Praticantato senza l’effettivo carattere formativo? E' lavoro subordinato Cassazione civile, sez. lavoro, sentenza 25.09.2014 n. 20231 (Maria Spataro) Ciò che distingue il praticantato professionale dal comune rapporto di lavoro sia subordinato che autonomo, anche nella forma del lavoro coordinato e continuativo, e dalle forme speciali di tirocinio e apprendistato, è la mancanza di corrispettività delle reciproche prestazioni delle parti coinvolte. L’unico oggetto del rapporto di praticantato è l’insegnamento impartito dal maestro, rispetto al quale l’attività compiuta dall’allievo, pur se eterodiretta, è strumentalmente funzionale all’acquisizione delle nozioni pratiche occorrenti per l’esercizio della professione. Si tratta, in altre parole, di una prestazione che, diversamente da quanto accade nel lavoro subordinato, non presenta il requisito dell’alienità poiché non è finalizzata alla soddisfazione dell’interesse dell’altra parte ma unicamente al perseguimento di un interesse proprio del praticante (quello alla sua formazione), non potendo, pertanto, per queste ragioni, costituire il corrispettivo dell’addestramento impartito dal dominus. Né l'eventuale erogazione, anche periodica, di somme al praticante potrebbe mutare il descritto assetto, trattandosi di prestazione, quando non eventuale, comunque accessoria ed estranea alla causa di addestramento, con funzione in parte di rimborso spese ed in parte di indennità di sostegno. Va da sè che ciò non sarebbe vero lì dove, nell’effettivo svolgimento del rapporto di praticantato, manchino i caratteri propri dell’addestramento professionale e, viceversa, i contenuti concreti di esecuzione del rapporto medesimo siano compatibili con un vero e proprio rapporto di lavoro subordinato. Resta, pertanto, essenziale accertare le effettive modalità di svolgimento del rapporto di lavoro. La nostre Corti si sono più volte occupate della problematica giungendo, nella maggior parte dei casi, ad escludere la compatibilità del tirocinio professionale, in particolare durante la fase obbligatoria, con la natura di rapporto di lavoro subordinato. Non sembra andare nella stessa direzione la recente sentenza 25 settembre 2014, n. 20231 della Suprema Sezione Lavoro della Corte di Cassazione che ha, viceversa, implicitamente ravvisato il carattere della subordinazione nelle modalità di esecuzione del tirocinio professionale di un giovane aspirante geometra nei confronti dello studio di architettura presso il quale lavorava, in particolare nella carenza in esse del necessario insegnamento del dominus. La fattispecie concreta merita di essere chiarita. Un giovane geometra adiva il Giudice del Lavoro affinchè riconoscesse la natura di lavoro subordinato a tempo pieno nel rapporto intrattenuto con lo studio di architettura presso il quale, dopo aver conseguito il diploma da geometra, aveva inizialmente intrapreso il percorso formativo(praticantato) utile al conseguimento dell’abilitazione professionale, e poi, contestualmente ad esso, prestato attività lavorativa subordinata a tempo parziale in forza di regolare contratto. I due gradi di merito accoglievano le sue doglianze, riconoscendo, nella ricostruzione fattuale del rapporto intercorso tra le parti in causa operata in sede istruttoria, le caratteristiche della subordinazione, e condannavano parte datoriale al versamento in suo favore delle differenze retributive. In particolare, secondo i Giudici di merito, il rapporto instauratosi in seguito alla formalizzazione del contratto part-time, avvenuta durante il periodo di tirocinio professionale obbligatorio, presentava i caratteri della subordinazione a tempo pieno, in considerazione delle mansioni svolte, attinenti all’attività dello studio professionale, e del fatto che il ricorrente seguisse le direttive del titolare dello studio, così escludendo che nell’ambito del complessivo orario di lavoro, una parte della prestazione fosse effettivamente ricollegabile alla pratica professionale, data l’assenza della documentazione attestante la fine del periodo di praticantato obbligatorio, del necessario insegnamento del titolare dello studio e di una reale evoluzione della prestazione lavorativa. Ratio decidendi poi ripresa e confermata dal Supremo Giudice del Lavoro nella sentenza in esame, a cui il datore di lavoro soccombente nel merito ha affidato le sue doglianze. Nelle motivazioni la Suprema Corte ha osservato come correttamente il Giudice di merito, in entrambi i gradi di giudizio, abbia valorizzato il principio dell’effettività cui, nel diritto del lavoro, occorre aver riguardo nell’individuazione della natura del rapporto, che importa la prevalenza sul nomen juris utilizzato dalle parti, ovvero sulla dichiarazione contrattuale con le quali le stesse hanno formalizzato il rapporto, dell’assetto di interessi emergente dal comportamento concreto da esse tenuto nello svolgimento del rapporto stesso. In ossequio al detto principio, ed al principio dell’indisponibilità del tipo contrattuale, più volte affermato dalla Corte Costituzionale e dal quale il primo deriva (cfr. Corte Cost. 121/1993 e 115/1994), la Sezione Suprema investita ha ricordato che “sia allorquando le parti, pur volendo attuare un rapporto di lavoro subordinato, abbiano simulatamente dichiarato /di volere un diverso rapporto lavorativo al fine di eludere la disciplina legale inderogabile in materia, sia nel caso in cui l’espressione verbale abbia tradito la vera intenzione delle parti, sia infine nell’ipotesi in cui, dopo aver voluto realmente il contratto di lavoro autonomo, durante lo svolgimento del rapporto le parti stesse, attraverso fatti concludenti, mostrino di aver mutato intenzione e di essere passate ad un effettivo assetto di interessi corrispondente a quello della subordinazione, il giudice di merito cui compete di dare l’esatta qualificazione giuridica del rapporto, deve attribuire valore prevalente al comportamento tenuto dalle parti nell’attuazione del rapporto stesso”. La circostanza che, nel caso di specie, il rapporto di lavoro subordinato fosse stato regolarizzato solo con riguardo ad alcune ore giornaliere non esclude che lo stesso si svolgesse, viceversa, a tempo pieno, non ostando a tale ultima conclusione nemmeno la circostanza che nelle restanti ore la frequentazione dello studio da parte del lavoratore fosse giustificata dalla necessità di svolgere la pratica professionale. Sulla scorta di queste conclusioni, la Corte Suprema ha rigettato il ricorso presentato dal titolare dello studio professionale, riconoscendo, di fatto, sia pur implicitamente, natura subordinata all’attività svolta dall’aspirante professionista a titolo di pratica professionale. (Altalex, 6 novembre 2014. Nota di Maria Spataro) / pratica professionale / lavoro subordinato / geometra / Maria Spataro / Lavoro subordinato, pratica professionale, requisiti, differenze, prova Cassazione civile, sez. lavoro, sentenza 25.09.2014 n. 20231 Nell'individuazione della natura del rapporto, occorre avere riguardo al principio dell'effettività, che importa che il nomen iuris utilizzato dalle parti, così come le modalità con le quali il rapporto è stato formalizzato, costituiscono solo uno degli elementi ai quali occorre avere riguardo nella valutazione complessiva della situazione contestuale e successiva alla stipulazione del contratto finalizzata ad accertare l'oggetto effettivo della prestazione convenuta. Pertanto, nella specie, il fatto che il rapporto di lavoro subordinato sia stato regolarizzato per cinque ore al giorno non esclude di per sé la possibilità di ritenere che esso si sia svolto con orario pieno, né osta a ciò che anteriormente all'inizio della prestazione di lavoro subordinato la frequentazione dello studio da parte del dipendente sia stata giustificata dalla necessità di svolgere la pratica professionale per l'abilitazione di geometra, ove da tale epoca, anche in considerazione delle esperienze pregresse acquisite, il rapporto tra le parti abbia assunto modalità diverse. (1) (*) Riferimenti normativi: artt. 2094 e 2697 c.c. (1) Cfr. Cass. Civ., sez. lavoro, sentenza 18 aprile 2007, n. 9264. (Fonte: Massimario.it - 38/2014. Cfr. nota di Maria Spataro) / lavoro subordinato / pratica professionale / requisiti / differenze / prova / SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE SEZIONE LAVORO Sentenza 27 maggio – 25 settembre 2014, n. 20231 Presidente Lamorgese – Relatore Ghinoy Svolgimento del processo Con la sentenza non definitiva n. 829 del 2010 la Corte d'Appello di Venezia, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Rovigo, accertava che F.F. aveva svolto attività di lavoro subordinato per 40 ore settimanali in favore di C.F. nel periodo dal 2/5/1992 al 1/9/1999; con la successiva sentenza definitiva n. 548 del 2011, all'esito della disposta consulenza tecnica contabile, condannava C.F. per il titolo accertato con la sentenza non definitiva al pagamento in favore del F. della somma di e 38.779,94 oltre interessi legali e rivalutazione monetaria. Nella motivazione della Corte - incontestato essendo che il F., dopo avere conseguito il diploma di geometra, aveva frequentato continuativamente lo studio di architettura di C. F. per il periodo dal 5 febbraio 1991 ai 1 settembre 1999 - l' esito dell'istruttoria testimoniale aveva consentito di appurare che nella fase iniziale del rapporto tale frequentazione era stata giustificata dal praticantato necessario per conseguire l'abilitazione come geometra (poi effettivamente conseguita nel 1996). Per il periodo successivo alla primavera dei 1992, epoca dalla quale il rapporto di lavoro era stato regolarizzato con contratto di lavoro subordinato part-time dapprima per cinque ore al giorno, successivamente ampliate dal 1.10.1995 a sei ed infine dal 1.5.1996 a sette ore giornaliere, ad avviso della Corte il F. aveva lavorato a tempo pieno, svolgendo in qualità di lavoratore subordinato mansioni inerenti le attività svolte dallo studio professionale, seguendo le direttive del titolare, con una certa autonomia in alcune delle pratiche affidategli. Né poteva ritenersi che vi fosse stata un'attività distinta ed effettivamente ricollegabile alla pratica professionale, in assenza del necessario insegnamento, di una reale evoluzione delle mansioni e dei fatto che risultava documentata la fine del periodo di praticantato nei novembre del 1992. Per la cassazione di entrambe le sentenze C.F. ha proposto ricorso, affidato ad un unico motivo, illustrato anche con memoria ex art. 378 e.p.c.; F.F. è rimasto intimato. Motivi della decisione 1. Il ricorso per cassazione è affidato ad un unico motivo, con il quale C.F. lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 2094 e 2697 c.c. nella quale sarebbe incorsa la Corte d'Appello non considerando che la domanda proposta in causa aveva ad oggetto l'estensione quantitativa del rapporto di lavoro subordinato a scapito di quello di praticantato e dunque, nella sostanza, una novazione dell'accordo ratificato nel contratto part-time del 2 maggio 1992, che presupponeva la pacifica coesistenza dei due rapporti. Ciò comportava che sarebbe stato onere del ricorrente dare specifica prova dell'avvenuta novazione e dunque del preteso assorbimento del rapporto di praticantato in quello di lavoro subordinato, sicché potesse ritenersi che tutta l'attività da lui svolta fosse ascrivibile a questa seconda forma contrattuale. 2. Il motivo non è fondato. Il Giudice di merito ha dato ampio riscontro delle circostanze di fatto emerse dall'istruttoria testimoniale, che manifestavano come il rapporto realizzatosi a far data dal 2.5.1992 (successivamente alla formalizzazione con contratto part-time) e per tutto l'orario di lavoro avesse presentato le caratteristiche della subordinazione, in considerazione delle mansioni svolte, attinenti le attività dello studio professionale, e del fatto che il ricorrente seguisse le direttive del titolare. Ha poi escluso che nell'ambito del complessivo orario di lavoro una parte della prestazione fosse effettivamente ricollegabile alla pratica professionale, in assenza del necessario insegnamento, di una reale evoluzione delle mansioni e del fatto che risultava documentata la fine del periodo di praticantato nel novembre del 1992. In tal senso, quindi, ha valorizzato il principio di effettività cui occorre avere riguardo nell'individuazione della natura del rapporto, che importa che il nomen iuris utilizzato dalle parti, così come le modalità con le quali il rapporto è stato formalizzato, costituiscono solo uno degli elementi ai quali occorre avere riguardo, nella valutazione complessiva della situazione contestuale e successiva alla stipulazione del contratto finalizzata ad accertare l'oggetto effettivo della prestazione convenuta. Deve in proposito ribadirsi quanto già affermato tra le altre da Cass. Sez. L, Sentenza n. 9264 del 18/04/2007, ovvero che sia allorquando le parti, pur volendo attuare un rapporto di lavoro subordinato, abbiano simulatamene dichiarato di volere un diverso rapporto lavorativo al fine di eludere la disciplina legale inderogabile in materia, sia nel caso in cui l'espressione verbale abbia tradito la vera intenzione delle parti, sia infine nell'ipotesi in cui, dopo avere voluto realmente il contratto di lavoro autonomo, durante lo svolgimento del rapporto le parti stesse, attraverso fatti concludenti, mostrino di aver mutato intenzione e di essere passate ad un effettivo assetto di interessi corrispondente a quello della subordinazione, il giudice di merito, cui compete di dare l'esatta qualificazione giuridica del rapporto, deve attribuire valore prevalente al comportamento tenuto dalle parti nell'attuazione del rapporto stesso. Tale conclusione deriva dal principio che è stato chiamato dell`indisponibilità del tipo contrattuale", più volte affermato dalla Corte costituzionale, ad avviso della quale "..non è consentito al legislatore negare la qualificazione giuridica di rapporti di lavoro subordinato a rapporti che oggettivamente abbiano tale natura, ove da ciò derivi l'inapplicabilità delle norme inderogabili previste dall'ordinamento... " e "...a maggior ragione non sarebbe consentito al legislatore di autorizzare le parti ad escludere, direttamente o indirettamente, con la loro dichiarazione contrattuale, l'applicabilità della disciplina inderogabile prevista a tutela dei lavoratori a rapporti che abbiano contenuto e modalità di esecuzione propri dei rapporto subordinato" (C. Cost. n. 121 del 29 marzo 1993 e n. 115 del 31 marzo 1994). Il fatto che il rapporto di lavoro subordinato fosse stato regolarizzato per cinque ore al giorno non escludeva pertanto di per sé la possibilità di ritenere che esso si fosse svolto con orario pieno. Né ostava che anteriormente all'inizio della prestazione di lavoro subordinato (e quindi sino al 1 maggio 1992) la frequentazione dello studio fosse stata giustificata dalla necessità di svolgere la pratica professionale per l'abilitazione di geometra (periodo di praticantato terminato peraltro nel novembre 1992), considerato che ad avviso della Corte da tale epoca, anche in considerazione delle esperienze pregresse acquisite, il rapporto tra le parti aveva assunto modalità diverse. 4. Alle considerazioni esposte segue il rigetto del ricorso; non vi è luogo a condanna del soccombente dalle spese processuali del presente giudizio di legittimità, considerata la mancanza di attività difensiva da parte dell'intimato. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso; nulla sulle spese. ( da www.altalex.it )