Mons. Carlo Ellena - Diocesi di Torino

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ASSEMBLEA MISSIONARIA DIOCESANA
14 febbraio 2015
COMMENTO ALLA PAROLA
di Mons. Carlo Ellena
(Trascrizione non rivista dal relatore)
Dal Vangelo secondo Giovanni (15,12-17)
Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha
un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se fate ciò
che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone;
ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l'ho fatto conoscere a voi.
Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il
vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda.
Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri.
Devo molto alla Chiesa torinese, che mi ha generato, mi ha inviato. Ho fatto quello che papa Pio XII aveva
chiesto alle Chiese di tutto il mondo come Fidei Donum, sono partito dando quel poco che potevo. Devo
molto a voi della Chiesa torinese perché mi avete appoggiato negli anni e in tanti modi. Oggi volete mettere
in movimento la società, le parrocchie e i gruppi per continuare quest’opera di evangelizzazione, perché la
Parola, per il desiderio di Cristo e della Chiesa si compia.
Mi fermerò a commentare le prime righe del Vangelo che abbiamo ascoltato: non c’è amore più grande di
chi da la vita. È una frase con il superlativo relativo: il più grande amore è quello di chi dà la vita. Se fosse
detta con il superlativo assoluto “grandissimo amore” si potrebbe dire che esistono anche altri amori
grandissimi. È l’unico, il più grande.
Un’altra frase nello stesso Vangelo che dice amatevi «come io ho amato voi». Amare come Cristo: un
amore totale completo preferenziale, che porta fino alla morte se fosse necessario. Chi dà la vita è quello
che ama più di tutti gli altri.
Queste due frasi mi fanno un po’ paura, quel “come” in particolare. Perché è un punto di arrivo molto alto,
solo che nell’amore non si giunge da un giorno all’altro, è una scala e i gradini non sono facili, ma è
necessario scalarla.
Un primo gradino potrebbe essere “ama come ami te stesso”, che è già un bell’impegno. Noi ci vogliamo
bene, per noi vogliamo le cose migliori. Un secondo gradino è “ama gli altri come tu vorresti essere amato”.
Noi ci aspettiamo tante cose dagli altri e amare come vorremmo essere amati è già un gradino più alto. Ma
amare “come” Cristo ci ha amati fa paura, perché sappiamo quanto esige quel “come”: è la croce, la morte
per causa di Cristo, è fare ciò che lui ha fatto, non solo una volta, ma tante volte. Anche oggi, ogni volta che
si celebra la messa, quel sacrificio capita nuovamente. Questo è vero in tutti i sacramenti. Una rima aiutava
i miei amici del Brasile, i giovani della Cresima o gli anziani, quando dicevo: “ciò che capitò anticamente,
capita nuovamente, ma in forma differente”. Questa piccola rima li aiutava a capire che il sacrificio di
Cristo, la sua morte, è stata quel giorno, quel pomeriggio, ma avviene anche adesso, ogni giorno, tutte le
volte che celebriamo la Messa.
La forma è differente, non c’è dubbio, non più lingue di fuoco, non più la voce del Padre al Giordano, non
più il Cenacolo. Cambia la forma, ma l’essenziale, l’amore più grande rimane anche oggi. È il martirio. E
potremmo domandarci, per scendere al pratico: come va l’amore oggi per le nostre contrade, nella nostra
società? Domanda che normalmente si faceva e si fa negli incontri delle comunità di base: dopo aver letto il
Vangelo, che cosa mettiamo intorno a noi, cosa possiamo fare? Si parla della salute, la famiglia, come va la
droga nel nostro villaggio e mille altri problemi. Risponderei subito che va male, visto i fatti gravi che
capitano, inconcepibili, visto l’insistenza dei mezzi di comunicazione nel descrivere, viste le spiegazioni che
si danno nei minimi particolari di quanto è capitato, in modo, forse involontario, che diventa quasi un
incentivo. Direi va male. Ne possiamo uscire pessimisti, ma io dico anche che ci sono speranze, si, ci sono
speranze. Ci sono, altrimenti il Vangelo sarebbe impraticabile, una proposta assurda, dovremmo chiudere le
Chiese, gli oratori, i seminari, tutti questi gruppi missionari che noi rappresentiamo. Ci sono speranze
perché ci sono esempi, molti, di persone che hanno saputo amare e sanno oggi amare fino a dare la vita, ci
sono!
Il Papa riconosce che mai nella Chiesa ci sono stati tanti martiri come ai giorni nostri, nascosti, ma veri
martiri, la speranza. La società cristiana è un pullulare di gruppi, comunità, onlus, centri missionari
diocesani, parrocchiali, cattolici e non, che vivono il “non sono venuto per essere servito ma per servire” e,
guarda caso, questa frase è il tema centrale della Quaresima di fraternità del Brasile. Questa nostra e quella
del Brasile sono in coppia.
Non sono venuto «per essere servito ma per servire» (Mc 10,45): le finalità sono infinite, ma tutte nascono
da lì, dall’amore di Dio. Mai visti tanti gruppi come oggi, che si interessano degli altri. Stiamo pensano,
organizzando il momento forte della Chiesa Torinese, la Quaresima di Fraternità. Che speranza c’è? Il
mondo missionario, nelle retrovie o direttamente in missione, sta lì per dimostrarlo e affermarlo. O
vogliamo spegnere la dimensione missionaria, che è fondamentale per l’esistenza della Chiesa? Se un
cristiano non è missionario non è un vero cristiano, se una parrocchia non è missionaria non è una
parrocchia cristiana, né una parrocchia di Gesù Cristo. Se una diocesi non è missionaria non è la diocesi che
Gesù Cristo vuole o che la chiesa cattolica vuole, e se la Chiesa cattolica non è missionaria non è la chiesa di
Gesù. È fondamentale e costitutivo per la nostra Chiesa la missionarietà.
Insomma dato fino alla morte. Quest’amore, alla fine lascia contenti, felici, poveri ma felici e contenti è un
amore che si fa imitare, attrae, voglio anch’io provare. In certi luoghi si sta sperimentando un aumento di
vocazioni sacerdotali: chi da è contento, forse anche preoccupato, ma è contento perché ha speso bene le
energie e la vita.
Potrei illustrare esempi di vescovi, preti, suore, contadini, laici, indios che hanno percorso questa strada. Ne
ho conosciuti parecchi, alcuni sono giunti anche a morire per causa della terra, per causa della famiglia, per
causa dei diritti. Solo per citarne alcuni: Suor Dorothy, Oscar Romero, e ne ho in mente alcuni che sono
nella lista di condannati alla morte, preti e vescovi. In particolare tre: don Ervin, da sempre ha combattuto
in favore degli indios ed è accompagnato giorno e notte oggi da una scorta militare. Marcado para morrer.
Uno spagnolo, don Luis, ha denunciato il traffico umano nell’isola del Marajo. Ha denunciato che spariscono
donne, ragazze, portate all’estero per la prostituzione, bambini spariscono, alcuni sicuramente perché nei
paesi ricchi si possano avere organi da trapiantare. E per questo sono vescovi che sono Marcados para
morrer. Un altro è piemontese, di Morello, dom Flavio Giovenale: anche lui è nella lista, insieme con altri
preti. Alcuni anni fa si è scoperto nella sua diocesi, Abaetetuba, che c’era una prigione dove erano rinchiusi
una ventina di giovani e in mezzo a loro c’era anche una ragazza. È stato uno scandalo per il Brasile, che lui
ha denunciato ed è chiaro che lui è entrato nella lista.
E poi contadini: circa 150 contadini in questi ultimi anni che sono stati uccisi per causa della terra; suore,
indios che sono caduti per difendere la proprietà indigena e per difendere anche i diritti degli indios, che
sono quasi cacciati come animali in certi posti.
Allora preoccupati sì, per i problemi, per la missione, ma sereni. Queste presenze fanno ben sperare, danno
la certezza che il Vangelo va avanti, sta facendo un bel cammino e anche con il nostro aiuto. Per questo
complimenti a voi, a tutti noi in fondo, perché stiamo organizzando una bella attività in favore del Vangelo.
Amen
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