena usciti da un’accademia di Teatro? di Giacomo Veronesi regista Mi è stato chiesto di scrivere tante parole. Mi è stato affidato un tema: «Cosa vuol dire incontrare un grande Maestro appena usciti da un’accademia di teatro?» Mi è stato chiesto di scrivere, perché sono un giovane regista di teatro, appena uscito da una scuola, che ha avuto la fortuna di entrare nel progetto «Isola della Pedagogia» condotto dal Maestro Vasil’ev. Mi è stato chiesto e io ho accettato. La testa… recentemente ho imparato a guardarla con diffidenza, cerco di farne a meno. Durante questi due mesi di lavoro ho trovato una chiave per iniziare a governar- mi dal centro, senza dover passare dal cervello. Non c’è altro da aggiungere. Il centro non è cosa da poco, gli attori lo sanno. Il centro è il Santo Graal della recitazione, tutti lo nominano, tutti lo cercano. Il centro è una fonte d’impulsi vitali, serve ad agire e reagire senza passare dalla testa, in modo organico. Nell’arco di una vita, noi occidentali, crescendo ce ne liberiamo come ci si libera delle rotelle quando s’impara ad andare in bicicletta. Per una serie di ragioni culturali ci abituiamo ad allenare solo le meningi e a governarci attraverso la mente. Questa privazione limita le nostre facoltà e genera un monopolio insano nel corpo. La perdita del centro non impedisce la vita, la impoverisce. È invece impossibile senza un centro recitare. Il pensiero da solo non può bastare, un attore per affrontare una scena deve ritrovare ciò che ha perduto come uomo. In accademia ho avuto la possibilità di esplorare il teatro in orizzontale, di curiosare tra le sue forme. L’incontro con il Maestro ha scatenato in me invece un prosa to la possibilità di studiare con il maestro Anatolij Vasil’ev, ed è stato illuminante. Improvvisamente ho potuto vedere come attraverso il suo metodo egli riesca a conciliare un lavoro approfondito sulla drammaturgia e, insieme, un altrettanto profondo lavoro sulle persone. Ed è proprio il lavoro che fa sulle persone che lo rende un grande pedagogo: Vasil’ev ama davvero i suoi allievi e aspetta che le loro individualità si schiudano, sia come artisti che come esseri umani. Si prende cura dei loro talenti e delle loro fragilità, e sa, vista la sua grande esperienza, come aiutarli a scoprire se stessi. Ci racconta che l’ambizione del pedagogo non deve mai schiacciare l’allievo, ci insegna quanto sia dannoso mostrare la via ai nostri studenti anziché fargliela scoprire individualmente, seppure col nostro aiuto. Il pedagogo non è colui che insegna solo una tecnica, ma è colui che sa lavorare con le persone, le ama, riesce ad averne cura. Essere un buon pedagogo diventa, a questo punto, un obiettivo importante, che mi investe di responsabilità. Sono grato al maestro Anatolij Vasil’ev, che sta confermando con grande chiarezza le mie scelte, e ringrazio anche i miei precedenti maestri, tra cui Maurizio Schmidt e Massimo Navone, che mi hanno sempre spronato a credere in me e nella pedagogia. Tutto ciò non vuole esprimere una morale, sarebbe naïf dire che questa sarà una favola a lieto fine, tuttavia posso affermare con certezza che almeno sarà una storia con un lieto percorso. E poi, guardando da questa nuova prospettiva, guardando bene, tutta questa crisi forse non c’è… processo interiore che agisce in verticale dal centro. Detto questo, non rimpiango il tempo speso a scuola, l’accademia è stata certo un passaggio fondamentale per predispormi a questo incontro. Questo incontro di cui ancora non riesco a scrivere, con le giuste parole. Le giuste parole non esistono o le conosce solo Vasil’ev. Lui ne userebbe poche e tutte molto semplici, comuni. Del lavoro fatto in sala non so che dire ma è colpa del Maestro che ha tanto insistito fin da subito perché trasformassimo le sue parole esclusivamente in strumenti di lavoro pratici, non in trattati. Vasil’ev è magro, dimesso, con gli occhi dolci e la barba folta e riccia. Come ogni Maestro che si rispetti vanta una lista di «sempre»: è sempre seduto su una sedia di legno, veste sempre uguale, beve sempre il tè mentre lavora, ripete sempre le stesse frasi. Non posso nemmeno citarvi le parole del Maestro, perché non ho preso appunti, dice che a furia di scrivere tutto quello che dice impara tutto la penna, vuole che lo si ascolti in silenzio, composti. ◼