La rivoluzione bolscevica del 1917 ebbe un`importanza centrale

La rivoluzione bolscevica del 1917 ebbe un’importanza centrale nella storia del Novecento, tanto che le sue
ripercussioni furono paragonate a quelle della Rivoluzione francese nell’Ottocento: la presa del Palazzo d’Inverno a
Pietrogrado, sede del governo e in precedenza dello zar, ne scoccò l’ora d’inizio e ne è divenuta l’evento simbolico,
cosi com’era accaduto per la Rivoluzione francese con la presa della Bastiglia a Parigi il 14 luglio 1789. Lo scoppio
della rivoluzione russa, le cui cause furono strettamente legate alla Prima guerra mondiale, portò a trasformazioni
epocali sul piano economico-sociale che oltrepassarono i confini nazionali. Alla rivoluzione bolscevica si deve la
nascita di un nuovo Stato, il primo Stato socialista della storia che, oltre a capovolgere le strutture del vecchio Impero
zarista, si impose come possibile alternativa al sistema capitalistico del mondo occidentale e industrializzato. I principi
di giustizia sociale che stavano alla base di un nuovo modello economico diventarono, ben presto, punto di riferimento
per il movimento operaio internazionale che, sulla scia dell’esempio russo, auspicava una diffusione della rivoluzione
su scala planetaria. Lo stesso partito bolscevico costituì un modello per tutti i rivoluzionari che gli riconoscevano un
ruolo fondamentale nell’organizzazione dell’insurrezione e nella creazione del nuovo Stato. L’esperienza sovietica
diventerà a sua volta, successivamente, modello per nuovi Stati. Nel 1917 – con quell’evento simbolico – ebbe inizio
una storia che si sarebbe conclusa oltre settant’anni dopo, nel 1991: diversi e contrastanti i giudizi, tanto degli studiosi
quanto dei politici, su vicende i cui esiti si rivelarono drammatici, ma che certamente, come ha sostenuto lo storico
inglese Eric J. Hobsbawm nel suo libro Il secolo breve, hanno segnato per intero il Novecento.
5.1 La crisi del regime zarista
Crisi economica e sociale. Gli esiti della rivoluzione russa del 1905 avevano deluso le aspettative di quanti
auspicavano – soprattutto tra gli esponenti dei partiti liberal-democratici – un’evoluzione parlamentare del paese che
garantisse maggiori libertà politiche e alleviasse il disagio delle classi popolari. Lo sviluppo industriale che aveva
interessato la Russia dalla fine dell’Ottocento non aveva colmato il ritardo nei confronti degli altri paesi occidentali e
non era riuscito a cambiare il volto essenzialmente agricolo del paese: il 75% della popolazione era occupato
nell’agricoltura e solo l’11% nell’industria. Le condizioni di lavoro erano particolarmente dure e gli operai erano
costretti a massacranti turni di 10-12 ore di lavoro. Altrettanto difficile appariva la situazione nelle campagne. La
riforma agraria attuata dal ministro Stolypin nel 1906, se da un lato aveva favorito l’introduzione del capitalismo nelle
campagne, dall’altro non aveva colpito il latifondo, ancora molto potente e diffuso. La maggior parte dei contadini
continuava a vivere in condizioni di estrema povertà e con terreni insufficienti. La Russia rimaneva, cosi, schiacciata
tra una progressiva industrializzazione e il persistere di residue strutture feudali, che avevano impedito alla borghesia
e alle classi subalterne un’effettiva partecipazione al potere politico, ancora strettamente legato agli ordinamenti
tradizionali.
L’intervento in guerra. La partecipazione della Russia alla Prima guerra mondiale a fianco dell’Intesa fece esplodere
le profonde contraddizioni e le gravi tensioni sociali che attraversavano il paese, determinando la crisi irreversibile
dell’Impero zarista. All’inizio del 1917 la situazione economico-sociale era particolarmente difficile: dopo tre anni di
guerra, le perdite militari ammontavano a 7 milioni tra morti, feriti e prigionieri. La richiesta di nuovi arruolamenti aveva
sottratto un numero crescente di uomini, soprattutto contadini, al ciclo produttivo, provocando cosi un generalizzato
abbassamento del tenore di vita della popolazione. Il sistema di approvvigionamento era inefficiente e nelle città
mancavano viveri e combustibile. Il malcontento della popolazione si fece sempre più forte, con manifestazioni di
protesta e rivolte, fino all’esplodere degli scioperi delle principali fabbriche di Pietrogrado nel mese di marzo
(febbraio, secondo il calendario giuliano, allora in uso in Russia). Uno dei primi segnali della ribellione fu la
manifestazione organizzata per commemorare la giornata internazionale della donna.
5.2 La rivoluzione di febbraio
Lo sciopero di Pietrogrado. La protesta degli operai partì dalle officine siderurgiche Putilov, a Pietrogrado, e
coinvolse in breve tempo le principali fabbriche della capitale che il 25 febbraio 1917 proclamarono lo sciopero
generale. L’esercito, mandato dallo zar Nicola II a reprimere le manifestazioni di dissenso, si rifiutò di sparare sulla
folla e, al contrario, fece causa comune con gli insorti. In pochi giorni la situazione precipitò: i moti insurrezionali si
diffusero nel resto delle città e nelle campagne; il governo fu ridotto all’impotenza e lo zar risultò nei fatti esautorato.
La Duma si espresse a favore di un nuovo governo, ma Nicola II la sciolse. Ciononostante, il 2 marzo i rappresentanti
dei partiti liberali, riuniti in comitato, formarono un governo provvisorio e decisero la deposizione dello zar. A questo
punto Nicola II, nell’estremo tentativo di mantenere la monarchia al potere, abdicò in favore del fratello granduca
Michele, che pero rifiutò la corona. L’intera famiglia reale fu tratta in arresto: era la fine della monarchia e della
dinastia Romanov in Russia.
Il governo provvisorio. Il primo governo provvisorio, presieduto dal principe liberale Georgij E. L’vov, era costituito
dal Partito dei cadetti, di ispirazione borghese, e dagli esponenti dell’ala monarchico-costituzionale che avevano
appoggiato la rivoluzione del 1905 (i cosiddetti “ottobristi”), con la partecipazione del socialista-rivoluzionario
Aleksandr F. Kerenskij, al quale fu affidato il ministero della Giustizia. Gli obiettivi principali del governo erano, da
una parte, l’avvio di una fase politica liberal-parlamentare e, dall’altra, la continuazione della guerra contro la
Germania, mantenendo la Russia all’interno del sistema di alleanze precedente lo scoppio della rivoluzione.
Il Soviet di Pietrogrado. Contemporaneamente, era nato a Pietrogrado il Soviet di operai e soldati, espressione
diretta delle masse popolari, formato da menscevichi, bolscevichi, socialisti-rivoluzionari, che divenne un
organismo di potere politico alternativo a quello del governo. Si creò un vero e proprio “doppio potere” che, oltre a
rispecchiare le profonde fratture della società russa, diede origine a una situazione istituzionale particolarmente
instabile. Differenti e talvolta opposte erano infatti le posizioni di Soviet e governo provvisorio su questioni di estrema
importanza, quali la riforma agraria − caldeggiata da socialisti-rivoluzionari e menscevichi, e ostacolata dai proprietari
latifondisti che appoggiavano il governo − e la continuazione della guerra, a cui si opponevano i bolscevichi, una parte
dei menscevichi e una minoranza dei socialisti-rivoluzionari.
Il ritorno di Lenin. Nei primi giorni di aprile, Lenin, il leader dei bolscevichi, rientrò in Russia dal suo esilio svizzero
con la copertura del governo tedesco, che contava di indebolire il fronte russo assecondando posizioni rivoluzionarie
e contrarie – come era quella di Lenin – al proseguimento della guerra. Giunto a Pietrogrado, diffuse un documento –
che diventerà noto come “tesi di aprile” – in cui proponeva la cessazione immediata del conflitto, la
nazionalizzazione delle terre e delle banche, il passaggio dei poteri dal governo ai Soviet, ai quali doveva spettare il
controllo sociale della produzione: Lenin indicava la questione della presa del potere come imminente in Russia,
rovesciando la teoria marxista secondo la quale la rivoluzione sarebbe scoppiata nei paesi maggiormente
industrializzati e non in quelli arretrati.
Disaccordi. Se il programma bolscevico ottenne il consenso della popolazione, stanca della guerra e favorevole a
una radicale riforma agraria, allo stesso tempo, causò un crescente allontanamento tra il partito di Lenin e gli altri
gruppi socialisti, che entrarono a far parte del secondo governo provvisorio, sempre presieduto da L’vov (maggio).
Menscevichi e socialisti rivoluzionari accettarono, infatti, di condividere l’esercizio del potere, sostenendo le posizioni
sulla guerra e mettendo da parte le rivendicazioni dei contadini. Solo i bolscevichi rifiutarono la partecipazione al
governo: si delineava cosi un’opposta visione delle prospettive rivoluzionarie.
La crisi di luglio. Nel frattempo, l’insofferenza della popolazione si faceva sempre più forte. Particolarmente
drammatica era la situazione nelle campagne, dove i contadini poveri si resero protagonisti di assalti alle terre dei
grandi proprietari. L’esasperazione della popolazione raggiunse il culmine con violente contestazioni di piazza ai
primi giorni di luglio, in seguito alla sconfitta dell’esercito russo in Galizia. L’offensiva organizzata dal ministro della
Guerra Kerenskij portò allo sfaldamento dell’esercito, interessato, sempre più spesso, da episodi di ribellione e
ammutinamento fra i soldati. In quegli stessi giorni, il Soviet di Pietrogrado, sostenuto dai soli bolscevichi, tentò di
prendere il potere. Il tentativo fallì e il governo scatenò una durissima repressione nei confronti del Partito bolscevico
e dei suoi dirigenti, molti dei quali furono arrestati o costretti alla fuga, come Lenin che riparò in Finlandia.
Il tentativo di colpo di Stato di Kornilov. La sconfitta militare aveva provocato la crisi del governo L’vov, che fu
sostituito da Kerenskij alla guida di una coalizione composta in gran parte da socialisti moderati (agosto). Contro il
nuovo esecutivo si formò un fronte avverso, guidato dal comandante supremo dell’esercito Lavr G. Kornilov, ritenuto
il solo capace di riportare l’ordine e la stabilita politica. Forte dell’appoggio della borghesia e degli alti comandi militari,
Kornilov si preparò a marciare su Pietrogrado (26 agosto). Kerenskij fece appello alla popolazione e ai Soviet che,
sotto la guida dei bolscevichi, riuscirono a bloccare il tentativo di colpo di Stato. Il ruolo di primo piano avuto nella
mobilitazione popolare rafforzo la posizione dei bolscevichi: rientrato clandestinamente, Lenin si convinse che i tempi
erano maturi per la presa del potere.
5.3 Lenin e la rivoluzione d’ottobre (1917)
Presa del Palazzo d’Inverno. Il 10 ottobre si riunì a Pietrogrado il comitato centrale del Partito bolscevico che votò a
maggioranza la proposta di rovesciare il governo Kerenskij e prendere il potere con un’azione militare. Lenin dovette
affrontare le opposizioni dei suoi stessi compagni contrari all’insurrezione, timorosi che un’azione cosi risoluta da
parte del proletariato potesse suscitare l’ostilità della piccola borghesia, mentre potè contare sull’appoggio di Stalin
(Iosif Džugašvili, 1879-1953) e di Trockij (Lev Bronštein, 1879-1940). Quest’ultimo, alla guida del Soviet di
Pietrogrado, divenuto presidente del Comitato militare rivoluzionario, ebbe un ruolo di primo piano nella direzione
delle operazioni militari. L’insurrezione avvenne la notte tra il 24 e il 25 ottobre (6-7 novembre per il calendario
gregoriano) per mano di operai, soldati e marinai che, in poche ore e quasi senza incontrare resistenza, riuscirono ad
occupare i punti nevralgici della città. La sera del 25 ottobre fu preso d’assalto il Palazzo d’Inverno, sede del governo
provvisorio, dove erano presenti alcuni ministri che furono arrestati. Kerenskij riuscì a fuggire all’estero. Il Soviet di
Pietrogrado salutando la vittoriosa rivoluzione, esprimeva piena soddisfazione per l’unità, l’organizzazione e la
perfetta cooperazione dimostrata dalle masse nell’occasione: raramente è stato versato meno sangue e raramente
un’insurrezione ebbe un più completo successo. Cosi si legge nella puntuale ricostruzione di quelle giornate fatta dal
giornalista americano John Reed in Dieci giorni che sconvolsero il mondo, la cui lettura era raccomandata dallo
stesso Lenin agli operai di tutto il mondo.
Il governo rivoluzionario. Nella stessa giornata del 25 ottobre, si riunì il Congresso pan russo dei Soviet, formato
dai rappresentanti di tutti i Soviet dell’ex Impero russo, che legittimò la nuova situazione politica, conferendo ai
bolscevichi l’incarico di formare un nuovo governo, a cui venne dato il nome di Consiglio dei commissari del popolo. Il
Consiglio era composto esclusivamente da bolscevichi e presieduto da Lenin: Trockij fu nominato commissario degli
affari esteri e Stalin commissario alle nazionalità. Solo in un secondo momento entrarono a farne parte tre esponenti
della sinistra dei socialisti-rivoluzionari.
I decreti di ottobre. Il primo atto del governo rivoluzionario fu l’approvazione di due decreti che andavano a
soddisfare le richieste più urgenti della popolazione: la pace e la terra. Il primo prevedeva trattative immediate con
tutti i belligeranti per una pace giusta e democratica, senza annessioni né indennità; il secondo stabiliva l’abolizione
immediata e senza indennizzo della grande proprietà terriera e la nazionalizzazione delle terre che, in altissima
percentuale (86%), furono ridistribuite ai contadini, sotto il controllo dei Soviet di villaggio, mentre solo una minima
parte (l’11%) andò allo Stato. Successivamente fu sancito per decreto il controllo operaio delle fabbriche e fu
regolata la questione delle nazionalità, riconoscendo l’uguaglianza e il diritto all’autodeterminazione di tutti i popoli
della Russia.
L’Assemblea Costituente. Le altre forze politiche protestarono vivamente contro il “colpo” bolscevico e decisero di
abbandonare il Congresso, rompendo ogni rapporto di collaborazione politica. Alla denuncia non seguì, tuttavia,
alcuna soluzione violenta o di sabotaggio nei confronti del nuovo gruppo al potere: i partiti moderati confidavano nella
convocazione dell’Assemblea Costituente, la cui elezione, a suffragio universale, già prevista dal governo Kerenskij,
era stata fissata per novembre. Il risultato delle urne fu, in effetti, assai deludente per i bolscevichi che riuscirono a
conquistare solo 175 seggi (pari a 9 milioni di voti) su 707, contro i 410 seggi (21 milioni di voti) ottenuti dai socialistirivoluzionari, fortemente sostenuti dall’elettorato rurale. Scarso il consenso raccolto da cadetti (17 seggi) e
menscevichi (16 seggi). Lenin non era però disposto a rinunciare al potere appena conquistato, né a soccombere in
nome delle regole dello Stato democratico borghese, strumento di dominio di una minoranza sulla maggioranza della
popolazione che − come egli scrisse in Stato e rivoluzione (1917) − sarebbe stato soppresso dalla rivoluzione
socialista. Fu sulla base di queste motivazioni che il giorno dopo la sua prima convocazione, avvenuta il 18 gennaio
1918, l’Assemblea Costituente fu sciolta dal Congresso dei Soviet.
5.4 La guerra civile e il terrore rosso
Il trattato di Brest-Litovsk. Il 3 marzo 1918 il governo bolscevico firmò una pace separata con la Germania, che
sanciva l’uscita della Russia dalla Prima guerra mondiale. Il trattato di Brest-Litovsk prevedeva condizioni durissime e
un ridimensionamento territoriale dell’ex Impero zarista, che rinunciava alla Polonia, la Finlandia, l’Estonia, la
Lettonia e la Lituania, divenute subito dopo indipendenti, con conseguente perdita di un quarto della popolazione e
della meta degli impianti industriali. Lenin, dopo avere superato le perplessità degli stessi bolscevichi, inizialmente
contrari all’accettazione di clausole ritenute estremamente severe, dovette combattere la forte opposizione delle altre
forze politiche, in particolare, dei socialisti-rivoluzionari, compresa la corrente di sinistra che decise di ritirare i suoi
rappresentanti dal Consiglio dei commissari.
Guerra civile 1918-1920. L’esito delle trattative con la Germania e lo scioglimento forzato dell’Assemblea Costituente
indussero numerosi esponenti del Partito socialista-rivoluzionario e di quello menscevico a unirsi alle forze
controrivoluzionarie (“armate bianche”) che, a partire dalla fine del 1917, si andavano organizzando in varie regioni
del paese, sotto la guida di ex ufficiali zaristi. I “bianchi” composti principalmente da esponenti monarchicoconservatori, ebbero anche l’appoggio di Francia, Inghilterra, Giappone e Stati Uniti, che volevano punire l’uscita della
Russia dal conflitto, giudicata un tradimento, e scongiurare il “contagio” bolscevico nel resto d’Europa. Per combattere
contro le armate bianche, nel gennaio 1918, l’esercito russo fu riorganizzato sotto la guida di Trockij e assunse il
nome di Armata rossa, mentre la capitale, a causa del pericolo imminente, fu spostata da Pietrogrado a Mosca.
Iniziava cosi una cruenta guerra civile, che terminò dopo due anni di scontri e milioni di perdite da entrambe le parti.
La prima drammatica conseguenza fu la fucilazione dell’intera famiglia reale (17 luglio 1918), imprigionata nella città
di Ekaterinenburg, negli Urali, ordinata dai bolscevichi per evitare che fosse liberata dai controrivoluzionari.
La guerra con la Polonia. Terminata la guerra civile, il governo rivoluzionario subì l’attacco della Polonia,
insoddisfatta dei confini stabiliti a Parigi e mossa da mire espansionistiche in Ucraina. Nella primavera del 1920
l’esercito polacco invase il territorio russo, arrivando fino a Kiev. La risposta bolscevica non si fece attendere, ma,
dopo essere giunta alle porte di Varsavia, l’Armata rossa fu costretta a ritirarsi. La guerra si concluse con il trattato di
Riga (marzo 1921) che assegno alla Polonia ampie zone della Bielorussia e dell’Ucraina.
Il comunismo di guerra. La partecipazione al conflitto mondiale e lo scoppio della guerra civile avevano portato la
Russia sull’orlo del collasso economico: la produzione industriale era diminuita del 75% rispetto all’anteguerra, i
trasporti non funzionavano, cosi come i circuiti degli scambi economici fra città e campagna. La popolazione soffriva
la fame e il freddo. Per cercare di far fronte alla drammatica situazione, nell’estate del 1918, Lenin varò una serie di
provvedimenti straordinari, basati sul controllo statale di tutti i settori economici. Tali misure, note come “comunismo
di guerra”, prevedevano la nazionalizzazione delle industrie, la soppressione del commercio privato e il passaggio
nelle mani del potere centrale della produzione agricola e di tutte le risorse materiali e alimentari. Per garantire
l’approvvigionamento dell’esercito e l’arrivo di derrate alimentari nelle città furono imposte, a danno dei contadini,
requisizioni forzate dei prodotti agricoli che provocarono violente sommosse nelle campagne.
Il terrore rosso. La necessità di difendere la rivoluzione dagli attacchi interni ed esterni portò il regime bolscevico ad
accentuare i tratti autoritari. Nel dicembre 1917 era stata istituita la CEKA (Commissione speciale panrussa per la
lotta alla controrivoluzione e al sabotaggio) che, con l’ausilio del Tribunale rivoluzionario centrale, creato con il
compito di processare chiunque rappresentasse una minaccia per il nuovo assetto politico, divenne il principale
strumento di repressione. Nel giugno 1918 fu decisa la soppressione di tutti i partiti e la subordinazione di Soviet e
sindacati al Partito bolscevico, ponendo cosi le basi per l’instaurazione di una dittatura a partito unico. Migliaia di
oppositori furono imprigionati e quanti ne ebbero la possibilità fuggirono all’estero: si calcola che tra il 1918 e il 1926
emigrò un milione di persone.
La III Internazionale. Per il movimento operaio a livello internazionale e per i partiti socialisti di tanti paesi il nuovo
Stato nato dalla rivoluzione bolscevica divenne invece un punto di riferimento, la dimostrazione che una rivoluzione
socialista poteva essere attuata. Nel marzo 1919, su iniziativa di Lenin, nacque a Mosca la III Internazionale, che fu
chiamata Internazionale comunista (Comintern) per sottolineare il distacco dalla II Internazionale. Si trattò di una
rottura con il passato e con i partiti socialdemocratici che venivano accusati sia di avere tradito gli ideali
internazionalisti allo scoppio della guerra, sia di essersi posti, alla fine del conflitto, contro i tentativi insurrezionali
avvenuti in Germania e in diversi paesi del centro Europa. La nuova organizzazione si poneva l’obiettivo di guidare la
rivoluzione socialista mondiale, secondo il modello sovietico. Le linee per una comune azione politica vennero
enunciate al suo II congresso (Mosca, luglio-agosto 1920) e riassunte nelle 21 condizioni di ammissione che
prevedevano l’espulsione delle scorie riformiste, come si affermava, e la formazione di un unico partito del proletariato
internazionale, fortemente centralizzato e disciplinato. I partiti aderenti, inoltre, avrebbero dovuto cambiare il proprio
nome in Partito comunista, seguendo l’esempio del partito bolscevico che, già dal 1918, aveva assunto il nome di
Partito comunista russo (bolscevico). I gruppi non comunisti della II Internazionale, invece, diedero vita più avanti ad
Amburgo all’Internazionale operaia e socialista (IOS) (1923).
La rivolta di Kronstadt. La crescente insofferenza dei contadini nei confronti dei provvedimenti del comunismo di
guerra, la drammatica situazione di miseria, peggiorata da una terribile carestia che provocò circa 5 milioni di vittime,
portarono a un’ondata di scioperi e insurrezioni che si diffusero in tutto il paese e che raggiunsero l’apice nel marzo
1921, quando a insorgere furono i marinai della base navale di Kronstadt, che erano stati protagonisti della rivoluzione
d’ottobre. Le rivolte furono represse nel sangue, ma lo stesso Lenin si rese conto della necessità di promuovere il
progresso delle forze produttive, intervenendo sulla politica economica.
La Nuova politica economica. Per facilitare la ripresa dell’economia fu quindi adottata la Nuova politica economica
(NEP) che prevedeva una parziale liberalizzazione della produzione e promuoveva una limitata introduzione
dell’economia di mercato e dell’iniziativa privata. Quello portato avanti da Lenin fu un tentativo di conciliare la gestione
collettiva dello Stato, che continuava a mantenere il monopolio della grande industria e del commercio estero, con
elementi dell’economia capitalista. I risultati furono positivi sia in campo industriale che agricolo, e la popolazione
poteva riprendere fiato dopo anni di privazioni e requisizioni. Tuttavia l’introduzione della NEP e la ripresa della
produttività permisero ai kulaki di riaffermare il proprio controllo sul mercato agricolo.
La nascita dell’URSS. Lo Stato nato dalla rivoluzione bolscevica definì il suo assetto istituzionale nel X Congresso
panrusso dei Soviet, tenutosi nel dicembre 1922, con la nascita dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche
(URSS), attraverso la conclusione di un trattato federativo tra Repubblica federale socialista sovietica russa (nata
nel luglio 1918) e le Repubbliche socialiste della Transcaucasia (Georgia, Armenia e Azerbaigian), dell’Ucraina e della
Bielorussia, che fu successivamente esteso a Uzbekistan e Turkmenistan (1925), Tagikistan (1929), Kazakistan e
Kirghizistan (1936). La nuova Costituzione (luglio 1923) distingueva tra le competenze dell’Unione (politica estera,
commercio estero, pianificazione economica, difesa, assistenza sociale) e quelle delle repubbliche, cui era consentito
staccarsi dall’Unione: in realtà l’URSS era uno Stato multietnico, ma fortemente centralizzato. Massimo organo
legislativo dello Stato era il Soviet supremo, formato dai delegati dei Soviet delle varie repubbliche, il quale eleggeva
un comitato esecutivo (Presidium) retto da un presidente che esercitava le funzioni di capo dello Stato. Il governo era
affidato al Consiglio dei commissari del popolo (ministri). Nel 1925 il partito assunse il nome di Partito comunista
dell’Unione Sovietica (bolscevico) (PCUS).
Le riforme civili. Oltre alle trasformazioni in campo economico e politico, lo Stato sovietico promosse alcune riforme
civili, che cambiarono profondamente il volto della vecchia società russa. L’attenzione si concentrò soprattutto
sull’istruzione dei giovani, resa obbligatoria fino ai 15 anni, e sulla lotta alla Chiesa ortodossa, la cui influenza fu
fortemente ridimensionata. Il matrimonio religioso fu abolito e sostituito da quello civile; furono semplificate le
procedure per l’ottenimento del divorzio e abrogata la legge zarista contro l’omosessualità; fu inoltre riconosciuto il
diritto universale al lavoro. Rispetto ai diritti delle donne furono approvati i decreti che sancivano l’assoluta parità tra i
sessi (1917) e la legalizzazione dell’aborto (1920). Lo stesso Lenin aveva trattato, in più di un’occasione, il tema della
“liberazione della donna”, identificando nella schiavitù del lavoro domestico, definito il più improduttivo, meschino e
opprimente, una delle principali cause della sua condizione di oppressione. La questione dell’emancipazione
femminile acquisì importanza nel dibattito politico, grazie all’impegno di numerose donne che sposarono la causa
rivoluzionaria, come Aleksandra Kollontaj che fu una delle prime intellettuali marxiste a ridefinire il ruolo della donna
in una società socialista e ad affrontare la discussione sulla trasformazione dei rapporti fra i sessi.
Cultura, ideologia e propaganda. Una nuova stagione culturale e di sperimentazione artistica accompagnò i primi
anni della rivoluzione, salutata con entusiasmo da opere letterarie, artistiche, teatrali e cinematografi che ne furono
protagonisti, tra gli altri, i poeti futuristi Majakovskij e Chlebnikov, i registi Eisenstein, Pudovkin e Mejerchold, i
pittori Malevicˇ, Lisickij e Tatlin. Non tutti sposarono la causa bolscevica e molti scelsero la strada dell’emigrazione.
Fu però l’ideologia ad assumere un peso sempre crescente: il pensiero di Marx e soprattutto quello di Lenin dovevano
essere la lente attraverso la quale leggere la realtà. Tutto doveva essere finalizzato alla costruzione del primo Stato
socialista della storia e al benessere dei suoi lavoratori: la propaganda svolta dal PCUS e dalle sue organizzazioni
collaterali doveva contribuire a enfatizzare le conquiste della rivoluzione e a dimostrare che si stavano creando una
nuova società e un “mondo migliore”.
5.5 La morte di Lenin e il consolidamento di Stalin
Lo scontro nel Partito comunista. Il 21 gennaio 1924, Lenin morì a causa di una malattia che già da qualche anno
ne aveva ridotto l’attività. La sua morte diede il via a una feroce lotta per la successione, dalla quale emersero due
principali rivali: Trockij e Stalin. Quest’ultimo, segretario del Partito comunista dal 1922, era riuscito – nonostante
Lenin avesse espresso critiche sulla sua gestione – a rafforzare il proprio potere personale: la sua piena conquista del
potere fu intrecciata con il mutamento della politica economica del paese e con il degenerare della lotta all’interno del
partito che portò all’eliminazione di tutti coloro che lo contestarono.
Stalin e Trockij. Già nel corso degli anni Venti Stalin si fece sostenitore della necessità che l’Unione Sovietica si
rafforzasse al proprio interno: invece di propugnare gli ideali internazionalisti che avevano caratterizzato la rivoluzione
bolscevica, Stalin dichiaro che l’URSS poteva sopravvivere anche se il socialismo non si fosse diffuso negli altri paesi,
ma a condizione che fosse costruito uno Stato solido in grado di avere il controllo della popolazione e dei processi
produttivi. A questa teoria – che fu chiamata del socialismo in un solo paese – si oppose l’altro protagonista della
rivoluzione, Trockij, secondo il quale la costruzione della società socialista si sarebbe realizzata in tempi lunghi e solo
quando la rivoluzione si fosse compiuta anche negli altri paesi e il comunismo si fosse affermato a livello
internazionale (la sua teoria fu chiamata per questo della rivoluzione permanente). Le divergenze politiche
implicavano anche differenze in merito ai provvedimenti di natura economica da adottare, essendo Trockij contrario
all’obiettivo indicato da Stalin di dare inizio a tappe forzate al processo di industrializzazione del paese e favorevole
a un ritmo più lento, che tenesse conto anche dell’esigenza di migliorare il livello di vita del proletariato e le condizioni
delle campagne. Trockij criticava anche la degenerazione burocratica del partito, dovuta alla stretta connessione con
lo Stato, che ne limitava la libertà e l’elasticità, nonché l’eccessiva concentrazione di potere nelle mani del segretario
generale.
Eliminazione dell’opposizione. Stalin non ammise posizioni differenti dalle proprie e nel giro di pochi anni si liberò
dei suoi oppositori. In primo luogo, rivolse il proprio attacco a Trockij, che fu espulso dal PCUS e, nel 1929,
dall’URSS. Potendo contare sull’appoggio di Nikolaj I. Bucharin, influente membro del comitato centrale del partito,
Stalin passò quindi alla liquidazione di Grigorij Zinov’ev, presidente dell’esecutivo del Comintern, e di Lev Kamenev,
tra i più stretti collaboratori di Lenin (era stato il plenipotenziario sovietico nella trattativa di pace di Brest-Litovsk), suoi
alleati contro Trockij, espulsi nel 1927; successivamente, emarginò anche Bucharin, che dopo il sostegno iniziale
contestò la politica di industrializzazione forzata: saranno tutti eliminati – come vedremo – negli anni successivi. La
stessa sorte toccò a qualsiasi altro dirigente o semplice militante del PCUS che Stalin riteneva potesse fargli ombra o
divenire un suo nemico. In Unione Sovietica si diffuse in maniera ossessiva la teoria del complotto: ogni posizione
divergente da quella di Stalin era ritenuta un attentato alla rivoluzione e chi la sosteneva un avversario pericoloso allo
stesso modo dei borghesi e dei capitalisti, e quindi, come tale, da eliminare. La repressione staliniana intervenne
anche sul piano culturale e civile, censurando le stesse avanguardie artistiche e reintroducendo – nel corso degli anni
Trenta – alcune leggi che erano state abolite dopo la rivoluzione, come quelle contro l’omosessualità e contro l’aborto.
Il primo piano quinquennale. Una volta sconfitti i maggiori oppositori, Stalin poté concentrarsi sul suo obiettivo:
rendere l’Unione Sovietica una grande potenza industriale e militare, in grado di competere con i paesi capitalistici.
Alla fine degli anni Venti fu abbandonata la NEP e furono varati i piani quinquennali, finalizzati – come dichiarò Stalin
lanciando il primo piano nel 1928 – a liquidare l’arretratezza tecnica ed economica dell’Unione Sovietica e a creare
nel paese condizioni tali che gli dessero la possibilità non solo di raggiungere, ma col tempo anche di superare
tecnicamente ed economicamente i paesi capitalistici più progrediti. Il primo piano quinquennale (1928-33) impresse
una forte accelerazione alla produzione industriale sovietica, che aumento del 50%, anche se non portò a un
miglioramento delle condizioni di vita della popolazione e degli operai.