La commessa è sempre lavoratrice subordinata Renzo La Costa Il solo fatto di svolgere mansioni di commessa, presuppone che il rapporto di lavoro debba essere necessariamente subordinato, anche in virtù della sostanziale caratteristica del potere direttivo esercitato dal datore di lavoro per la specifica mansione. Così ha concluso la Corte di Cassazione in sentenza 23 marzo 2017, n. 7526 Il fatto La Corte d'Appello aveva accolto l'appello proposto dall'INPS avverso la sentenza di primo grado e respingeva l'opposizione proposta dalla datrice di lavoro avverso la cartella di pagamento con cui le era stato contestato il mancato versamento dei contributi previdenziali relativi alla posizione di 4 lavoratrici sul presupposto della irregolarità dei contratti di collaborazione coordinata e continuativa sotto cui avevano lavorato. La Corte d'Appello sul piano probatorio riteneva pienamente utilizzabile le dichiarazioni rese agli ispettori anche dalla titolare dell'azienda e nel merito riteneva che fosse intercorso tra le parti un rapporto di lavoro subordinato e non un contratto di collaborazione coordinata e continuativa, essendo pure presenti plurimi indici della subordinazione (relative alle modalità di svolgimento delle prestazioni come commesse al pari delle dipendenti ed al calcolo della retribuzione); sosteneva inoltre che per le mansioni di commessa operi una presunzione di subordinazione, secondo l’ orientamento giurisprudenziale di legittimità Per la cassazione della sentenza di appello ricorreva la datrice , sostenendo tra l’altro che dovevasi considerare lo specifico accordo negoziale di natura autonoma conclusosi tra le parti ; né la natura subordinata poteva desumersi dal tipo di attività svolta dalle lavoratrici senza l'individuazione dell'elemento distintivo fondamentale della subordinazione intesa come assoggettamento del lavoratore al potere direttivo e gerarchico del datore di lavoro. Era pertanto l'INPS a dover dare la prova in questione, come aveva correttamente affermato il primo giudice. Le motivazioni della Suprema Corte Nel caso di specie la sentenza impugnata ha riesaminato le circostanze rilevanti ai fini della decisione in relazione alla natura dell'attività svolta dalle lavoratrici allo stesso modo delle commesse assunte come dipendenti (secondo le dichiarazioni richiamate dalla Corte e rese dalla medesima titolare dell'azienda ricorrente: "per quanto riguarda la vendita il lavoro svolto dalle dipendenti e dalle cococo è lo stesso"). Inoltre – ha precisato il Collegio giudicante - come risultava dalle dichiarazioni rese dalle lavoratrici in sede ispettiva, le stesse venivano pagate con paga fissa rapportata al numero di ore lavorate (compresa la tredicesima), avevano un orario fisso e svolgevano le mansioni tipiche di chi è tenuto a vendere, esporre, tenere in ordine. Esistevano con ciò diversi elementi sintomatici tutti rivelatori dell'esistenza della subordinazione (utilizzazione strumenti, luoghi di lavoro, orari di lavori predeterminato e vincolante, assenza di rischio, paga predeterminata, ecc.). In ogni caso, sulla natura del rapporto e sulla corretta gestione dell'onere della prova, la sentenza va esaminata alla luce di tutte le affermazioni effettuate; dalle quali si deduce pure, non tanto e non solo che il rapporto di lavoro delle lavoratrici corrispondesse solo in astratto allo schema del lavoro subordinato; quanto soprattutto che (oltre all'elemento delle mansioni di commesse in sé e per sé considerate), esistessero in concreto ulteriori circostanze, che pur prive ciascuna di valore decisivo, potessero essere correttamente valutate globalmente come indizi rivelatori degli elementi costitutivi del rapporto di lavoro subordinato. La tipologia delle mansioni del resto, oltre ad essere un autonomo indice della subordinazione ne rivela di per sé anche altri, posto che il lavoro di commessa in quanto tale presuppone l'assoggettamento a direttive per quanto attiene ai contenuti intrinseci delle prestazioni ed all'orario di lavoro. Al contrario, per quanto riguarda l'elemento della volontà delle parti, richiamato a fondamento della censura, va ricordato come la materia della qualificazione del rapporto di lavoro configuri una questione che è sottratta alla disponibilità delle parti ed alla stessa discrezionalità del legislatore; perciò la medesima qualificazione va risolta, più che in base al nomen iuris conferito dalle parti al rapporto, in base all'effettiva natura del rapporto, alla stregua delle concrete modalità con cui si svolge la prestazione, nei termini sopra indicati. Conclusivamente quindi, rigettato il ricorso. Nella illustrata sentenza, la suprema Corte ha sostanzialmente dato continuità al principio costituzionale enunciato nelle sentenze C.Cost n. 115/1994e n. 121/1993) secondo il quale ai fini della individuazione della subordinazione conti semplicemente il lavoro svolto di fatto; posto che “ non sarebbe consentito al legislatore di autorizzare le parti ad escludere direttamente o indirettamente, con la loro dichiarazione contrattuale, l'applicabilità della disciplina inderogabile prevista a tutela dei lavoratori a rapporti che abbiano contenuto e modalità di esecuzione propri del rapporto di lavoro subordinato. I principi, le garanzie e i diritti stabiliti dalla Costituzione in questa materia, infatti, sono e debbono essere sottratti alla disponibilità delle parti. Affinché sia salvaguardato il loro carattere precettivo e fondamentale, essi debbono trovare attuazione ogni qual volta vi sia, nei fatti, quel rapporto economico-sociale al quale la Costituzione riferisce tali principi, tali garanzie e tali diritti”. Pertanto, allorquando il contenuto concreto del rapporto e le sue effettive modalità di svolgimento - eventualmente anche in contrasto con le pattuizioni stipulate e con il nomen juris enunciato - siano quelli propri del rapporto di lavoro subordinato, solo quest'ultima può essere la qualificazione da dare al rapporto, agli effetti della disciplina ad esso applicabile. Secondo anche Cass. n. 18692/2007 che si occupava della qualificazione del rapporto di lavoro di un commesso – analogamente al caso di cui sopra – la suprema Corte precisava che la medesima attività lavorativa può essere svolta per i più diversi titoli giuridici (nell'ambito di un rapporto di lavoro subordinato, o autonomo, o associativo, o societario, o per causa gratuita, etc.) ma ciò deve essere rettamente inteso. Il principio significa che molte attività possono essere svolte o in regime di subordinazione o in regime di autonomia, o per altro titolo, a seconda di come concretamente si configuri la prestazione, in dipendenza dalla volontà delle parti e dalle condizioni oggettive. Ex art. 1322 c.c. le parti hanno la libertà non di nominare come che sia il contenuto del loro contratto, ma di scegliere se svolgere la prestazione lavorativa convenuta secondo le modalità proprie del tipo legale della subordinazione o del lavoro autonomo, apprestandone coerentemente gli strumenti fattuali propri del tipo giuridico prescelto: il lavoro di fabbrica è il prototipo del lavoro subordinato, e sarebbe vano nominare autonomo il lavoro alla catena di produzione. Analogamente l'esecuzione del lavoro all'interno della struttura dell'impresa con materiali ed attrezzature proprie della stessa costituisce un forte indizio, che concorre a dar luogo al giudizio di sintesi sulla subordinazione. Nel caso allora esaminato dalla Corte, era emerso che il lavoratore svolgeva mansioni di commesso nei locali della ditta, significando quindi che questi svolgeva, all'interno dei locali aziendali, una prestazione con modalità lavorative proprie di una figura tipo logicamente subordinata. opportuno ribadire che nel campo del diritto del lavoro (che comprende, ex art. 35 Cost., qualsiasi tipologia lavorativa), in ragione della diseguaglianza di fatto delle parti del contratto, dell'immanenza della persona del lavoratore e del contenuto del rapporto e, infine, dell'incidenza che la disciplina di quest'ultimo ha rispetto ad interessi sociali e collettivi, le norme imperative non assolvono solo al ruolo di condizioni di efficacia giuridica della volontà negoziale, ma, insieme alle norme collettive, regolano direttamente il rapporto, in misura certamente prevalente rispetto all'autonomia individuale, cosicchè il rapporto di lavoro, che pur trae vita dal contratto, è invece regolato soprattutto da fonti eteronome, indipendentemente dalla comune volontà dei contraenti ed anche contro di essa. E la violazione del modello di contratto e di rapporto imposto all'autonomia individuale da luogo, di regola, alla conformazione reale del rapporto concreto al modello prescritto.