Tesi di laurea magistrale di Matteo Martini

II. UNA FILOSOFIA CHE PARLA DELLA VITA
1. Introduzione
In questo capitolo intendo prendere in considerazione la filosofia di Nietzsche partendo dai suoi
aspetti più strettamente legati alla vita e, oserei dire, alla quotidianità; cercherò soprattutto di
mettere in risalto quelle parti del pensiero nietzscheano che scaturiscono, appunto, dalla vita di tutti
i giorni, a tal punto che forse qualcuno potrà pensare che ciò di cui parlerò non è “filosofia” nel
significato comune del termine, ossia che si tratta di riflessioni troppo legate alla vita reale, quella
che quotidianamente viviamo tutti noi.
Al contrario, ritengo che la grandezza di Nietzsche risieda anche, per non dire soprattutto, nella
sua capacità di osservazione, nel suo riuscire a cogliere gli aspetti del mondo che lo circonda (che è
anche il nostro mondo), anche quelli più sottili e impercettibili; Nietzsche, possiamo dire, è un
“genio della quotidianità”.
Nella vita di tutti i giorni, in tutto quello che facciamo, noi abbiamo soprattutto “intenzioni”; ed
ecco che il filosofo, forse in maniera eccessivamente generalizzante, osserva:
Tutto ciò che avviene per un’intenzione si può ridurre all’intenzione di aumentare la potenza.1
Nietzsche sembra riferirsi in queste righe agli esseri umani e agli animali; tuttavia, secondo il
pensatore la volontà di potenza, ossia un tendere costantemente a un aumento della potenza, è una
legge alla quale non sfuggono neppure le piante e addirittura nemmeno le cose che compongono il
mondo inorganico. Per quanto riguarda le piante, osserva:
“L’uomo tende alla felicità”, ad esempio: che c’è di vero in questo? Per comprendere che cosa è
vivere, quale specie di sforzo e di tensione sia la vita, la formula deve valere tanto per l’albero e
la pianta quanto per l’animale. […] … ogni espandersi, incorporare, crescere, è tendere a una
resistenza: il movimento è essenzialmente congiunto a stati di dispiacere; ciò che qui dà
l’impulso deve in ogni caso volere qualcosa d’altro, giacché vuole così il dispiacere e lo cerca
continuamente. Perché combattono fra loro gli alberi di una foresta vergine? Per la “felicità”?
Per la potenza!2
Ma anche il mondo inorganico, dicevamo, è, secondo Nietzsche, governato dalla volontà di
potenza; il mondo stesso è “volontà di potenza”, tesi, questa, che trapela con la massima chiarezza
1
2
F. Nietzsche, La volontà di potenza, cit., af. 663.
Ivi, af. 704.
36
dall’aforisma che la sorella del filosofo e il discepolo Heinrich Köselitz hanno scelto per concludere
La volontà di potenza; tale aforisma, piuttosto lungo, termina così:
… per questo mondo volete un nome? Una soluzione per tutti i suoi enigmi? E una luce anche
per voi, i più nascosti, i più forti, i più impavidi, o uomini della mezzanotte? Questo mondo è la
volontà di potenza – e nient’altro! E anche voi siete questa volontà di potenza – e nient’altro!3
Il filosofo tedesco ritiene che anche la forza di gravità sia una manifestazione della volontà di
potenza; ed ecco allora che anche fra i pianeti (e quindi in tutto l’universo) è sempre la volontà di
potenza, sotto forma di gravità, a stabilire i rapporti di forza; si potrebbe dire, ad esempio, che
siccome la Luna ruota intorno alla Terra, ed è quindi assoggettata alla gravità terrestre, la Terra ha
un grado di potenza maggiore rispetto alla Luna; la Terra, a sua volta, essendo come tutti i pianeti
del sistema solare “prigioniera” della gravità del Sole, ha un grado di potenza minore rispetto al
Sole stesso. In un certo senso, quindi, sembra che per Nietzsche anche la materia possa avere
“intenzioni”. Il pensatore intende proprio questo quando parla di “volontà di potenza”, ossia una
legge inquietante e ineluttabile che determina tutti gli accadimenti, e che guida le intenzioni di tutto
ciò che esiste, dalle più minuscole particelle ai pianeti.
Osserva:
La volontà di accumulare energia è specifica del fenomeno della vita, per la nutrizione, la
generazione, l’ereditarietà – per la società, lo Stato, i costumi, l’autorità. Non potremmo
ammettere che questa volontà sia la causa motrice anche nella chimica? E nell’ordine cosmico?4
Anche ogni essere vivente, ovviamente, sia esso uomo, animale o pianta, è, secondo il filosofo,
spinto all’agire da una volontà che ha come unico scopo un aumento della potenza; una definizione
precisa di “potenza” non può essere data; degli alberi abbiamo parlato, mentre per quanto riguarda
gli animali, osserva Nietzsche, l’aumento della potenza viene ricercato già nell’atto di alimentarsi;
per gli uomini la potenza può essere intesa nel suo significato più classico, ossia come potere
politico, oppure come ricchezza, oppure ancora come generazione di figli per ottenere una sorta di
immortalità; il voler crescere, in ogni senso, equivale a voler aumentare la potenza.
Nella filosofia nietzscheana c’è molta “quotidianità”, e l’ammirazione del pensatore per
Schopenhauer è comprensibile se si considera che, come osserva Paolo Scolari, Schopenhauer
elabora prima di Nietzsche una filosofia che scaturisce dalla vita reale; dice Scolari:
3
4
Ivi, af. 1067.
Ivi, af. 689.
37
Schopenhauer viene assunto da Nietzsche quale pensatore tipo e figura esemplare di intellettuale
della società della sua epoca. La sua è l’unica filosofia moderna “vissuta” prima che “pensata”,
che esprime una scelta di vita. In effetti, Schopenhauer non fu un “intellettuale di professione”:
non fece mai della filosofia una mera occupazione intellettuale, né tantomeno un lavoro da
svolgere al servizio dello Stato, in vista del successo e del guadagno.5
La filosofia di Nietzsche è quindi una “filosofia della vita”, che talvolta diventa anche una
“filosofia di vita”, ossia una filosofia che scaturisce dalle reali esperienze di chi l’ha concepita e che
indica come si debba agire in determinate situazioni, senza però assumere mai i toni della predica;
osserva Eugen Fink:
Nietzsche ha dato, come disse una volta Scheler, alla parola «vita» la risonanza dell’oro; egli ha
fondato la «filosofia della vita».6
E ancora:
La filosofia sembra a Nietzsche più «una prassi di vita» che una verità teoretica.7
Anche Giorgio Penzo, riferendo degli studi di Hans Weichelt, parla della notevole “passione
pedagogica” che caratterizza la filosofia del pensatore di cui stiamo parlando; osserva:
In particolare, Weichelt mette in rilievo la passione pedagogica di Nietzsche, che sarebbe
presente in tutti i suoi scritti. Una simile passione traspare nella predilezione di Nietzsche per i
termini erziehen, lehren (educare, insegnare). Nietzsche vuole istruire i suoi discepoli, i suoi
colleghi, i suoi amici, la sorella, il lettore, il popolo tedesco e l’intera umanità. In fondo, questo
sarebbe il pathos presente in tutti gli scritti di Nietzsche.8
Insomma, parleremo di un Nietzsche attento osservatore del quotidiano, un Nietzsche che, lo
vedremo, tradisce una grande sensibilità, un Nietzsche, lo abbiamo visto nel capitolo precedente,
che a volte tenta con tutti i mezzi di persuadere ad azioni francamente sconcertanti, ma le cui
riflessioni sono allo stesso tempo semplici e profonde, e ci parlano di tanti aspetti della vita che solo
un geniale osservatore come lui poteva cogliere, e che per nostra fortuna egli ha deciso di
raccontarci.
5
P. Scolari, op. cit., p. 34.
E. Fink, op. cit., p. 11.
7
Ivi, p. 172.
8
G. Penzo, Nietzsche e il nazismo, il tramonto del mito del super-uomo, Rusconi, Milano 1997, p. 135.
6
38
2. Vita e filosofia
Mi sembra corretto intitolare questo paragrafo “Vita e filosofia” proprio perché, come vedremo,
parleremo di alcuni aspetti della filosofia di Nietzsche che, come dicevamo, sono strettamente
connessi alla vita reale, a tal punto che possiamo dire che qui la vita diventa filosofia e la filosofia
diventa vita.
L’importanza che Nietzsche attribuisce alla quotidianità emerge già dai suoi scritti giovanili,
quelli relativi alla sua permanenza alla scuola di Pforta, dove nel suo diario annota perfino le
pietanze che vengono servite giornalmente per cena; scrive:
Poi è l’ora della cena, che assomiglia in tutto al pranzo.
Lunedì. Venerdì. Minestra, pane e burro, formaggio.
Martedì. Sabato. Minestra, patate, burro.
Mercoledì. Minestra, salsiccia, purea di patate o cetrioli sottaceto.
Giovedì. Minestra, omelette, salsa di prugne, pane e burro.
Domenica. Minestra, crema di riso, pane e burro – aringhe, insalata, pane e burro – uova,
insalata, pane e burro o altro.9
Per rendersi conto bene di quanto per Nietzsche siano importanti le questioni giornaliere, quelle
che di solito non ricevono grandi attenzioni da parte dei filosofi, mi sembra opportuno riportare una
serie di riflessioni che il filosofo fa in Ecce homo, dove appunto dichiara di ritenere tali questioni
non solo importanti, ma addirittura fondamentali. Afferma:
Ben altrimenti mi interessa un problema dal quale dipende la «salvezza dell’umanità» molto più
che da qualche curiosità da teologi: il problema della alimentazione. Grosso modo lo si può
formulare così: «Tu, come devi nutrirti, per raggiungere il tuo massimo di forza, di Virtù in
senso rinascimentale, di virtù senza moralina?».10
Continua:
Ancora un paio di cenni della mia morale. È più facile digerire un grosso pasto che un pasto
troppo piccolo. Il presupposto di una buona digestione è che tutto lo stomaco vi partecipi.
Bisogna conoscere la capacità del proprio stomaco. Per la stessa ragione sono sconsigliabili
quei pasti noiosi che io chiamo banchetti sacrificali interrotti, i pasti alla table d’hote. – Niente
fra i pasti, niente caffè: il caffè incupisce. Il tè fa bene solo di mattina. Poco, ma forte: è molto
dannoso e ammorba tutta la giornata se è troppo debole, anche di poco. In queste cose ognuno
ha la sua misura, spesso entro limiti strettissimi e delicatissimi. In un clima molto eccitante è
sconsigliabile cominciare la giornata con il tè: bisogna cominciare un’ora prima con una tazza di
cacao spesso e sgrassato. – Star seduti il meno possibile; non fidarsi dei pensieri che non sono
nati all’aria aperta e in movimento – che non sono una festa anche per i muscoli. Tutti i
pregiudizi vengono dagli intestini. Il sedere di pietra – l’ho già detto una volta – è il vero
9
F. Nietzsche, Scritti giovanili, 1856-1864, Adelphi, Milano 1998, p. 95.
F. Nietzsche, Ecce homo, cit., p. 34.
10
39
peccato contro lo spirito santo. Al problema dell’alimentazione è strettamente apparentato il
problema del luogo e del clima. Nessuno è padrone di vivere dappertutto; e in questo caso chi
ha da realizzare grossi compiti, che mettono alla prova tutta la sua forza, non ha molto da
scegliere. L’influsso climatico sul metabolismo, che ne viene ostacolato o accelerato, è così
grande che uno sbaglio nella scelta del luogo e del clima può non solo estraniare un uomo dal
suo compito, ma anche sottrarglielo del tutto: non riuscirà mai a incontrarlo. Quell’uomo non
avrà mai tanto vigor animale da poter raggiungere quella libertà che trabocca fino alla punta
estrema dello spirito, quella per cui egli riconosce: questo è cosa per me e per me solo…
Un’inerzia anche lieve dell’intestino, diventata cattiva abitudine, è più che sufficiente a
trasformare un genio in qualcosa di mediocre, di «tedesco»; basta il clima tedesco per
scoraggiare intestini forti e anche eroici. Il ritmo del metabolismo è in preciso rapporto con la
mobilità o fiacchezza dei piedi dello spirito; lo «spirito» è solo una specie particolare di questo
metabolismo. Vediamo un po’ in quali luoghi si trovano o si sono trovati uomini di grande
spirito, dove l’arguzia, la raffinatezza, la cattiveria facevano parte della felicità, dove il genio si
trovava quasi necessariamente a casa: tutti sono contraddistinti da un’aria particolarmente
asciutta. Parigi, la Provenza, Firenze, Gerusalemme, Atene – questi nomi stanno a provare
qualcosa: che il genio è condizionato dall’aria asciutta, dal cielo puro – e questo vuol dire
metabolismo rapido, possibilità di attirarsi continuamente grandi, e anche enormi, quantità di
forza.11
E ancora:
Mi si domanderà qual è la vera ragione per cui ho raccontato tutte queste piccole cose,
indifferenti secondo il giudizio comune: danneggio me stesso, tanto più, poi, se veramente sono
destinato a rappresentare grandi compiti. Risposta: queste piccole cose – alimentazione, luogo,
clima, svaghi, tutta la casistica dell’egoismo – sono inconcepibilmente più importanti di tutto
ciò che finora è stato considerato importante. Proprio da qui bisogna cominciare a cambiare
tutte le proprie nozioni. Quelle che finora l’umanità ha considerato cose serie, non sono neppure
delle realtà, sono semplici prodotti della immaginazione, o più esattamente menzogne che
derivano dai cattivi istinti di nature malate, dannose nel senso più profondo – tutti i concetti di
«Dio», «anima», «virtù», «peccato», «al di là», «verità», «vita eterna»… Ma in essi si è cercata
la grandezza della natura umana, la sua «divinità»… Tutti i problemi della politica, dell’ordine
sociale, dell’educazione sono stati falsati alla radice per il fatto che si sono presi per grandi
uomini gli uomini più dannosi – e che si è imparato a disprezzare le «piccole» cose, che sono
poi le faccende fondamentali della vita…12
Infine:
Il concetto di «Dio» inventato in opposizione alla vita – tutto ciò che è dannoso, venefico,
calunnioso, mortalmente ostile alla vita vi è raccolto in una terrificante unità! Il concetto di «al
di là», di «mondo vero» inventati per svalutare l’unico mondo che esista – per non lasciare alla
nostra realtà sulla terra alcun fine, alcuna ragione, alcun compito! Il concetto di «anima», di
«spirito» e infine anche di «anima immortale», inventati per spregiare il corpo, per renderlo
malato - «santo» -, per opporre una orribile incuria a tutte le cose che meritano di essere trattate
con serietà nella vita, i problemi della alimentazione, dell’abitare, della dieta spirituale, della
cura dei malati, della pulizia, del tempo che fa! Invece della salute la «salvezza dell’anima». 13
11
Ivi, pp. 36-38.
Ivi, pp. 52-53.
13
Ivi, p. 136.
12
40
Come si può vedere, dunque, l’ultimo Nietzsche è molto chiaro nell’attribuire alle faccende
quotidiane un’importanza notevolissima; anzi, per lui l’alimentazione, la pulizia e il clima sono le
uniche cose importanti, e queste cose sono state messe in secondo piano, se non disprezzate, a causa
dell’illusoria credenza in un “altro mondo”. Naturalmente l’attendibilità delle affermazioni appena
riportate non può essere verificata in questa sede; l’unica affermazione che mi sembra il caso di
evidenziare è quella in cui il filosofo, direi erroneamente, attribuisce a Firenze un’aria asciutta.
Altrove afferma:
Quello che ci fa onore. Se c’è qualcosa che ci fa onore, è questo: abbiamo collocato altrove la
serietà; diamo peso alle cose basse, disprezzate da tutte le epoche e lasciate in disparte […] C’è
forse un errore più pericoloso che il disprezzo del corpo? Come se con quel disprezzo tutta la
spiritualità non fosse condannata a diventare malaticcia […] Tutto ciò che fu pensato dai
cristiani e dagli idealisti non ha capo né coda: noi siamo più radicali […] Vogliamo strade
lastricate, aria buona in camera, che i cibi siano compresi nel loro giusto valore; abbiamo messo
serietà in tutte le necessità dell’esistenza […] Ciò che finora fu più disprezzato, lo portiamo in
prima linea.14
Anacleto Verrecchia, nel suo La tragedia di Nietzsche a Torino, sembra quasi scandalizzarsi del
fatto che Nietzsche, parlando del suo soggiorno in Italia, dia più importanza ai prezzi della frutta e
della verdura che non ai quadri e alle chiese; osserva Verrecchia:
Invano ci si aspetterebbe da lui un ritratto sociale e culturale dell’Italia alla Stendhal, o almeno
la descrizione di una città, di un museo, di un monumento. Si direbbe che l’Italia, per lui che
pure era stato professore di filologia classica a Basilea e aveva frequentato nientemeno che
Burckhardt, fosse solo clima, aria, temperatura. […] Trascorre sei o sette mesi a Sorrento e ci si
aspetta che egli, con o senza mal di testa, corra di qua e di là per ammirare gli inestimabili
monumenti della Campania, così come aveva fatto, mezzo secolo prima, Schopenhauer: «Ho
visitato anche Napoli; poi, dopo aver ammirato Pompei, Ercolano, Pozzuoli, Baia e Cuma, mi
sono spinto fino a Paestum, dove ho contemplato gli antichissimi, splendidi templi della città di
Poseidonia, intatti dopo venticinque secoli, e mi dicevo, preso da sacro rispetto, che stavo
camminando sullo stesso pavimento che forse era stato calpestato anche da Platone» (così si
legge nel curriculum vitae, redatto in latino, che Schopenhauer inviò all’università di Berlino il
31 dicembre 1819). Niente di tutto questo da parte del professore di filologia classica Friedrich
Nietzsche, che preferisce parlare del tempo e dei reumatismi di Malwida von Meysenbug.
Quando arriva a Venezia per la prima volta, scioglie forse inni di meraviglia? Niente affatto:
dice che non ha interesse né per i quadri né per le chiese. Chi si aspetta da lui una descrizione di
piazza San Marco o dei Frari deve accontentarsi di un banalissimo elenco dei prezzi della frutta
e della verdura. Eppure egli si riempiva continuamente la bocca di «arte»!15
Lo stupore di Verrecchia appare fuori luogo, dal momento che è lo stesso Nietzsche, come
abbiamo visto, ad ammettere di dare notevole importanza anche alle cose apparentemente più
insignificanti. Verrecchia sottolinea anche il fatto che il filosofo tedesco, costituzionalmente
14
15
F. Nietzsche, La volontà di potenza, cit., af. 1016.
A. Verrecchia, op. cit., pp. 20-21.
41
malaticcio e cagionevole, propugnando un modello di uomo dalla salute di ferro e dalla corporeità
fiorente, fa un qualcosa di “illogico”. A mio giudizio, invece, questo è un segno di onestà
intellettuale, nel senso che è troppo facile, per un pensatore, “propagandare” come buoni e giusti
quei valori che sono più confacenti alla sua natura. Nietzsche, piaccia o meno la sua filosofia,
scriveva mosso dal desiderio di contribuire all’elevazione dell’uomo, e dedica tutte le sue energie al
conseguimento di questo scopo.
Leggendo Nietzsche, per un motivo che non è facile spiegare, si ha la sensazione che in questa
filosofia, nonostante sia caratterizzata da un materialismo sfrenato, ci sia qualcosa di spirituale, una
sorta di “materialismo raffinato”.
Chi può negare, ad esempio, l’enorme raffinatezza, l’altruismo e, oserei dire, la moralità, di un
intento come quello che trapela dal seguente aforisma:
Un educatore non dice mai quello che pensa, ma solo ciò che pensa di una cosa in rapporto
all’utilità di chi viene educato. Questa dissimulazione non deve essere tradita: il fatto che si
creda alla sua sincerità fa parte della sua maestria. Deve padroneggiare tutti i mezzi della
disciplina e dell’addestramento: molte nature le spinge innanzi solo frustandole con lo scherno,
altre forse – nature pigre, indecise, paurose, vane – con una lode esagerata. Un simile educatore
è al di là del bene e del male: ma nessuno lo deve sapere.16
Così scopriamo che Nietzsche, il filosofo della durezza e dell’egoismo, nonché il propugnatore
dell’annientamento dei deboli, non manca di aiutare a migliorarsi degli individui che, proprio
perché “pigri”, “indecisi”, “paurosi” e “vani”, possono essere considerati deboli. Questo,
naturalmente, partendo dal presupposto che Nietzsche in questo aforisma parli di qualcosa che
riguarda anche lui, il che mi sembra abbastanza chiaro. Egli, infatti, per sua stessa ammissione parla
solo di cose che ha vissuto in prima persona, e del resto non è difficile scorgere nell’aforisma
appena riportato un tono autobiografico.
Il filosofo, in queste righe, anche se la parola “amore” non compare, non descrive altro che un
atto di amore, ma un amore ben diverso da quello di cui si parla in alcuni degli aforismi che
abbiamo riportato nella prima parte di questo lavoro; come si ricorderà, lì si parlava di “sacrifici
umani” e di “annientamento dei malriusciti”, mentre ora scopriamo che si deve agire
amorevolmente, attraverso “una lode esagerata”, nei confronti delle “nature” indecise e fragili.
Come abbiamo visto, il filosofo afferma:
Il vero amore degli uomini esige il sacrificio per il bene del loro genere – è duro, è pervaso di
autosuperamento, perché ha bisogno del sacrificio umano. E questa pseudoumanità che si
chiama cristianesimo vuole precisamente ottenere che nessuno venga sacrificato...17
16
17
F. Nietzsche, La volontà di potenza, cit., af. 980.
Ivi, af. 246.
42
E ancora:
L’amore frainteso. C’è un amore da schiavi, che si assoggetta e si svende, che idealizza e si
inganna – e c’è un amore divino, che disprezza e ama e trasforma, eleva ciò che ama. Si deve
acquistare quella enorme energia della grandezza per foggiare l’uomo futuro allevandolo, da un
lato, e, dall’altro, annientando milioni di malriusciti: e non si deve venir meno per il dolore che
si crea – un dolore quale non fu mai visto finora.18
Non è ben chiaro, quindi, ciò che Nietzsche intende con la parola “amore”; da un lato, lo abbiamo
visto, propugna un amore basato sulla durezza e sulla mancanza di pietà, auspicandosi che i rapporti
fra gli uomini siano sempre più caratterizzati dalla mancanza di compassione; dall’altro sembra
esaltare una forma di amore che, seppure non ben definita, non sembra rimandare, dai termini e dal
tono con cui ne parla, a un amore che preveda (nell’ottica di un’elevazione dell’umanità) il
“sacrificio umano”; anzi, il filosofo, sempre con tono autobiografico, sembra talora riferirsi a un
amore di stampo oserei dire quasi “cristiano”, che scaturisce dalla sofferenza e dalla pura gioia di
amare; scrive:
Un’anima piena e potente non soltanto viene a capo di perdite, privazioni, rapine, insulti
dolorosi e magari terribili, ma esce da simili inferni con una pienezza e potenza maggiore e –
cosa più essenziale – avendo rinnovato e accresciuto la gioia di amare. Io credo che colui che
abbia intuito nell’amore una delle più basilari condizioni di crescita comprenderà Dante, che
sulla porta del suo Inferno scrisse: “Anche me creò l’eterno Amore”.19
Anche altrove il pensatore sembra parlare di un amore dal “sapore” quasi romantico; osserva:
Si vuole la prova più sorprendente della distanza a cui giunge la forza trasfiguratrice
dell’ebbrezza? L’“amore” è questa prova: ciò che si chiama amore in tutte le lingue e in tutti i
silenzi del mondo. Qui l’ebbrezza si disfa della realtà a tal punto che nella coscienza
dell’amante la sua causa si cancella e sembra che al suo posto debba trovarsi qualche altra cosa
– il tremolare e brillare di tutti gli specchi incantati di Circe. Qui non c’è alcuna differenza tra
uomo e animale, e non c’entrano lo spirito, la bontà, la probità. Si è burlati delicatamente, se si è
delicati; si è burlati grossolanamente, se si è grossolani: ma l’amore, e persino l’amore per Dio,
l’amore santo delle “anime redente”, alla sua radice resta sempre una sola cosa: una febbre che
ha buoni motivi per trasfigurarsi, un’ebbrezza che fa bene a mentire sul proprio conto… E in
ogni caso si mente bene, quando si ama, si mente bene davanti a sé e a proposito di sé: ci
sembriamo trasfigurati, più forti, più ricchi, più perfetti, si è più perfetti... […] chi ama vale di
più, è più forte. […] La sua economia generale è più ricca che mai, più potente, più completa di
quella dell’uomo che non ama. Chi ama diventa prodigo: è abbastanza ricco per esserlo. Adesso
osa, diventa avventuriero, diventa un asino per coraggio e innocenza; torna a credere in Dio,
nella virtù, perché crede nell’amore; […] Se dal lirismo del tono e del vocabolario sottraiamo la
suggestione che esercita quella febbre intestinale, cosa resta di quella poesia e di quella
18
19
Ivi, af. 964.
Ivi, af. 1030. Il curatore della Volontà di potenza annota, a proposito di questo aforisma: «Ma in Dante è: “Giustizia
mosse il mio alto Fattore: / fecemi la Divina Potestate, / la Somma Sapienza e ʹl Primo Amore” (Inf., III, 4-6)».
43
musica?... Forse l’art pour art: il virtuoso gracidare di frigide rane che si disperano nel loro
pantano… Tutto il resto l’aveva creato l’amore…20
L’amore di cui si parla in questo aforisma, e soprattutto la frase “chi ama vale di più, è più forte”,
sembra davvero non avere niente a che fare con una forma di amore che preveda “sacrifici umani” e
l’annientamento sistematico di determinate categorie di persone che Nietzsche, come abbiamo
evidenziato, si auspica; resta il fatto che tali inquietanti auspici saranno messi in pratica in modo
metodico e rigoroso dal regime nazionalsocialista, seppure in forme non del tutto uguali rispetto a
quanto suggerisce il filosofo.
Del resto, sia detto di passaggio, è difficile pensare che chi dice “chi ama vale di più, è più forte”
possa essere pazzo!
Se dovessimo giudicare Nietzsche come persona in base a una lettura superficiale dei suoi libri,
potremmo pensare che era un uomo violento e spietato, ma, come abbiamo visto, ci sono alcune
affermazioni che ci fanno capire che aveva un’indole gentile e sensibile, caratterizzata da un
“altruismo” discreto e raffinato. Anche altrove il filosofo dimostra di avere molto tatto nei rapporti
con gli altri, individuando nell’odio contro la mediocrità un atteggiamento non consono alla
condotta di vita di un filosofo, facendo capire ancora una volta che anche lui si attiene a tale modo
di rapportarsi con gli altri; dice infatti:
Con quale diritto far perdere ai mediocri il gusto per la loro mediocrità? Io, lo si vede, faccio
l’opposto.21
E poi:
L’odio contro la mediocrità è indegno di un filosofo: fa quasi dubitare del suo diritto alla
“filosofia”. Appunto perché è l’eccezione deve tutelare la regola, deve far sì che ogni mediocre
rimanga contento di se stesso.22
Si potrebbe dire che in Nietzsche albergano due anime distinte che, parlando in termini che forse
egli non approverebbe, sono l’una votata al bene e l’altra al male, anche se, obbiettivamente,
prevale quella votata al “male”.
Il filosofo, lo abbiamo visto, si auspica a più riprese che l’uomo assecondi i propri istinti, anche
quelli più feroci, e che agisca guidato da essi, prendendo coscienza della propria natura animalesca
e consacrando ad essa la propria esistenza. L’uomo, che per Nietzsche non è altro che un animale
più evoluto, deve, per realizzarsi pienamente, liberarsi dal timore di diventare in tutto e per tutto
20
Ivi, af. 808.
Ivi, af. 892.
22
Ivi, af. 893.
21
44
“bestia”. Allo stesso tempo tuttavia, egli, in forma quasi poetica, esalta dei comportamenti che
rendono l’uomo molto diverso dagli animali, i quali non sono in grado di “mentire a fin di bene”,
come invece deve fare, lo abbiamo visto, un educatore. In questo Nietzsche rimane profondamente
e inequivocabilmente umano. Afferma ancora:
Noi apprezziamo poco gli uomini buoni, li consideriamo animali da armento: sappiamo come
fra gli uomini peggiori, più maligni, più duri si nasconda spesso un’inestimabile particella d’oro
che pesa più di tutta la semplice bonarietà delle paste d’uomo.23
Un esempio a mio avviso chiarificatore di questa “particella d’oro”, di questa bontà dal grande
peso specifico che, come sottolinea Nietzsche, alberga nel cuore degli uomini più duri, può essere
trovato nel film di Clint Eastwood Gran Torino. In questo film, infatti, Clint Eastwood fa la parte di
un “duro” che mostra disprezzo nei confronti dei suoi vicini di casa asiatici, definendoli “musi
gialli”. Ebbene, nonostante questo disprezzo, alla fine del film egli sacrifica la propria vita per far sì
che i responsabili di un pestaggio operato ai danni di uno dei suoi vicini asiatici vadano in prigione.
Clint Eastwood, infatti, si reca a casa dei responsabili del pestaggio, e provocandoli li induce ad
ucciderlo, in modo tale che, appunto, finiscano in prigione. Questa storia, a mio avviso, spiega bene
quello che intende dire Nietzsche, il quale disprezza la bontà pietistica, senza pudore e sempre
pronta a prestare soccorso che viene incentivata dal cristianesimo. Sarebbero pochi, infatti, i
cristiani pronti a dare la vita per qualcuno, eppure nessun vero cristiano definirebbe con disprezzo
“musi gialli” delle persone asiatiche.
Mi sembra interessante riportare quattro lettere nelle quali troviamo un Nietzsche, ancora una
volta, molto “umano”, un Nietzsche, si potrebbe dire, davvero immerso nella quotidianità: nella
prima il filosofo, dalla scuola di Pforta e quindi ancora molto giovane, racconta alla madre di essersi
ubriacato; nella seconda racconta di un litigio avuto con un dipendente di un sarto al quale aveva
commissionato un abito, casualmente pronto in occasione del suo primo incontro con Wagner; nella
terza fa una goffa e improbabile proposta di matrimonio, mentre nella quarta, dopo aver ricevuto
una lettera di risposta dalla signorina Mathilde Trampedach e accortosi della brutta figura, le scrive
ancora scusandosi della strampalata proposta; ecco la prima lettera, datata 16 aprile 1863:
Cara mamma,
oggi scriverti rappresenta per me una delle cose più spiacevoli e dolorose che mi sia mai toccato
di fare. Ho commesso infatti una grave mancanza e non so se tu vorrai e potrai perdonarmela. È
con animo oppresso, e profondamente irritato con me stesso, che mi accingo a scriverti,
specialmente se ripenso a come siamo stati bene insieme, senza un’ombra di disaccordo, durante
le vacanze di Pasqua. Domenica scorsa, dunque, mi sono ubriacato e non ho altra giustificazione
se non quella che io non so quanto riesco a sopportare e che, proprio quel pomeriggio, ero un
23
Ivi, af. 943.
45
po’ agitato. Quando rientrai fui colto in quello stato dal professor Kern: questo martedì mi ha
fatto comparire davanti al sinodo, che mi ha retrocesso al terzo posto della mia gerarchia e mi ha
privato di un’ora di passeggiata domenicale. Puoi ben immaginare come io sia avvilito e di
cattivo umore, soprattutto perché ti procuro un tale dispiacere con una storia così sconveniente,
quale non mi era mai capitata in vita mia. E come mi dispiace poi anche per il pastore
Kletschke, che mi aveva appena dimostrato tanta inattesa fiducia! Ora, con questo solo errore,
rovino irrimediabilmente una discreta posizione che mi ero guadagnato durante il trimestre
scorso. Sono anche talmente furibondo con me stesso, che non riesco assolutamente ad andare
avanti con i miei studi e non so affatto darmi pace. Scrivimi dunque al più presto e con molta
severità, giacché me lo merito, e nessuno meglio di me sa quanto me lo merito. Non è
necessario che ti assicuri ulteriormente che mi conterrò al massimo, perché ora molto dipenderà
da questo. Ero ridiventato anche troppo sicuro di me, e ora eccomi strappato a questa mia
sicurezza, in un modo, invero, terribilmente spiacevole. Oggi andrò dal pastore Kletschke e gli
parlerò. – Per favore, non raccontare in giro tutta questa storia, a meno che non la si sappia
già.24
Ecco la seconda lettera, scritta da Lipsia a Erwin Rohde e datata 9 novembre 1868:
Giunto a casa, trovai un biglietto a me indirizzato, con queste poche parole: «Se vuoi conoscere
Richard Wagner, vieni alle quattro meno un quarto al Café théâtre. Windisch». […] Pensando
che si sarebbe trattato di un ricevimento in grande, decisi di mettermi in gran tenuta, ed ero
contento che il mio sarto mi avesse promesso di terminarmi proprio per quella domenica un
vestito da ballo. Era una giornata terribile, pioggia e neve, venivano i brividi all’idea di uscire;
perciò fui ben felice quando, nel pomeriggio, venne a trovarmi Roscher, che mi parlò un po’
degli Eleati e del concetto di Dio nella filosofia. […] Cominciava a fare buio, il sarto non
arrivava e Roscher se ne andò. Lo accompagnai, mi recai personalmente dal sarto e trovai i suoi
schiavi tutti indaffarati attorno al mio vestito: mi promisero di consegnarmelo entro tre quarti
d’ora. Me ne andai tutto soddisfatto, passai da Kintschy, lessi il Kladderadatsch, ove mi divertì
il trafiletto secondo cui Wagner si trovava in Svizzera, mentre a Monaco si stava costruendo per
lui una bella casa. Invece io sapevo che lo avrei visto quella sera stessa […] A casa però non
v’era traccia del sarto. Mi lessi ancora con tutta calma la dissertazione su Eudocia, e solo di
tanto in tanto giungeva a disturbarmi un suono acuto ma lontano di campanello. Alla fine mi
resi conto con certezza, che doveva esserci qualcuno fuori dell’antiquato cancello di ferro, e che
questo era sbarrato così come la porta di casa. Gridai all’uomo, al di là del giardino, di entrare
dal Naundörfchen, ma era impossibile farsi capire con quel frastuono della pioggia. Tutta la casa
entrò in agitazione, finalmente venne aperto e un vecchietto con un pacco venne da me. Erano le
sei e mezzo, l’ora di vestirmi e far toilette, dato che abito molto distante. Tutto bene: l’uomo ha
portato la mia roba, me la provo, mi sta bene. Dannazione: questi mi presenta il conto. Lo
accetto educatamente. L’uomo vuole essere pagato, subito alla consegna. Sono meravigliato, gli
spiego che non sono obbligato a trattare con lui, lavorante del mio sarto, ma soltanto con il sarto
in persona, al quale ho fatto l’ordinazione. L’uomo si fa più insistente, il tempo più incalzante:
afferro la mia roba e comincio a indossarla, ma l’uomo l’afferra a sua volta e me lo impedisce.
Io faccio violenza e lui pure! Una scenata. Lotto in camicia, perché voglio indossare i calzoni
nuovi. Infine sfoggio la mia dignità, passo alle minacce solenni, impreco contro il sarto e il suo
tirapiedi, giuro vendetta, e intanto l’ometto sparisce con la mia roba. Fine del secondo atto:
seduto in maniche di camicia sul sofà, esamino un vestito nero, chiedendomi se sia bello
abbastanza per Richard. Fuori piove a dirotto.25
Ecco la terza lettera, scritta da Ginevra a Mathilde Trampedach, in data 11 aprile 1876:
24
25
F. Nietzsche, Epistolario, 1850-1869, Adelphi, Milano 1976, pp. 235-236.
Ivi, pp. 645-647.
46
Gentile signorina,
stasera Lei scrive qualcosa per me, anch’io voglio scrivere qualcosa per Lei. Raccolga tutto il
suo coraggio e non si spaventi per la domanda che adesso Le rivolgo: vuole diventare mia
moglie? Io La amo, e mi sembra che Lei già mi appartenga. Non una parola circa il carattere
repentino della mia simpatia! Quanto meno, non v’è in ciò colpa alcuna, e perciò nulla di cui
discolparsi. Ma quel che vorrei sapere è se Lei sente, come sento io – che noi non siamo stati
estranei l’uno all’altra nemmeno per un istante! Non crede anche Lei che in un legame ciascuno
di noi potrebbe diventare più libero e migliore, dunque excelsior, più di quanto non vi
riuscirebbe da solo? Vuole ardire di accompagnarsi a me, a uno che aspira con tutto il cuore a
diventare più libero e migliore? Per tutti i sentieri della vita e del pensiero? E ora sia schietta e
non nasconda nulla. Nessuno, tranne il nostro comune amico Senger, sa di questa lettera e della
mia domanda. Domattina alle 11 ritorno col diretto a Basilea, debbo ritornare; Le unisco il mio
indirizzo di Basilea. Se Lei vorrà rispondere di sì alla mia domanda, scriverò subito alla Sua
signora madre, di cui in tal caso Le chiederei l’indirizzo. Se troverà il coraggio di decidersi in
fretta, per un si o per un no – una Sua lettera potrà raggiungermi fino alle 10 di domani all’Hôtel
garni de la Poste. AugurandoLe per sempre ogni bene e ogni felicità.
Friedrich Nietzsche26
Infine, ecco la quarta lettera, scritta sempre a Mathilde Trampedach da Basilea, in data 15 aprile
1876:
Gentilissima signorina,
Lei è abbastanza magnanima da perdonarmi, lo avverto dalla benevolenza davvero immeritata
della Sua lettera. Ho sofferto talmente al ricordo del mio comportamento orribile e violento, che
non Le sarò mai abbastanza grato per questa benevolenza. Non voglio dare spiegazioni e non
sono in grado di giustificarmi. Avrei soltanto un ultimo desiderio da esprimere: che Lei, qualora
dovesse leggere il mio nome o rivedermi, non pensasse unicamente allo spavento che Le ho
causato. La prego in ogni caso di credere che desidererei riparare al male che ho fatto.
La riverisce il Suo
Friedrich Nietzsche27
Come abbiamo visto, dunque, in queste lettere troviamo un Nietzsche che si ubriaca, come può
succedere a tutti i comuni mortali, un Nietzsche che, nell’episodio del sarto, si dimostra tutt’altro
che dimesso e che anzi manifesta una certa litigiosità, mentre nella proposta di matrimonio emerge
un Nietzsche impacciato e insicuro; in queste lettere, insomma, scopriamo un Nietzsche
“quotidiano”.
Vorrei ora riportare l’inizio di una lettera immaginaria che Giorgio Penzo scrive a Nietzsche, e
che forse può aiutare a capire cosa intendo quando dico che nella filosofia di questo pensatore,
nonostante il feroce materialismo, c’è qualcosa di estremamente spirituale; scrive Penzo:
Caro Nietzsche,
quando per la prima volta ho sentito parlare di te, avevo circa dieci anni. Vivevo ancora nella
mia città natale di Chioggia. La finestra della mia camera si apriva in una calle che portava al
26
27
F. Nietzsche, Epistolario, 1875-1879, Adelphi, Milano 1995, pp. 134-135.
Ivi, pp. 141-142.
47
ponte sulla laguna che unisce Chioggia al mare. Subito dopo l’ora di pranzo mi affacciavo alla
finestra per raccogliere con gioia il saluto di un padre cappuccino che camminava
modestamente con un giovane prete: era il vescovo di Chioggia con il suo segretario. Diverse
volte ero invitato ad accompagnarli per un breve tratto. Nelle sue conversazioni, il vescovo,
usando espressioni molto semplici, riusciva a parlare con me del senso della vita, che per lui
doveva essere vissuta proprio come un gioco. E nelle sue conversazioni egli citava con
ammirazione i nomi di Agostino e Nietzsche. Erano due pensatori che doveva amare molto, dato
che li descriveva come aperti alla forza del divino.28
Forse l’unico punto in tutta la filosofia di Nietzsche in cui il filosofo parla di qualcosa di
invisibile, è quando evidenzia il fatto che fra gli individui c’è un fluido che scorre continuamente, e
che in conseguenza di ciò un individuo non è mai isolato. Ovviamente anche l’aria e le onde radio
sono invisibili, ma sono pur sempre materia, non “spirito”, e lo stesso vale evidentemente per
questo “fluido”; ma resta il fatto che l’ammissione, da parte del pensatore, dell’esistenza di un
qualcosa che non può essere né visto né toccato, è un fatto quantomeno singolare. Afferma:
Ecco la più profonda concezione del soffrire: le forze formatrici si urtano. L’isolamento
dell’individuo non deve ingannare: in verità, fra gli individui c’è un fluido che scorre
continuamente.29
La singolarità di tale affermazione risiede anche nel fatto che questo fluido, oltre a non poter
essere né visto né toccato, non può essere neppure “rilevato”. Infatti, anche se l’aria è invisibile può
tuttavia essere percepita e “toccata”, come ad esempio avviene quando tira vento e i nostri
indumenti si muovono; anche le onde radio sono invisibili e, a differenza di quanto accade con
l’aria, non possono essere percepite dall’uomo, ma possono essere rilevate con appositi strumenti. Il
fluido di cui parla Nietzsche, invece, non può essere “dimostrato”, anche se, come immagino capiti
a tutti, accade a volte di incontrare persone alle quali si stava pensando pochi giorni, poche ore o
addirittura pochi attimi prima. Ovviamente mi riferisco a persone alle quali pensiamo molto
raramente, l’incontro con le quali, se di poco successivo all’averle pensate, può in effetti far pensare
a un fluido che, come afferma Nietzsche, scorre continuamente fra gli individui.
C’è un’altra affermazione del pensatore tedesco che mi ha fatto molto riflettere, e che forse può
essere collegata al fluido di cui abbiamo appena parlato; essa recita così:
Io riconobbi la forza attiva, ciò che crea, nel mezzo dell’accidentale: il caso stesso è soltanto
l’urto reciproco degli impulsi creativi.30
28
G. Penzo, op. cit., p. 9.
F. Nietzsche, La volontà di potenza, cit., af. 686.
30
Ivi, af. 673.
29
48
Sembrerebbe, dunque, che secondo il filosofo il caso non esista, e che esso sia il risultato dello
scontro fra i vari “impulsi creativi” degli individui. Tale affermazione è a mio avviso collegabile a
quella in cui Nietzsche parla, come abbiamo visto, di un fluido che scorrerebbe continuamente fra
gli individui, nel senso che proprio partendo dal presupposto che gli individui sono solo
apparentemente isolati, ne consegue che anche tutti gli accadimenti, che sembrano governati dal
caso, sono in realtà il frutto di uno “scontro” fra i vari impulsi creativi, i quali si scontrano mediante
il suddetto fluido.
Infatti, anche nell’aforisma in cui Nietzsche parla del fluido in questione, egli, proprio prima di
parlare di tale fluido, dice che “le forze formatrici si urtano”, il che è un modo per dire con parole
diverse quello che afferma nell’altro aforisma, dove, come abbiamo visto, asserisce che “il caso
stesso è soltanto l’urto reciproco degli impulsi creativi”.
Per capire meglio questa teoria, che difficilmente potrà essere dimostrata, vorrei raccontare un
episodio che mi è capitato di apprendere leggendo un libro scritto da una suora; questa, ad un certo
punto, racconta dei lavori di manutenzione di cui necessitava il monastero in cui viveva, e che erano
stati intrapresi senza la necessaria copertura economica. Ebbene, la suora racconta che una
benefattrice, senza sapere niente di questo fatto, firmò spontaneamente un assegno per un importo
esattamente uguale a quanto era necessario per saldare il debito con l’idraulico e l’elettricista,
scorgendo in questo avvenimento la mano della Provvidenza.
Ora, in effetti si tratta di una coincidenza piuttosto strana, e non ho motivo di credere che la suora
abbia inventato questo fatto, ma volendo fare l’avvocato del diavolo non potrebbe essere questo
proprio un caso di “urto reciproco degli impulsi creativi”, ossia un avvenimento in cui ha agito quel
fluido che scorre fra gli individui di cui parla Nietzsche? Naturalmente non intendo dire che la
benefattrice ha sentito una vocina che le ha detto di fare una donazione per un importo uguale al
debito contratto dalle suore, ma forse in maniera inconscia il fluido ha messo in qualche modo in
contatto la suora e la benefattrice, spingendo quest’ultima a donare esattamente la cifra necessaria
per pagare i lavori.
Ed è lo stesso Nietzsche, in una lettera, a raccontare un episodio che fra gli altri potrebbe averlo
indotto a credere nell’esistenza del fluido in questione; come ho già detto, infatti, anche a me capita
a volte di incontrare persone alle quali pensavo letteralmente pochi attimi prima, e il filosofo
racconta di un qualcosa di analogo; scrive:
Mia cara sorella,
giovedì pomeriggio, proprio mentre, passeggiando, pensavo al Lama [“Lama” è il nomignolo
con cui Nietzsche chiamava la sorella], che vive da signora in terra straniera, e decidevo di
scriverle una lettera, è venuto da me un signore sconosciuto e mi ha detto: «Madame Gazzola a
des lettres pour Monsieur». Dopodiché Monsieur se n’è andato subito da Madame Gazzola – ah,
49
una gazza ladra di cui serbavo un cattivo ricordo dallo scorso inverno - , ed ecco che c’era una
lettera con l’inconfondibile scrittura di un Lama sudamericano.31
Naturalmente le mie sono solo ipotesi, ma credo che sia interessante cercare di capire la filosofia
di questo straordinario pensatore anche nei suoi aspetti apparentemente meno importanti e meno
“filosofici”.
3. Volontà di potenza, superuomo, eterno ritorno
Mi sembra opportuno dedicare un paragrafo anche a quelli che sono i temi riassuntivi della
filosofia nietzscheana. Come dice giustamente Georg Simmel nella sua recensione al libro di
Ferdinand Tönnies Il culto di Nietzsche, «Il compito più nobile e fecondo nei confronti di un
pensatore è quello di trarre, dalla serie di idee che oscillano e si contraddicono, l’idea centrale,
giusta, in sé chiara»32.
Trovare un’idea centrale nella filosofia del pensatore tedesco è tuttavia estremamente difficile,
ma indubbiamente i temi trattati in questo paragrafo sono quelli che meglio la riassumono, temi ai
quali io aggiungerei la critica alla “modernità” e alle idee che essa, già quando Nietzsche scriveva,
portava con sé; penso al socialismo, alla democrazia, al parlamentarismo e alle relative conseguenze
sulla società dell’epoca, conseguenze che a Nietzsche non piacevano affatto.
Come è noto, Nietzsche è un filosofo a-sistematico, e diffida dei filosofi sistematici; egli afferma
che «Il mondo non è affatto un organismo, ma è caos».33
Ora, se il mondo è caos se ne deduce che esso non è regolato da nessuna legge, contrariamente a
quanto sostengono coloro che credono in un dio, i quali scorgono nell’universo un senso e
un’armonia che Dio stesso vi avrebbe immesso. Ebbene, nell’ultimo aforisma della Volontà di
potenza, che abbiamo già citato, Nietzsche fornisce una legge che, come abbiamo visto,
spiegherebbe tutti gli accadimenti dell’universo; tale legge non è altro che la volontà di potenza
stessa, che non è solo la legge del mondo, ma ne è anche l’essenza: il mondo è la volontà di
potenza.
Si capisce bene che questo contrasta con l’affermazione secondo la quale il mondo è caos. Infatti,
nel momento in cui si asserisce che ogni essere e ogni cosa che si trova nell’universo ha come scopo
un aumento della potenza, automaticamente si immette un senso in tutto ciò che accade; se questo è
vero, infatti, il mondo non è più governato dal caos, ma è il frutto di una lotta per la potenza che,
31
F. Nietzsche, Epistolario, 1885-1889, Adelphi, Milano 2011, p. 313.
F. Tönnies, Il culto di Nietzsche, Editori Riuniti, Roma 1998, p. 153.
33
F. Nietzsche, La volontà di potenza, cit., af. 711.
32
50
sebbene sia una legge inquietante, conferisce, come dicevamo, un senso al Tutto e quindi anche
all’esistenza di ogni uomo.
Ma è proprio la consapevolezza della mancanza di un senso in tutto ciò che accade che, secondo
Nietzsche, caratterizza l’uomo forte e ben riuscito, il quale “resiste” e riesce a sopravvivere
nonostante conosca questa tremenda verità; il pensatore, infatti, afferma che i deboli, per non perire,
immettono un senso nelle cose, e credono che in esse sia racchiusa una volontà; afferma, in un
aforisma già citato nel primo capitolo:
Chi non sa mettere la propria volontà dentro le cose, chi è privo di volontà e di forza, pone
almeno ancora un senso nelle cose, ossia crede che ci sia racchiusa una volontà. Il grado di forza
di volontà è misurato da quanto si riesce a fare a meno di un senso insito nelle cose, da quanto si
è capaci di resistere in un mondo privo di senso, perché se ne organizza un piccolo frammento.34
Ebbene, diciamolo ancora una volta: affermando “Questo mondo è la volontà di potenza – e
nient’altro! E anche voi siete questa volontà di potenza – e nient’altro!”, Nietzsche conferisce un
senso al mondo e quindi anche all’esistenza degli uomini.
Si potrebbe dire, dunque, che la volontà di potenza è un surrogato della Provvidenza, o,
similmente, del progetto di Dio. Sia in un caso che nell’altro, infatti, tutti gli accadimenti sono
guidati e regolati da un qualcosa che, in ultima analisi, non dipende dalla volontà dell’uomo, le cui
azioni e scelte sono tese, da una parte, ad assecondare la spinta verso un incremento della potenza,
dall’altra, in un’ottica religiosa, a modellarsi in base al progetto di Dio.
In entrambi i casi, insomma, non solo l’agire umano ma tutto l’universo è regolato da un qualcosa
che tende a un preciso scopo, e questo di conseguenza consente una visione delle cose più
rassicurante. Certo, il pensare che la legge del mondo sia un instancabile e insaziabile tendere a un
aumento della potenza, non implica la rassicurante convinzione che esista un altro mondo e quindi
una vita eterna come nel caso della credenza in un dio, ma, come detto, conferisce all’esistenza un
senso, uno scopo, e, in ultima analisi, può anche essere un motivo valido per cui vivere che
altrimenti, in un mondo in preda al caos, sarebbe difficile trovare.
Nietzsche, dunque, ritiene che ogni essere vivente sia spinto all’agire da un insopprimibile
desiderio di aumentare la potenza, e questo vale anche per coloro che “servono”; osserva nel Così
parlò Zarathustra:
Dove ho trovato vita, ho trovato anche volontà di potenza; e anche nella volontà di chi serve ho
trovato la volontà di essere padrone. Chi persuade il debole a servire il forte? La sua volontà,
che vuol essere signora su ciò che è ancora più debole: di quest’unico piacere essa non sa
privarsi. E come il piccolo si dà al grande, per avere piacere e potere sul piccolissimo: così si dà
34
Ivi, af. 585.
51
anche il più grande, mettendo in pericolo, per amor della potenza, la vita. […] E dove sono
sacrifici e servigi e sguardi d’amore: anche lì c’è la volontà di esser padrone. Per vie traverse il
debole si insinua lì nella roccaforte e fin nel cuore del potente – e vi ruba potenza. […] Solo
dove è vita è anche volontà: ma non volontà di vivere, bensì – così ti insegno io – volontà di
potenza!35
Forse, ed è una mia considerazione, quando un cristiano (un autentico cristiano) si mette al totale
servizio degli altri, lo fa tenendo ben presente un’esortazione di Gesù, quella che recita così: «Se
uno vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti» (Mc. 9,35).
Il socialismo, dunque, viene visto da Nietzsche come una dottrina contraria e ostile a quella che è
la legge fondamentale e naturale della vita, ossia, lo abbiamo detto più volte, la volontà di potenza,
la quale spinge ogni individuo a voler possedere sempre di più; dice:
... ci saranno sempre troppi possidenti perché il socialismo possa significare altro che un accesso
patologico; e questi possidenti sono come un solo uomo che ha un unico articolo di fede:
“bisogna possedere qualcosa per essere qualcosa”. Ma questo è il più vecchio e il più sano di
tutti gli istinti; io aggiungerei: “bisogna voler possedere di più di quanto si ha per diventare
qualcosa di più”. Così suona l’insegnamento che la vita stessa predica a tutto ciò che vive: la
morale dell’evoluzione. Avere e voler avere di più, in una parola: crescere – è la vita stessa.
Nella dottrina del socialismo si nasconde malamente una “volontà di negare la vita”: devono
essere uomini o razze degenerate, quelli che escogitano una simile dottrina. In realtà io
desidererei che alcuni grandi esperimenti dimostrassero che in una società socialista la vita
rinnega se stessa, recide le proprie radici.36
La riflessione che si può fare su questo aforisma è che forse Nietzsche generalizza troppo; in
effetti è vero che la grande maggioranza degli uomini si adopera per “crescere”, o, per dirla in modo
più chiaro, per fare sempre più soldi; tuttavia mi pare sbagliato dire che tutti coloro che non
avvertono questa spinta ossessiva all’accumulo di denaro sono dei degenerati. Mi è capitato di
conoscere una persona, quando c’erano ancora le vecchie lire, che dichiarava di credere nel
comunismo (che è una dottrina molto più livellatrice del socialismo che conosceva Nietzsche) a tal
punto da affermare “Se lo Stato mi desse 10.000 £ al giorno io vivrei contento”, eppure questa
persona non era affatto né un degenerato né un fallito.
Se dunque, come detto, la volontà di potenza può essere considerata un surrogato della
Provvidenza o del progetto di Dio, l’eterno ritorno può essere invece considerato, nell’ambito della
filosofia nietzscheana, un surrogato della vita eterna, mentre il superuomo può essere visto come un
santo al contrario. Mentre il santo rifugge dai sensi e dalla corporeità, donandosi totalmente all’altro
e mortificando il proprio ego, il superuomo, al contrario, asseconda gli istinti, ritiene di avere diritto
al massimo egoismo e disprezza il destino dei “molti”; ma in entrambi i casi siamo in presenza di
35
36
F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Fabbri, Milano 1996, Del superamento di sé, pp. 136-137.
F. Nietzsche, La volontà di potenza, cit., af. 125.
52
uomini reputati superiori; i santi, infatti, sono in un certo senso considerati dalla Chiesa e dai fedeli
dei “superuomini”, ossia uomini capaci di vivere il vangelo a tal punto da donare a Dio tutta la loro
esistenza, rinunciando ai piaceri che la vita può offrire e vivendo in prima persona le sofferenze
degli altri; i superuomini sono, in un certo senso, dei santi, in quanto capaci di accettare con la
massima serenità la tragicità di una vita senza Dio, dicendo sì anche alla sofferenza più grande, il
tutto nell’ottica del comandamento nietzscheano che impone di dire sì alla vita anche nei suoi
aspetti più dolorosi e terrificanti.
Lo stesso Nietzsche sembra riconoscere una certa affinità fra la figura del superuomo e quella del
santo; egli, infatti, che come lascia intendere si considera lui stesso un superuomo, teme di essere
scambiato per un santo, ed è per evitare tale equivoco che afferma:
Ho una paura spaventosa che un giorno mi facciano santo: indovinerete perché io mi
premunisca in tempo, con la pubblicazione di questo libro, contro tutte le sciocchezze che si
potrebbero fare con me… Non voglio essere un santo, allora piuttosto un buffone… Forse sono
un buffone.37
Del resto, il filosofo sottolinea l’importanza di mettere in atto quotidianamente alcune pratiche
finalizzate al proprio rafforzamento, pratiche consigliate anche dalla Chiesa e messe in atto in primo
luogo dai santi, con la differenza che, osserva Nietzsche, la Chiesa ha abusato di tali pratiche,
promuovendone una messa in atto fanatica ed eccessiva, e vedendo in esse un modo per mortificare
la carne e non, come intende Nietzsche, uno stile di vita da seguire per ottenere un rafforzamento.
Dice il filosofo:
Ciò che è guastato dall’abuso che la Chiesa ne ha fatto: 1) l’ascetismo: ormai si ha a stento il
coraggio di metterne in luce la naturale utilità, la sua indispensabilità al servizio dell’educazione
della volontà. Il nostro assurdo mondo degli educatori, che guarda all’“utile servitore dello
Stato” come a uno schema regolativo, crede di potersi accontentare dell’“istruzione” e
dell’addestramento dei cervelli; a costoro manca del tutto questo concetto: prima è necessaria
un’altra cosa, l’educazione della forza di volontà; si impongono esami per tutto, ma non per la
cosa principale: se si è capaci di volere, se si è in grado di promettere: il giovane finisce gli
studi senza aver nemmeno una domanda, nemmeno una curiosità per questo supremo problema,
quello del valore della sua natura; 2) il digiuno: in ogni senso – anche come mezzo per
conservare la delicata capacità di godere di tutte le cose buone (per esempio: per qualche
periodo non leggere, non ascoltare musica, non essere amabili, si devono avere giorni di digiuno
anche per la propria virtù); 3) il “chiostro”: il temporaneo isolamento, respingendo severamente
il mondo, ad esempio la posta; una forma di profonda meditazione su di sé e di ritrovamento di
sé, che non si propone di scansare le “tentazioni”, ma i “doveri”: un uscire dal girotondo
dell’ambiente, un appartarsi dalla tirannia degli stimoli e delle influenze che ci condanna a
spendere la nostra forza soltanto in reazioni e non permette più che quella forza si accumuli sino
ad acquistare un’attività spontanea.38
37
38
F. Nietzsche, Ecce homo, cit., p. 127.
F. Nietzsche, La volontà di potenza, cit., af. 916.
53
Anche Karl Jaspers, secondo il quale «La lotta di Nietzsche contro il cristianesimo nasce dalla
sua propria essenza cristiana»39, scorge in una frase del pensatore tedesco qualcosa di simile al
concetto cristiano di peccato originale; tale frase recita così: «C’è qualcosa di fondamentalmente
erroneo nell’uomo»40; «Questa affermazione nietzscheana – osserva Jaspers – è quasi la traduzione
del concetto cristiano del peccato originale».41
Eugen Fink parla invece di una “teologia” nietzscheana, che egli individua nel capitolo della
Volontà di potenza dedicato all’arte, dove la religione è l’arte e Dio è Dioniso. Osserva Fink:
… il capitolo sull’arte non è altro che la sua «Teologia», una teologia senza Dio, cioè senza un
Dio cristiano e Creatore del Mondo, ma una teologia che giustifica l’esistenza come fenomeno
estetico, percepisce nello splendore del Bello la parte sana del mondo, la Religione-arte del Dio
Dioniso che gioca.42
Come dicevamo, sembrerebbe corretto individuare nel concetto di eterno ritorno un surrogato
della vita eterna. Allora ci domandiamo: anche lo stesso Nietzsche ha avuto paura di confessare a se
stesso che si vive solo una volta e non, come vuole l’eterno ritorno, infinite volte? Anche il filosofo
della “morte di Dio”, così coraggioso e temerario (filosoficamente parlando), ha forse avuto paura
di vivere fino in fondo il suo stesso pensiero, quello secondo il quale la vita finisce inesorabilmente
e non esiste alcun “mondo vero”?
Del resto, l’eterno ritorno sembra francamente qualcosa di ancora più improbabile e fantasioso
del vecchio Dio, per confutare il quale Nietzsche ha messo in campo tutte le sue energie; l’eterno
ritorno è, per usare parole care allo stesso Nietzsche, “un’invenzione poetica”, che poi è l’accusa
che il pensatore tedesco rivolge a Platone; afferma infatti:
… il platonismo […] diceva: quanto più è “idea”, tanto più è Essere. Capovolgeva il concetto di
“realtà” e diceva: “Ciò che voi ritenete reale è un errore: quanto più ci avviciniamo all’idea,
tanto più ci avviciniamo alla verità”. Lo si capisce? Questa è stata la conversione più grande: e
poiché fu accolta dal cristianesimo, non ci accorgiamo di questo fatto sorprendente. In fondo,
Platone, da quell’artista che era, ha preferito l’apparenza all’essere! La menzogna e
l’invenzione poetica alla realtà!43
Nietzsche, infatti, quando nella Gaia scienza annuncia il pensiero dell’eterno ritorno, lo fa
proprio in termini poetici; dichiara:
39
K. Jaspers, Nietzsche e il Cristianesimo, Christian Marinotti, Milano 2009, p. 41.
F. Nietzsche, Frammenti postumi, 1882-1884, Volume VII, tomo I, parte II, Adelphi, Milano 1986, 11 [8].
41
K. Jaspers, op. cit., p. 100.
42
E. Fink, op. cit., p. 175.
43
F. Nietzsche, La volontà di potenza, cit., af. 572.
40
54
Il peso più grande. Che accadrebbe se, un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo
nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse: «Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai
vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai
niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni cosa
indicibilmente piccola e grande della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza
e successione – e così pure questo ragno e questo lume di luna tra gli alberi e così pure questo
attimo e io stesso. L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta – e tu con
essa, granello di polvere!». – Non ti rovesceresti a terra, digrignando i denti e maledicendo il
demone che così ha parlato?44
Ebbene, non è questo aforisma, che parla di “demoni”, “ragni” e “clessidre” esattamente
un’invenzione poetica? Probabilmente anche lo stesso Nietzsche era consapevole che affermare che
ognuno dovrà rivivere innumerevoli volte la propria vita altro non è, appunto, che un’invenzione
poetica.
Ma c’è un’altra domanda che a mio avviso è necessario porsi: Nietzsche, pensava di essere lui
stesso un superuomo? La mia risposta a questo quesito è indubbiamente affermativa. Abbiamo già
visto alcuni brani dai quali emerge, neppure troppo implicitamente, che appunto il filosofo si
considerava lui stesso un prototipo del superuomo. Tale mio convincimento è suffragato, fra gli
altri, da un aforisma in cui il pensatore, seppure senza nominare la parola “superuomo”, afferma di
appartenere egli stesso a un’umanità “più alta” e numericamente molto ridotta; afferma:
Al di sopra della caligine e del sudiciume delle bassure umane c’è un’umanità più alta, più
chiara, che per numero deve essere molto piccola – perché tutto ciò che eccelle è per sua natura
raro: le si appartiene non perché si sia meglio dotati, o più virtuosi, o più eroici, o più amorosi
degli uomini di laggiù, ma perché si è più freddi, più chiari, più lungimiranti, più solitari,
perché si sopporta la solitudine, la si preferisce, la si esige come una felicità, un privilegio e
persino una condizione di esistenza, perché si vive tra nubi e lampi come tra i propri pari, ma
anche tra raggi di sole, gocce di rugiada, fiocchi di neve e tutto ciò che necessariamente giunge
dall’alto e che si muove, si muove eternamente solo dall’alto verso il basso. Le aspirazioni
all’altezza non sono le nostre. Gli eroi, i martiri, i geni e gli entusiasti non sono abbastanza
sereni, pazienti, fini, freddi e lenti per noi.45
Di parere diverso dal mio è Gianni Vattimo, il quale afferma:
Chi è l’interprete legittimo di Zarathustra? […] L’oscurità della profezia di Zarathustra è una
impossibilità oggettiva a formularsi in modo più esplicito, perché l’oltreuomo, che ne sarebbe,
sia nella sua capacità di comprensione sia nella sua esistenza stessa, l’interprete autentico, non
c’è ancora. […] Nietzsche non è l’oltreuomo e proprio per questo non può dare una
interpretazione coerente e inequivoca della propria visione profetica; d’altra parte, proprio la
coscienza di non vivere ancora nell’età dell’oltreuomo lo spinge continuamente a volersi far
legislatore e promotore di un concreto movimento che conduca alla realizzazione storica di esso.
Nel circolo di questa contraddizione si muove il pensiero dell’ultimo Nietzsche che non riesce a
trovare una sistemazione nella Volontà di potenza.46
44
F. Nietzsche, La gaia scienza, cit., af. 341.
F. Nietzsche, La volontà di potenza, cit., af. 993.
46
G. Vattimo, Il soggetto e la maschera, Bompiani, Milano 2007, p. 352.
45
55
Naturalmente, sul fatto che questa non è l’età del superuomo (che Vattimo preferisce chiamare
“oltreuomo”) sono d’accordo con Vattimo, così come è innegabile che il messaggio di Zarathustra
non può essere interpretato e compreso da nessuno, se non in maniera parziale, e che forse mai
nessuno riuscirà a comprenderlo nella sua interezza; tuttavia, come detto, ritengo che Nietzsche
fosse convinto di essere lui stesso un superuomo, e anzi ci sono buone ragioni per credere che egli,
nel descrivere alcune delle caratteristiche del superuomo stesso, non faccia altro che descrivere se
stesso.
Quello che è possibile dire del superuomo è che egli è sì incline alla violenza, ma, come abbiamo
visto, ha anche atteggiamenti inequivocabilmente e profondamente umani.
4. Nietzsche e Schopenhauer
Vorrei fare adesso alcune brevi riflessioni sul rapporto fra Nietzsche e Schopenhauer. Come è
noto, il filosofo su cui stiamo riflettendo deve molto a Schopenhauer, ed egli non lo nega; afferma:
«Chi ha preparato la mia via: Schopenhauer»47.
Per quanto riguarda le filosofie elaborate da questi due pensatori, mi sembra corretta l’analisi di
Hans Vaihinger, della quale riferisce Giorgio Penzo nel suo Nietzsche e il nazismo:
La dottrina di Nietzsche non sarebbe altro che la stessa dottrina di Schopenhauer, letta però in
modo positivo. In altre parole, la dottrina di Nietzsche si rivelerebbe come uno
schopenhauerismo capovolto.48
Questa interpretazione trova conferma nell’analisi di Georg Simmel, di cui parla ancora Penzo:
Così, se per Schopenhauer il fine ultimo si precisa nell’atto di annullare la vita, in quanto viene
soppressa la volontà di vivere, per Nietzsche il fine ultimo si precisa nell’atto di una
affermazione della vita, in quanto si proclama la volontà di vivere. In fondo, tutti e due i filosofi
sottolineano la dimensione della volontà.49
Ora, Nietzsche parte dall’assunto che la “verità” è un qualcosa che deve essere creato, ossia è
un’interpretazione che ognuno può dare; secondo Schopenhauer la “volontà di vita” (che in
Nietzsche diventa “volontà di potenza”, ma evidentemente le due definizioni si riferiscono a
qualcosa di molto simile) è fonte di sofferenza, e quindi per evitare questa sofferenza essa deve
essere repressa, mentre per Nietzsche, al contrario, non solo non va repressa, ma anzi deve essere
47
F. Nietzsche, La volontà di potenza, cit., af. 463.
G. Penzo, op. cit., p. 97.
49
Ivi, p. 123.
48
56
assecondata; per Nietzsche, infatti, un uomo ben riuscito non solo non evita la sofferenza, ma anzi
la cerca e addirittura la sente come un piacere; osserva:
Sono gli spiriti eroici quelli che dicono di sì a se stessi nella crudeltà tragica: questi sono
abbastanza duri per sentire come piacere la sofferenza.50
Come dicevo, Nietzsche asserisce che la verità deve essere creata, e un esempio di tale concetto
lo possiamo trovare proprio riflettendo sul rapporto tra la filosofia di Nietzsche e quella di
Schopenhauer. Abbiamo detto che Schopenhauer ritiene che quella che lui chiama “volontà di vita”
è fonte di grande sofferenza per ogni uomo, e quindi il pensatore di Danzica ritiene necessario
affrancarsi da tale volontà attraverso tre strade, ossia l’arte, l’etica e l’ascesi; Nietzsche, al contrario,
ritiene che proprio l’assecondare questa volontà, nonostante ciò comporti una grande sofferenza,
conferisce all’esistenza un valore maggiore, in quanto la rende più piena e degna di essere vissuta.
Entrambi i filosofi sono quindi d’accordo sul fatto che il continuo ed incessante anelare a un
qualcosa, che è tipico della natura umana, sia fonte di sofferenza (e questa è una verità oggettiva),
ma l’uno consiglia di reprimere tale volontà, mentre l’altro, per i motivi che abbiamo visto, ritiene
più onorevole assecondarla; ebbene, io credo che non sarebbe corretto dire che una di queste due
opinioni è “vera” e l’altra è “falsa”, in quanto sono due visioni contrarie ma che hanno entrambe
una loro fondatezza. Semmai si potrà dire che una scaturisce dal rifiuto di un aspetto fondamentale
dell’esistenza, il che, forse, è un sintomo di debolezza, mentre l’altra scaturisce da un’eroica
accettazione della vita e di tutti i suoi aspetti, anche i più dolorosi.
Quindi, se ponessimo come criterio della verità il fatto di accettare la vita più o meno
coraggiosamente, allora potremmo dire che Nietzsche ha “ragione” e Schopenhauer ha “torto”;
tuttavia, come abbiamo detto, i due filosofi propugnano due diversi modi di rapportarsi con la vita
che sono entrambi legittimi, e quindi non sarebbe corretto dire che uno sbaglia e l’altro ha ragione.
Tali riflessioni, infatti, escono dalla mente di due persone diverse, che vivevano e pensavano in
modi diversi, ed ecco allora che Nietzsche sbaglia quando dice «Lo scandaloso malinteso di
Schopenhauer, che scambia l’arte per un ponte verso la negazione della vita».51 Nietzsche sbaglia, a
mio avviso, perché non si tratta di un “malinteso”; semplicemente Schopenhauer, a differenza di
Nietzsche, quando fruiva dell’arte avvertiva una soppressione della volontà, mentre Nietzsche, al
contrario, per la sua natura che evidentemente era diversa da quella di Schopenhauer, nella fruizione
dell’arte riscontrava una spinta verso l’accettazione della vita, finanche nei suoi aspetti più
spiacevoli.
50
51
F. Nietzsche, La volontà di potenza, cit., af. 852.
Ivi, af. 812.
57
Ci sono poi, a differenza del caso appena citato, situazioni in cui la verità non è qualcosa che va
creato, ma che va scoperto. Esempio: Schopenhauer afferma che quando due individui decidono di
procreare lo fanno spinti dalla “volontà di vivere” della specie, che li induce ad affrontare qualsiasi
sacrificio pur di conseguire lo scopo, ossia, appunto, procreare; afferma:
In definitiva, ciò che dunque con tanta esclusività e con tanta forza attira l’un verso l’altro due
individui di sesso diverso è la volontà di vivere di tutta la specie.52
Nietzsche, invece, ritiene che l’istinto sessuale sia la conseguenza del desiderio di potenza
dell’individuo e non, come vuole Schopenhauer, la conseguenza del desiderio della specie di non
estinguersi; dice:
Contro la teoria secondo cui il singolo individuo si propone il vantaggio del genere, della
posterità, a spese del suo vantaggio: questa è solo apparenza. L’enorme importanza che
l’individuo attribuisce all’istinto sessuale non è una conseguenza dell’importanza di
quell’istinto per la specie: al contrario, il generare è la prestazione propria dell’individuo e
quindi il suo interesse supremo, la sua più alta espressione di potenza.53
In questo caso, dunque, siamo di fronte a opinioni, opinioni che difficilmente potranno trovare
conferma in un senso o nell’altro.
Quello su cui è possibile fornire un’opinione, invece, è la celebre constatazione schopenhaueriana
che la vita dell’uomo «oscilla come un pendolo, di qua e di là tra il dolore e la noia»; io credo,
invece, che tale affermazione non sia del tutto esatta, poiché quando riusciamo a raggiungere quello
a cui si ambisce, alla sofferenza (che innegabilmente accompagna lo sforzo volitivo) non subentra
la noia, bensì una gradevole sensazione di appagamento, che in effetti dura poco ma che ripaga
della fatica e, appunto, della sofferenza.
In ogni caso, Nietzsche e Schopenhauer sono due pensatori per molti versi simili, due pensatori
che hanno dedicato molte energie alla riflessione sugli aspetti quotidiani dell’esistenza, e che hanno
partorito due filosofie che trasudano vita quasi da ogni pagina.
5. Alcune contraddizioni
Mi sembra interessante evidenziare anche alcune contraddizioni presenti nella filosofia di
Nietzsche. Vorrei iniziare da quella che a mio giudizio è la “regina” delle contraddizioni; come è
noto il pensatore tedesco ha attaccato ferocemente il cristianesimo.
52
53
A. Schopenhauer, Metafisica dell’amore sessuale, Bur, Milano 1994, p. 75.
F. Nietzsche, La volontà di potenza, cit., af. 680.
58
Egli sostiene che ci possono essere solo azioni egoistiche, e che anche «… le azioni altruistiche
sono soltanto una specie di quelle egoistiche»;54 anche il cristianesimo, sostiene il filosofo,
propugnando l’altruismo e l’amore del prossimo, in realtà ha fatto leva sulle pulsioni egoistiche
degli individui, le quali, stimolate dalla promessa dell’immortalità, crescono a dismisura. Infatti,
osserva, dietro alle azioni apparentemente più altruistiche si cela uno sfrenato desiderio egoistico,
tutto proteso, appunto, al conseguimento della vita eterna. Tale concetto è espresso molto bene nel
seguente aforisma, già citato nel primo capitolo del presente lavoro ma che mi sembra opportuno
citare di nuovo, anche se soltanto in parte; afferma Nietzsche:
Il cristianesimo, avendo portato in primo piano la dottrina del disinteresse e dell’amore, non ha
tuttavia affatto attribuito all’interesse della specie un valore più alto che all’interesse
dell’individuo. La sua azione propriamente storica, la fatalità della sua azione, rimane viceversa
precisamente quella di avere accresciuto l’egoismo, l’egoismo individuale, fino all’estremo
(fino all’estremo dell’immortalità individuale).55
Naturalmente il cristiano è convinto di agire in modo genuinamente altruistico e privo di secondi
fini, ma in realtà secondo Nietzsche si tratta di un altruismo che vuole essere lautamente
ricompensato. Ebbene, dopo aver trascorso tutta la sua vita ad attaccare il cristianesimo con parole
del tenore di quelle appena sentite (e a volte anche ben più feroci), in Ecce homo afferma:
… io attacco solo cose alle quali non sia connessa nessuna disputa personale o un qualche
retroscena di brutte esperienze. […] A me spetta far guerra al cristianesimo, perché da quella
parte non mi sono venute né disgrazie né ostacoli – i cristiani più seri sono sempre stati benevoli
con me.56
Ecco allora che, ed è questa la contraddizione regina, ossia quella più clamorosa, dopo aver speso
tutte le sue energie per convincere il lettore che dobbiamo auspicarci che l’uomo diventi sempre più
cattivo, ecco che invece afferma di apprezzare la “benevolenza cristiana”, cioè la benevolenza di
coloro che a più riprese definisce “animali da armento”, dimostrando così di giudicare
positivamente quel modo di vivere e di agire che egli, in maniera ossessiva, aveva in tutti i suoi libri
denunciato come pericoloso e spregevole.
Ecco un’altra contraddizione; afferma nella Volontà di potenza:
… nessuno ha dato all’uomo le sue qualità, né Dio, né la società, né i suoi genitori e antenati, né
lui stesso: nessuno è responsabile di quello che l’uomo è.57
54
Ivi, af. 786.
Ivi, af. 246.
56
F. Nietzsche, Ecce homo, cit., p. 29.
57
F. Nietzsche, La volontà di potenza, cit., af. 765.
55
59
Sembra, dunque, che le qualità di ogni uomo non siano dovute, fra le altre cose, ai suoi genitori;
eppure, altrove, afferma:
Si diventa un uomo per bene perché si è un uomo per bene, ossia perché si è nati con un capitale
di buoni istinti e di circostanze propizie… Se si viene al mondo poveri, da genitori che hanno
sperperato e non accumulato, si è “incorreggibili”, cioè pronti per la prigione e il
manicomio…58
Da questo brano, quindi, sembra emergere che, al contrario di quanto affermato nell’altro
aforisma, le qualità di ognuno dipendano proprio dai suoi genitori; anche nel Così parlò
Zarathustra ribadisce il legame fra le caratteristiche dei genitori e quelle dei figli; dice:
Seguitate le orme là dove già passò la virtù dei vostri padri! Come vorreste salire in alto se non
sale con voi la volontà dei vostri padri? […] E dove ci sono i vizi dei vostri padri, non dovete
voi voler fare i santi! Che cosa avverrebbe se colui, i cui padri amavano le donne, i vini forti e la
carne di cinghiale, volesse da sé la castità? Sarebbe una follia!59
Anche Nietzsche, sia detto di passaggio, non sfugge a questa sentenza, come dimostra la sua
indole mite, simile a quella del padre. Il filosofo, infatti, come abbiamo già visto parla del padre nei
seguenti termini:
Mio padre morì a trentasei anni: era dolce, amabile e morboso, come un essere fatto per passare
oltre.60
Poi, ancora sul padre, in La mia vita:
Mio padre era pastore di questo paese e dei vicini villaggi di Michlitz e Bothfeld. Era il perfetto
ritratto del prete di campagna! Dotato di cuore e d’intelletto, adorno di tutte le virtù d’un
cristiano, menava vita tranquilla e semplice ma felice, ed era stimato e amato da quanti lo
conoscevano. I suoi modi piacevoli e il suo spirito sereno allietavano più d’una brigata dove era
invitato e lo rendevano al primo apparire benvoluto ovunque.61
Chi conobbe Nietzsche lo descrive come un uomo dall’indole mite e dai modi gentili; la sua
filosofia, invece, soprattutto quella più prossima al crollo psichico, è un continuo inneggiare alla
violenza e all’immoralità; tuttavia non si può parlare di “incoerenza”, poiché il filosofo deve fare
filosofia a prescindere da se stesso, come osserva, a nostro avviso giustamente, il pensatore tedesco:
58
Ivi, af. 334.
F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., Dell’uomo superiore, p. 323.
60
F. Nietzsche, Ecce homo, cit., p. 17.
61
F. Nietzsche, La mia vita, Adelphi, Milano 1992, p. 8.
59
60
A me sembra che a un uomo le porte della conoscenza si chiudano non appena costui si interessi
al suo caso personale.62
In tal senso non stupisce che Nietzsche, nonostante la sua salute cagionevole (ricordiamo
l’opinione di Anacleto Verrecchia), ribadisca più volte la necessità di favorire i sani e di impedire ai
deboli e ai malati di riprodursi; afferma:
Per quanto ciò suoni strano, bisogna sempre armare i forti contro i deboli; i fortunati contro gli
sfortunati; i sani contro i deperiti e coloro che hanno tare ereditarie.63
Sarebbe come se, volendo fare un esempio banale, siccome un individuo non ha il denaro
sufficiente per acquistare una Ferrari, sostenesse che un’utilitaria è migliore e più bella di una
Ferrari. Nietzsche, piacciano o no le sue opinioni, nonostante la sua salute precaria ha avuto il
coraggio e l’onestà intellettuale di esaltare la salute e la forza; il fatto poi che qualcuno, come
abbiamo visto, veda in questo un modo inconscio per riscattarsi dalle proprie sofferenze, è cosa che
non ci interessa, poiché a noi interessa quello che ha detto e non perché lo ha detto.
Anche il celebre consiglio che la vecchietta dà a Zarathustra, appare in contrasto con la natura e
la personalità di Nietzsche; la vecchietta, infatti, dice a Zarathustra: «Vai dalle donne? Non
dimenticare la frusta!»64 Abbiamo visto, infatti, con quale goffaggine il pensatore fa una proposta di
matrimonio alla signorina Trampedach.
Ma non basta: il filosofo non solo deve avere il coraggio di elaborare una filosofia che, talora,
può essere in contrasto con la sua natura, ma può anche fornire opinioni ed esortazioni alle quali
egli, proprio perché in posizione di osservatore, non necessariamente deve conformarsi.
Insomma, ciò che va bene per tutti non necessariamente va bene anche per il filosofo, in quanto
egli ha il privilegio, appunto, di guardare le cose “dall’alto”, di sentirsi “altro” rispetto alla
moltitudine degli individui, i quali hanno esigenze ed aspirazioni che il filosofo conosce ma che
egli, in virtù della sua diversità, non sempre sente confacenti alla sua natura.
Tale concetto lo si capisce bene leggendo un aforisma che abbiamo già citato e del quale ripeto
solo la parte che ci interessa; diceva quell’aforisma:
… “bisogna possedere qualcosa per essere qualcosa”. Ma questo è il più vecchio e il più sano di
tutti gli istinti; io aggiungerei: “bisogna voler possedere di più di quanto si ha per diventare
qualcosa di più”. Così suona l’insegnamento che la vita stessa predica a tutto ciò che vive: la
morale dell’evoluzione. Avere e voler avere di più, in una parola: crescere – è la vita stessa.65
62
F. Nietzsche, La volontà di potenza, cit., af. 425.
Ivi, af. 685.
64
F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., Delle donnine vecchie e giovani, p. 85.
65
F. Nietzsche, La volontà di potenza, cit., af. 125.
63
61
Ebbene, da queste parole si capisce che Nietzsche ritiene naturale e sano che ogni individuo,
detto in termini chiari, cerchi di accumulare sempre più ricchezze; poi però, altrove, dove elenca
quelli che a suo dire sono i tratti distintivi di una natura aristocratica (facendo intendere di attenersi
anche lui a tale comportamento), afferma:
… non voler possedere nulla di volgare. I propri libri, i propri paesaggi.66
Da questi aforismi, solo apparentemente contraddittori, si capisce che il filosofo tedesco ritiene la
sua natura diversa da quella degli altri uomini, gli uomini comuni; egli ritiene, cioè, che ciò che è
normale e auspicabile per la stragrande maggioranza degli individui (ossia un processo di crescita
che consiste, fra le altre cose, nell’accumulo di sempre maggiori ricchezze), sia invece da rifuggire
per il vero uomo nobile, tenendo presente che un filosofo, per Nietzsche, è sempre un uomo
contraddistinto da una personalità aristocratica, non intendendo con ciò, ovviamente, il possedere
un titolo nobiliare.
Ma parlavamo di contraddizioni. Un’altra si palesa proprio quando il filosofo fornisce, sempre
nell’aforisma appena citato, altri tratti distintivi della natura aristocratica; osserva:
Che cos’è aristocratico?
L’accuratezza nelle cose più esteriori, addirittura un aspetto frivolo nella parola,
nell’abbigliamento […] l’assoluta convinzione che un lavoro manuale non disonori in alcun
modo, ma certamente tolga nobiltà. […] la convinzione che la cortesia sia una delle maggiori
virtù […] Gradire la compagnia dei prìncipi e dei preti, perché costoro in effetti conservano la
fede in una diversità dei valori umani persino nella valutazione del passato, almeno
simbolicamente e all’ingrosso.67
Poi, nel Così parlò Zarathustra, parlando ancora di nobiltà, afferma:
Il tipo migliore e che preferisco è oggi ancora il contadino sano, rozzo, scaltro, cocciuto, tenace:
è questa oggi la razza più aristocratica. Il contadino è oggi l’uomo migliore; e la razza dei
contadini dovrebbe essere padrona!68
Ebbene, queste due definizioni di nobiltà, di ciò che deve essere considerato “aristocratico”, sono
in stridente contrasto, in quanto le qualità aristocratiche che Nietzsche evidenzia nella Volontà di
potenza (ossia nei Frammenti postumi) non sono attribuibili ai contadini; prima di tutto, infatti, i
contadini, per quella che è la mia esperienza, non hanno certamente un aspetto frivolo
nell’abbigliamento né tanto meno nella parola; in secondo luogo, il filosofo dice che un lavoro
manuale toglie nobiltà, e quello del contadino è un lavoro manuale; poi afferma che la cortesia è
66
Ivi, af. 943.
Ibid.
68
F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., Colloquio con i re, p. 273.
67
62
una delle maggiori virtù, e i contadini non sono certo campioni di cortesia, e, almeno secondo
quello che mi è capitato di osservare, non gradiscono molto la compagnia dei preti.
Certo, Nietzsche non era così sprovveduto da cadere in una così evidente contraddizione senza
avvedersene, ed è plausibile che egli volesse evidenziare che esistono due tipi di nobiltà; ma resta il
fatto che queste due definizioni di ciò che è aristocratico sono praticamente opposte, e non
sappiamo quale, per il filosofo, sia quella più autentica; egli, tuttavia, sembra che nella definizione
di che cosa è aristocratico che fornisce nella Volontà di potenza stia parlando di qualcosa a cui lui
stesso si attiene, lasciando intendere di essere un aristocratico dalle “belle maniere” e dalla spiccata
cortesia.
Altra contraddizione: nella Volontà di potenza afferma: «Lo scetticismo è una conseguenza della
décadence»69; poi, altrove, dice: «L’uomo grande è necessariamente scettico». 70 La contraddizione
è piuttosto evidente, dal momento che l’uomo grande non può essere un decadente.
Altra contraddizione ancora; dichiara, in un aforisma già citato:
Io credo che colui che abbia intuito nell’amore una delle più basilari condizioni di crescita
comprenderà Dante, che sulla porta del suo Inferno scrisse: “Anche me creò l’eterno Amore”.71
Poi, nella Genealogia della morale, afferma:
Dante, a mio parere, ha commesso un grossolano errore nel porre con una ingenuità da far paura
sulla porta del suo inferno quell’iscrizione «fecemi l’eterno amore».72
Ebbene, nel primo brano sembra esaltare la scelta di Dante di scrivere quella frase sulla porta del
suo Inferno, mentre nel secondo brano definisce la stessa cosa come un “grossolano errore”.
Proseguiamo con la prossima contraddizione; sentenzia:
Noi psicologi dell’avvenire – noi abbiamo poca voglia di osservare noi stessi; riteniamo quasi
un segno di degenerazione il fatto che uno strumento cerchi di “conoscere se stesso”: noi siamo
strumenti della conoscenza e vorremmo avere tutta l’ingenuità e la precisione di uno strumento
– quindi non dobbiamo analizzare, “conoscere” noi stessi. Primo indizio dell’istinto di
autoconservazione del grande psicologo: non cerca mai se stesso, non ha occhi, né interesse, né
curiosità per se stesso… […] noi diffidiamo di ogni contemplazione del nostro ombelico, perché
per noi l’autoosservazione è una forma di degenerazione del genio psicologico.73
69
F. Nietzsche, La volontà di potenza, cit., af. 43.
Ivi, af. 963.
71
Ivi, af. 1030.
72
F. Nietzsche, Genealogia della morale, cit., p. 38.
73
F. Nietzsche, La volontà di potenza, cit., af. 426.
70
63
Riflessione: ma non è, Ecce homo, in buona parte, esattamente un’auto-analisi, un’autoosservazione?
Ma ecco l’ultima contraddizione che mi preme evidenziare; afferma:
… la “natura superiore” dell’uomo grande consiste nell’essere diverso dagli altri, nella sua
incomunicabilità, nella differenza di rango – e non in un qualsivoglia effetto, facesse pure
tremare l’orbe terracqueo.74
Poi, dice:
La lotta contro gli uomini grandi è giustificata per ragioni economiche. I grandi uomini sono
pericolosi, sono casi, eccezioni, cataclismi, forti abbastanza per mettere in questione ciò che fu
lentamente fondato e costruito. Si deve non solo far brillare questo esplosivo in modo tale che
non rechi danno, ma, se è possibile, prevenirne lo scoppio: istinto fondamentale di ogni società
civilizzata.75
Ma come? Prima dice che l’uomo grande è tale perché è “diverso dagli altri” e non perché può
causare degli effetti tali da far “tremare il globo terrestre”; poi, al contrario, afferma che l’uomo
grande è tale proprio perché è simile a un “cataclisma”, capace di “mettere in questione ciò che fu
lentamente fondato e costruito”, aggiungendo incredibilmente e, a mio avviso, con una punta di
masochismo, che lo scoppio di questo “esplosivo” (ossia l’uomo grande) deve essere, in una società
civilizzata, prevenuto, o al limite “fatto brillare” in modo tale che non rechi danno.
Tale affermazione è, come detto, auto-lesionista, in quanto il filosofo la inserisce nel contesto di
una filosofia, la sua, in buona parte tesa all’esaltazione e alla preparazione del terreno per l’avvento
(anche in politica) dell’uomo grande, la cui comparsa viene a più riprese auspicata; una filosofia in
cui trapela, a volte tra le righe a volte apertamente, la pretesa di essere, come abbiamo detto, egli
stesso un uomo grande, capace appunto come un esplosivo di provocare una “crisi” dalle
dimensioni mai viste; dichiara infatti in un brano che abbiamo già citato due volte:
Conosco la mia sorte. Un giorno sarà legato al mio nome il ricordo di qualcosa di enorme – una
crisi, quale mai si era vista sulla terra, la più profonda collisione della coscienza, una decisione
evocata contro tutto ciò che finora è stato creduto, preteso, consacrato. Io non sono un uomo,
sono dinamite.76
Sembrerebbe proprio che Nietzsche, come abbiamo già visto nella riflessione di Thomas Mann,
metta in guardia da se stesso, il che è piuttosto curioso.
74
Ivi, af. 876.
Ivi, af. 896.
76
F. Nietzsche, Ecce homo, cit., p. 127.
75
64
Se volessimo, la lista delle contraddizioni potrebbe durare ancora a lungo, ma ritengo che quelle
evidenziate siano sufficienti a capire la contraddittorietà a volte clamorosa che è possibile
riscontrare nelle pagine del filosofo di cui stiamo parlando. Resta da domandarsi: perché Nietzsche
si contraddice così frequentemente? La risposta a questo quesito non è semplice.
Probabilmente una spiegazione può essere trovata, almeno parzialmente, nella quasi assoluta
mancanza di sistematicità che contraddistingue le opere del pensatore, fatto, questo, che
inevitabilmente lo espone al rischio di cadere in contraddizioni. Del resto, l’asistematicità dell’opera
nietzscheana è una conseguenza diretta dell’approccio che Nietzsche ha con la realtà, che viene
spiegato bene da Eugen Fink, il quale osserva:
… il sistematico gli sembra o di una infinita ingenuità o di una infinita disonestà […] Nietzsche
non ha un vero rapporto con la sistematica; si muove piuttosto nel preconcetto che il carattere
enigmatico della realtà non è mai esprimibile in un sistema, che la vita è sempre più labirintica,
problematica, equivoca, misteriosa di ogni umano comprendere, che non solo la verità è una
donna che si lascia difficilmente conquistare dall’invadenza maldestra dei filosofi, ma, ancora di
più, che la vita stessa è una femmina impenetrabile, profondissima, incomprensibile.77
Tuttavia, appaiono a mio avviso più determinanti gli sbalzi di umore che caratterizzarono la vita
del filosofo, nonché il suo fare uso di droghe, cosa, questa, che inevitabilmente comporta
un’alterazione della psiche e, di conseguenza, un’“oscillazione” (ossia un cambiamento) delle
opinioni sulle cose.
6. Conclusioni
Io credo che la filosofia di Nietzsche possa essere capita e apprezzata nella sua profondità e nella
sua acutezza solo se, almeno in certi suoi aspetti, la si è “vissuta”, ossia solo se, in un certo senso, si
assomiglia a lui.
Alcune sue affermazioni, infatti, possono apparire incomprensibili o vuote di significato se non si
è, appunto, mai vissuto di persona alcune delle cose di cui parla il filosofo. Mi riferisco,
naturalmente, ad affermazioni inerenti alla “vita”, alle esperienze che facciamo quotidianamente e
sulle quali abbiamo riflettuto.
Penso ad esempio a riflessioni come questa: «La verità è brutta. Noi abbiamo l’arte per non
perire a causa della verità».78 E ancora:
77
78
E. Fink, op. cit., p. 161.
F. Nietzsche, La volontà di potenza, cit., af. 822.
65
Ogni arte agisce come un tonico, aumenta la forza, accende il piacere (cioè la sensazione di
forza), eccita tutti i più sottili ricordi dell’ebbrezza.79
È stupefacente constatare, infatti, come l’arte (soprattutto la musica) sia realmente un tonico,
come aumenti effettivamente la forza, e come abbia, anche solo per pochi attimi, la straordinaria
capacità di rinvigorire negli inevitabili momenti di debolezza. Anche l’altra affermazione, ossia
“Noi abbiamo l’arte per non perire a causa della verità”, è, nella sua semplicità, straordinariamente
vera.
Infatti, per quanto ciò possa sembrare banale, un mondo senza arte e senza la sua azione lenitiva
sarebbe quasi insopportabile.
È interessante notare che Nietzsche con il termine “arte” si riferisce anche alla religione, la quale
ha anch’essa, come forma di menzogna, il compito di salvare gli uomini (gli uomini deboli)
dall’inquietante e tragico pensiero della finitezza e insensatezza dell’esistenza; afferma:
La metafisica, la morale, la religione, la scienza vengono prese in considerazione in questo libro
soltanto come altrettante forme di menzogna: con il loro aiuto si crede nella vita. “La vita deve
ispirare fiducia”: il compito, così posto, è enorme. Per assolverlo, l’uomo deve essere bugiardo
già per natura, deve essere artista prima di ogni altra cosa. Ed egli è tale: metafisica, morale,
religione, scienza sono tutti parti della sua volontà di arte, di menzogna, di fuga dalla “verità”,
di negazione della “verità”.80
La grandezza dell’indagine psicologica nietzscheana è riconosciuta anche da Georg Simmel, il
quale, nella sua recensione al libro di Ferdinand Tönnies Il culto di Nietzsche, osserva:
Ma che si sia o meno d’accordo con i contenuti specifici delle analisi nietzscheane, si deve a
ogni modo riconoscere che egli ha portato a un livello più alto l’analisi psicologica in generale;
è stato capace di esprimere sfumature e intimità dell’anima, a cui nessuno finora aveva osato
avvicinarsi.81
Se mi è consentito, vorrei aggiungere che Nietzsche, oltre all’indubbio merito che gli riconosce
Simmel, dimostra un’onestà intellettuale a mio giudizio impareggiabile; soprattutto una frase che
viene pronunciata da Zarathustra e che viene riproposta in Ecce homo, rappresenta quanto di più
lontano ci possa essere da una visione delle cose impregnata di fanatismo, ottusa e volgare quale
era, in buona parte, quella che contraddistingueva il regime hitleriano.
Questa frase, che, come argutamente sottolinea lo stesso Nietzsche, non potrebbe mai uscire dalla
bocca di un fondatore di religioni, recita così:
79
Ivi, af. 809.
Ivi, af. 853.
81
F. Tönnies, op. cit., p. 150.
80
66
Che cosa dice [Zarathustra], quando per la prima volta torna alla sua solitudine? Proprio il
contrario di quello che direbbe in un caso simile un «saggio», un «santo», un «redentore del
mondo», o un qualche altro décadent… Non solamente sono diverse le sue parole, lui stesso è
diverso…
Ora vado da solo, discepoli miei! Anche voi andatevene da soli! Così io voglio.
Andate via da me e guardatevi da Zarathustra!
Ancora meglio: vergognatevi di lui! Forse vi ha ingannato.
L’uomo della conoscenza non soltanto deve saper amare i suoi nemici, ma deve anche saper
odiare i suoi amici.
Si ripaga male un maestro, se si rimane sempre scolari. E perché non volete sfrondare la mia
corona?
Voi mi venerate; ma che avverrà, se un giorno la vostra venerazione crollerà? Badate che una
statua non vi schiacci!
Voi dite di credere a Zarathustra? Ma che importa di Zarathustra! Voi siete i miei credenti, ma
che importa di tutti i credenti!
Voi non avete ancora cercato voi stessi: ecco che trovaste me. Così fanno tutti i credenti; perciò
ogni fede vale così poco.
E ora vi ordino di perdermi e di trovarvi; e solo quando mi avrete tutti rinnegato io tornerò tra
voi.82
Ecco il raffinatissimo paradosso di questa fondamentale e bellissima esortazione: mettendola in
pratica e diventando quindi più critici e diffidenti nei confronti di Nietzsche e della sua affascinante
filosofia, e non prendendo più per “oro colato” le sue riflessioni e le sue opinioni, noi suoi
ammiratori, così facendo, diventiamo ancora più “nietzscheani”.
Come credo sia emerso da questo lavoro, Nietzsche è un pensatore che elabora pensieri e
riflessioni che, per buona parte, sono semplici ma allo stesso tempo profondi. Naturalmente non
mancano nelle sue pagine considerazioni molto difficili e che, per essere comprese appieno,
necessitano di un bagaglio culturale molto ampio e approfondito.
Credo tuttavia, come ho già detto, che il suo genio si manifesti soprattutto nel suo impareggiabile
spirito di osservazione e nella sua capacità di mettere a fuoco tanti aspetti della vita quotidiana che,
una volta svelati e messi su carta, possono forse sembrare non adatti alla speculazione di un
filosofo, ma che a parere di chi scrive hanno invece una grande importanza. Per ovvi motivi non è
stato possibile, in questa sede, evidenziarne un numero maggiore, ma chiunque, prendendo in mano
La volontà di potenza, potrà rendersi conto di come all’interno di questo geniale scritto sia possibile
trovare tante pagine che parlano della “vita” nel senso letterale del termine.
Inoltre, anche quando il filosofo tedesco parla di cose semplici lo fa in un modo tale che, almeno
secondo la nostra opinione, esse acquistano un grande fascino e una grande profondità, grazie
soprattutto al suo stile linguistico davvero coinvolgente.
Esempio: abbiamo già citato quell’aforisma in cui il pensatore parla di come debba agire un
educatore; leggiamolo di nuovo:
82
F. Nietzsche, Ecce homo, cit., pp. 14-15.
67
Un educatore non dice mai quello che pensa, ma solo ciò che pensa di una cosa in rapporto
all’utilità di chi viene educato. Questa dissimulazione non deve essere tradita: il fatto che si
creda alla sua sincerità fa parte della sua maestria. Deve padroneggiare tutti i mezzi della
disciplina e dell’addestramento: molte nature le spinge innanzi solo frustandole con lo scherno,
altre forse – nature pigre, indecise, paurose, vane – con una lode esagerata. Un simile educatore
è al di là del bene e del male: ma nessuno lo deve sapere.83
Ora, il fatto che le nature “indecise” e “paurose” debbano essere incoraggiate in maniera
eccessiva rispetto ai loro meriti reali è un concetto che, per essere afferrato, non richiede una mente
geniale, e credo anche che questo modo di agire venga messo in pratica dalla maggioranza di coloro
che hanno responsabilità educative; tuttavia, espresso da Nietzsche, questo concetto appare di una
bellezza e di una profondità inaudite. Ripeto: forse alcune considerazioni del filosofo di cui stiamo
parlando potranno sembrare ovvie o addirittura banali, ma esse, oltre a “sprizzare” vita vissuta, sono
rese profondissime dallo stile linguistico usato per esporle. A proposito dello scrittore, osserva in un
frammento del 1882:
Poiché gli mancano molti dei mezzi che stanno a disposizione di colui che parla, lo scrittore
deve, in generale, avere come modello un modo molto espressivo di dire le cose […] Bisogna
imparare a sentire tutto come un gesto: la lunghezza o la brevità delle frasi, l’interpunzione, la
scelta delle parole, le pause, la successione degli argomenti. […] Lo stile deve dimostrare che si
crede ai propri pensieri, che essi vengono da noi non solo pensati ma anche sentiti. Quanto più
astratta è la verità che si vuole insegnare, tanto più bisogna prima di tutto sedurre i sensi perché
la colgano. Il ritmo del buono scrittore di prosa consiste nello sfiorare la poesia senza mai
sconfinare nella poesia. Senza un sentimento e una capacità poetica raffinata, non è possibile
avere questo ritmo.84
Non è tuttavia inesatto dire che Nietzsche, abbastanza spesso, usa parole diverse per ribadire
concetti già espressi, come fa notare Paolo Scolari, il quale afferma:
Non si può che dar ragione a Martelli, quando – al termine della sua opera Filosofia e società
nel giovane Nietzsche – afferma che «il pensiero di Nietzsche è un pensiero circolare, che
ritorna continuamente, incessantemente sui medesimi temi, che si sviluppa a spirale su se
stesso».85
Inoltre, si può a mio avviso affermare che buona parte della filosofia di Nietzsche (nonostante
egli, come è noto, non abbia letto neppure una riga di Marx) è uno sviluppo della celebre
affermazione che Marx fa a proposito della religione, ossia:
83
F. Nietzsche, La volontà di potenza, cit., af. 980.
F. Nietzsche, Frammenti postumi, 1882-1884, Volume VII, tomo I, parte I, Adelphi, Milano 1982, 1 [45].
85
P. Scolari, op. cit., pp. 78-79.
84
68
La miseria religiosa è insieme l’espressione della miseria reale e la protesta contro la miseria
reale. La religione è il sospiro della creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore,
così come è lo spirito di una condizione senza spirito. Essa è l’oppio del popolo.86
In questa affermazione è racchiusa, in una noce, larga parte della impietosa e feroce critica della
religione (soprattutto del cristianesimo) che Nietzsche mette in atto e alla quale dedicò tutte le sue
energie, scrivendo numerose pagine e cercando di effettuare tale critica nella maniera più
“capillare” possibile.
Esistono tuttavia delle differenze sostanziali fra i due pensatori; Marx, infatti, ritiene che
eliminare la religione sia un passo fondamentale da compiere per raggiungere una condizione in cui
il “popolo” (e quindi auspicabilmente tutti gli individui), una volta abbandonate le illusorie
prospettive di una felicità futura, possa finalmente godere di una felicità reale. Osserva:
Eliminare la religione in quanto illusoria felicità del popolo vuol dire esigerne la felicità reale.
L’esigenza di abbandonare le illusioni sulla sua condizione è l’esigenza di abbandonare una
condizione che ha bisogno di illusioni. La critica della religione, dunque, è, in germe, la critica
della valle di lacrime, di cui la religione è l’aureola.87
Marx, quindi, ritiene che la felicità possa essere conseguita anche in questa terra, e che anzi il
confidare in una illusoria e irreale felicità futura, ossia in un al di là, sia di intralcio al
raggiungimento di questo obbiettivo. Per il filosofo di Treviri, quindi, la politica può e deve creare
le condizioni affinchè gli individui siano felici.
Nietzsche, al contrario, ritiene che l’ambizione del socialismo di creare delle condizioni in cui le
“miserie umane” siano eliminate, sia del tutto illusoria, in quanto tali miserie, come ad esempio la
vecchiaia e la malattia, sono intrinsecamente legate alla natura umana; anzi, osserva Nietzsche,
l’utopistico intento dei socialisti ha come scopo una condanna della vita e dei suoi aspetti che,
seppure spiacevoli, fanno sì che una società si mantenga “giovane” e vitale. Afferma:
È un’onta per tutti i sistematici del socialismo pensare che possano verificarsi circostanze,
combinazioni sociali in cui il vizio, la malattia, il delitto, la prostituzione, la miseria non si
svilupperebbero più… Ma ciò significa condannare la vita… Una società non è libera di restar
giovane. E persino al colmo delle sue forze deve produrre lordume e rifiuti. Quanto più procede
con energia e audacia, tanto più diventa ricca di falliti, di deformi, tanto più si avvicina al
tramonto… Non si sopprime la vecchiaia con delle istituzioni. E nemmeno la malattia. E
nemmeno il vizio.88
86
K. Marx, in S. Moravia (a cura di), Scritti filosofici giovanili, Fabbri, Milano 1998, p. 77.
Ibid.
88
F. Nietzsche, La volontà di potenza, cit., af. 40.
87
69
Un altro aspetto che differenzia Nietzsche da Marx consiste nel fatto che Nietzsche,
contrariamente a quanto si auspica Marx, ritiene che eliminare la religione potrebbe rappresentare
un pericolo per il genere umano, in quanto ci sono molti individui che, proprio grazie ad essa,
riescono a sopportare un’esistenza che, appunto, senza la religione diverrebbe per loro
insopportabile. Per questi individui, deboli e infelici, sarebbe letale il venir meno del sostegno,
soprattutto morale ma anche economico, dei preti e della Chiesa, e soprattutto lo svanire della
speranza in una vita futura felice ed eterna li getterebbe nella disperazione.
Tuttavia Nietzsche, su questo punto è, come del resto su altri punti, contraddittorio; dice:
Le nostre premesse: nessun Dio, nessuno scopo, finitezza della forza. Vogliamo guardarci
dall’escogitare e prescrivere agli umili la mentalità che è loro necessaria!!89
Poi afferma:
… conservare i deboli, perché si deve compiere un’enorme massa di lavoro minuto; conservare
una mentalità che renda ancora possibile l’esistenza ai deboli e ai sofferenti.90
Infine, dichiara:
Le religioni come consolazioni; è pericoloso togliere la bardatura: l’uomo crede di potersi
riposare.91
Sorge spontanea la domanda: ritiene, Nietzsche, opportuno annientare tutte le religioni e le
consolazioni metafisiche in modo tale da rendere insopportabile la vita per quelli che lui chiama
“gli umili”, oppure, come sostiene nel secondo e nel terzo aforisma, pensa che i deboli siano
necessari e che la scomparsa della consolazione derivante dalle religioni rappresenterebbe un
pericolo per il genere umano?
Anche in un pensiero del 1862, quando il filosofo aveva diciotto anni, egli vede come foriera di
sventure la possibile scoperta, da parte delle masse, della falsità della religione, e, in primo luogo,
del cristianesimo; afferma:
… grandi sconvolgimenti sono imminenti, una volta che la massa abbia capito che l’intero
cristianesimo si fonda su ipotesi; l’esistenza di Dio, l’immortalità, l’autorità della Bibbia.92
89
Ivi, af. 595.
Ivi, af. 895.
91
Ivi, af. 958.
92
F. Nietzsche, Scritti giovanili, 1856-1864, cit., p. 204.
90
70
Come ho già accennato, un aspetto a mio avviso molto importante della filosofia nietzscheana è
la critica della “modernità”. Già nella società del suo tempo il pensatore tedesco riscontra uno
spirito demagogico e istrionico, in netto contrasto con i tempi passati da lui tanto osannati;
osserva:
In realtà, oggi tutto il mondo piange la cattiva sorte riservata una volta ai filosofi, stretti fra i
roghi, la cattiva coscienza e un’arrogante sapienza da Padri della chiesa: ma la verità è che
appunto allora esistevano condizioni più favorevoli per educare una spiritualità potente, vasta,
scaltra e temeraria, migliori di quelle che vigono oggi, nella vita odierna. Oggi è un’altra specie
di spirito, lo spirito demagogico, lo spirito istrionico, forse anche lo spirito dei castori e delle
formiche, la spiritualità del dotto, quella che trova le condizioni più favorevoli per
manifestarsi.93
Chissà cosa avrebbe detto se avesse potuto vedere quanto accade oggi, quando la demagogia e
l’istrionismo sono divenuti pratiche quotidiane, specialmente in politica. Un altro merito di
Nietzsche, a mio avviso, consiste nel fatto che ha elaborato una filosofia che per molti versi non
invecchierà mai, in quanto è una filosofia che, come abbiamo detto più volte, è molto legata agli
aspetti quotidiani dell’esistenza, e anche nei suoi lati apparentemente più anacronistici, ad esempio
nell’esaltazione dei tempi passati, è possibile riscontrare riflessioni che varranno probabilmente per
sempre, senza togliere che si può essere più o meno concordi con le sue opinioni.
Quello che appare meno bello, nella prosa nietzscheana, è la ferocia che a volte diventa davvero
sgradevole, e che si alterna, lo abbiamo visto, a riflessioni veramente squisite; come ha osservato
giustamente Eugen Fink, riferendosi specialmente allo scritto L’anticristo, «… non si è convincenti
quando si ha la schiuma alla bocca». 94
Del resto è lo stesso Nietzsche, in una sorprendente quanto spietata auto-analisi, a rendersi conto
di quanto certi suoi scritti siano caratterizzati dal fanatismo, suggerendo ai suoi lettori, ancora una
volta, di leggere le sue idee con “cautela”; afferma infatti, in un frammento del 1880:
Poco tempo fa, ho tentato di fare la conoscenza con le mie vecchie opere, che avevo
dimenticato; una loro comune caratteristica mi ha spaventato: esse parlano il linguaggio del
fanatismo. Quasi dovunque, in esse, il discorso si rivolge a chi la pensa diversamente, si può
notare quel modo sanguinoso di ingiuriare e quell’entusiasmo nella cattiveria, che sono i
contrassegni del fanatismo: contrassegni odiosi, a cagione dei quali non avrei resistito a leggere
fino in fondo quegli scritti, se avessi conosciuto un po’ meno l’autore. Il fanatismo rovina il
carattere, il gusto e, da ultimo, anche la salute: e chi voglia ristabilirli tutti e tre radicalmente,
deve rassegnarsi a una cura lunga e noiosa. Ora che ho detto tante cose di me, e per di più non
certo le più edificanti, - così come la consuetudine delle prefazioni invero non consiglia ma
tuttavia permette, - mi sia lecito, almeno, sperare che le mie più recenti idee, che presento in
questo volume, siano lette non senza cautela. 95
93
F. Nietzsche, La volontà di potenza, cit., af. 464.
E. Fink, op. cit., p. 145.
95
F. Nietzsche, Frammenti postumi, 1879-1881, Adelphi, Milano 1964, 3 [1].
94
71
Già in un frammento del 1876 il filosofo aveva detto, forse riferendosi anche in questo caso a se
stesso:
Valore di uno stato di depressione. Persone che vivono in uno stato di depressione interiore
sono inclini agli eccessi – anche nel pensiero. La crudeltà è spesso il segno di una
insoddisfazione interiore che desidera di essere narcotizzata; così pure una certa crudele
brutalità nel pensiero.96
Un’analisi molto severa della filosofia di Nietzsche viene anche da un suo amico, Erwin Rohde,
il quale, dopo aver letto Al di là del bene e del male, scrive a un altro amico di Nietzsche, Franz
Overbeck, dicendo:
La maggior parte delle cose le ho lette con grande disappunto. Per lo più non sono che discorsi
postconviviali di uno che ha mangiato troppo, qua e là caricati dall’eccitazione del vino, ma
pieni di un ripugnante disgusto per tutto e per tutti. L’elemento propriamente filosofico vi è
assai misero e quasi puerile, come quello politico è sciocco e dimostra ignoranza del mondo,
ogni volta che viene affrontato. […] Sono visioni di solitario e pensieri-bolle-di-sapone che
certamente procurano diletto e distrazione al solitario che li plasma; ma perché mai comunicare
tutto ciò al mondo come una specie di vangelo? E anche questo eterno preannunciare cose
immani, audacie orripilanti del pensiero, che poi non vengono affatto, a scorno e noia del
lettore!, tutto ciò suscita in me un indicibile ribrezzo… […] Insomma, questo libro, per parlar
chiaro, mi ha infastidito in modo tutto particolare, e più di tutto la gigantesca vanità dell’autore
[…] Gli ci vorrebbe di lavorare una buona volta come un onesto artigiano, e allora capirebbe
qual valore abbia questo sfiorare cose di tutti i generi e l’indigestione passiva di impressioni e di
trovate: nessun valore!... Sa che cosa temo per gli anni di Nietzsche che verranno? Finirà per
strisciare davanti alla croce, per la nausea di tutto e per la sua venerazione per tutto quanto è
“distinto”, che ha sempre avuto in corpo, ma che ora ha trovato una esaltazione veramente
sgradevole.97
Overbeck rispose:
Anche se posso concederLe almeno la metà di tutto quanto Lei rimprovera al libro e all’autore,
ritengo che le Sue parole siano dettate dalla collera. […] Nonostante, come mi sembra da
quest’ultimo libro, il crescente dilettantismo, i libri di Nietzsche guidano lo studioso, o quanto
meno lo studioso che è in me, più intimamente addentro le cose che non i monumenti di un
procedimento più metodico, quali di solito vengono eretti al giorno d’oggi. […] E così è per la
maggior parte delle Sue obiezioni: in sé e per sé e in un primo momento sono d’accordo, ma
complessivamente e in un’ultima analisi sono di opinione del tutto diversa.98
Mazzino Montinari commenta così queste due lettere:
La reazione di Rohde alla lettura di un libro come Al di là del bene e del male può sembrare
ingiusta e stizzosa; in realtà essa si spiega non appena si prenda Nietzsche – come ha fatto
Rohde in questo caso – alla lettera e in parola, si creda cioè ai suoi atteggiamenti, ci si lasci
96
F. Nietzsche, Frammenti postumi, 1876-1878, Adelphi, Milano 1977, 18 [6].
M. Montinari, op. cit., pp. 166-168.
98
Ivi, pp. 168-170.
97
72
impressionare dal suo profetismo, dalle sue continue promesse di cose mai viste. Naturalmente è
possibile, in questo caso, anche la reazione eguale ma di segno contrario, positivo, intendiamo
dire la reazione dei devoti di Nietzsche: Nietzsche è stato veramente, almeno a cavallo del
secolo, una specie di Messia per molti intellettuali europei deboli di mente. Il sereno giudizio di
uno spirito indipendente come Franz Overbeck è invece quello giusto. E proprio Overbeck ci ha
lasciato anche la testimonianza personale più significativa tra quelle di tutti coloro che
conobbero Nietzsche da vicino. Egli ha scritto: «Nietzsche è la persona nella cui vicinanza ho
respirato nel modo più libero possibile» (C. A. Bernoulli, 1908, vol. II, p. 423). Chi, nel leggere
Nietzsche, non senta di respirare liberamente, deve starne lontano, per non diventare una
caricatura, per non finire nietzscheano.99
Insomma, lo abbiamo visto, Nietzsche è un pensatore che non lascia indifferenti. Come ho già
avuto modo di dire io penso, marxianamente, che i filosofi debbano influire nelle vicende umane, e
che non si debbano limitare a comprenderle. «I filosofi hanno dato solo delle interpretazioni diverse
del mondo: quel che conta, però, è cambiarlo»: questo celebre assunto marxiano dovrebbe ispirare
ogni filosofo, in quanto la filosofia, molto più della poesia, della musica, del teatro, della letteratura
e della cultura “fine a se stessa”, ha i mezzi, come riconosce anche Russell, per influire sulla
politica; come abbiamo visto, Russell afferma: «I filosofi sono insieme effetti e cause: effetti delle
condizioni sociali, politiche e istituzionali del loro tempo; cause (se sono fortunati) delle dottrine
che modellano la politica e le istituzioni delle età successive».
La filosofia di Nietzsche, come abbiamo cercato di dimostrare nel primo capitolo del presente
lavoro, ha precise responsabilità nell’avvento del nazismo, e quindi non è errato affermare che ha
causato, seppure indirettamente, le sofferenze indicibili di milioni di persone, e questo sembrerebbe
sufficiente a marchiarla come una grande sventura. Non è così.
Io sono convinto che (così come del resto dovremmo fare quando ci troviamo a relazionarci con
le persone) il nostro compito sia quello di cercare di vedere i lati positivi nelle varie filosofie, e la
filosofia di Nietzsche, lo abbiamo visto, ne ha molti. È una filosofia che è anche una forma di arte, e
che risulta gradevole persino all’orecchio, anche se questa, ovviamente, è l’opinione di chi scrive.
Una mia personale convinzione che vorrei ribadire è che, nell’approccio con la filosofia di questo
grande pensatore (ma anche con tutte le altre), trovo che sia inutile e anche un po’ fastidioso fare
troppe dietrologie; certo, un po’ di indagine psicologica è legittima e anche utile, ma deve rimanere
sempre in secondo piano rispetto a quello che ogni filosofo ci vuole dire, senza cercare troppo di
capire perché lo dice.
Ad esempio, come riferisce Alice Gonzi nel suo Zarathustra a Parigi, H. Albert ritiene che la
vita di Nietzsche sia «dominata interamente da un’idea unica, l’idea del sacrificio, la gioia del
99
Ivi, p. 170.
73
sacrificio, virtù essenzialmente cristiana. […] Nietzsche finisce col creare l’oltreuomo perché,
probabilmente, spinto da un desiderio di credere in qualche cosa». 100
Ora, lungi da me il voler confutare tale ipotesi; può essere che Nietzsche abbia elaborato una
filosofia tutta tesa, in ultima analisi, alla distruzione del cristianesimo proprio perché, per qualche
oscuro meccanismo psicologico, egli sentiva un impulso insopprimibile a ribellarsi ai suoi istinti
irrimediabilmente cristiani (del resto era figlio di un prete), ma questo, come detto, ci deve
interessare relativamente; ripetiamolo: a noi deve interessare cosa ha detto, e non perché lo ha detto.
Nello scegliere gli aforismi, ho cercato di selezionare quelle riflessioni che a mio giudizio sono
maggiormente connesse alla vita reale. La volontà di potenza, che per molti studiosi è un testo che
neppure esiste, è invece a mio avviso lo scritto di gran lunga più interessante e che meglio riassume
i pensieri del filosofo; esso appare come un’esposizione sistematica del sistema filosofico di
Nietzsche, e può essere considerato una summa dei pensieri che egli elabora nelle sue opere
precedenti.
Cosa dire ancora? Sergio Moravia afferma che «… Nietzsche ha obbligato l’umanità a divenire
adulta»,101 ma temo che non abbia ragione. L’umanità non sa neppure che Nietzsche esiste.
Naturalmente non intendo dire che l’influenza e l’importanza di un pensatore si misura in base alla
sua notorietà, anzi, ma credo che l’umanità stia andando in una direzione molto diversa da quella
che il nostro filosofo si auspicava.
Io credo che la filosofia di Nietzsche sia molto sottovalutata, e che non si comprenda appieno la
sua potenziale ricchezza e utilità; Moravia ha ragione, uno degli obiettivi di Nietzsche è proprio
quello di far maturare l’umanità, ma, come detto, attualmente stiamo andando in una direzione non
solo diversa, ma addirittura opposta rispetto a quella che il filosofo tedesco vuole suggerirci.
Non nego, tuttavia, che la filosofia nietzscheana possa essere anche pericolosa; osserva Thomas
Mann:
Attraverso l’estetismo di Nietzsche, che è una furiosa rinnegazione dello spirito a favore della
vita bella, forte, spregiudicata, attraverso quel rinnegarsi di un uomo che soffre profondamente
della vita, qualcosa di non vero, di non responsabile, di non fidato e di passionalmente istrionico
s’insinua nei suoi sfoghi filosofici, qualcosa che deve irrimediabilmente confondere i lettori
meno esperti. Non solo è arte quel che egli ci offre; arte è anche saperlo leggere. Nessuna
goffaggine o ingenuità è permessa. È una lettura che richiede ogni specie di astuzia, d’ironia, di
riserve. Chi prende Nietzsche “in senso proprio”, alla lettera, è perduto.102
Non è dato sapere cosa intenda Thomas Mann con “perduto”, ma è significativo che egli non dica
che prendere Nietzsche alla lettera è “sbagliato”, “disonesto”, oppure “inutile”; probabilmente
100
A. Gonzi, Zarathustra a Parigi, Aracne, Roma 2012, p. 121.
S. Moravia, L’enigma dell’esistenza, Feltrinelli, Milano 1996, p. 70.
102
T. Mann, op. cit., p. 100.
101
74
intende dire che prendendo Nietzsche alla lettera ci addentriamo senza riserve e senza protezioni
nella sua psiche tormentata e labirintica, e questo in effetti può essere molto pericoloso.
Resta il fatto che, a mio giudizio, la bellezza della filosofia di Nietzsche può essere colta appieno
proprio prendendola alla lettera, anche quando, non di rado, si palesano delle evidenti
contraddizioni, le quali tuttavia si inseriscono in un “quadro filosofico” generale dove è possibile
scorgere un chiaro e preciso filo conduttore.
75
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76
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