88 INSERTO SPECIALE LA RIVISTA DELLA SCUOLA Anno XXX, 1/30 aprile 2009, n. 8 L e t t u r e p e r l ’ a u t o agg i o r n a m e n t o VERSO LA STORIA DEL PENSIERO MODERNO Il Pragmatismo di Ferdinand Canning Scott Schiller l Pragmatismo ebbe solo un rappresentante che meriti una menzione speciale fuori degli Stati Uniti: Ferdinand Schiller. Nato nello Schleswig- Holstein nel 1864 e trasferitosi presto in Inghilterra, Schiller studiò a Rugby ed al Balliol College di Oxford. Insegnò tedesco nel famoso collegio di Eton e poi tornò ad Oxford, per conseguire il titolo di Master of Art. Già nei primi anni universitari apparve come uno spirito fornito di grandi doti di intelligenza, ma anche ribelle alle posizioni ufficiali che la filosofia difendeva in quegli anni negli ambienti accademici; possiamo affermare che il suo pragmatismo, che Schiller chiamò umanesimo, nacque da radici proprie piuttosto sotto la spinta del suo bisogno personale di chiarire in modo nuovo le idee e i problemi della filosofia che sotto l’influenza dei pragmatismi americani. Quando nel 1891 Schiller pubblicò Riddles of the Sphinx, non aveva ancora conosciuto né gli scritti di Peirce, né quelli di James, né quelli di Dewey; bisogna tener presente che almeno dal 1892 Schiller aveva idee di tipo pragmatistico e che ancora per vari anni si sentì estraneo al pensiero dei pragmatisti americani. Nel 1893 si recò in America e fu istruttore alla Cornell University. Nel 1897 lo troviamo di nuovo ad Oxford, assistente tutore al Corpus Christi College, dove restò per vari anni come tutore e poi come yellow. Negli ultimi anni dell’ottocento lo troviamo amico di James, col quale scambia numerose idee filosofiche ed al quale suggerisce di sostituire il nome di ‘pragmatismo’ con quello di ‘umanesimo’ e di riservare il primo dei due nomi alla teoria umanistica della conoscenza, che segue appunto le idee da loro condivise. In Inghilterra Schiller fu una figura di rilievo, ma gli fu negato il dottorato e non riuscì ad inserire con successo la sua prospettiva in un mondo accademico dominato dai neohegeliani, che lo disistimavano, e ben presto sotto la suggestione del pluralismo russelliano diametralmente opposto alle sue idee. Tuttavia fu nominato tesoriere della Mind Association, presidente della Aristotelian Sociey e membro della Britisb Academy. A partire dal 1926 si recò spesso all’Università della California meridionale e qui si trasferì definitivamente due anni prima di morire. Pur essendosi orientato verso posizioni pragmatistiche per una spontanea evoluzione del suo pensiero, lo Schiller, appena conosciuto James, si accostò notevolmente al suo pensiero ed a quello di Dewey, ma sostenne anche posizioni molto vicine ad alcune del Royce. Con James giunse a stringere una vera e propria amicizia, che gli fu di notevole conforto nella condizione di relativo isolamento accademico e dottrinale in cui finì per trovarsi in Inghilterra. Non è da escludersi che gli abbia non solo ricevuto da James spunti e idee, ma lo abbia anche aiutato a farsi ascoltare dagli inglesi ed a chiarire meglio a se stesso le sue intenzioni. Purtroppo, mentre il pragmatismo americano finì per influenzare una gran parte del pensiero filosofico e scientifico statunitense, Schiller non esercitò quasi nessuna influenza sull’evoluzione del pensiero inglese, che si andò evolvendo dall’idealismo bradleyano alle filosofie analitiche soprattutto sotto la guida di Russel, di Moore e dei suoi discepoli. I Umanesimo e pragmatismo Del pragmatismo di Schiller bisogna subito dire che fu fin dall’inizio e restò sempre una ribellione accanita e sofferta contro il predominio che il neohegelismo di Green, Bradley, Mc Taggart, Bosanquet e MacKenzie esercitò negli ambienti accademici inglesi. Il neohegelismo inglese aveva come scopo quello di recuperare e salvare la religione ed i motivi ideologici tradizionali minacciati dallo sviluppo della scienza e della critica empiristica e positivistica. Lo Schiller ne era consapevole e, indicando quel movimento come assolutismo inglese, spiegava che “originariamente fu una deliberata importazione dalla Germania con uno scopo. E questo scopo era religioso: era quello di controbattere gli sviluppi antireligiosi della scienza. La filosofia indigena, il vecchio empirismo inglese, non era utilizzabile a questo fine. Infatti, pur essendo una forma di intellettualismo, il suo sensismo non era affatto ostile alla scienza. Al contrario, mostrava un gran desiderio di favorire, alleandosi con essa, il grande movimento scientifico ottocentesco che, fra il 1850 ed il 1870, penetrò in Oxford fin quasi ad di CELESTINO TESTA * avervi il sopravvento”. [Schiller, Studies in Humanism] Schiller capiva che l’empirismo alleato con la scienza minacciava soprattutto le concezioni teologiche, “infatti la scienza, con la sua libertà faticosamente conquistata, era aggressiva ed eccessivamente confidente”, allora “partirono degli emissari, che importarono la filosofia tedesca, affinché facesse la serva, o almeno da governante, di una teologia avvilita” [Schiller, Studies in Humanism] Poiché il sommo sacerdote dell’Assoluto neohegeliano ad Oxford e per tutta l’Inghilterra era Bradley, Schiller si lanció contro di lui con tutta la forza delle sue critiche e del suo stile letterario ricco di incisivitá ed arguzia. Purtroppo non ebbe successo e Bradley risultò vittorioso, finché non furono Russell e Moore ad abbatterne il prestigio. Non è facile spiegare perché a lui non riuscì ciò che riuscì a Russell. Uno dei motivi è senza dubbio che Russell mosse il suo attacco da Cambridge, che era un centro di interessi prevalentemente scientifici e non era sotto l’egemonia accademica di Bradley; a Cambridge non poteva essere difficile riconoscere che la fondazione russelliana della matematica valeva molto di più di quella neohegeliana. Ma vi è anche il fatto che il pluralismo che Russell opponeva al monismo di Bradley non poteva non apparire assai meno rivoluzionario dell’umanesimo di Schiller; in fondo l’assoluto logico di Russell, pur essendo pluralistico, poteva prendere benissimo il posto dell’Assoluto metafisico di Bradley. Lo Schiller aveva una statura filosofica inferiore a quella di Russell e tentò un’impresa disperata, quando volle attaccare Bradley nella sua roccaforte di Oxford, utilizzando una prospettiva tanto radicale da essere giudicata addirittura priva di serietà filosofica. Sappiamo che Bradley assunse verso Schiller un atteggiamento sprezzante ed in genere fece mostra di ignorarlo: pur vivendo ambedue ad Oxford per molti anni, non s’incontrarono mai, neanche per discutere o polemizzare. Nonostante la sfortuna accademica che lo perseguitò in Inghilterra, Schiller è un filosofo che va considerato. La sua filosofia vuole essere un umanesimo, che intende polemizzare contro tutte quelle filosofie che, affermando l’una o l’altra tematica astratta dei vari assoluti o della logica formale, disconoscono il ruolo centrale che nella concretezza della vita e nella dinamica della realtà occupa l’io individuale, la soggettività irrepetibile di ciascun essere umano. É questa filosofia in contrasto con l’organicismo dei pragmatisti americani. Tuttavia essa include posizioni incontestabilmente pragmatistiche, in quanto fa dipendere dalle intenzioni operative, dai desideri, dalle aspirazioni, dalle progettazioni e dai bisogni dei singoli soggetti umani il senso stesso e la costituzione di ogni realtà e di ogni verità. Il pragmatismo di Schiller rivela caratteri chiaramente precorritori dell’esistenzialismo, anche se non assume mai i toni angosciosi di tale filosofia. Tali caratteri risiedono soprattutto nell’esaltazione del singolo soggetto umano come irripetibile, irriducibile a categorie astratte ed autore delle strutture significative del suo mondo, dei suoi valori e della sua vita. Nel pragmatismo di Schiller il singolo non è solo colui che dà forma all’esperienza, ma è anche colui che assume l’uno e l’altro elemento come contenuto di esperienza; Schiller non parla mai di dato e preferisce parlare del preso. Per lui è il soggetto che prende nell’esperienza, non sono le cose, i fenomeni o le sensazioni a darsi a lui. La sua filosofia è umanesimo in quanto “esige che l’intera natura umana sia impiegata come (costitutiva di) tutta la premessa da cui la filosofia deve procedere decisamente; (esige) che la completa soddisfazione dell’uomo sia la conclusione a cui la filosofia deve tendere, che la filosofia non si stacchi dai reali problemi della vita, compiendo fin dall’inizio delle false astrazioni… Perciò insiste che si lasci intatta la ricca esuberanza delle singole menti, invece di comprimerle in un tipo unico di mente, di cui si finge che sia unica ed immutabile; lascia intatta anche la ricchezza psicologica di ciascuna mente umana e la complessità dei suoi interessi, delle sue emozioni, delle sue volizioni e delle sue aspirazioni”. (Schiller, Studies in Humanism.) La filosofia di Schiller concepisce l’incontro del soggetto umano col mondo come incontro attivo, in cui l’individuo assume un materiale amorfo, lo plasma, l’organizza, lo arricchisce di e LUCA TRABALZINI ** senso. Siamo di fronte ad un vero e proprio costruzionismo, paragonabile a quello di Whitehead e Russell, solo che in Schiller è qualcosa di molto più complesso e incondizionato, che ha luogo lentamente, attraverso tentativi, esperimenti, successi ed insuccessi. “Se abbiamo appreso abbastanza filosofia, da vedere che non dobbiamo soltanto porre la domanda ontologica: Che cosa è?, ma anche la più profonda domanda epistemologica: Come sappiamo ciò che è?, ci rendiamo conto che è una costruzione realizzata lentamente.” (Schiller, Axioms as Postulates) Pragmatismo e costruzionismo Il mondo in sé, essendo amorfo e indeterminato, è quella hyle di cui parlava Aristotele, e nessuna ontologia o cosmologia del mondo in sé è possibile, perché noi possiamo parlare solo del mondo come viene plasmato da noi.“Esso è ciò che se ne fa. É plastico e può essere modellato secondo i nostri desideri” . Nella nostra esperienza la realtà si rivela malleabile, in evoluzione, soggetta alla nostra azione interpretativa e valutativa. É reale per noi tutto ciò che riteniamo importante. É importante per noi ciò che ha a che fare con i nostri progetti, i nostri desideri e le nostre aspirazioni. Siccome non abbiamo davanti a noi un mondo bello e fatto,“dobbiamo eseguire esperimenti, per costruire un cosmo armonioso, che soddisfi tutti i nostri desideri (incluso quello di conoscere) con i materiali da cui partiamo. A questo scopo facciamo uso di ogni mezzo che sembri promettente; lo proviamo e ne proviamo l’applicazione. Infatti non siamo capaci di restare passivi ed inerti, di subire un’impressione, come la tabula rasa di una certa tradizionale finzione, da aperte di un ‘mondo esterno’ indipendente, che s’imprima su di noi”. La filosofia, secondo Schiller, deve realizzare una visione globale non di una realtà statica, ma del processo dinamico in cui il soggetto umano si adopera faticosamente a costruire il suo mondo di cose, di significati e di valori. E nel fare questo deve collocarsi sullo stesso piano delle scienze, non può annunciare verità diverse dalle verità scientifiche: deve realizzare una profonda sintesi di queste verità, illuminando l’epistemologia con un’ontologia personalistica e pluralistica e chiarendo le linee di questa ontologia con un’epistemologia della ricerca per tentativi, sforzi, successi ed insuccessi. Deve essere una filosofia dell’esperienza e deve spiegare che l’esperienza è sempre “o esperimento o reazione, reazione allo stimolo, che attribuiamo al ‘mondo esterno’. Ma la reazione è una specie di azione, ed il suo carattere dipende ancora in parte dall’agente che reagisce. Non abbiamo neanche alcuna conoscenza indipendente del mondo esterno; questo non è altro che il modo sistematico in cui costruiamo la fonte dello stimolo su cui sentiamo il reagire. Perciò anche la nostra più passiva ricettività di sensazioni può e deve essere costruita come il godimento senza sforzo di ciò che precedentemente è stato ottenuto mediante uno sforzo notevole”. Il concetto di sforzo gioca un ruolo assai importante in questa prospettiva, che non può affatto venire accostata alle concezioni idealistiche in cui il mondo appare creato dal libero gioco del pensiero o dello spirito. L’elemento iletico è qualcosa che condiziona la nostra azione, che può renderla vana, che può far fallire un esperimento; solo che nel nostro mondo non può mai apparire come qualcosa che per sé abbia una fisionomia; forse si potrebbe dire che è come il limite della nostra azione costruttrice; in ogni modo è quel limite rispetto al quale s’impongono per noi lo sforzo, la ricerca, il tentativo. Schiller ritiene che viene ammesso per ragioni metodologiche: il modo più soddisfacente di spiegare la conoscenza e tutta la problematica della vita, è quello di supporre un tale contenuto iletico, su cui agisca l’io con le sue aspirazioni, le sue intenzioni operative ed i suoi progetti. Possiamo affermare che la filosofia umanistica, pragmatistica e costruzionalistica di Schiller poggi su dei postulati. Ma per Schiller l’essenza di questa filosofia sta proprio nell’enunciazione di quello che egli ritiene il vero metodo del sapere e tale metodo consiste proprio nel porre postulati e controllarli nella loro applicazione, cioè nell’esperimento. Per Schiller, tutto l’insieme delle strutture mentali, dei principi, dei con- cetti, delle idee, dev’essere concepito come qualcosa che “cresce, come il resto delle nostre facoltà ed attività…, mediante un processo di sperimentazione, inteso a rendere il mondo conforme ai nostri desideri” Il pragmatismo di Schiller si propone, perciò, essenzialmente come una filosofia del metodo, che intende accreditarsi proprio per motivi metodologici come una forma di costruzionismo. In tale prospettiva il vero e il falso non sono altro che le forme intellettuali di ‘bene’ e ‘male’, cioè sono valutazioni, perciò non hanno una portata assoluta, ma relativa ad uno scopo. Così “ciò che in una scienza vogliamo sapere determina le domande che poniamo e la sua rilevanza per tali domande determina la portata delle risposte che otteniamo”, nel senso che le risposte sono vere, se sono rilevanti per le domande poste e portano ai fini proposti, diversamente sono false. Ciò che decide della bontà o meno di qualcosa, è la sua efficacia pratica, che si constata nel successo che essa fa conseguire; ma il successo che convalida una verità, è un termine relativo, relativo allo scopo rispetto al quale si propone la verità. Perciò ciascuno deve decidere della verità o meno e della bontà o meno di una risposta ad un certo problema, sempre e solo tenendo conto dei propri scopi. Lo Schiller opponeva questa teoria della verità e della valutazione alla teoria della verità come corrispondenza sostenuta anche da Russell e a quella della verità come coerenza, sostenuta dai neohegeliani. Si tratta di una teoria che fa della verità qualcosa di relativo, di variabile, ma anche di chiaramente controllabile. Una teoria che definisce la verità come utilità, ma si rifiuta di accettare che senz’altro l’utilità è verità. La logica Schiller, oltre ad essere un nemico dichiarato dell’Assoluto di Bradley, fu anche ostile alla logica di tipo russelliano ed in questo fu vicino a James e a Dewey, mentre si collocò su posizioni lontane da quelle di Peirce e di Lewis. Naturalmente nella polemica di Schiller contro la logica ed a favore della psicologia del pensare, del ragionare e del conoscere non manca una seria incomprensione del metodo d’indagine della logica, che per sé può benissimo collocarsi accanto all’indagine psicologica sulle attività mentali. É chiaro anche che egli operava una vera e propria scelta culturale, quando si dichiarava per una netta psicologizzazione di tutte le attività umane e di quanto in essa entra, cioè quando attribuiva alla psicologia “praticamente l’intero regno dell’esperienza diretta” e riconosceva “un lato psicologico ad ogni cosa che può essere conosciuta nei limiti in cui ogni cosa che si sa che esiste deve essere collegata alla nostra esperienza e conosciuta mediante un processo psichico. Nei limiti in cui ogni cosa reale è conosciuta, entra in essa un processo di esperienza e questo processo è di competenza della scienza della psicologia. “I processi psicologici sono i veicoli della verità ed i valori logici devono essere reperiti nel fatto psicologico o in nient’altro”. Lo Schiller accusava la logica formale di disumanizzare il pensiero e di preferire l’alleanza con la metafisica all’alleanza con le scienze empiriche. Riteneva che il pensiero cominci sempre quando c’è un problema da risolvere, quindi nasca sempre su basi biologiche ed in un contesto di condizionamenti emotivi, finalisti ed ambientali, ma nel suo procedere non conosce che tappe di natura psicologica. Che sarebbe la certezza senza il sentimento di certezza? E non si può dire la stessa cosa per il significato di tutti i concetti logici? Lo Schiller, conformemente alla prospettiva pscologistica, considerava il linguaggio come attività espressiva dello svolgersi interiore di sentimenti, emozioni, intenzioni e stati psichici, quindi faceva consistere il significato delle parole e delle espressioni in elementi di questo processo interiore ed affermava che “il significato effettivo è sempre un fatto psichico”. Schiller sosteneva che i significati si acquisiscono con l’uso delle parole, grazie al quale ci si accosta ai significati medi di esse, cioè a quel tanto di comune che esiste fra i fatti psichici che costituiscono i significati effettivi delle singole parole in tutte le persone che ne fanno uso. Ovviamente questo significa ammettere che una certa ambiguità non è mai del tutto eliminabile dal campo semantico. * Dirigente Tecnico M.I.U.R. ** Docente Secondaria