Marco Tirelli, Senza titolo
Anno VI, numero 12 – Novembre 2016
Sonia Bellavia, Hermann Bahr e l’evoluzione dell’estetica tedesca della recitazione
fra ottocento e novecento, p. 1; Paola Degli Esposti, Le impronte della ÜberMarionette: tracce di teoria sull’attore in The Drama for Fools di Edward Gordon
Craig, p. 27; Rossella Mazzaglia, Metamorfosi di Pinocchio nella nuova scena
italiana, p. 66; Silvia Carandini, Su una nuova Storia della danza in Occidente, p.
101.
I Libri di AAR
Charles Gildon, Vita di Thomas Betterton. Traduzione, introduzione e note di Loretta
Innocenti.
Acting Archives Review
n. 12, novembre 2016
Direzione Claudio Vicentini e Lorenzo Mango
Direttore responsabile Stefania Maraucci
Comitato scientifico Arnold Aronson (Columbia University), Silvia Carandini (Università di Roma, La Sapienza),
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scientifico, secondo le competenze.
______________________
Rivista semestrale
Autorizzazione del Tribunale di Napoli n. 82 del 21/10/2010
ISSN: 2039-9766
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Anno VI, numero 12 – Novembre 2016 Sonia Bellavia
Hermann Bahr e l’evoluzione dell’estetica tedesca della
recitazione fra ottocento e novecento
I presupposti di un concetto nuovo di recitazione nelle tensioni della
Jahrhundertwende
Hermann Bahr. Il confronto con la tradizione
Nel passaggio fra ottocento e novecento, la cosiddetta Jahrhundertwende - di
cui Hermann Bahr1 fu uno dei protagonisti - si profilarono in suolo tedesco
le tensioni volte a determinare una ridefinizione sostanziale dello statuto del
teatro.
Solitamente visto, e non senza ragione, come reazione al Naturalismo di
stampo francese allora imperante sulle scene, il germe di quest’evoluzione,
a ben guardare, maturò proprio nell’alveo della temperie naturalista:
strettamente connesso all’impulso di ricerca delle scienze positiviste, che a
fine ottocento convogliarono tutto l’interesse verso l’indagine sull’uomo. Il
precisarsi e l’estendersi dei saperi arrivò a svelare una ‘realtà’ che andava
oltre i limiti posti dall’osservazione diretta e dalle conoscenze fino allora
acquisite; e essa esercitò il proprio influsso su ogni campo dell’umano,
comprese le espressioni artistiche. L’arte del teatro, a cui dalla metà del
settecento era stato attribuito come scopo primo lo studio della realtà
dell’uomo2, fu quella che per questo reagì sensibilmente, forse più di ogni
altra, ai nuovi impulsi; in primo luogo, l’arte ‘eminentemente umana’
dell’attore.
Nel clima generale di rinnovamento e nel confronto con le istanze portate
non solo dallo sviluppo del pensiero scientifico, ma soprattutto dalle nuove
interrelazioni che si stabilirono fra arte, scienza e speculazione teorica,
Hermann Bahr (1863-1934). Scrittore, commediografo, critico e uomo di teatro, Bahr fu un
interprete acuto della sensibilità del suo tempo. Pur essendo assai versatile, la sua personalità
si manifestò particolarmente nell’attività di critica. Per circa trent’anni, fu sempre
all'avanguardia di tutti i nuovi movimenti artistici, dall’Impressionismo all’Espressionismo,
dirigendo ogni suo sforzo alla formazione di una ‘cultura austriaca’. Per il teatro, non solo
scrisse commedie e si spese quale testimone e recensore attento dello stato dei palcoscenici
d’Europa, ma fu anche attivo come Régisseur al Deutsches Theater di Max Reinhardt a Berlino
(1906-1907) e come primo Dramaturg al Burgtheater sotto la direzione di Leopold Freiherr
(1919). Con Hofmannstahl e Reinhardt, realizzò il Festival di Salisburgo nel 1922. Per ulteriori
approfondimenti si rimanda al mio: L’arte dell’attore nella Schauspielkunst di Hermann Bahr, in
«Acting Archives Review», anno IV, n.8, novembre 2014, pp. 87-111.
2 Fu grazie alle elaborazioni dei pensatori e dei teatranti tedeschi più illuminati, che alla
recitazione vennero attribuiti come scopo e funzione primi lo svelamento della realtà umana,
non solo esteriore, ma anche interiore; in un’idea di teatro come «laboratorio dell’anima e
delle emozioni». Cfr. R. Ruppert, Labor der Seele und der Emotionen, Berlin, Sigma, 1995.
1
1 © 2016 Acting Archives ISSN: 2039-­‐9766 www.actingarchives.it AAR Anno VI, numero 12 – Novembre 2016 l’estetica della recitazione visse così uno sviluppo interessante, che
determinò il compiersi del dibattito settecentesco – sulle cui problematiche
si continuava a disquisire – e insieme ne segnò il superamento; o
quantomeno, segnò il superamento dei termini in cui esso era stato posto.
L’austriaco Hermann Bahr, intellettuale di spicco della propria epoca, punto
di raccordo fra Berliner e Wiener Moderne3, fu uno dei fautori del percorso che
a partire dall’esigenza di distanziazione dall’estetica naturalista, nella messa
a parte delle sollecitazioni più avanzate della sua epoca, avrebbe portato alla
definizione di un’idea nuova dell’arte recitativa; dunque, a una fisionomia
diversa dell’attore, in grado di sperimentare modalità relazionali fino allora
inesplorate fra la propria individualità e quella del personaggio, e anche –
lavorando sul personaggio - fra se stesso e il proprio io. L’evoluzione del suo
pensiero è desumibile dalle pagine dei suoi scritti innumerevoli, dalle
recensioni, dai saggi teoretici (l’ultimo: Die Schauspielkunst del 19234),
testimoni del procedere delle sue idee, che sul volgere dell’ottocento si
rincorrevano a ritmo accelerato e aprivano la strada a un ripensamento
globale sulla ‘vera’ natura e gli scopi dell’arte scenica. Viste a posteriori, le
riflessioni di Bahr appaiono di rilevante utilità per comprendere i parametri
entro cui si svolse la discussione sul teatro a cavallo fra i due secoli, dipanate
secondo un percorso circolare del pensiero (tipico del letterato austriaco), che
sempre muoveva dal confronto con il passato da cui le nuove spinte traevano
impulso. Per cominciare a seguire il filo delle sue elaborazioni è dunque
necessario volgere indietro lo sguardo, al tempo in cui ebbe inizio, in suolo
tedesco, il dibattito sull’arte dell’attore.
L’avvio di una vera tradizione teatrale e l’apertura del dibattito sistematico
sulla recitazione, che avrebbe formulato questioni discusse anche nei secoli
a venire, in area germanica data al XVIII secolo. Fu nel settecento, difatti, che
il teatro tedesco riformulò se stesso, reagendo contro il dominio
dell’accademismo francese: contro un’idea della rappresentazione il cui
scopo primo doveva essere la restituzione della ‘bellezza’ del testo, la
‘risonanza’ del verso poetico, sapientemente scandito dalla voce dell’attore5.
Dalla metà del secolo, soprattutto grazie all’operato di Lessing, cominciò a
farsi strada il predominio del senso, e dunque una concezione nuova del
Cfr. P. Sprengel, G. Streim, Berliner und Wiener Moderne. Vermittlungen und Abgrenzungen in
Literatur, Theater, Publizistik, Wien, Köln, Weimar, Böhlau 1998. Hermann Bahr non fu solo
partecipe delle tensioni innovative che presero vita in suolo germanico a cavallo fra i due
secoli, ma contribuì decisamente a riportare al centro delle discussioni sul rinnovamento
artistico e culturale la ‘sua’ Vienna, che a fine ottocento tornò a essere la capitale del teatro e
il crogiuolo entro cui si fusero le nuove tensioni e le sperimentazioni, che investirono ogni
campo del sapere e delle scienze umani.
4 H. Bahr, Die Schauspielkunst, Leipzig, Dürr & Weber m. b. H., 1923.
5 Cfr. L. Golawski-Braungart, Die Schule der Franzosen. Zur Bedeutung von Lessings
Übersetzungen aus dem französischen für die Theorie und Praxis seines Theaters, Tübingen und
Basel, Francke Verlag, 2005. Vedi in particolare le pp. 35-39.
3
2 Sonia Bellavia, Hermann Bahr e l’evoluzione dell’estetica tedesca della recitazione fra ottocento e novecento recitare: restituire non tanto la forma, quanto il significato delle parole.
Conseguentemente, l’attore non avrebbe più lavorato per esaltare le qualità
puramente estetiche della lingua, ma avrebbe cominciato a utilizzare il
proprio corpo per esprimere gli affetti e gli stati d’animo che
accompagnavano, e persino sottendevano, i discorsi6. Alla «deretorizzazione, seguì dunque la psicologizzazione del dramma e con essa
l’inizio di un dibattito acceso e interminabile sul processo rappresentativo
dell’attore»7; di una discussione che si sarebbe incentrata sul confronto fra le
teorie emozionalista e antiemozionalista, basate l’una sull’utilizzo della
sensibilità – e dunque sul coinvolgimento emotivo dell’interprete – l’altra
sull’esercizio delle facoltà razionali – col predominio della tecnica – nel
processo della creazione artistica. Quello fu il momento in cui l’attore tornò
al centro del teatro e al contempo, per la prima volta, si poté parlare di
recitazione autonoma8; sebbene lo Schauspieler lavorasse ancora «accanto e al
pari del poeta»9: prestando carne e sangue alle sue figure, perché esse
rivelassero la loro essenza più intima. Fu così che egli divenne un conoscitore
dell’animo umano permettendo agli spettatori, nel contatto con la propria
arte, di sperimentare quel mondo interiore di cui, grazie alla nascita della
psicologia moderna, si iniziavano allora a svelare i contorni10.
Nel secolo del pensiero scientifico, il teatro cominciò dunque a essere
scoperto nel suo valore antropologico, ma il testo letterario non perse ancora
il proprio predominio. Sarà proprio nell’idea dello svincolo dalla letteratura,
invece, che il teatro della Jahrhundertwende andrà verso la sua ri-definizione.
Die Überwindung des Naturalismus (Il superamento del Naturalismo, titolo del
saggio celeberrimo di Bahr del 189111), di fatto è il superamento del rapporto
Per ulteriori approfondimenti rimando al mio: Dalla rappresentazione all’espressione. Il
contributo tedesco allo sviluppo della recitazione nel Settecento, in S. Bellavia [a cura di], Teatro e
Letteratura. Percorsi europei tra ‘600 e ‘900, Roma, Bulzoni, 2009, pp. 91-121.
7 Cfr. H-C. von Hermann, Das Archiv der Bühne, Wilhelm Fink Verlag, München 2005, p. 18.
«Al posto dell’Actio retorica», precisa lo studioso tedesco, «si fa largo un’arte rappresentativa
che mette a confronto il linguaggio tendenzialmente ingannevole della parola, con quello
infallibile dei sintomi affettivi involontari» (ivi), cioè spontanei; in questo senso, naturali.
«Alla fine del settecento la scena è funzionale all’apparizione dell’essere umano quale
individualità viva. Per questo, al centro del dibattito teatrale sta l’interesse vivo per l’arte
dell’attore» (ivi, p. 98).
8 Cfr. ivi, p. 30.
9 G. E. Lessing, Ankündigung, in Hamburgische Dramaturgie, Bd. 1, Stuttgart, UniversalBibliothek, 1999, p.12.
10 Convenzionalmente, la nascita della psicologia moderna è datata al 1758, anno in cui furono
pubblicati gli scritti sulla follia dei due medici inglesi Battie e Monro, i quali aprirono la via a
tutta una serie di pubblicazioni sulla psichiatria e su quella che in futuro sarà chiamata
psicopatologia. Cfr. W. Obermeit, Das unsichtbare Dinge, das Seele heisst, Frankfurt am Main,
Syndicat 1980, pp. 27-34.
11 Si ricorda che inizialmente Bahr aveva aderito al Naturalismo: negli anni del suo primo
soggiorno berlinese, dal 1884 al 1887, quando collaborò con la Freie Bühne di Otto Brahm. A
seguito della rottura con Brahm, Bahr lasciò Berlino per tornare in suolo austriaco, dove il
Naturalismo non si era mai radicato, e si continuava a sentire invece l’eredità della tradizione
barocca del teatro.
6
3 AAR Anno VI, numero 12 – Novembre 2016 fra palcoscenico e pagina scritta. E se nel settecento – precisa von Hermann
– al processo di de-retorizzazione aveva fatto seguito la psicologizzazione
del teatro, il novecento ne segnerà la de-letterarizzazione in favore della sua
fisiologizzazione12; in linea con le evoluzioni del pensiero teoretico, che nel
1888 portarono Nietzsche, nel suo contra Wagner, alla definizione dell’estetica
moderna come null’altro che «fisiologia applicata», che in quanto tale agisce
come suggestione – termine, vedremo, destinato a rivestire un ruolo centrale
nell’estetica di Bahr - su muscoli e sensi13.
La decisa contrapposizione del filosofo tedesco all’estetica istituzionalizzata,
che
preannunciò
e
accompagnò
la
contrapposizione
all’arte
istituzionalizzata dei pittori della Secessione e degli artisti di Darmstadt (dei
quali Bahr avrebbe sposato e guidato le tesi), della scuola dodecafonica di
Schönberg alla musica tonale e delle nuove vie della parascienza alla
medicina ufficiale, formò il clima in cui il letterato austriaco visse e diede
forma alla propria Weltanschauung; nel rapporto incessante con il nuovo
corso della filosofia, delle arti e del pensiero scientifico. Le riflessioni di Bahr
sulla recitazione – destinata a diventare sempre più il centro dei suoi
interessi14 – risentirono di questo confronto vivace e insieme improntarono
l’articolazione del suo pensiero, in cui si è costretti a muoversi proprio come
nel labirinto nietzschiano: «espressione di un doppio mondo del divenire e
del trascorrere»; «dell’eterno creare se stessi e dell’eterno distruggersi»15.
È l’architettura del suo ragionamento a spiegare i cortocircuiti continui
(temporali, geografici e concettuali) di cui viveva la scrittura con cui Bahr
dava forma alle sue idee, e che costringe sempre a una lettura complicata.
Immergersi nella sua ‘logica’ permette però di risalire alla nuova piega che
in suolo tedesco, agli inizi del secolo scorso, prese il dibattito – per nulla
lineare, anzi contorto e sincopato – sull’arte dell’attore; e che segnò il
passaggio dall’estetica letteraria-psicologica del teatro borghese illuminista
H-C. von Hermann, Das Archiv der Bühne, cit., p. 197.
«L’estetica», scrive Nietzsche, «è nient’altro che una fisiologia applicata»; e così prosegue,
descrivendo l’esperienza estetica prodotta dall’ascolto dell’opera wagneriana: «non respiro
più con facilità, quando questa musica comincia ad agire su di me; subito il mio piede va in
collera e si rivolta contro di essa. Ma non protesta anche il mio cuore, il mio stomaco, la mia
circolazione sanguigna? Non si contristano le mie viscere? Non divento rauco senza
accorgermene?». F. Nietzsche, Nietzsche contra Wagner, trad. it. di F. Masini, in M. Montinari
[a cura di], Friedrich Nietzsche. Scritti su Wagner, Milano, Adelphi, 2013, pp. 214-215.
14 Per Bahr il teatro sarebbe diventato «il punto di fuga di tutte le arti, il cuore della vita
culturale dei popoli, su cui confluisce il meglio delle direttive artistiche sintomo dei nuovi
tempi, che da esso dipartono per riflettersi poi nuovamente in ogni singolo campo della vita
artistica e culturale», in H. Kindermann, Hermann Bahr, Graz-Köln, Hermann Böhlaus Nachf,
1954, p. 113. E al centro del teatro, come ribadirà nel suo Schauspielkunst del 1923, stava
l’attore.
15 J. H. Gleiter, Der philosophische Flaneur. Nietzsche und die Architektur, Würzburg,
Könighausen & Neumann, 2009, p. 21. Scrive testualmente Gleiter: «Il labirinto è l’espressione
di ciò che Nietzsche designa come il suo doppio mondo di divenire e trascorrere, o il mondo
dionisiaco dell’eterno creare se stessi e dell’eterno distruggersi», l’«architettura della conoscenza
in divenire» (ivi).
12
13
4 Sonia Bellavia, Hermann Bahr e l’evoluzione dell’estetica tedesca della recitazione fra ottocento e novecento (di cui il Naturalismo costituiva la propaggine ultima16) a quella fisiologica
che, attraverso Nietzsche, Bahr abbracciò in una delle sue derivazioni: quella
‘ipnotico-isterica’ (evoluzione ultima, vedremo, dell’emozionalismo
settecentesco) riassunta nel paragrafo conclusivo.
Il punto sulla recitazione
«L’inizio di ogni riforma: la recitazione deve decidersi a diventare finalmente
recitazione». Lo affermava perentorio Hermann Bahr nelle ultime pagine
delle sue Glossen zum Wiener Theater (1906)17, dedicate a considerazioni
generali sulla stagnazione del teatro tedesco, ma che soprattutto ribadivano
la necessità di portare l’arte dell’attore a essere quello che veramente doveva:
Schauspiel-Kunst. Perché in Germania, a ben guardare, essa non era mai
arrivata a farsi davvero libera e realmente tale. Men che meno lo era adesso,
nella temperie naturalista: in quel «nuovo stile» berlinese, che altro non era
«che la repressione della recitazione a opera del letterato», il quale conosceva
«solo le proprie pretese letterarie, solo le sue premure letterarie, solo effetti
letterari». Desideroso di elevare se stesso – com’era avvenuto già nel
settecento – a istanza ultima della scena18. Circa le rappresentazioni di quel
palcoscenico eminentemente naturalista che era il Deutsches Theater,
proseguiva Bahr, «si è detto che si aveva l’impressione di non essere a teatro,
ma piuttosto di sentir leggere il testo dall’autore stesso, con la sottolineatura
più precisa delle sue intenzioni più sottili, così come egli se l’era pensato. Al
che ci sarebbe da chiedere», rifletteva il letterato austriaco, «perché mai
avremmo bisogno di un teatro con tutti i suoi sforzi giganteschi per la
preparazione e l’allestimento» e si potrebbe ribattere «che lo ‘spettacolo’ non
sta lì per riflettere sul pensiero; ma per lo sguardo, per la visione delle forme,
e anche per rimandare alle più alte richieste di Goethe e Schiller all’attore»,
Il Naturalismo, con l’idea dell’immagine del reale impressa come una lastra fotografica nella
parola dell’autore, che il teatro doveva restituire fedelmente, si poneva nell’ottica di Bahr
come la continuazione del processo di letterarizzazione del teatro che aveva avuto luogo nel
settecento, con l’imporsi della drammaturgia regolare. Fu allora che il poeta stabilì la forza
della parola, a cui tutto il resto dovette assoggettarsi e venne perpetrato – proprio da parte
del pubblico serio – l’errore madornale che il teatro coincidesse con la letteratura. Superare il
naturalismo avrebbe dunque significato in ultimo, per lui, scavalcare l’errore settecentesco,
per recuperare l’idea di una recitazione autonoma, libera di esprimere se stessa e non soggetta
ad altro, se non al potere della sua intima natura. Cfr. H. Bahr, Anfang jeder Reform: die
Schauspielkunst muss sich entschliessen, endlich Schauspielkunst zu werden (Inizio di ogni riforma:
la recitazione deve decidersi a diventare finalmente tale), in Id.: Glossen zum Wiener Theater, Berlin,
S. Fischer Verlag, 1907, p. 473.
18 «Nella seconda metà del XVIII secolo», nota Erika Fischer-Lichte, «il teatro tedesco visse
due importanti sviluppi strettamente connessi l’uno all’altro: la formazione di un teatro
letterario e lo sviluppo di una nuova arte della recitazione di tipo realistico psicologico. Il
tentativo di alcuni intellettuali borghesi di spezzare il predominio dell’attore a teatro mirava
a elevare il testo del drammaturgo a istanza di controllo del teatro stesso». E. Fischer-Lichte
[a cura di T. Gusman], Estetica del performativo. Una teoria del teatro e dell’arte, Roma, Carocci
Editore, 2014, p. 137.
16
5 AAR Anno VI, numero 12 – Novembre 2016 il quale dovrebbe dissimulare la sua individualità e imparare che dipende
da lui, in certi ruoli, il rendere irriconoscibile la propria natura19.
Parole che sono la chiara dimostrazione di come, al passaggio fra XIX e XX
secolo, l’esigenza dello svincolo del teatro dalla letteratura costituisca la
premessa necessaria affinché l’arte recitativa inizi a percorrere lo stesso
cammino già compiuto dalle altre arti: in direzione della ricerca della propria
essenza, della particolarità del proprio statuto.
La recitazione deve smetterla di essere letteratura, ma deve anche smetterla –
puntualizzò Bahr - di essere scultura, pittura o qualsiasi altra espressione
artistica, per poter sviluppare al massimo il suo effetto potenziale. Deve, infine,
sentirsi sovrana.20
Comincerà da qui la riflessione che nel 1922 avrebbe portato l’intellettuale
austriaco alla stesura di Die Schauspielkunst, con l’idea dell’attore
‘elementare’ – la cui ultima apparizione risaliva all’età barocca, prima della
‘letterarizzazione’ del teatro - quale artista autentico, perché libero di
esercitare le qualità costitutive della recitazione di cui era provvisto:
l’incredibile facoltà immaginativa, il potere della Selbstverwandlung
(l’autotrasformazione), la sensibilità sottile che lo rendeva reagente, più che
agente; e non in ultimo, il senso dell’autonomia e della supremazia della
propria arte, che Bahr riteneva necessarie allo Schauspieler dell’epoca
moderna: l’attore nuovo, che andava cercato all’interno di un rinnovamento
generale del teatro, visto che la tradizione che si era venuta costituendo dalla
metà del settecento doveva essere dichiarata ormai irrimediabilmente
superata21.
Nell’ambito di quella vecchia tradizione, l’unico momento in cui secondo
Bahr la recitazione era stata davvero tale, andava ricercato nelle vicende
della Scuola d’Amburgo, che faceva capo a Schröder: l’attore che guidato
dalle concezioni di Lessing, dalla sua estetica del movimento «vivo»,
incentrata sul potere della Einbildung22 (cioè dell’immaginazione), nella
completa sovranità sui propri mezzi espressivi, arrivava a agire sul proprio
Cfr. H. Bahr, Anfang jeder Reform, cit., p. 473.
H. Bahr, Allgemeiner Zustand des deutschen Theaters, in Id.: Glossen, cit., p. 469.
21 Così scrive Bahr nelle Glossen: «Lo stile che [Heinrich] Laube ha creato al Burgtheater di
Vienna e che [Franz von] Dingelstedt ha portato a compimento […]; lo stile che si è venuto
costituendo sulla scena tedesca per effetto della Scuola d’Amburgo e di quella di Weimar;
anche lo stile, infine, che hanno coniato i Meininger: tutti e tre sono diventati, per la sensibilità
moderna, semplicemente insopportabili». H. Bahr: Allgemeiner Zustand, in Id.: Glossen, cit., p.
469.
22 Nell’idea di Lessing, il processo creativo che permette la resa presente di ciò che presente
non è (ciò che egli definisce Träume der Wachenden, o sogni dei desti): una situazione o un
oggetto, accompagnati dall’effetto corrispondente, scaturisce proprio dalla fantasia. Poesia e
palcoscenico costituiscono, in egual misura, un mondo artificiale, illusorio, ed è la
Einbildungskraft che produce l’Illusion: quell’attimo in cui, per una sorta di inganno (la
Täuschung), il fruitore sospende la consapevolezza dei mezzi utilizzati dall’artista per
produrre quella stessa illusione. E l’opera appare viva, presente e vera.
19
20
6 Sonia Bellavia, Hermann Bahr e l’evoluzione dell’estetica tedesca della recitazione fra ottocento e novecento corpo fino a rendere l’anima del personaggio – paradigmatica di quella di
ogni essere umano - perfettamente incarnata, e dunque leggibile, nella sua
stessa fisicità23. Questo fu ciò che lo aveva reso lo Schauspieler più importante
dell’ultimo quarto del settecento; il rappresentante massimo di una
concezione teatrale in cui la scena diventava «uno specchio» posto di fronte
allo spettatore, così che egli vi si potesse riconoscere e potesse al contempo,
accedendo in quello spazio virtuale, fare ingresso «in un campo del sapere
psicologico e delle sue operazioni di differenziazione individualizzante»24. Il
fine era allora, tanto per l’interprete, quanto per il pubblico, affilare lo
sguardo dell’anima dentro se stessa25 e a tale scopo la sensibilità, lungi
dall’essere un ostacolo per l’attore (come paventavano gli antiemozionalisti)
costituiva – per gli esponenti della Scuola d’Amburgo – un valore aggiuntivo
irrinunciabile. Come avrebbe riassunto laconicamente von Einsiedel nel suo
Grundlinien zu einer Theorie der Schauspielkunst del 1797, «la recitazione è
l’utilizzo di forze spirituali e fisiche attraverso cui l’attore incarna e rende
viva la poesia drammatica»26. Esattamente ciò che faceva Schröder, il quale nonostante il vincolo serrato della fedeltà al personaggio compreso nel testo
- nell’esercizio consapevole delle facoltà individuali, agiva autonomamente
sullo spettatore fino a fargli credere alla verità di ciò che vedeva e ‘sentiva’;
nella produzione perfetta di quella Illusion, che nella concezione teatrale del
XVIII secolo era il presupposto determinante per la riuscita dell’evento
artistico.
Nell’estetica abbracciata (e precisata) da Bahr, che a fine ottocento segnerà il
compimento e il superamento dell’idea di teatro borghese illuminista,
l’illusione non perderà il suo ruolo cardine. La differenza sostanziale (lo si
puntualizzerà meglio in seguito) sarà che in questo caso essa non servirà
tanto, o non soltanto, alla fascinazione emotiva dello spettatore; quanto
piuttosto alla produzione, in primis nell’attore stesso, di uno stato di
suggestione che sostituirà l’immedesimazione di settecentesca memoria e
permetterà l’apparizione non dell’io del personaggio creato dall’autore, ma
di un altro ‘io’ dell’attore, il quale attraverso il lavoro sul personaggio
arriverà fino allo svelamento del proprio Sé.
Cfr. H.C. von Hermann, Das Archiv der Bühne, cit., p. 118. Sul Magazin zur
Erfahrungsseelekunde di Moritz (Bd. 10, p. 285) si legge: «L’anima è solo una sostanza in
apparenza […] fintanto che essa agisce, ovvero produce idee [Vorstellungen] esse vanno pensate
in un rapporto di causalità. Ma non appena essa smette di agire (come nel sonno profondo,
negli svenimenti, etc.) cessa anche questa relazione. Le rappresentazioni che si producono non
sono più apparenze dell’anima, ma del corpo, e devono essere spiegate con motivazioni
fisiologiche». Il passo di Moritz è stato letto nell’edizione digitale della rivista, consultabile
all’indirizzo: http://telota.bbaw.de/mze/.
24 H-C. von Hermann, Das Archiv der Bühne, cit., p. 119.
25 Si tratta di «fissare l’attenzione degli uomini sempre più sull’uomo stesso, e rendere loro
più importante la sua essenza individuale». K. P. Moritz, Anton Reiser: ein psychologischer
Roman, Berlin, Friedrich Maurer, 1785, ersther Theil, p. 3.
26 F. H. von Einsiedel, Grundlinien zu einer Theorie der Schauspielkunst, Leipzig, Georg Joachim
Görschen, 1797, p. 15. Friedrich Hildebrand von Einsiedel (1750-1828), giurista, scrittore e
traduttore, fu consigliere di Corte del ducato di Sax-Weimar, e amico di Goethe.
23
7 AAR Anno VI, numero 12 – Novembre 2016 Il che sembra rivelare chiaramente come, nella temperie della
Jahrhundertwende, si cominciasse a tendere alla realizzazione dell’ideale
nietzschiano del teatro espresso ne La nascita della tragedia (1872), che Bahr
conosceva bene: teatro non come rappresentazione, né come interpretazione,
bensì come processo attraverso cui «l’uomo non è più artista», ma diventa
«egli stesso opera d’arte»27; secondo uno sviluppo non più di natura
psicologica, ma fisiologica, poiché sarà nel corpo dell’attore che Nietzsche
individuerà l’origine dell’arte nella sua essenza (dell’arte cioè pre-verbale e
pre-teoretica)28. Se «Lessing aveva definito la poesia come ‘sogni dei desti’
segnando la svolta psicologica in reazione alla retorica, nella svolta
fisiologizzante contro tutta la psicologia letteraria e la filosofia d’arte»,
Nietzsche parlerà «di ‘visione poetica’ come effetto secondario di uno stato
fisico eccezionale, di cui non si può dare sapere soggettivo alcuno:
l’incantesimo dionisiaco, o estasi»29. Una concezione che richiedeva
decisamente, come presupposto di base, l’instaurazione di un rapporto
completamente diverso fra il testo e la scena, fra interprete e personaggio.
Nel paragrafo seguente si cercherà di puntualizzare, nella sintesi necessaria,
il contributo decisivo della correlazione fra arte, scienza e speculazione
teoretica al delinearsi di questa disposizione nuova dell’attore, nel passaggio
fra i due secoli.
Scienza, parascienza e nuova estetica fisiologica: i contributi al
rinnovamento
Si segnalava inizialmente il legame tra l’emergere dei presupposti per la
riforma della recitazione, a metà ottocento, e le coeve evoluzioni in campo
scientifico30. Nei fatti, l’avvio del processo di fisiologizzazione del teatro, a
cui si è appena fatto cenno, non può essere pienamente compreso se non
tenendo conto – fra l’altro – delle ricerche delle nuove discipline umane
sperimentali condotte nel corso del XIX secolo. Coadiuvate dai media
tecnologici in rapido progresso, alle moderne indagini medico-scientifiche
F. Nietzsche [a cura di P. Chiarini], La nascita della tragedia, Roma-Bari, Universale Laterza,
1989, p. 26. Più avanti Nietzsche, ‘riassumendo’ il fenomeno estetico, puntualizza la differenza
fra poeta e drammaturgo: il primo ha la «capacità di vedere dovunque un’azione vivente e di
vivere circondat[o] senza posa da folle di spiriti»; il secondo ha «l’istinto di trasformarsi e
parlare trasfus[o] in altri corpi e altre anime», ivi, p. 64.
28 Cfr. H.-C. von Hermann, Das Archiv der Bühne, cit. , p. 184.
29 Ivi. Scrive Giametta in uno dei commenti ai Frammenti Postumi: «Visione e orgiasmo
dionisiaco […] sono fisiologicamente esemplificati nel sogno e nell’ebbrezza». F. W. Nietzsche
[a cura di G. Colli-M. Montinari], Frammenti postumi, versione di Sossi Giametta, Milano,
Adelphi, 1974, v. VIII, 3, primavera 1888, [14-18], p. 17.
30 Poco prima, nel 1841, aveva significativamente visto la luce il trattato di Heinrich Theodor
Rötscher (1803-1871): Die Kunst der dramatischen Darstellung in ihrem organischen
Zusammenhang wissenschaflich entwickelt, Verlag von Wilhelm Thome, Berlin, che può essere
considerato come l’atto conclusivo della letterarizzazione e della psicologizzazione del teatro.
Rötscher aveva studiato filosofia e filologia a Berlino, ma proprio dal 1841 cominciò a
occuparsi stabilmente di teatro, divenendo anche critico drammatico per la «Spenersche
Zeitung».
27
8 Sonia Bellavia, Hermann Bahr e l’evoluzione dell’estetica tedesca della recitazione fra ottocento e novecento fu allora possibile cominciare a ‘radiografare’ l’apparato umano, svelarne il
funzionamento e dimostrare come la corrispondenza fra esterno e interno,
su cui si era tra l’altro basata la ‘nuova’ recitazione fra sette e ottocento, fosse
scientificamente spiegabile.
Aspetti della natura umana rimasti necessariamente fino a allora transitori o
aleatori divennero oggetto di osservazioni, analisi e norme, che condussero alla
scoperta di saperi fino a allora inusitati sul funzionamento psico-motore del
corpo.31
Com’è facile intuire, le nuove acquisizioni erano destinate a avere
ripercussioni notevoli sullo sviluppo dell’arte recitativa; fino alla
formulazione dell’idea rivoluzionaria della scena novecentesca fondata sul
movimento fisico, nella piena rimessa al centro della corporeità dell’attore;
della concezione del palcoscenico come «luogo di esercizi psico-tecnici, che
non avevano il loro fondamento in premesse letterarie, ma in disposizioni
scientifico-sperimentali»32.
Gli inizi di questo percorso dagli esiti estremamente interessanti, sono
databili ai primi dell’ottocento: quando le teorie del chirurgo inglese Charles
Bell33, sviluppate sull’idea che il sistema nervoso influenzi l’intera attività,
sia volontaria che involontaria, di muscoli e sensi, portarono alla messa in
discussione del primato del ‘contenuto’ – ovvero del significato sull’espressività fisica. Fu allora che si cominciò a scoprire che il corpo
parlava da sé, in modo autonomo e indipendente rispetto ai messaggi
veicolati dal testo, e si arrivò di conseguenza alla messa in discussione della
sovranità della parola, a cui sembrò mettere fine lo studio empiricosistematico del movimento, a partire dalla metà del secolo: con ricerche che
giunsero fino alla sperimentazione, da parte della nuova neurologia, di
«tentativi di riproducibilità tecnica dell’intera gamma di espressioni che
erano state al centro delle teorie della recitazione fra XVIII e XIX secolo»; e
che i grandi attori dell’epoca avevano dominato in modo eccellente. Fu
l’inizio «di una ricerca espressiva che fino a Nietzsche», conclude von
Hermann, operò «alle spalle del letterario»34.
Fu nel 1836 che cominciò «la storia dello studio scientifico-sperimentale del movimento»,
con l’opera di Edward Wilhelm Weber: Mechanik der menschlichen Gewehrkzeuge. Eine
anathomisch-physiologische Untersuchung. «Il progresso scientifico nel corso dell’ottocento
avrebbe influito sull’arte del teatro e dell’attore fino a arrivare, nel novecento, a un’idea di
recitazione la cui base avrebbero dovuto essere «le scienze sperimentali dell’umano e gli
strumenti tecnici utilizzati nei loro laboratori, come ad esempio la cinepresa e il
diagrammatore». H.-C. von Hermann, Das Archiv der Bühne, cit., pp. 159-160.
32 Ivi, p. 159.
33 Charles Bell (1774-1842) chirurgo, anatomista e neurologo. Come il fratello maggiore John
Bell – accanto al quale iniziò come assistente di chirurgia – era dotato di un notevole talento
artistico e realizzava da sé le illustrazioni dei suoi trattati di medicina. Nel 1805 pubblicò Essay
on the anatomy of expression in painting.
34 Ivi, p. 181.
31
9 AAR Anno VI, numero 12 – Novembre 2016 Alla formulazione della sua idea di un corpo che «non dice io», ma «fa io»;
che non è pervaso dallo spirito, ma lo crea35, Nietzsche sarebbe infatti
arrivato partendo proprio dalle indagini scientifiche sull’umano sopra
menzionate (la cui conoscenza è testimoniata nei Frammenti postumi). Sulla
base di tali premesse avrebbe proceduto, fino a definire l’essenza del
fenomeno drammatico non più (come era stato dalla metà del settecento)
nell’incarnazione di affetti e stati d’animo (ottenuta attraverso la
«decorporeizzazione» dell’attore36), bensì come processo che consisteva nel
«vedere se stessi trasformati davanti a sé agire come se si fosse entrati
effettivamente in un altro corpo, in un altro carattere»37. Il che stava a
significare che compito precipuo dell’attore non sarebbe più stato quello di
utilizzare la propria fisicità per dare concretezza all’anima del personaggio,
ma di farsi capace a trasformare quella ‘macchina energetica’ – così la si
guardava adesso – che era il proprio corpo, nel corpo del personaggio.
Sulla scorta del pensiero nietzschiano così come si era venuto definendo alla
luce delle conquiste della fisiologia moderna, Hermann Bahr sarebbe giunto
a formulare la nozione destinata a diventare il fulcro della sua idea di
rapporto fra attore e dramatis persona, che conteneva in sé il superamento del
concetto tradizionale di interpretazione: la Verwandlung. Ovvero, una
trasformazione il cui senso il letterato austriaco avrebbe precisato lungo i
primi anni del nuovo secolo, con il contributo determinante dato dalla
ripresa, la diffusione e lo sviluppo delle cosiddette ‘pseudoscienze’, a cui lo
stesso Nietzsche non fu affatto indifferente. Una fra tutte avrebbe influito
decisamente sulla formulazione di un’estetica nuova della recitazione: il
mesmerimo, che dalla metà degli anni settanta dell’ottocento fece sì che
l’ipnosi diventasse una tecnica sperimentale riconosciuta38. Fu nella messa a
F. W. Nietzsche, Dei dispregiatori del corpo, in Id. [a cura di Colli-Montinari], Così parlo
Zarathustra, Parte I (I discorsi di Zarathustra), Milano, Adelphi 1976, p. 33. «Dietro i tuoi pensieri
e sentimenti, fratello, sta un possente sovrano, un saggio ignoto – che si chiama Sé. Abita nel
tuo corpo, è il tuo corpo. Vi è più ragione nel tuo corpo che nella tua migliore saggezza. [...].
Il corpo creatore ha creato per sé lo spirito, e una mano della sua volontà», ivi, pp. 33-34.
36 Decorporeizzazione dell’attore, ovvero: la riduzione che egli opera del proprio corpo a
«corpo semiotico puro […], in grado di portare a manifestazione i significati affidati al testo
in modo percepibile dai sensi e trasmetterli allo spettatore». E. Fischer-Lichte [a cura di T.
Gusman], Estetica del performativo, cit., p. 139. Puntualizza la studiosa: «Benché il concetto di
significato sul quale si fonda questa teoria sia ormai da tempo obsoleto e nessuno sia davvero
del parere che attraverso una lettura approfondita sia possibile determinare i veri significati
di un testo drammatico, ancor oggi il concetto di incarnazione, quando è applicato all’attore,
viene utilizzato e concepito nel senso di una decorporeizzazione di questo genere» (ivi).
37 F. W. Nietzsche, La nascita della tragedia, cit., p. 64.
38 Dalla metà dell’ottocento si assistette a una ripresa e a una diffusione delle idee di Mesmer
in Germania, come in Francia e nella stessa Inghilterra. Fra XIX e XX secolo i termini discussi
dall’ipnosi e dalla psicoterapia, sembrarono particolarmente adatti a definire e spiegare una
nuova estetica delle arti; e in specie – per motivi ovvi - dell’arte dell’attore. Qui si aprì la
tendenza ‘ipnotico-isterica’ della recitazione a cui aderì Hermann Bahr e che – come già detto
altrove – segnò l’esito ultimo dello sviluppo della teoria emozionalista di settecentesca
memoria.
35
10 Sonia Bellavia, Hermann Bahr e l’evoluzione dell’estetica tedesca della recitazione fra ottocento e novecento parte delle pratiche del magnetismo, divenuto una vera moda nel passaggio
fra i due secoli, che nella mente di Bahr si sarebbe precisata la nozione della
Verwandlung di ascendenza nietzschiana: un processo fisiologico di
trasformazione non imprevedibile e casuale, bensì avviato da un ‘segnale’
capace di agire sull’apparato neurologico dell’attore, fino all’evocazione di
un potere suggestivo, che lo portava a cadere in uno stato quasi di trance
(l’ebbrezza estatica di Nietzsche39, di cui era possibile adesso dare
spiegazione ‘scientifica’). Tale stato, a sua volta, generava in lui l’illusione
(poiché di questo si trattava) che potesse davvero farsi e essere qualcuno
altro da sé. Visto che in fin dei conti nessuno può diventare realmente più
alto o più basso, più magro o più grasso di quello che è, ne consegue che
tanto più forte era la suggestione – e dunque l’illusione – tanto maggiore
sarebbe stata la capacità trasformativa dell’artista40, in cui Bahr vedrà
riassunta tutta l’essenza dell’evento teatrale, e – lo si vedrà a breve – il senso
del rapporto fra attore e spettatore.
Ecco che le parole e i significati del testo non sono più «l’istanza del teatro
stesso», ma diventano semplicemente un veicolo per mettere in moto un
processo artistico la cui essenza è non più verbale, bensì eminentemente
corporea: la trasmissione, diceva Nietzsche, dell’eccitazione da corpo a
corpo. La stessa empatia - la Mitempfindung cara al teatro borghese
illuminista – «il rivivere in altre anime», egli la considerava non come qualcosa
di morale, ma un’«eccitabilità fisiologica della suggestione; la simpatia, o ciò
che si chiama altruismo», doveva concludere il filosofo tedesco citando il
medico francese Charles Féré41, attraverso il quale conobbe la tecnica
sperimentale dell’ipnosi, «sono mere configurazioni di quel rapporto psicomotore considerato in termini mentali»42.
Si ricorda che già nella Nascita della tragedia, Nietzsche aveva parlato della «rinuncia a se
stesso dell’individuo che si trasfonde in una natura a lui estranea». F. W. Nietzsche, La nascita
della tragedia, cit., p. 64.
40 L’attore, avrebbe detto Bahr nel suo ultimo saggio sulla recitazione, è uno Schau-spieler (il
prefisso deriva dal verbo schauen, che significa guardare) e dunque il problema non è solo
quello della trasformazione interiore, ma anche esteriore. Di certo nessuno può cambiare la
propria fisicità, ma qui la questione era saper utilizzare la forza del proprio spirito per agire
sul corpo e dare l’idea di poter modificare altezza, stazza, viso e mani. Cfr. H. Bahr, Die
Schauspielkunst, cit.
41 Charles Féré (1852-1907) fu autore di numerose opere di medicina, psicologia, sessualità e
criminalità. Nietzsche, che aveva letto i suoi: Sensation et mouvement (1887) e Dégénérence et
criminalité (1888), concludeva il passo di Der Wille zur Macht sintetizzando il fenomeno
empatico sotto la denominazione di induction psycho-motrice (induzione psico-motoria) di Ch.
Féré.
42 F. W. Nietzsche [a cura di G. Colli-M. Montinari], Frammenti postumi, cit., primavera 1888,
14 [117-119], p. 87. «Ogni arte», scrisse il filosofo tedesco sul finire degli anni ottanta, «opera
come suggestione sui muscoli e sui sensi […] suscita tutti i più sottili ricordi dell’ebbrezza –
c’è una memoria peculiare che discende in tali stati: ritorna qui un lontano e fugace mondo di
sensazioni […]. Lo stato estetico ha una sovrabbondanza di mezzi di comunicazione insieme con
un’estrema ricettività agli stimoli e ai segni. È il culmine della comunicatività e della
traducibilità fra esseri viventi». Perché «non si comunicano mai pensieri, si comunicano
movimenti, segni mimici, che vengono da noi letti in chiave di pensieri», ivi, p. 85. I passaggi
39
11 AAR Anno VI, numero 12 – Novembre 2016 Qui, com’è evidente, erano contenute le premesse necessarie al superamento
del concetto di teatralità come era stato consegnato dalla tradizione. Non a
caso, le idee di Nietzsche avrebbero influito, in modo diverso, sui riformatori
dei palcoscenici tedeschi di primo novecento43: non solo Hermann Bahr, ma
anche Peter Behrens, Hugo von Hofmannstahl e Georg Fuchs, il quale nel
suo famoso La rivoluzione del teatro del 1909 (scritto quattro anni dopo La scena
del futuro, in cui esponeva il programma di un teatro nuovo, non psicologico
e non letterario44) affermerà che l’evento drammatico, il vero scopo dello
spettacolo, si realizzava «in una grande, esaltante elevazione», sotto
l’impressione di movimenti ritmici45.
Hermann Bahr verso l’estetica ‘ipnotico-isterica’ della recitazione
Un primo tentativo di dare forma alle nuove istanze: la scuola di recitazione a
Darmstadt
Ugualmente influenzati dal clima intessuto dalle interrelazioni fra i vari
campi del fare e del sapere umani, allo scoccare del nuovo secolo Fuchs e
Behrens, Hofmannstahl e Bahr (fra gli altri) si ritrovarono a quel crocevia
determinante che fu l’esperienza della Colonia degli Artisti di Darmstadt,
ivi riportati appartengono ai frammenti che Nietzsche aveva raccolto sotto il titolo Der Wille
zur Macht (La volontà di potenza) edita per la prima volta in Italia nel 1922 per la casa editrice
ISIS di Milano.
43 Dall’estetica fisiologica di formulazione nietzschiana all’inizio del novecento deriva da una
parte la linea ipnotico-isterica abbracciata da Bahr, in cui – come si vedrà – l’immedesimazione
viene sostituita dallo stato ipnotico, prodotto dall’illusione. Dall’altra, la linea cosiddetta
dell’’oggettività psico-tecnica’, evoluzione della tendenza antiemozionalista che arriva fino a
Mejerchol’d. A dominare è il movimento ordinato della tecnica, e solo come conseguenza si
ha la produzione dei tratti psicologici e delle emozioni.
44 Scriveva Fuchs nel 1905: «Ammettiamo che quando andiamo a teatro non ci aspettiamo né
letteratura né musica, né altro. Noi vogliamo trovarci insieme, sentirci in comune con molti
altri […] in una grande, esaltante elevazione. Affinché questo possa accadere è necessario però
che ci afferri un’irresistibile corrente che ci trasporti tutti insieme in un’unica vibrazione […]
vibriamo insieme non appena uno solo di noi si stacca dalla cerchia e con un’azione qualsiasi
concentra su di sé l’attenzione di tutti, e poi con espressioni ritmiche eccita tutti i nostri cuori
e i nostri sensi […]. Il mezzo espressivo più a portata di mano che egli ha a disposizione per
questo è il suo proprio corpo». G. Fuchs, La scena del futuro, in M. Fazio: Lo specchio, il gioco e
l’estasi, Roma, Bulzoni 2003 (I ed. 1989), p. 225.
45 Id.: La rivoluzione del teatro, ivi, p. 254. Anche sulla formazione di Fuchs influì l’apertura alle
nuove scienze umane e l’interesse per l’ipnosi, a cui egli stesso si sottopose. Un interesse che
si era consolidato grazie all’incontro a Monaco, nel 1904, con la famosa Madeleine G. (ovvero,
Magdeleine Guipet, nata a T’bilisi, Georgia, nel 1876) espressamente citata nella Rivoluzione
del teatro: una semplice casalinga che si era sottoposta a terapia ipnotica a Parigi, con il dottor
Magnin, per la cura delle sue emicranie. Nello stato di trance ipnotica, Madeleine subiva forte
la suggestione della musica e era particolarmente ricettiva ai comandi vocali. Cominciava
dunque a danzare, in modo straordinariamente armonioso, nonostante non avesse mai preso
lezioni di danza. Madeleine G. – insieme a Magnin - arrivò a Monaco grazie a Albert SchrenkNotzing (1862-1929), futuro fondatore della parapsicologia tedesca, e non appena assistette
alle sue esibizioni, Fuchs ritenne di aver trovato «la realizzazione del modello teatrale
dionisiaco di cui parlava Nietzsche ne La nascita della tragedia» (M. Fazio, Lo specchio, il gioco e
l’estasi, cit., p. 238, n. 29).
12 Sonia Bellavia, Hermann Bahr e l’evoluzione dell’estetica tedesca della recitazione fra ottocento e novecento dove presero forma le tensioni innovative generate, sul volgere
dell’ottocento, dalla reazione al positivismo. Posta sotto il controllo del
granduca Ernst Ludwig, la piccola cittadina dell’Assia divenne il ritrovo di
un gruppo di artisti e intellettuali che lì si incontrarono (per poi procedere
ciascuno verso esperienze diverse46) accomunati dallo stesso desiderio di
unire arte e vita47, di integrare la creatività e la tecnica, l’organico e il
meccanico, combinando così il ‘corpo’ e lo ‘spirito’ dello sviluppo umano.
L’arte, aveva scritto Bahr a Ernst Ludwig, «non deve essere più solo un
ornamento esteriore e vuoto gingillo degli uomini, ma l’orologio interiore di
tutto il loro essere»48. E Darmstadt fu un’intera città costruita dall’arte. Case,
mobili, suppellettili, giardini, stanze da lavoro, decorazioni: tutto, «fino al
tetto», era una «serie di Stimmungen», ogni cosa era un’estensione dell’anima,
e tutto era stato ideato, progettato e costruito dagli architetti, dai pittori e
dagli illustratori della Jahrhundertwende; artisti che reagendo alle posizioni
‘ufficiali’ dell’arte e della cultura, intendevano creare dimensioni diverse,
dove percorrere nuove vie49. In quel luogo, oltre ogni spazio del vivere
comune, non poteva mancare il progetto di un teatro non più specchio
dell’umana realtà (come quello naturalista) ma «supremo simbolo culturale,
luogo per eccellenza – disse Paolo Chiarini citando il saggio famoso di
Behrens del 1904 - delle feste della vita e dell’arte»50.
L’idea della Colonia - che si chiamava così perché ciascuno poteva andarsene quando ne
aveva voglia e il Granduca poteva sciogliere il contratto triennale, firmato dagli artisti, quando
voleva (cfr. A.Ottai [a cura di], Scena e scenario. Frammenti teatrali della Esposizione della Colonia
degli Artisti di Darmstadt, Roma, Edizioni Kappa, 1987, p. 32, n. 6) – maturò nelle discussioni
fra il granduca Ludwig, l’architetto Otto Eckmann e Ludwig Habich, uno scultore di
Darmstadt. La Colonia degli Artisti venne fondata nel 1899 e nel 1901 ebbe luogo la prima
Esposizione. Cfr. ivi, p. 8.
47 Più precisamente, l’intento era quello di innalzare la vita a un livello estetico, reagendo alla
decadenza stilistica dell’era della Zivilisation (civiltà), contraltare della Kultur (cultura): l’una
tecnica, meccanica; l’altra organica, arte; l’una il ‘corpo’, l’altra lo ‘spirito’ dello sviluppo
dell’umanità.
48 H. Bahr, An Seine Königliche Hoheit Ernst Ludwig von Hessen und bei Rhein (A Sua Altezza Reale
Ernst Ludwig), in Id., Bildung, Berlin und Leipzig 1900. Lo scritto è riportato, in traduzione in
A. Ottai [a cura di], Scena e scenario, cit., p. 33.
49 Scriveva Bahr in Secession, dedicato a Joseph Maria Olbrich: «Non deve esserci nulla intorno
a noi, nessun candelabro e nessuna sedia che non sia un tale segno della nostra anima. Il nostro
Hofmannstahl ha detto una volta: all’interno tutte le cose. Il candelabro deve diventare un
ricordo della nostra anima. Tutte le cose dell’abitazione devono essere come le mani, gli occhi
e le labbra. In una casa del genere vedrò dunque la mia anima come in uno specchio». H. Bahr,
Kunstgewerbe, in Id., Secession,Wien, Wiener Verlag 1900, p. 36. Il passo riportato in traduzione
è in ivi, p. 27, n. 17.
50 P. Chiarini, Da Vienna a Darmstadt, in ivi, p. 2. Il saggio citato da Chiarini di Peter Behrens:
Feste der Leben und Kunst. Eine Betrachtung über die Kunst des Theaters als höchste Kultursymbol,
Leipzig, Eugen Diederichs Verlag, 1900, è riportato in ivi, p. 32. Fu proprio l’esperienza di
Darmstadt, sostiene Chiarini, che avrebbe portato Fuchs all’elaborazione dei concetti
sviluppati più tardi ne La rivoluzione del teatro, con la centralità riservata al movimento fisico
e alla gestualità. Concetti che avrebbero esercitato un’influenza notevole sul teatro
d’avanguardia, specialmente quello russo e in particolare su Mejerchol’d.
46
13 AAR Anno VI, numero 12 – Novembre 2016 Riformare la vita attraverso l’arte e riformare le arti attraverso il teatro, che
in esso trovano il mezzo per esaltare, ciascuna, la propria, specifica, capacità
formale: questo era il proposito che muoveva Bahr, il suo amico fraterno
Olbrich e Behrens; i quali già a Vienna, nel giugno 1900, avevano iniziato a
stendere il programma teatrale per la Prima Esposizione a Darmstadt, che
avrebbe avuto luogo da maggio a ottobre 190151. Che per Bahr il teatro fosse
ormai divenuto il centro di tutto e che al centro del teatro avesse posto
l’attore, lo dimostra la natura dei suoi interventi per la Colonia: già due mesi
dopo la riunione di giugno 1900, inviò al granduca il progetto per una scuola
drammatica che lui stesso avrebbe diretto, da aprire a Darmstadt.
Hofmannstahl aveva dichiarato la propria disponibilità a scrivere testi per
gli attori nuovi che la scuola, «sotto la guida ‘provocatoria’ del maestro»,
avrebbe formato52. Il progetto venne esposto da Bahr nel suo Ein Dokument
deutscher Kunst (Un documento dell’arte tedesca), in cui dichiarava come il
proposito degli artisti della Colonia fosse «riportare il teatro ai fini, il cui
senso i Greci avevano ben compreso, e anche Goethe auspicava: il culto del
bello e del buon gusto»53. Doveva nascere una nuova arte scenica, una non
‘abbassata’ a livello della vita, ma capace di innalzare la vita a livello
dell’arte; poi, allora, gli attori avrebbero potuto cominciare a rinnovare la
propria Schauspielkunst.
Architetti, pittori e decoratori avrebbero dunque lavorato per definire la
nuova struttura della scena. Bahr, a capo della ‘sua’ scuola, avrebbe
provveduto a formare, per quella scena, giovani talenti. Il piano della Schule
für Schauspielkunst, egli lo consegnò alle trentaquattro pagine dattiloscritte
della sua Bozza di progetto per la scuola d’arte drammatica di Darmstadt54, in cui
spiegò come, per selezionare gli allievi, ci si sarebbe chiesti soltanto se mai
c’era «qualcosa nel viso, nel portamento del corpo», che rivelasse «una
dotazione dell’anima», si trattasse «di energia o di un’avvenenza particolare.
Privilegeremo», disse, «quelli che ci colpiscono personalmente per una frase
del loro racconto, forse perfino per una certa goffaggine o ingenuità» e li
faremo «cantare, recitare una poesia, raccontare una favola, danzare, non per
Già nel 1899, Olbrich aveva cominciato a progettare la planimetria del futuro teatro a
Darmstadt, e ne discusse, come dimostra il carteggio esistente fra i due, con l’amico Hermann
Bahr. Nel giugno 1900, sempre a Vienna, Olbrich e Bahr incontrano Behrens, che divenne –
insieme a Georg Fuchs – uno dei principali fautori della riforma della scena. A Vienna, nella
Secessione, Bahr indicava «l’origine dell’idea e dell’ideale che animava il progetto
complessivo dell’Esposizione, cosicché Darmstadt si presentava come patria ed esilio della
cultura viennese, interessata soprattutto ai propositi di teatro inseriti in programma». A. Ottai
[a cura di], Scena e scenario, cit., p. 33.
52 Ivi, p. 13.
53H. Bahr, Ein Dokument deutscher Kunst in Id.: Bildung, cit. Lo scritto è riportato, in traduzione
in ivi, pp. 34-35. «Darmstadt sarà la nostra Atene», aveva scritto H. Bahr A Sua Altezza Reale
Ernst Ludwig (ivi, n. 72).
54 H. Bahr, Organisationsentwurf der Darmstädter Schule für Schauspielkunst (dattiloscritto del
1900), in G. Bott, «Kunst in Hessen und Mittelrhein» (a. XIV), Darmstadt, E. Roether, 1974, pp.
109-117. Lo scritto in traduzione è in A. Ottai [a cura di], Scena e scenario, cit, pp. 41-46.
51
14 Sonia Bellavia, Hermann Bahr e l’evoluzione dell’estetica tedesca della recitazione fra ottocento e novecento giudicare la loro preparazione in queste arti, ma per sperimentare come si
comportano rispetto a un compito affidatogli»55.
Gli aspiranti allievi che avrebbero superato la selezione, formando la prima
delle due classi previste, avrebbero alloggiato tutti insieme in un grande
albergo e avrebbero seguito, accanto alle ore di ginnastica, scherma e atletica
leggera, anche lezioni teoriche, che avrebbero dovuto portarli, «nel dialogo
e attraverso domande», a «imparare a sentire la Stimmung […], il nucleo
poetico di una composizione»56. Le lezioni di dizione non sarebbero servite
a «pulire» la pronuncia, quanto piuttosto a far sì che l’allievo, apprendendo,
arrivasse a percepire «che ogni brano di poesia ha il suo ritmo, che si deve
capire e ricevere come un movimento di danza»; così come le lezioni di
italiano e di inglese non avrebbero avuto tanto lo scopo di far apprendere
all’allievo le due lingue, quanto rendere la propria più agile e flessibile. La
preparazione sarebbe stata completata – oltreché, naturalmente, dalle lezioni
tecniche di trucco, etc. – dai cosiddetti «esercizi plastici», a cominciare da
cose molto semplici:
come si attraversa una stanza, come in un grande spazio vuoto ci si muove
diversamente che in uno stretto e pieno; come ci si siede in una poltrona o su
una sedia leggera, come ci si siede e come ci si alza; come – questa è la cosa più
difficile – si va via da una stanza. Quindi, salendo a un livello più alto,
camminare con diversi sentimenti, adirato, triste, sgomento. In breve, l’intera
scala dell’eloquenza fisica.
Tre volte la settimana avrebbero avuto luogo rappresentazioni teatrali, dove
tutto veniva improvvisato: «l’insegnante dà il tema e la situazione», scriveva
Bahr, «le parole e l’intera conduzione della scena saranno lasciate
all’ispirazione del momento secondo la sensibilità dell’allievo, il che ha il
vantaggio che lo si costringe a riflettere sull’espressione immediata della
propria natura». Una volta passati alla classe successiva – cosa che sarebbe
avvenuta solo quando l’insegnante avrebbe osservato negli allievi differenze
significative rispetto agli inizi – per gli aspiranti attori sarebbe cominciato
l’insegnamento individuale: «Ora devono essere educati a diventare da soli
attori, a guadagnare una tale padronanza di se stessi che essi possano
disporre in ogni momento della più completa espressione della loro
natura»57. Il resto sarebbe venuto da sé.
Nelle intenzioni di Bahr, Darmstadt avrebbe dovuto regalare ai tedeschi
un’arte scenica nuova, un modello che sarebbe stato seguito ovunque.
Quell’episodio però, com’è noto, restò soltanto tale, e gli esiti furono molto
inferiori alle aspettative. Eppure, l’esperienza degli artisti della Colonia fu
una tappa determinante per tutte le individualità che vi presero parte. Per il
Ivi, p. 41.
Ivi, p. 42.
57 Ivi.
55
56
15 AAR Anno VI, numero 12 – Novembre 2016 letterato austriaco rappresentò il momento in cui arricchì e precisò il proprio
interesse per la recitazione, mentre andava sposando l’idea del teatro di
Behrens e di Fuchs come di un’opera d’arte che utilizza tutte le altre per
esaltare se stessa, rivelando al contempo l’essenza specifica di ciascuna di
esse. Per questo avrebbe asserito qualche anno dopo: «la recitazione deve
sviluppare al massimo il suo effetto potenziale»58.
L’approfondirsi delle riflessioni sull’esempio degli italiani
Per la progettata scuola di recitazione a Darmstadt, Bahr pensò a una
rappresentazione delle Trachinie di Sofocle, per permettere agli aspiranti
attori della scena del futuro di confrontarsi col problema spinoso di rendere,
in modo nuovo, la tragedia antica. Di quell’idea, tornò a fare menzione tre
anni dopo nelle Glossen zum Wiener Theater, indicando come modello per i
giovani artisti Ermete Novelli, il grande attore italiano; insieme alla Duse,
uno dei pochissimi presso i quali egli individuava allora la presenza di quelle
«qualità elementari» che facevano della recitazione l’autentica SchauspielKunst59. «La recitazione deve sviluppare al massimo il suo effetto
potenziale», aveva detto Bahr. «Il primo passo lo hanno già fatto gli italiani»:
così proseguiva la sua affermazione, che esortava infine gli attori tedeschi a
prenderli come modello60, perché intrinsecamente moderni, assolutamente
originali – diversi da tutto ciò che all’epoca, in suolo tedesco, circolava sulle
scene – capaci come nessuno di esercitare ogni volta, sugli spettatori, un
effetto enorme, inusitato. E quell’effetto derivava proprio dal fatto che per la
prima volta essi avevano osato essere in primo luogo nient’altro che attori,
esercitare al grado più alto il loro mestiere e estendere la mimica fino ai
confini ultimi, che le sono propri. Avevano sviluppato pienamente il loro
H. Bahr, Anfang jeder Reform, cit., pp. 474-475. Bahr esorta gli attori tedeschi a spingere la
recitazione fino all’estremo delle proprie possibilità espressive e poi porla in collegamento
con le altre arti per conquistare, tutte insieme, una nuova, più alta unità. Un’unità in virtù di
cui ogni parte verrà continuamente rinnovata dal tutto. «Solo allora», conclude Bahr, «avremo
una recitazione tedesca», ivi, p. 475.
59 Novelli e la Duse resteranno sempre, per Hermann Bahr, fra gli attori più rappresentativi
della recitazione moderna, così come essa si era andata definendo fra ottocento e novecento.
In un passaggio significativo del suo diario del 1920 – primo luglio – presente nella raccolta
dei Tagebücher che vanno dal 16 novembre 1919 al 14 dicembre 1920 e pubblicata nel 1922 con
il titolo Kritik der Gegenwart (cfr. H. Bahr, Kritik der Gegenwart, Augsburg, Haas & Gabherr
Verlag, 1922), Bahr affiancava i nomi dei due attori italiani a quelli dei colleghi Friedrich
Mitterwurzer e Joseph Kainz, dei pittori van Gogh e Cezanne, dello scultore Rodin, dei
compositori Anton Bruckner, Hugo Wolf e Gustav Mahler: tutte personalità che avevano
saputo «determinare decisamente la propria arte o la propria scienza, attraverso il potere,
l’intima sostanza o anche solo l’entità» della loro apparizione, cosicché non sarebbero mai
stati dimenticati, nel prosieguo della storia degli uomini.
60 H. Bahr, Anfang jeder Reform, cit., p. 475. Qui Bahr si riferisce espressamente a Novelli e alla
Duse, ai quali sono dedicate alcune pagine delle Glossen incentrate sulle tournée a Vienna dei
due attori nel periodo compreso fra il 1903 e il 1905. Cfr. H. Bahr, Glossen zum Wiener Theater,
trad. it. di S. Bellavia, Duse e Novelli nelle Glossen zum Wiener Theater (1903-1906) di Hermann
Bahr, in «Acting Archives Review», anno V, numero 10, novembre 2015, pp. 85-124.
58
16 Sonia Bellavia, Hermann Bahr e l’evoluzione dell’estetica tedesca della recitazione fra ottocento e novecento effetto potenziale. Bahr cercò di scoprire quale fosse il ‘segreto’ della loro
arte, e nel procedere delle sue disamine, lungo il primo lustro del nuovo
secolo, arrivò a definire i termini della nuova estetica della recitazione, di cui
si sono finora esposte le premesse concettuali.
Ciò che subito lo aveva affascinato dei due artisti italiani – che ebbe modo di
conoscere personalmente e di vedere ripetutamente a Vienna nel corso delle
tournée che essi intrapresero a cavallo fra i due secoli61 – fu la Verwandlung
che si verificava nel processo, del tutto non intenzionale, attraverso cui essi,
in una sorta di uscita da se stessi, arrivavano a potenziare ciascuno le qualità
specifiche, individuali, della ‘propria’ Schauspiel-Kunst62. Un processo che si
svolgeva sotto lo sguardo dello spettatore, il quale – notò Bahr – subiva assai
più il fascino di tale trasformazione, che non la resa di questo o quell’altro
personaggio; del lavoro compiuto sulla dramatis persona. E tutto ciò aveva a
che fare non soltanto con la padronanza del mestiere dei due attori, il
possesso e l’esercizio di una tecnica magistrale, ma con la loro aura
personale, con la loro capacità di rendere il proprio corpo quella «macchina
energetica» in grado di agire, direttamente, sui sensi e sui nervi dello
spettatore. Era il «potenziale di efficacia», che per Bahr faceva la differenza
fra i veri artisti e i mestieranti. Era quella la «dotazione dell’anima» che
avrebbe voluto cercare negli aspiranti allievi da selezionare per la scuola di
Darmstadt: la «sovrabbondanza di mezzi di comunicazione» insieme a
«un’estrema capacità ricettiva per gli eccitamenti e i segni», di cui parlava
Nietzsche63; e che gli attori italiani come Novelli e come la Duse possedevano
in sommo grado.
L’artista vero, come venne delineandosi agli occhi di Bahr, non era colui che
metteva la propria natura a servizio delle figure create dal poeta, ma colui
che attraverso il poeta tirava fuori, dal profondo, la propria essenza d’attore.
Verità e autenticità della recitazione non avevano più a che vedere con la
fedeltà al personaggio: la recitazione era vera e autentica quando permetteva
l’estrinsecazione della natura intima dell’artista, capace di usare la parola
scritta per entrare in quello stato eccezionale di esaltazione, che era premessa
indispensabile all’attuazione del processo trasformativo. Processo che Bahr
escludeva potesse essere guidato dalla ragione e attuato in modo
consapevole. Questo era quanto aveva creduto Diderot a proposito di
Garrick, il quale – a suo dire – poteva sembrare vero e credibile in ogni
Sul rapporto intenso e fecondo fra gli attori italiani e i palcoscenici di Vienna – mediato e
favorito proprio da Hermann Bahr – si confronti ivi, pp. 68-84.
62 Precisò Hermann Bahr: «Ho mostrato in Novelli come quest’attore sovrano, senza neanche
saperlo, solo in virtù di ciò: che egli estrapola sempre, dalle sensazioni umane, quelle
eminentemente attorali, in tutte le sue rappresentazioni arriva sempre a un punto in cui,
inintenzionalmente e senza sforzo, l’effetto mimico si fa pittorico; e ciascuno ricorda come la
Duse, anche spingendo all’estremo la propria tecnica, sembra spesso innalzarsi,
d’improvviso, dalla regione dell’attore a un mondo puramente musicale». H. Bahr, Anfang
jeder Reform, cit., p. 475.
63 Cfr. ivi, p. 11 n. 44.
61
17 AAR Anno VI, numero 12 – Novembre 2016 personaggio, perché non era nessun personaggio: lo imitava soltanto,
caratterizzandolo con grande sapienza e riproducendo a perfezione i segni
esteriori delle sue passioni. Adesso però la questione era un’altra. Non si
trattava «semplicemente» di recitare o sembrare sette, dieci, cento esseri
diversi; ma esserli «fino alla massima evidenza»64. Non si trattava di «fare»
o «contraffare», ma di convertirsi completamente; di trasfondersi, come
diceva Nietzsche, in una natura estranea. Quel processo di conversione, che
sostituiva l’incarnazione del teatro borghese illuminista, Bahr riteneva
potesse condensarsi in un’unica parola, che egli cominciò a utilizzare proprio
mentre ragionava sull’incredibile capacità di trasformazione di Ermete
Novelli: Transfiguration (trasfigurazione), fulcro autentico dell’evento
teatrale.
Il contributo decisivo di Martersteig al precisarsi della nuova estetica: il processo di
‘trasfigurazione’ e la relazione attore-spettatore.
Immaginazione, suggestione, trasformazione, trasfigurazione: cominciava a
precisarsi il nucleo dell’arte del recitare secondo Bahr, il quale ammise di
aver rubato l’ultimo dei termini, in cui peraltro si riassume tutto il senso della
nuova estetica, a Max Martersteig65.
Martersteig era l’autore di Der Schauspieler. Ein künstlerisches Problem
(L’attore. Una questione artistica) del 189366, che il letterato austriaco cita
espressamente in alcuni dei suoi scritti. Un testo di cui Bahr – che sembra
averlo letto non prima del 1900, quando uscì la seconda edizione - tenne gran
conto, trovando massima concordanza con le tesi che vi erano espresse; a
cominciare dalla problematica stessa a cui rimandava il titolo e che veniva
enunciata già nelle prime pagine del libro. Lì l’autore affermava decisamente
l’insufficienza del criterio di fedeltà alla figura dell’autore come garante della
riuscita della creazione artistica. Riflettere sul personaggio poteva portare
l’attore a ottenere alcune conoscenze su di esso, ma in alcun modo
all’acquisizione della capacità di conversione che, sola, garantiva al teatro
statuto d’arte. «La tecnica», asseriva Martersteig, «crea solo i tratti esteriori
di un carattere; il carattere in sé, la sua essenza, che agisce nell’immediatezza,
li crea solo la capacità di trasformazione dell’attore»67. Una capacità innata,
H. Bahr, Glossen zum Wiener Theater, trad. it. di S. Bellavia, Duse e Novelli nelle Glossen zum
Wiener Theater (1903-1906) di Hermann Bahr, cit., p. 89.
65 Max Martersteig (1853-1926) era attore, scrittore e direttore teatrale. Nel 1904 diede alle
stampe il suo libro più importante: Das deutsche Theater im neunzehnten Jahrhundert. Eine
kulturgeschichtliche Darstellung, Leipzig, Breitkopf und Härtel, 1904 (2. Auflage 1924).
66 M. Martersteig, Der Schauspieler. Ein künstlerisches Problem, Leipzig, Eugen Diederichs, 1900
(nuova edizione). Martersteig sostiene che «il problema della trasfigurazione, nella
recitazione, è più pregnante e istruttivo che in qualsiasi altra attività artistica, perché se ogni
artista lavora con del materiale, nell’attore esso è rappresentato dal suo stesso corpo, che
dev’essere vissuto da un sentire estraneo, da un essere che consiste al di fuori di lui; e in modo
che ogni tratto di questo corpo venga percepito anche come tratto di quell’anima straniera».
Ivi, pp. 16-17.
67 Ivi, p. 10.
64
18 Sonia Bellavia, Hermann Bahr e l’evoluzione dell’estetica tedesca della recitazione fra ottocento e novecento non trasmissibile e che dunque non poteva essere appresa. Proprio qui
risiedeva la questione artistica dell’interprete teatrale, un problema che
Martersteig (evidentemente influenzato anch’egli dall’estetica nietzschiana)
riteneva essere non di natura psicologica, ma fisiologica; e dunque fisiologica
doveva essere la sua spiegazione, perché non ci si poteva certo accontentare
di liquidare la faccenda concludendo che era tutto solo un fatto di talento.
Bisognava chiedersi cosa fosse il talento, su cosa si basasse, e l’unica via in
grado di spiegarlo gli appariva «il metodo psico-fisico della psicologia
moderna»68, che era riuscita a svelare il «mistero» del contagio platonico
dimostrando come il processo creativo poggiasse sulla suggestione e
sull’ipnosi: nomi contemporanei di quello che una volta era lo stato
artistico69. «Per tutte quelle situazioni definite come ‘stato di eccitazione,
contemplazione’, etc.», scriveva Martersteig, «l’unica spiegazione che si dava
era il mistero. Adesso sappiamo che esse trovano causa e sviluppo nel potere
della suggestione». Bahr, riflettendo sull’arte di Novelli, avrebbe detto: «Di
fatto, l’attore cade in trance, questa è l’essenza della sua arte»70.
Intorno al 1900,
psichiatria, neuropsicologia e psicotecnica si incontrano con i programmi
estetici. Molti artisti cominciano a vedere nell’ipnosi uno strumento adatto a
analizzare le relazioni tra corpo e cultura e così, al contempo, a preparare le basi
per un’arte nuova.71
Da qui provenne la linea dell’estetica fisiologica (di ascendenza nietzschiana)
definita come «estetica ipnotico-isterica» della Jahrhundertwende, sposata da
Martersteig e Bahr, che ne furono non solo esponenti, ma anche tra i massimi
rappresentanti.
«Credo di poter dire», continuava Martersteig,
che il carattere drammatico, così come si pone all’attore, in certe circostanze, ha
il potere di farlo cadere in uno stato ipnotico che lo rende partecipe del
contenuto emozionale del carattere stesso; come una suggestione, che ha
Ivi, p. 16.
Cfr. H.-C. von Hermann, Das Archiv der Bühne, cit., p. 196.
70 H. Bahr, Glossen zum Wiener Theater, trad. it. di S. Bellavia, Duse e Novelli nelle Glossen zum
Wiener Theater (1903-1906) di Hermann Bahr, cit., p. 90.
71 H. C. von Hermann, Das Archiv der Bühne, cit., p. 217. Anche Thomas Mann subisce il fascino
curioso delle nuove scienze umane e della parascienza, come dimostra il suo Okkulte Erlebnisse
(Berlin, Alf Häger, 1924), resoconto delle sedute occultistiche a cui lo scrittore partecipò nel
dicembre 1922, nel gennaio 1923 e 1924, sotto la guida del neurologo e parapsicologo Albert
Schrenk-Notzing (cfr. ivi, p. 12, n. 45), con l’ausilio del medium Willi Schneider. Per ulteriori
approfondimenti si rimanda a P. Pytlik, Okkultismus und Moderne: ein kulturhistorisches
Phänomen und seine Bedeutung für die Literatur um 1900, Paderborn, Ferdinand Schöningh
GmbH, 2005, pp. 115-139. Pytlik menziona la lettera inviata dallo scrittore tedesco a una
donna anonima il 31 gennaio 1924, dalla cui lettura si evincono la conoscenza e l’interesse di
Mann per le novità attuali nel campo dell’occultismo e della parapsicologia. Cfr. ivi, p. 115.
68
69
19 AAR Anno VI, numero 12 – Novembre 2016 l’effetto di rendere il momento percettivo l’evento più importante della
rappresentazione.72
Tutto il resto, quello di cui spesso ci si accontentava, era un surrogato della
recitazione. «L’ipnosi che io chiamo in causa per chiarire il problema
dell’intuizione artistica, e in particolare quello della trasfigurazione»,
proseguiva Martersteig, «la spiego come uno stato in cui, attraverso uno
stimolo esterno, tutta l’attenzione dell’individuo viene diretta su una
determinata idea; mentre le altre reti del cervello sono poste, e restano, in
uno stato di inattività forzata»73.
La trasfigurazione dell’attore era dunque per Martersteig – e
conseguentemente anche per Bahr – un processo ipnotico: l’effetto cioè di un
processo cerebrale meccanico74 (dunque fisico) che rendeva impossibile, nel
momento della rappresentazione, una distinzione fra attore e ruolo; e
spostava l’accento piuttosto sul primo, che non sul secondo dei due termini.
Il che, indirettamente, spiegava come mai ciò che affascinava realmente lo
spettatore, quando si trovava di fronte ai «veri» artisti, non erano il
virtuosismo tecnico, la comprensione profonda del personaggio, né
tantomeno la restituzione vera e fedele della figura creata dal poeta. Quello
che il pubblico ammirava, come faceva ogni fruitore di fronte a un’opera
d’arte, era «l’anima del creatore», non «l’idea platonica dell’oggetto»75.
Dunque: in virtù dell’autosuggestione l’attore cadeva in uno stato di trance
ipnotica, che metteva in moto l’atto della creazione e contemporaneamente
ipnotizzava gli astanti. Li sottometteva cioè alla suggestione che egli stesso
M. Martersteig, Der Schauspieler, cit., p. 22. La capacità di conversione dell’attore, si noti
bene, è indipendente dalla grandezza e dall’importanza del ruolo. «Possiamo ravvisarla
quando egli ha a che fare con personaggi comuni, come può succedere che si esplichi nei
caratteri eroici e poi venga meno in un carattere borghese». Cfr. ivi, p. 25.
73 Ivi, p. 27. In questo lo stato ipnotico – come dimostra l’etimologia stessa della parola - è
simile al sogno, poiché anche nel sogno solo una parte del cervello è attiva. La differenza,
precisa Martersteig, è che nel sogno l’area interessata viene posta in attività casualmente,
mentre nell’ipnosi il processo viene determinato.
74 Martersteig distingueva l’attenzione ipnotica da quella in piena consapevolezza e
concentrazione, che è un’esternazione della volontà. L’attenzione ipnotica, invece, era definita
come un processo cerebrale meccanico di tipo particolare, che escludeva l’influenza volontaria
dell’individuo che vi era sottoposto. Le conoscenze di cui si era allora in possesso non
permettevano – proseguiva l’autore - di stabilire se il processo poggiasse su movimenti
vasomotori (come diceva A. Lehmann in: Hypnose und die damit verwandten normalen Zustände
- Ipnosi e stati normali ad essa correlati - Lepizig 1892) o su movimenti neurodinamici (come
sosteneva A. Forel in: Die Hypnotismus – L’ipnotismo – Stuttgart 1889); o se avesse luogo una
mescolanza dei due, se le funzioni di inibizioni riguardassero solo un’area determinata del
cervello, come l’apparato appercettivo (W. Wundt: Hypnotismus und Suggestion – Ipnotismo e
suggestione – 8 Bd., Leipzig 1893) o anche altri centri. Ma queste, d’altronde, erano questioni
che non lo riguardavano. M. Martersteig, Der Schauspieler, cit., p. 28.
75 «Altrimenti avremmo sempre le medesime immagini, prodotte da artisti diversi. E invece è
proprio il contrario», ivi, p. 39. L’affermazione di Martersteig riportata nel testo rimanda alle
parole di Nietzsche, quando afferma: «Io ammiro Wagner ogni qualvolta egli mette in musica
se stesso». F. Nietzsche, Nietzsche contra Wagner, trad. it. di F. Masini, cit., p. 214.
72
20 Sonia Bellavia, Hermann Bahr e l’evoluzione dell’estetica tedesca della recitazione fra ottocento e novecento aveva evocato; costringendoli inoltre a completare, da loro stessi, la sua
immagine76: il pubblico non godeva, passivamente, della prestazione
dell’attore, ma ne diventava pienamente partecipe, contribuendo insieme
all’artista alla Verwandlung, che era la vera essenza dell’accadimento scenico.
La suggestione – che sostituiva adesso l’Illusione del teatro borghese
illuminista – era dunque premessa indispensabile alla realizzazione di quello
che per Bahr era l’evento artistico: la trasformazione di entrambi, attore e
spettatore (Schau-spieler e Zu-schauer), l’uno attraverso l’altro77. Solo
nell’attività del pubblico, messa in moto dalla presenza dell’attore, lo
spettacolo si compiva, perché lo scopo ultimo del teatro altro non era che la
«liberazione dello spettatore da se stesso», il quale diventava «così partecipe
di una pura esistenza, un’esistenza molto al di sopra della propria
individuazione»78. L’esistenza che consisteva nei territori dell’arte.
Perché un tale processo si realizzasse pienamente, non bastava la presenza
di un mestierante qualsiasi, foss’anche di alto livello. Era necessario
l’intervento di una natura capace di autosuggestionarsi in sommo grado,
poiché il potere di suggestione che essa avrebbe esercitato sugli spettatori
sarebbe stato direttamente proporzionale alla propria capacità di
suggestionarsi. A mettere in moto e portare a compimento l’evento artistico
poteva essere dunque solo un attore provvisto di un’altissima reattività agli
stimoli esterni; dotato cioè di un’estrema sensibilità. Questa era la dote prima
che faceva del commediante un vero artista. «La maggiore suggestionabilità
di una mente», disse Martersteig, «è verosimilmente la scaturigine di tutte le
geniali capacità produttive»79. E dietro la sua affermazione sembrava
risuonare distintamente l’eco delle parole di Nietzsche, quando ne La volontà
Cfr. S. Bellavia, Duse e Novelli nelle Glossen zum Wiener Theater (1903-1906) di Hermann
Bahr, cit., pp. 81-82
77 Cfr. H. Bahr, Die Schauspielkunst, cit., p. 101. Nello scritto del 1923 Bahr insiste
continuamente sull’importanza del pubblico, alla cui presenza, soltanto, la recitazione si
compie.
78 Anche Georg Fuchs, nella Rivoluzione del Teatro, aveva affermato che lo spettacolo non si
compiva sulla scena, ma nell’anima dello spettatore. Cfr. G. Fuchs, La rivoluzione del teatro, in
M. Fazio, Lo specchio, il gioco e l’estasi, cit., p. 254.
79 M. Martersteig, Der Schauspieler, cit., p. 33. Perché solo negli individui suggestionabili,
notava Martersteig, gli stimoli esterni divengono suggestione. Ma essa, si badi bene, non può
mai travalicare «le doti e le esperienze pregresse dell’individuo». Il suo potere è nella sua
capacità di far emergere qualcosa che è già presente nelle profondità dell’artista, non di
produrre nuove facoltà. A proposito, egli portava l’esempio di Madaleine G. (cfr. ivi, p. 12, n.
45): la donna, sotto ipnosi, non acquisiva la tecnica della danza (tant’è che uscita dal sonno
ipnotico continuava a non saper ballare) ma tirava fuori una dote, una tendenza,
un’inclinazione alla danza che era già in lei e di cui l’ipnosi permetteva l’accrescimento fino
all’insolita e rara resa produttiva. Più avanti precisava: «colui al quale, sotto ipnosi, verrà
ordinato di fare il cane, abbaierà e morderà, ma con i mezzi espressivi di un essere umano. Se
costui però non avrà mai visto un cane in vita sua, su di lui la suggestione non potrà produrre
alcun effetto. Ugualmente, l’attore che interpreti un Re, sotto suggestione, si appoggerà alla
propria idea di Re; foss’anche quella dei quattro Re di un mazzo di carte». Ivi, pp. 48-49.
76
21 AAR Anno VI, numero 12 – Novembre 2016 di Potenza affermò che sono le condizioni eccezionali, che creano gli artisti:
tutte quelle condizioni intimamente unite e affini ai fenomeni morbosi,
cosicché sembra impossibile essere artisti, senza essere malati80.
Una chiusa che consente di svelare, in ultimo, il perché dell’aggettivo
«isterica» nella denominazione dell’estetica della recitazione sposata e
puntualizzata da Hermann Bahr. Le parole di Nietzsche mettono in luce la
distanza, pur nel continuo dialogare, fra l’arte e la scienza di fine ottocento
nel modo di guardare alla sensibilità: la prima la riteneva una qualità
positiva, assimilabile al genio; l’altra, una qualità di segno negativo,
prossima a un’anomalia patologica: alla condizione isterica, per l’appunto,
che da sempre veniva associata agli artisti, e in special modo agli attori. Non
a caso, nell’ultimo scritto sulla recitazione del 1923, Bahr – appoggiandosi
alle ricerche del chirurgo e scrittore tedesco Carl Ludwig Schleich – parlerà
di schöpferische Hysterie (isteria creativa), generata da una sorta di iperattività
della facoltà immaginativa e dunque, giocoforza, connaturata al «vero»
attore, all’artista «autentico»; il quale però, diversamente dagli isterici,
sapeva non solo dominare tale stato, ma anche servirsene per porsi al di fuori
di sé. Nel momento che Martersteig chiamava «dell’intuizione» (ovvero
quando reagendo allo stimolo, lasciandosi suggestionare, l’interprete
cominciava a creare) a lavorare non sarebbe stato infatti l’’Io’ dell’attore, ma
un ‘Es’ apparentemente slegato dalla sua coscienza81. L’ipersensibilità
dell’artista – che poteva anche essere giudicata una tendenza isterica - era
dunque necessaria all’evocazione dell’ipnosi estetica, che sola rendeva
possibile all’attore la messa in disparte dell’’Io’ con le sue relazioni; di modo
che un Io estraneo, dominando l’area del cervello preposta alla produzione
delle rappresentazioni, potesse essere introdotto e si compisse il processo
della trasfigurazione.
Con l’introduzione del «doppio Io» l’attore però non aveva esaurito il suo
compito. Egli doveva anche fare in modo che lo spettatore partecipasse
dell’essenza di questo altro Io; e non poteva farlo che agendo, a sua volta,
«Enuncio qui, come segni di vita piena e fiorente», scriveva Nietzsche in La volontà di potenza,
«una serie di stati psicologici che oggi si è abituati a giudicare morbosi […]. L’artista
appartiene a una razza più forte. Ciò che per noi sarebbe già nocivo, sarebbe già morboso, è
in lui natura […] Come si potrebbe oggi ritenere il ‘genio’ una forma di nevrosi, così si
potrebbe giudicare anche la forza di suggestione artistica – e i nostri artisti sono effettivamente
troppo affini alle donne isteriche!», F. W. Nietzsche [a cura di G. Colli-M. Montinari],
Frammenti postumi, cit., primavera 1888, 14 [119], pp. 87-88. E altrove: «Wagner est une névrose.
[…] nulla è più moderno di questo ammalarsi collettivo, di questa tardività e sovraeccitabilità
del meccanismo nervoso. Wagner è l’artista moderno par exellence». Id., Il caso Wagner, trad. it.
di F. Masini, in M. Montinari [a cura di], Friedrich Nietzsche. Scritti su Wagner, cit., p. 175.
81 Questa è la definizione che dà la psicanalisi freudiana dell’Es, consistente di istinti che
rappresentano la riserva individuale di energia psichica. Il termine fu introdotto da Freud
solo nel 1922, ma egli l’aveva mutuato da Georg Groddeck (1866-1934), il fondatore della
medicina psicosomatica. Groddeck aveva iniziato a utilizzarlo per indicare con esso le forze
ignote e incontrollabili da cui gli esseri umani vengono vissuti. L’emergere di tali forze
nell’atto della creazione artistica spiegherebbe l’intensità, il furore, l’impressione potente
suscitata da attori come Novelli e come la Duse.
80
22 Sonia Bellavia, Hermann Bahr e l’evoluzione dell’estetica tedesca della recitazione fra ottocento e novecento sulla disposizione alla suggestionabilità del pubblico: «Non solo l’origine
intuitiva dell’opera d’arte poggia su un’ipnosi estetica», diceva Martersteig,
«ma anche il suo effetto sostanziale». Laddove «il pubblico resta
intimamente preso e affascinato», ciò avviene «per un suggerimento
profondo del contenuto rappresentato, che richiama uno stato ipnotico»82.
Per illustrare il concetto, egli portò come esempio chiarificatore l’odore della
rosa: esso, spiegava l’autore di Der Schauspieler,
discioglie una serie di rappresentazioni sulla volatilità dell’olio eterico; ma i più
suggestionabili vengono trasportati, da quel profumo, in un rapimento ipnotico
che rende nuovamente presente un vissuto in cui la rosa e il suo odore hanno
giocato un ruolo.83
Il profumo del fiore, come qualsiasi altro stimolo esterno – un suono,
un’immagine, una parola del testo – metteva dunque in moto la capacità
reagente dell’attore e ne avviava l’«autotrasformazione». Essa, a sua volta,
fungeva da stimolo per innescare la «reattività» dello spettatore (diventava
insomma per lui – riandando all’esempio di Martersteig – quello che l’odore
della rosa poteva essere stato per l’attore), il quale cominciava anch’egli a
immaginare e creare visioni, divenendo compartecipe della trasfigurazione
operata dall’artista. Il che non impediva poi, quando lo stato si era dissolto,
l’esercizio dell’attività critica, e dunque una riflessione a posteriori
sull’esperienza.
Riassumendo: la suggestione attraverso cui si produceva lo stato ipnotico,
prodotto di una iperattività dell’immaginazione presente solo in una natura
ipersensibile e dunque estremamente ricettiva agli stimoli esterni (vista
perciò come tendenzialmente ‘isterica’), agiva non solo nella fase di
preparazione del ruolo, ma dava l’impulso anche nel momento della
rappresentazione. Entrambe, preparazione e esecuzione erano poste sotto
l’influsso dell’ipnosi estetica (che nel momento dell’andata in scena era in
realtà una post-ipnosi, poiché si ri-presentava lo stimolo che aveva
«Se uno di essi cercherà di riprodurre questo vissuto artisticamente», continuava
Martersteig, «il prodotto non si limiterà ai tratti dello stimolo, ma molto più restituirà, in tutta
la sua intensità, un contenuto emozionale di tipo soggettivo; o lo lascerà presentire». M.
Martersteig, Der Schauspieler, cit., pp. 44-45.
83 Ivi. A proposito di Novelli, Bahr sembrava avere assistito personalmente all’attuazione di
un processo assai simile a quello descritto da Martersteig nell’esempio della rosa. Bastava dire
un nome e l’attore, «reagendo» al segnale (come all’odore del fiore, nda), subito formava
accanto a sé una visione. Di essa sceglieva poi il tratto essenziale, che amplificava fino al grado
massimo dell’espressione, diventando a sua volta un «ipnotizzatore»; facendo cioè cadere
l’astante preda del potere di suggestione che lo portava a creare da sé (attraverso il processo
psicologico dell’associazione) tutti gli altri tratti della visione suscitata dal nome. Arrivando
infine a credere di vedere e di sentire non ciò che gli veniva detto o mostrato, ma ciò che si
era prodotto nella sua immaginazione. Cfr. H. Bahr, Glossen zum Wiener Theater, trad. it. di S.
Bellavia, Duse e Novelli nelle Glossen zum Wiener Theater (1903-1906) di Hermann Bahr, cit., p.
91.
82
23 AAR Anno VI, numero 12 – Novembre 2016 inizialmente causato la suggestione). Martersteig cercava di spiegare il
procedimento con la descrizione di quanto accadeva all’attore tedesco
Mitterwurzer84 al momento della prima prova, in cui ancora non dominava
il contenuto del ruolo: il suo diventare piano piano «preda del carattere»,
l’inizio della trasformazione, poi l’apparizione e l’espressione di
quell’essenza estranea, che si manifestava in «lampi di intuizione»85. Nella
fase preparatoria, a far cadere l’attore nella disposizione capace a generare
lo stato ipnotico-estetico poteva essere «una parola, un movimento, un
qualche dinamismo dell’opera che gli si svelava; spesso anche solo una
decorazione, un oggetto di scena». Qualcosa, insomma, che fosse in grado
all’istante «di provocare la suggestione e di riprodurla parzialmente»86.
Durante la rappresentazione, invece, l’elemento più importante per metterla
in moto (oltre l’apparato scenico, le luci, i costumi, la scenografia, etc.) era la
presenza del pubblico, di cui l’attore aveva bisogno «come l’elemento» in cui
si rispecchiava «il suo Io trasformato»; poiché ogni ‘Io’, per consistere, ha
bisogno della relazione con l’altro, che sola gli permette di oggettivarsi. Nella
vita reale ci vogliono anni, perché ciò avvenga. In teatro questo tempo non è
concesso: «a quest’effimero Io la relazione deve rivelarsi subito. Quando ciò
accade, l’attore lascia fare, e da quel momento l’ipnosi parziale comincia a
produrre il suo effetto». Il resto della coscienza vigile (che causa nell’attore
la paura di dimenticare le battute, di incidenti vari, di essere incapace a
svolgere il proprio compito) «inizialmente vede agire timorosa quell’Io come
una seconda persona, completamente al di fuori di sé», come accade nei
sogni. Poi però «si acqueta e si fa disinteressata, perfino spavalda». Da qui,
«la sorprendente doppia vita dell’attore, che si verifica in teatro»87. Il doppio
Io, in cui consiste la sua trasfigurazione.
Friedrich Mitterwurzer (1844-1897) uno dei maggiori caratteristi del teatro di lingua
tedesca. Fu attore del Burgtheater e dei più importanti teatri privati di Vienna.
85 Cfr. M. Martersteig, Der Schauspieler, cit., p. 53. Il tutto non era frutto di un «miracolo»,
notava Martersteig, ma dell’effetto di leggi meccaniche, le stesse che determinano la vita
interiore degli esseri umani. E qui l’autore di Der Schauspieler portava qualche esempio; il
primo, quello dell’autosveglia: se so che devo alzarmi alle quattro del mattino per un impegno
importante, puntualmente mi sveglio a quell’ora, senza bisogno di «richiami» esterni. Oppure
la scomparsa dei dolori fisici dovuta all’eccitazione (sia di segno positivo, che negativo) per
un evento particolare: sono tutti esempi di «stati ipnotici». Cfr. ivi, pp. 54-55.
86 Ivi, p. 63. Interessante quello che dice poi Martersteig a proposito del regista: di fatto, egli
non può fare nulla per suscitare la giusta Stimmung nell’attore. Il solo aiuto che può dargli è
preparare al meglio l’apparato scenografico, poiché esso può fungere da stimolo per avviare
il processo di suggestione ipnotica.
87 Ivi, pp. 64-66. Martersteig cita poi il ricordo di Paul Lindau (1839-1919: scrittore,
drammaturgo, direttore teatrale – Berliner Theater dal 1899 e Deutsches Theater dal 1905 – e
critico tedesco) su Tommaso Salvini durante una rappresentazione dell’Otello di Shakespeare:
«Lindau racconta come Salvini durante una pausa, dietro le quinte, si fosse arrabbiato
ferocemente per la presenza di un qualche oggetto che non faceva parte dello spettacolo; e
come egli improvvisamente, appena richiamato dal servo di scena per l’entrata sul palco,
avesse fatto il proprio ingresso trasformato in Otello come per effetto di una bacchetta magica,
senza tradire la minima traccia della precedente agitazione; e avesse recitato il suo ruolo con
84
24 Sonia Bellavia, Hermann Bahr e l’evoluzione dell’estetica tedesca della recitazione fra ottocento e novecento Conclusioni
Il processo che doveva portare al superamento delle concezioni teatrali della
vecchia tradizione, così come essa si era venuta consolidando dal XVIII
secolo, nella mente di Bahr e di tutti coloro i quali, come lui, abbracciarono
la nuova estetica di ascendenza fisiologica nietzschiana poteva dirsi
concluso. L’illusione che era stata il perno e la conditio sine qua non dello
spettacolo teatrale nel settecento, aveva modificato interamente il proprio
significato: non consisteva più nella sospensione dell’incredulità, ma in un
potere suggestivo di natura psico-fisica che, solo, metteva l’attore nella
condizione di alzare il sipario che divide conscio e inconscio, Io e Es.
All’attore del teatro borghese illuminista la produzione dell’illusione era
necessaria affinché il pubblico potesse credere alla verità del personaggio
creato dal poeta; adesso gli era necessaria in primo luogo per se stesso,
perché potesse far emergere il «doppio Io» in cui consisteva la sua creazione,
che aveva bisogno di un pubblico che lo ponesse in quella relazione con
l’esterno in cui soltanto, come ogni Io, poteva consistere.
Alla luce di tutto ciò, è evidente che il problema stesso della formazione e
dell’addestramento dell’attore doveva essere posto in termini affatto diversi
rispetto a quelli in cui era stato posto fino a allora. Se l’atto della creazione
artistica veniva messo in moto da uno stimolo fisiologico, che generava
un’intuizione, la quale – per effetto dell’esercizio della facoltà immaginativa
– evocava a sua volta la (auto)suggestione che produceva infine l’ipnosi
estetica (premessa indispensabile alla trasfigurazione dell’artista,
necessariamente completata dal pubblico) la prima cosa su cui un attore o
aspirante tale avrebbe dovuto lavorare sarebbe stata la sua Einbildungskraft.
Non più dibattiti teoretici, trattati di recitazione e saggi estetico-critici, ma
visioni, colori, forme e movimento (nel senso di temperamento delle
passioni): queste erano le rappresentazioni (Vorstellungen) che dovevano
essere arricchite, il più possibile. Poi, e solo in un secondo tempo, arrivava
l’addestramento dei mezzi tecnici88. Illustrando nelle Glossen zum Wiener
Theater il progetto delle Trachinie di Sofocle pianificato per gli allievi della
Colonia di Darmstadt, Bahr raccontò come, nelle sue intenzioni, avrebbe
meravigliosa potenza. Come potete meravigliarvi? Gli avrebbe poi detto Salvini. L’ho studiato!
Sono preparato. Posso recitare ogni scena in ogni momento, quella che volete, quando volete. Se di notte
mi tirate giù dal letto e mi dite di recitare il monologo prima dell’assassinio di Desdemona, io lo recito
proprio come la sera in palcoscenico e sento proprio lo stesso; ovvero, assolutamente niente! Io so solo
quello che devo dire per dare credibilità alla mia sensazione, in modo onesto. Io ho sentito quando
preparavo il ruolo! Pienamente, fino al dolore fisico. Ma da allora domino la sensazione, non mi curo
più di nulla. Conosco il ruolo a menadito. Prendo le passioni come il pianista prende l’ottava: senza
guardare. È entrata nella carne e nel sangue. La recita mi stanca solo fisicamente, intellettualmente e
emotivamente proprio no. Con ciò, Lindau riteneva di dover dedurre che Salvini sposasse il
punto di vista di Coquelin, cioè che il grande attore – e come tale egli riconosceva Salvini –
non ha bisogno di sentire ciò che egli è in scena. Io ritengo la confessione di Coquelin, così
come quella di Salvini, un autoinganno: essi sono entrambi nature così straordinariamente
dotate di suggestionabilità, che sono continuamente in stato di ipnosi parziale, senza
rendersene conto». Ivi, pp. 69-70.
88 Cfr. ivi, p. 79.
25 AAR Anno VI, numero 12 – Novembre 2016 istruito gli attori. Il procedimento sarebbe stato il seguente: lasciare, per
prima cosa, che essi percepissero il «contenuto umano della tragedia»,
incuranti della grecità, incuranti del verso, «come fosse un caso accaduto
ieri»89. L’espressione puramente attorale della pièce avrebbe dovuto essere
poi esercitata attraverso prove incessanti, in modo da far sì che alla fine tutto
diventasse meccanico fino al punto in cui l’attore, se risvegliato dal sonno,
attraverso una parola-chiave sarebbe dovuto cadere nuovamente nello stato
di narcosi90. Tutto il resto veniva da sé. Una volta che lo Schauspieler avesse
trovato lo stimolo giusto per evocare l’ipnosi estetica e avesse cominciato a
creare, giocando con i segreti del proprio mestiere solo «finché entrava nella
giusta atmosfera, per poi buttarli via»91 e innalzare improvvisamente se
stesso, l’evento avrebbe già avuto inizio. Si sarebbe compiuto solo nella
recita, di fronte al pubblico, che preso dallo stesso potere di suggestione
dell’attore, insieme a lui, soggiogato dalla sua «forza ottenebrante» – la stessa
che Novelli e la Duse esercitavano su Bahr – elevava se stesso al di sopra
della sua Ich-Kasualität (il suo Io casuale) realizzando quello che, pur nelle
differenze, per Nietzsche, Wagner, per Martersteig e Bahr, per Behrens e per
Fuchs era il fine ultimo dell’arte e del teatro: quello di rendere tutti, attori e
spettatori, un «coro di trasformati», scavalcando per sempre il muro della
finzione della quarta parete.
H. Bahr, Anwendung der Theorie auf ein Beispiel (Applicazione della teoria a un esempio), in Id.,
Glossen zum Wiener Theater, cit., p. 476. Proprio come faceva Novelli con Edipo, proseguiva
Bahr, che recensì l’attore nel ruolo tragico in occasione della tournée dell’attore italiano a
Vienna nel maggio 1903.
90 La stessa cosa, dice Bahr, andrebbe fatta con il pittore: prospettargli e rappresentargli il
«contenuto umano» delle scene e al contempo «quella grecità coloristica e passionale che
Nietzsche ci ha insegnato a ‘sentire’ nel tragico, fino a che ogni scena non diventi un’immagine
che il pittore dovrebbe portare all’espressione massima, con il massimo potere di cui è
capace», ivi, p. 477.
91 H. Bahr, Glossen zum Wiener Theater, trad. it. S. Bellavia, Duse e Novelli nelle Glossen zum
Wiener Theater (1903-1906) di Hermann Bahr, cit., p. 104.
89
26 Anno VI, numero 12 – Novembre 2016 Paola Degli Esposti
Le impronte della Über-Marionette:
tracce di teoria sull’attore in The Drama for Fools di Edward
Gordon Craig
Quando, nel 2012, l’Institut International de la Marionette ha pubblicato la
prima edizione completa del Drama for Fools di Edward Gordon Craig1, un
corpus prezioso di drammi per marionette poco noti – sia completi che
incompleti – è finalmente diventato accessibile. Solo poche delle pièces
erano già state pubblicate, e alcune di queste erano comunque difficilmente
reperibili dato il numero esiguo di copie originariamente stampate.
Considerando il fascino che le figure inanimate esercitano su Craig, dalle
marionette ai burattini, dal teatro d’ombre giavanese ai pupi siciliani, tali
drammi sembrano particolarmente interessanti, ad esempio come indizio
dell’interesse dell’artista inglese per il teatro di figura concreto, visto che gli
permettono di passare dallo studio teorico agli esperimenti pratici2.
L’indagine sul legame tra queste composizioni e la riflessione teorica, pure
già avviata, merita di essere approfondita, in particolar modo per quanto
concerne una parte dell’analisi che ancora rimane in fase preliminare, vale a
dire quella che coinvolge la poetica craighiana in merito all’attore3.
Cfr. E. G. Craig, Le Théâtre des fous / The Drama for Fools, édition bilingue établie par Didier
Plassard, Marion Chénetier-Alev et Marc Duviller, Montpellier and Charleville-Mézières,
L’entretemps e Institut International de la Marionette, 2012. Una raccolta parziale era stata
pubblicata precedentemente in italiano: cfr. E. G. Craig, Il trionfo della marionetta, a cura di M.
Maymone Siniscalchi, Roma, Officina, 1980.
2 Cfr. D. Plassard, Un rêve de spectacle, in Craig, Le Théâtre des fous / The Drama for Fools, cit.,
pp. 13-18; M. Maymone Siniscalchi, Introduzione, in Craig, Il trionfo della marionetta, cit., pp. 932; M. Maymone Siniscalchi, E. G. Craig: The Drama for Marionettes, «Theatre Research
International», V, 2, Spring 1980, pp. 122-137.
3 Tra gli studi recenti sul Drama for Fools, cfr. H. Jurkowski, Aspects of Puppet Theatre, London,
Palgrave Macmillan, 2014, pp. 154-164, M. Duviller, «Ramener de belles choses du monde
imaginaire»: le sources et fantômes littéraires du ‘Théâtre de fous’ d’Edward Gordon Craig, in C.
Guidicelli (sur la direction de), Surmarionnettes et mannequins. Craig, Kantor et leur héritages
contemporains, Lavérune, L’entretemps and Institut International de la Marionette, 2013, M.
Chénetier-Alev, M. Duviller ‘The Drama for fools’: les pièces pour marionnettes d’Edward Gordon
Craig, in, «Revue d’Histoire du Théâtre», 240, octobre-décembre 2008, pp. 305-318, L. F.
Ramos, The Unspeakable and the Imaginary Works of Klein and Craig, «Art Research Journal», I,
1, January-June 2014, pp. 31-43, rif. a pp. 37-42, Didier Plassard, Edward Gordon Craig and the
‘smallest drama in the world’, in «Skenè. Journal of Theatre and Drama Studies», I, 2, 2015, pp.
51-64.
1
27 © 2016 Acting Archives ISSN: 2039-­‐9766 www.actingarchives.it AAR Anno VI, numero 12 – Novembre 2016 Due pièces complete, Romeo and Juliet and Blue Sky4 – scritte da Craig sotto lo
pseudonimo ‘Tom Fool’, come tutto il Drama for Fools – sembrano piuttosto
interessanti a questo riguardo. Composte tra il 19165 e il 1921, dopo i lavori
teorici di maggior spessore e soprattutto dopo che molti saggi sul teatro di
figura sono stati pubblicati in «The Mask» e nello stesso periodo in cui altri
compaiono sia in «The Mask» che in «The Marionette», rivelano chiari
indizi delle opinioni di Craig. C’è però di più: celata sotto la superficie dei
due drammi, sembrano riconoscibili riferimenti nascosti e allusioni alla
teoria della Über-Marionette. Prima di passare ad analizzarli è necessario
tuttavia evidenziare i temi più palesi dei due testi6.
La caduta: ‘Romeo and Juliet’
I protagonisti di Romeo and Juliet sono ‘doppi’ contemporanei dei
personaggi dell’omonimo testo shakespeariano, che vivono una versione
alternativa e grottesca della vicenda originale. Li accompagnano altri sei
personaggi, William Shakespeare, Francis Bacon, Max Reinhardt (i cui nomi
d’ora in poi saranno in corsivo nell’analisi, per distinguerli dai loro modelli
storici), Harriet Beecher Stowe, Annabella Milbanke e Madame de Staël.
L’azione del dramma si svolge interamente nel giardino e nella stanza da
letto di Giulietta. La prima scena si apre nel giorno del tricentenario della
morte di Shakespeare. Romeo entra nel giardino. Dopo aver inutilmente
chiamato l’amata, sta per andarsene quando la giovane (che possiede solo
la parte superiore del corpo) si decide a parlargli dalla finestra. Dopo uno
scambio di battute, la ragazza respinge l’innamorato e annuncia che sta
partendo per Verona e tornerà l’anno seguente. La seconda scena si apre un
anno dopo, nello stesso luogo. Romeo entra nel giardino dove parla con
Giulietta (al cui corpo ora si è aggiunta una coscia) che si affaccia alla
finestra, dichiarandole nuovamente il suo amore e ricevendo un altro
rifiuto. La ragazza se ne va e all’innamorato, sconsolato, si stacca un
braccio. La scena si conclude con l’entrata di Bacon e Shakespeare che
esprimono il loro sconcerto e disappunto riguardo a ciò che si è visto e
decidono di raggiungere Reinhardt in una taverna. La terza scena è
ambientata nello stesso luogo due anni dopo. Romeo arriva nel giardino di
Giulietta e la giovane, che ora ha una gamba completa, lo invita in casa.
Contemporaneamente arrivano Bacon, Reinhardt e Shakespeare, che assistono
Cfr. E. G. Craig, Romeo and Juliet. A Motion for Marionnettes, Firenze, [s.n.], 1918, da qui in poi
citato con la sigla RJ; E. G. Craig, Blue Sky. A Sketch for a Little Farce for Marionettes, «The English
Review», XXXII, March 1921, pp. 198-212, da qui in poi citato con la sigla BS.
5 Almeno tre dattiloscritti di Romeo and Juliet recano la data 1916, che potrebbe essere l’anno di
composizione. Cfr. I. K. Fletcher, A. Rood, Edward Gordon Craig. A Bibliography, London, The
Society for Theatre Research, 1967, p. 23 e E. G. Craig, Le Théâtre des fous / The Drama for Fools,
cit., p. 277.
6 I primi due paragrafi sviluppano alcune tematiche che avevo iniziato a prendere in
considerazione diversi anni fa. Cfr. P. Degli Esposti, Tre drammi per marionette di E.G. Craig,
in U. Artioli, F. Trebbi (a cura di), Gesto e parola: aspetti del teatro europeo tra Ottocento e
Novecento, Padova, Esedra, 1996, pp. 189-222.
4
28 Paola Degli Esposti, Le impronte della Über-­Marionette al dialogo. Il protagonista proclama di nuovo il suo amore e l’amata lo
rifiuta per la terza volta invitandolo ad andarsene. Allontanandosi il
giovane perde una gamba. L’ultima scena si svolge cinque anni dopo.
Romeo arriva sconsolato in carrozzella. Giulietta, ormai fisicamente
completa, si affaccia alla finestra senza notare le condizioni in cui versa il
giovane e dopo un monologo in cui finalmente dice di amarlo scende in
giardino, scoprendo che Romeo è gravemente menomato. Inorridisce,
accusandolo di crudeltà. A questo punto il protagonista maschile muore e
la giovane, estraendo il cuore dell’amato, scopre che vi è scritto ‘Rosalina’.
Giulietta asserisce che ha sempre sospettato che lo spasimante non fosse
sincero e si appunta il cuore di Romeo al vestito. Cala il sipario. Davanti ad
esso entra Shakespeare che, disperato e sconvolto, si chiede chi abbia
rovinato la sua tragedia e perché. Appaiono d’improvviso Madame de
Staël, Miss Milbanke e Harriet Beecher Stowe che asseriscono di essere le
responsabili. Si abbassa un secondo sipario e davanti sfila il corteo funebre
di Romeo, composto di numerose marionette, e a questo punto il dramma
si conclude.
Nel testo craighiano, chiaramente parodistico, Shakespeare e la sua
tragedia non sono tanto l’oggetto dell’ironia dell’autore quanto lo
strumento attraverso cui egli mette alla berlina la prassi teatrale
contemporanea. Per fare ciò opera a diversi livelli: linguistico, tematico e
scenico.
Sul piano linguistico, mentre ad esempio Romeo, pur con talune eccezioni,
adotta un registro poetico, usando arcaismi come methinks, oppure
adoperando la desinenza –th nei verbi, Juliet solitamente impiega un
linguaggio quotidiano contemporaneo e sconcertanti frasi colloquiali, come
per esempio «I don’t mind a wee bit, Romeo dear» (che si potrebbe rendere
con «non mi dispiace neppure un pochetto, Romeo, tesoro»), benché
occasionalmente usi frasi più antiquate come «I beseech you» (traducibile
con «ti impetro»)7; Shakespeare e Reinhardt, d’altro canto, impiegano un
miscuglio di tedesco ed inglese – tanto che nei loro dialoghi il primo viene
chiamato ‘Wilhelm’ e Bacon viene chiamato ‘Franz’ – che risulta piuttosto
sconcertante ed efficace nel caso di Shakespeare. La rilevanza metateatrale di
queste scelte, in particolar modo dei registri contrastanti della coppia
amorosa, è segnalata da allusioni sparse nei dialoghi. Romeo sottolinea
ripetutamente – per la gioia di Shakespeare – che egli agisce e parla
seguendo i dettami della tradizione; Juliet continua a far riferimento
all’inadeguatezza dello spasimante alla modernità e ad assumere un
atteggiamento superficiale nei confronti dei suoi sentimenti, un
comportamento di cui Shakespeare incolpa uno dei bersagli preferiti degli
RJ, p. 5. Per questioni legate all’analisi testuale, si è scelto di tradurre ex novo tutti i testi
citati nel presente saggio, anziché avvalerci delle versioni italiane. Nel caso di Blue Sky e
Romeo and Juliet la traduzione edita è offerta da M. Maymone Siniscalchi in E. G. Craig, Il
trionfo della marionetta, cit. rispettivamente a pp. 94-110 e 122-129.
7
29 AAR Anno VI, numero 12 – Novembre 2016 attacchi di Craig, George Bernard Shaw8. Quest’ultimo è implicitamente
accusato, così, di essere uno dei responsabili del passaggio da una
tradizione drammaturgica poeticamente elevata ad una produzione banale
e insignificante.
La difesa – per quanto con toni umoristici – della tradizione drammatica in
generale, e di quella shakespeariana in particolare, non sorprende. I saggi
che il teorico scrive negli anni mostrano grande rispetto per la tradizione
teatrale, non quale modello da riprodurre fedelmente, ma piuttosto come
base solida da cui possano svilupparsi idee innovative, e infatti, sia in «The
Mask» che in «The Marionette», troviamo un ampio numero di traduzioni
di testi composti da autori, critici e teorici del passato, oltre a contributi
sulla storia del teatro. Craig ammira particolarmente Shakespeare, come
dimostrano le sue osservazioni su Irving, attore da lui quasi venerato: «Gli
attori di poco peso ma di successo preferiscono adottare l’ultima moda; non
Irving. E Shakespeare lo aiutò, perché in Shakespeare vi è un ritmo
straordinario e singolare, un ritmo che lui fece proprio»9.
Alla luce di questo commento del 1930, i due protagonisti di Romeo and
Juliet sembrerebbero incarnare la contrapposizione tra la grande recitazione
classica (Irving), costruita sul ritmo del verso shakespeariano, e la
recitazione moderna, che preferisce trascurare le pietre miliari della
migliore tradizione per affidarsi piuttosto allo stile dozzinale del dramma
contemporaneo. Le due figure sono anche gli strumenti adottati da Craig
per criticare la drammaturgia della propria epoca, in particolar modo
quella di impianto realistico. Sullo sfondo del dialogo di Romeo and Juliet, si
avverte chiaramente il tema craighiano della degradazione del teatro
causata dal realismo e dallo psicologismo, degradazione sottolineata dagli
elementi non verbali del testo. Sembra questo il motivo per cui Romeo, vale
a dire l’incarnazione della tradizione shakespeariana, scena dopo scena
perde parti del corpo subito dopo aver parlato con l’amata, la cui figura
inizialmente è incompleta: Juliet, la rappresentazione del gusto
contemporaneo deteriorato, sembra vampirizzarlo, acquisendo così mano a
mano le parti dell’organismo che le mancano, fino a quando non raggiunge
la forma completa e – di conseguenza – Romeo muore10.
Lo svilimento del gusto estetico è comicamente sottolineata dai commenti
visivi introdotti per esempio attraverso le scenografie e gli oggetti. Fin
dall’inizio della pièce la personalità frivola di Juliet viene evidenziata
attraverso gli arredi della sua stanza:
Cfr. RJ, p. 4.
« Little, but successful, actors prefer to take up with the latest thing; not so Irving. And
Shakespeare helped him, for in Shakespeare is a great, a curious rhythm, and it was this he
captured». E. G. Craig, Henry Irving, London, Dent, 1930, p. 76.
10 Su informazione di Edward ‘Teddy’ Craig, Marina Maymone Siniscalchi segnala che lo
smembramento del corpo marionettistico viene suggerito al teorico inglese da uno
spettacolo visto a Torino. Cfr. E. G. Craig, Il trionfo della marionetta, cit., p.119n.
8
9
30 Paola Degli Esposti, Le impronte della Über-­Marionette Semplice stanza in un cottage. Un calendario sul muro indica il 1° giugno 1916. Vi
sono tende di mussola bianca alle finestre, un tavolino con uno specchio e una scatola
di cipria, piumini, rossetto ecc. Una sedia. Uno scaffale senza libri. Sul pavimento c’è
una copia di «Vogue».11
In una stanza sostanzialmente povera, i pochi oggetti che Juliet possiede
sono rivelatori della personalità della donna: uno specchio, piumini per la
cipria, un rossetto, una copia di «Vogue», a riflettere la sua unica
preoccupazione, l’aspetto fisico, e quell’’ultima moda’ che, nella biografia
di Irving, Craig sostiene essere il marchio dell’attore di scarso valore12.
Qualsiasi connotazione spirituale o intellettuale è estranea a Juliet, come
suggerisce in didascalia l’indicazione «uno scaffale senza libri». Ma gli
oggetti di scena talvolta forniscono commenti più ‘attivi’ all’interno della
pièce, trasformandosi in esseri animati e quindi andando oltre la loro
funzione convenzionale nella tradizione drammatica ‘elevata’ e rafforzando
la tensione tra testualità classica (la tragedia shakespeariana) e quella usata
nel teatro di figura. I fiori, in particolare, punteggiano periodicamente le
parole e le azioni di Romeo e Juliet, come si può osservare, ad esempio, nel
dialogo di apertura:
Romeo. Da quando gli amanti sono diventati amici?
Juliet. Oh, sciocchino! Sarò franca. Al giorno d’oggi un uomo non diventa
l’amante di una donna finché non l’ha aspettata per dieci anni.
(Tutti i fiori, le alcee e gli altri, si afflosciano come se fossero stati svuotati di ogni
forza, ma si riprendono quando Romeo tossisce e ricomincia a parlare).13
Gli oggetti in scena reagiscono significativamente alle parole di Juliet,
sottolineandone in maniera grottesca l’atteggiamento tiepido, insensibile e
superficiale all’amore di Romeo. Anche il suono – che include rumori,
canto e musica – gioca un ruolo importante, di norma combinato a gesti o
effetti visivi di maggiore impatto. La sua funzione principale è di rinforzare
i commenti verbali e non verbali all’interno del dramma, come nella
seconda scena, in cui un cane e i fiori reagiscono eloquentemente alle
parole di Romeo e Juliet:
Romeo [...]. Hai ricevuto le mie missive, amore mio?
Juliet. Sì, Romeo, e le ho trovate molto amichevoli.
« A plain cottage room. A Calendar on the wall shows it to be the year 1916, June 1. White Muslin
curtains dress the window, and a small table with a looking-glass and powder-box, puffs and rouge-stick,
etc. One chair. A bookshelf without books. A copy of ‘Vogue’ is on the floor.». RJ, p. 1.
12 Cfr. E. G. Craig, Henry Irving, cit., p. 76.
13 « ROMEO. Since when have lovers become friends? / JULIET. Oh you foolish boy! I will be
frank with you. A man doesn’t become a woman’s lover nowadays till he has waited for her
ten years. (All the flowers, hollyhocks and others, double up as though all the strength had been
drawn out of them, but pull themselves together as Romeo coughs and begins to speak again) ». RJ, p.
2.
11
31 AAR Anno VI, numero 12 – Novembre 2016 (Un cane guaisce dietro la casa come se gli avessero pestato la coda. I fiori del giardino
iniziano ad accasciarsi)
Romeo. Attenti! (si risollevano).14
Il suono e talune soluzioni spettacolari sono usati anche in maniera
ironicamente melodrammatica per rafforzare o creare una specifica
atmosfera, come nella terza scena, quando, mentre Romeo dichiara ancora
una volta il suo amore a Juliet, scoppia una tempesta, con tuoni e fulmini15,
o quando, alla fine del dramma, le tre streghe entrano e la breve sequenza
si sviluppa alla luce di un fuoco rosso inteso a rendere più immediati i
riferimenti al Macbeth16.
Se poi consideriamo la funzione drammatica dei vari personaggi, emerge
un contrasto interessante che mette in rilievo il cospicuo elemento grottesco
all’interno del dramma. La categoria estetica del grottesco – per inciso – è
qui un punto di riferimento necessario per diverse ragioni. Non solo si
tratta di un elemento caratteristico dei drammi shakespeariani, ma trova la
sua giustificazione anche nell’uso delle marionette, che nel primo
Novecento sono spesso concepite come interpreti grottesche, soprattutto
dagli artisti teatrali tedeschi17; e l’allusione alle teorie d’origine germanica
al riguardo potrebbe essere una delle ragioni per cui Shakespeare parla in
pseudo-tedesco nel Romeo and Juliet. Poiché il grottesco primonovecentesco
è fortemente influenzato dalle teorie romantiche al riguardo, per esempio
quelle di Victor Hugo o Jean Paul, sembra a questo punto più chiara la
ragione per cui Craig decide di dare alle tre streghe i nomi di Annabella
Milbanke, Madame de Staël ed Harriet Beecher Stowe, la cui prefazione a
Dred asserisce che la natura grottesca delle scene di schiavismo è una delle
ragioni per cui ha optato ancor una volta per questo tema nel suo
romanzo18. La scelta di includere le streghe in Romeo and Juliet accentua la
qualità grottesca della pièce, effetto attribuibile anche agli altri personaggi
minori, Shakespeare, Bacon e Reinhardt. Il ruolo di Shakespeare nel testo è
simile a quello di alcuni fools elisabettiani o giacomiani, fungendo da
osservatore e da voce critica, benché i suoi tratti comici lo avvicinino più al
« ROMEO [...]. Didst thou receive my letters, love? / JULIET. Yes, Romeo, I did, and found them
very friendly. (A dog howls behind the house as though his tail had been trodden on. The flowers begin
to droop in the garden) / ROMEO. Attention! (they rise again)». Ivi, p. 3.
15 Cfr. ivi, p. 5.
16 Cfr. ivi, p. 7.
17 Cfr. C. Grazioli, Lo specchio grottesco. marionette e burattini nel teatro tedesco del primo ‘900,
Padova, Esedra, 1999. Fra i moltissimi contributi sul grottesco cfr. A. Chastel, La grottesca,
Torino, Einaudi, 1989; G. Gori, Il grottesco nell’arte e nella letteratura. Comico, tragico, lirico,
Roma, Stock, 1926; A. Heidsieck, Das Grotesque und das Absurde im modernen Drama,
Stuttgart, Kohlammer, 1969; J. Kott, Shakespeare nostro contemporaneo, Milano, Feltrinelli,
1987; per una rassegna recente cfr. Le grotesque: théorie, généalogie, figures, sous la direction de
I. Ost, P. Piret, L. Van Eynde, Bruxelles, Publications des Facultés universitaires Saint-Louis,
2004.
18 Cfr. H. B. Stowe, Dred; a Tale of the Great Dismal Swamp, in 2 vols., Boston, Phillips,
Sampson and co., 1856, I, p. iii.
14
32 Paola Degli Esposti, Le impronte della Über-­Marionette tipo di fool che subisce le angherie degli altri personaggi piuttosto che alla
tipologia cinica. Se Bacon contribuisce in misura minore al riguardo, visto
che la sua presenza nel dramma si limita ad alludere alla teoria secondo la
quale Shakespeare sarebbe stato Sir Francis Bacon, proposta pochi anni
prima da Edwing Durning-Lawrence in una serie di scritti (uno dei quali
recensito con la consueta verve ironica da Craig in «The Mask»)19, la qualità
grottesca di Reinhardt è invece più consistente, e strettamente legata
all’atteggiamento personale del teorico inglese nei confronti del modello a
cui il personaggio si ispira. Obiettivo privilegiato delle sue accuse di plagio,
il regista austriaco ne è oggetto, per quanto in maniera non esplicita, anche
in Romeo and Juliet; mediante il suo alter ego è infatti ritratto brevemente (la
figura dice una sola battuta in tutto il dramma nella versione data alle
stampe) ma incisivamente come un individuo ridicolo, furtivo e rapace che
teme la presenza delle vittime dei suoi ‘scippi’ artistici: «Max R.: (con tutta
la cautela tipica di un’apprensione eccessiva) Ist Herr Craig da? Ist Appia mit
ihn? Ich habe frucht»20.
Se i personaggi minori sono connotati da caratteristiche grottesche, ciò
accade in misura anche maggiore nel caso dei protagonisti. Nei dialoghi
comici tra Romeo e Juliet, il giovane funziona da ‘spalla’ comica dell’amata.
Un esempio si può trovare nella terza scena, nella quale, dopo che l’amante
le ha raccontato come ha perduto il braccio, Juliet gli chiede:
Juliet [...]. Ti dispiace tanto?
Romeo. No, se non dispiace a te, Juliet.
Juliet (con una voce allegra e argentina). Non mi dispiace neppure un pochetto,
Romeo, tesoro. (Shakespeare sviene, travolgendo Reinhardt. Pausa). Va tutto bene
al lavoro, Romeo?
(Pausa).
Romeo. Juliet, sono venuto a dirti per la terza volta che ti amo.
Shakespeare (da terra). Ah, lo sento, lo sento! È meraviglioso – l’antica
tradizione!
Juliet. Oh, Romeo, non devi rovinare la nostra bella amicizia con queste parole
sgradevoli.21
Riguardo alle tesi di Edwin Durning-Lawrence, cfr. K. E. Attar, Sir Edwin DurningLawrence: A Baconian and his Books, in «The Library: The Transactions of the Bibliographical
Society», V, 3, September 2004, pp. 294-315; la recensione pubblicata su «The Mask», come di
norma anonima ma scritta con uno stile riconoscibilmente craighiano, in realtà commenta
complessivamente cinque volumi, tra cui Bacon is Shake-speare di Durning-Lawrence; liquida
rapidamente i primi quattro dedicati all’identità di Shakespeare con commenti
evidentemente sarcastici, concludendo che è dopo averli letti è un piacere lasciarli alle spalle
e dedicarsi al quinto, le memorie di un attore di commedie musicali, Seymour Hicks. Cfr.
The Mystery of Hamlet Prince of Denmark by Robert Russell Benedict [etc.], in «The Mask», III, 79, January 1911, pp. 133-134. In questa sede tutte le citazioni da «The Mask» sono tratte
dall’edizione anastatica pubblicata da Blom (New York, 1966-1968).
20 «Max R. (with all the caution of excessive eagerness) Ist Herr Craig da? Ist Appia mit ihn? Ich
habe frucht». RJ, p. 4. La frase in tedesco è traducibile come «E lì Craig? Appia è con lui? Ho
paura».
21 «JULIET [...]. Do you mind very much? / ROMEO. Not if you don’t, Juliet. / JULIET (in a clear
gay voice). Oh, I don’t mind a wee bit, Romeo dear. (Shakespeare faints, crushing Reinhardt.
19
33 AAR Anno VI, numero 12 – Novembre 2016 Nella sua parte tragica e sentimentale, Romeo diventa la vittima perfetta,
sia tematicamente, che nel rapporto di forza tra i ruoli, entro il quale è
costantemente messo in ombra da Juliet. La giovane, d’altro canto è una
prim’attrice le cui caratteristiche distintive, cinismo, vanità e superficialità,
sono il centro ideale del dramma. È lei a determinarne l’azione, la causa
originatrice di tutti gli eventi, mentre Romeo (come anche i personaggi
minori) non può far altro che subirne le scelte.
La qualità grottesca della loro relazione è rafforzata dai tratti individuali
dei due cosiddetti amanti. In quanto marionetta, Juliet è incarnata da un
tipo di figura concettualmente nobile. Tuttavia, la sua natura
potenzialmente elevata è contraddetta fin dall’inizio non solo dal corpo
incompleto, che nutre vampirizzando implicitamente il fidanzato durante il
dramma, ma anche dalla banale superficialità delle sue battute: la sua
personalità trova forse la migliore espressione in un monologo collocato
verso la fine del testo, che contiene una serie di varianti di frasi quali: «L’ha
detto Willie... sai, Willie il bien ami del conte Patsy... anche Jackie l’ha detto, e
anche Phil e CooCoo che sono miei amici così cari, anche se sono entrambi un
po’ gelosi di Lord Bob Thingummy»22. In quanto motrice principale del
dramma, le sue azioni trasmettono il grottesco a tutti gli elementi, causando
mutazioni negli elementi naturali (i fiori), trasformando personaggi celebri
in figure ridicole (Shakespeare), e persino corrompendo la natura
originariamente elevata di Romeo. Marionetta come lei, egli è il
rappresentante di una tradizione nobile che lei sabota sistematicamente. E
benché il giovane inizialmente cerchi di resistere alla ‘contemporaneità’
contaminante dell’amata, non può evitare di cedere, sia perdendo
l’integrità fisica, sia usando espressioni inaspettatamente dozzinali per
reazione ai comportamenti di Juliet («Beh, che mi venga un accidente»)23,
sia provando a ricorrere ad argomentazioni diverse e ‘moderne’ per
conquistarla:
Romeo (entrando in casa). Cara Juliet, vengo a dirti ancora una volta che ti
amo. (Il vento soffia forte, fuori inizia a nevicare, fulmini lampeggiano e Shakespeare
singhiozza). E… (tuono) e... (un altro tuono) ad informarti che ho ricevuto una
medaglia per essermi distinto in un combattimento a cui ho preso parte per
amor tuo e per la patria.24
Pause). Are you getting on well with your work, Romeo? (Pause). / ROMEO. Juliet, I have come
to tell you for the third time that I love you. / SHAKESPEARE (from the ground). Ah, I hear him! I
hear him! That’s lovely -- that’s the old tradition! / JULIET. Oh, Romeo, you must not spoil our
beautiful friendship by those unkind words». Ivi, p. 5.
22 «Willie said so... you know Willie who is Count Patsy’s bien ami... and Jackie said so too,
and Phil and CooCoo who are such good pals of mine, even if they are each a bit jealous of
Lord Bob Thingummy ». Ivi, p. 6.
23 «Well I’m blowed!». Ivi, p. 2.
24 «ROMEO. (entering the house) I come, dear Juliet, to tell you once more that I love you.(The
wind whistles loudly, the snow begins to fall outside, the lightning flashes, and Shakespeare is
sobbing). And... (thunder) and... (more thunder) to inform you that I have received a medal for
34 Paola Degli Esposti, Le impronte della Über-­Marionette Mentre gli elementi naturali – e un comico Shakespeare singhiozzante –
sembrano annunciare una tragedia imminente, Romeo cerca di fare breccia
negli affetti della donna rinunciando alle sue tradizionali dichiarazioni
amorose e raccontandole della ben poco shakespeariana medaglia ottenuta.
L’inutile tentativo di tornare alla tradizione – ossia di liberarsi dal contagio
causato da Juliet – messo in atto una volta che la nuova tattica si è
dimostrata fallimentare, è sottolineato dalla controscena di Shakespeare:
dopo essere svenuto durante la conversazione, reagisce alle ‘parole
tradizionali’ di Romeo iniziando a riprendersi, per poi perdere di nuovo i
sensi di fronte alla reazione ‘moderna’ di Juliet. E quando, alla fine, la
corruzione diventa a tal punto irrimediabile da condurre Romeo alla morte,
il corpo grottesco del giovane mostra i segni del morbo. La sua figura
mutila finisce per rispecchiare la forma iniziale di Juliet e il decadimento
che egli ha subito rivela appieno la sua portata nel momento in cui, dopo la
morte, la donna gli apre il petto ed estrae il cuore. Si svela a questo punto
che il processo di degenerazione ha condotto Romeo a rinnegare la propria
natura di innamorato che muore per l’amata: il nome inciso sul cuore è
infatti ‘Rosaline’25. Se per Juliet si tratta del segno dell’inaffidabilità di
Romeo, in realtà sembra piuttosto il marchio della sconfitta: dopo che la
passione utopica del giovane è andata in frantumi sotto i cinici colpi
dell’amata, egli muore poco tradizionalmente cercando rifugio nel ricordo
dell’amore precedente.
Il ritorno dell’ideale: ‘Blue Sky’
Blue Sky è incentrato sul tentativo di due mascalzoni, Sly-Boots e
Muggins26, di rubare il segreto per fare il cielo blu al mago Looney, e sugli
stratagemmi che quest’ultimo e il suo assistente Blind Boy adottano per
impedirlo.
La pièce si apre con Sly-Boots e Muggins, che spiano da una finestra il
salotto della casa del mago e progettano una truffa ai suoi danni. Dopo che
i due si sono dati appuntamento alla pompa dell’acqua del villaggio,
Muggins se ne va e Sly-Boots, vedendo il mago in casa, decide di entrare.
Gli si presenta e cerca di farsi rivelare il segreto per fare il Cielo Blu.
Looney acconsente e inizia a spiegare la procedura, ma ad un certo punto il
truffatore simula di non essere interessato alla cosa e sta per uscire dalla
casa, quando arriva Blind Boy, il ragazzo cieco. Dopo uno scambio di
battute con quest’ultimo, Sly-Boots se ne va rubando la polvere per fare il
Cielo Blu. Il mago e Blind Boy, senza curarsi di lui, si mettono a fare il Cielo
distinguished gallantry in a combat in which I took part for your sake and for my
country’s.». Ivi, p. 5.
25 Vale a dire il nome della giovane che Romeo ama prima di incontrare Juliet nell’originale
shakespeareano (in cui peraltro non compare mai in scena).
26 I nomi completi dei personaggi sono: Looney, or the Magic Idiot; Don Johnny Bernard Bull,
alias Sly-Boots; Don Taffy Muggins, alias Swagsman (cfr. BS, p. 198).
35 AAR Anno VI, numero 12 – Novembre 2016 Blu. La scena si chiude con Cockatrice (il basilisco, un ‘cameo’ che appare
solo in questa scena e unicamente per entrare in casa e dire una battuta)
che, apparso in lontananza all’arrivo di Blind Boy, ora entra nella casa.
La seconda scena si svolge alla pompa per l’acqua del villaggio dove si
incontrano Muggins e Sly-Boots. Quest’ultimo dice al compare che ha
ottenuto quel che voleva e prova su di sé la polvere; per farlo la inghiotte,
invece di soffiarla via come dovrebbe, e di conseguenza comincia ad avere
delle allucinazioni. La scena poi si sposta di nuovo davanti alla casa del
mago, e Muggins, convinto che Sly-Boots abbia avuto successo, va da
Looney per comprare la polvere per fare il Cielo Blu. Una volta entrato, il
padrone di casa gli dice che il suo compare ha sbagliato polvere e che,
avendola inghiottita, rischia la vita. Quando il furfante lo minaccia di
chiamare la polizia, Looney lo convince a desistere offrendogli un’altra
polvere magica. Una volta che Muggins è uscito dalla casa, il mago gli
rivela di avergli dato l’antidoto per il compare; il furfante reagisce cercando
di far rivoltare il villaggio contro di lui, ma Looney e il Blind Boy
cominciano a suonare l’Ouverture del Flauto Magico, ammaliando così la
folla. La pièce si conclude con un breve epilogo pronunciato da una
marionetta.
Similmente a quanto accade con Romeo and Juliet, il dramma contiene
numerosi riferimenti metateatrali, sin dal titolo, che rimanda ad una
creazione scenografica craighiana del 1904, un cielo blu appunto, su cui
torneremo successivamente. Vi sono allusioni alle teorie e al lavoro di
Craig, per esempio alle critiche rivolte in alcuni casi ai suoi progetti teatrali:
Sly-Boots […]. No, no, no!... tutto questo andrebbe bene se avessimo tutto il
giorno da perdere… ma non l’abbiamo… carta… occhio… bicchier d’acqua…
tenere nella mano destra… ma signor mio, è un procedimento ridicolo…
inventate qualcosa di più semplice. Oh, che giovane senza senso pratico!27
Al teorico inglese viene più volte rimproverata una supposta mancanza di
senso pratico, in particolare in relazione agli screens, che a taluni appaiono
impossibili da gestire, e che pongono tanti problemi in occasione
dell’allestimento di Hamlet al teatro d’arte di Mosca28. Una simile accusa, in
bocca a Sly-Booth – che tra l’altro incarna i colleghi che secondo Craig
plagiano le sue idee – non ha credibilità; pronunciata da un personaggio
che non solo è un truffatore ma è anche incapace di vedere oltre la realtà
materiale, sottolinea addirittura la cecità mentale di chi la dice.
Un tema di maggior rilievo all’interno della pièce è l’importanza di
affrontare con pazienza il lavoro di apprendistato e di approfondire la
conoscenza della tradizione, in modo da poterla superare, motivo
« SLY-BOOTS [...]. No, no, no!... the thing would be all right if we had all day to waste... but we
haven’t... paper... eye... glass water... hold in right hand... why, my dear sir, it’s a ridiculous
process... invent something simpler. Oh, unpractical young man!». BS, p. 203.
28 Cfr. K. S. Stanislavskij, La mia vita nell’arte, Torino, Einaudi, 1963, p. 419.
27
36 Paola Degli Esposti, Le impronte della Über-­Marionette ricorrente nei testi teorici craighiani. Uno scritto del 1914, On Learning
Magic (letteralmente Imparare la magia), pare particolarmente rilevante in
questo contesto29. Composto in forma di dialogo platonico come alcuni dei
più noti saggi del teorico inglese, caratteristica che di per sé gli conferisce
un andamento drammatico, lo scritto mostra analogie talmente stringenti
con Blue Sky da potersi considerare come suo nucleo generatore.
Già il titolo è eloquente, ponendo l’attenzione sulla magia, che – mai
menzionata esplicitamente altrove nel saggio – è metafora evidente
dell’arte del teatro. Ma al suo interno compaiono riferimenti a Blue Sky di
maggiore consistenza. Il dialogo tra Maestro e Allievo, per esempio, mostra
diverse analogie con quello tra Looney e Sly-Boots. In entrambi i casi un
personaggio si rivolge ad un sapiente al fine di apprendere un mistero
prezioso, rispettivamente l’arte del teatro craighiana e il segreto per creare
il cielo blu, dove il cielo blu è metafora appunto dell’arte del teatro30.
Quando scoprono di dover apprendere un cospicuo numero di nozioni
apparentemente insignificanti, sia l’Allievo che Sly-Boots sono piuttosto
seccati, poiché nessuno dei due è interessato ad acquisire fondamentali
conoscenze e abilità pratiche di base, ambendo unicamente a raggiungere il
‘magico’ risultato ultimo. Entrambi se ne vanno mostrando un disprezzo
assoluto per tali nozioni, provando così di non poter comprendere quanto i
rispettivi maestri intendessero comunicare loro.
Esempio eloquente in tal senso è il momento di Blue Sky in cui Looney
menziona l’importanza delle unità aristoteliche:
Solo, bisogna stare attenti a quando si mescola... dipende tutto da quello....
senza tralasciare dove si mescola... questo è essenziale.... e soprattutto, bisogna
fare attenzione a come si mescola... le polveri... una alla mattina... una la notte.
Solo, come dicevo, bisogna osservare le unità.31
Sly-Boots non comprende quanto il mago gli sta dicendo, e ciò è indice
della sua più generale mancanza di interesse per le istruzioni pratiche di
Looney, motivo per il quale si ritroverà ad usare in maniera errata la
polvere magica che ruberà, rischiando la vita. L’importanza delle unità –
che sembrerebbe incomprensibile di primo acchito – trova una spiegazione
in On Learning Magic:
Maestro […]. Ho concepito una nuova scena… certo; ma non perché
disprezzassi o odiassi quella vecchia… in effetti la amo, e le sono vissuto
vicino per molti anni.
Cfr. Yoo-no-hoo [Edward Gordon Craig], On Learning Magic, «The Mask», VI, 3, January
1914, pp. 234-237. D’ora in poi abbreviato con LM nei riferimenti bibliografici.
30 Cfr. BS, p. 200; LM, p. 234.
31 «Only you must be careful when to mix... all depends upon that... never forgetting where
you mix... that is essential... and, above all, be prudent how you mix... The powders... one in
the morning... one at night. Only, as I say, you must observe the unities». BS, p. 200.
29
37 AAR Anno VI, numero 12 – Novembre 2016 E benché possa desiderare di creare una nuova scena, conosco quella vecchia;
e conoscere è amare, anche se non si è d’accordo. […]
Dici che vuoi frequentare la mia Scuola.
E io ti dico che è meglio che tu ne stia lontano; a meno che tu non ti renda
conto che in primo luogo non hai alcun diritto di disprezzare la vecchia scena,
e in secondo luogo non hai alcuna possibilità di praticare la nuova Arte finché
non hai reso umilmente omaggio alla vecchia istituzione studiando tutto ciò
che al momento osi disprezzare.32
Rileggendo le parole di Looney alla luce di questa affermazione, possiamo
dedurre che è l’importanza delle unità all’interno della tradizione teatrale a
indurre il mago (alter ego di Craig) a menzionarle, perché a meno che un
allievo non le conosca e le apprezzi, non può sperare di superarle.
Le analogie tra i due testi non si fermano qui. Diversi frammenti di On
Learning Magic traspaiono in Blue Sky: la dettagliata spiegazione tecnica del
Maestro, ad esempio, trova il suo doppio nella meticolosa descrizione che
Looney fa della procedura per creare il cielo blu33; l’amore per la Natura
(considerata nella sua eccezione più elevata) espressa nel dialogo platonico
si rispecchia nella celebrazione del cielo da parte di Looney34.
Blue Sky è più complesso ed articolato di Romeo and Juliet. Le dramatis
personae, per esempio, sono più sofisticate, benché rimangano entro i
parametri sostanzialmente manichei tipici del teatro popolare di figura. Se
Looney e Blind Boy sono i personaggi positivi della pièce che si rivelano
coerenti con l’idealismo e la ‘magia’ della concezione craighiana, Sly-Boots
e Muggins incarnano il lato mercantile e negativo dell’umanità, o più
specificamente l’avidità e l’ottusità del teatro commerciale:
Looney. Su B.B., facciamo il Cielo Blu oggi? Sì?
Blind Boy. Sì, Cielo Blu, Cielo Blu! Subito. (Si sente una musica).
(Looney regge il foglio su cui vi è la polvere, ed entrambi la soffiano via attraverso una
terza finestra35, e immediatamente tutto il cielo diviene blu […]). […]
Muggins. Sly-Boots è uno degli uomini più svegli che abbia mai avuto il
piacere di conoscere… e ne ho conosciuti parecchi a…36 Non l’ho ancora visto
commettere un errore negli affari. Se dice che questo o quello farà guadagnar
«MASTER [...]. I have planned out a new stage... certainly; but not because I despised or hated
the old stage... because I love it, and lived near it many years. And though I may wish to create
a new stage, I know the old one; and to know is to love, even if one does not agree with it. [...]
You say you want to come to my School. I tell you you had better keep away unless you
realize sternly that you have first no right to despise the old stage, and secondly no chance of
practising the new Art until you have paid the very humblest tribute to the old institution, by
studying all those things which at present you dare to despise». LM, pp. 235-236.
33 Cfr. BS, pp. 200-204; LM, pp. 234-235.
34 Cfr. BS, pp. 200ss; LM, p. 234.
35 «Questa terza finestra appare all’improvviso per magia… è un’idea russa inventata da
Peruzzi nel 1520, quindi va bene. — T.F» («This third window appears suddenly by magic...
it’s a Russian idea invented by Peruzzi in 1520, so it’s quite all right. — T.F.» [N.d.A.] BS, p.
207n. T.F. è Tom Fool, lo pseudonimo che Craig usa quando scrive il Drama for Fools.
36 «Il nome della città in cui viene rappresentato il dramma. — T.F.» («The name of whatever
town the thing is being played in.--T.F.») [n.d.A.]. Ivi, p. 208
32
38 Paola Degli Esposti, Le impronte della Über-­Marionette soldi… è una certezza. Ne ho visto le prove più e più volte. Non lo si può
ingannare.37
I personaggi però sono ulteriormente arricchiti da sfumature più sottili.
Sly-Boots e Muggins mostrano diversi gradi d’astuzia mentre Looney e
Blind Boy, pur condividendo una natura elevata, ne mostrano declinazioni
differenti. Se Looney è connotato in primis da un intelletto superiore, Blind
Boy fonde in sé ingenuità e immaginazione, in contrapposizione con il
cinismo, il materialismo e il dozzinale realismo dei due mascalzoni.
I tratti dei personaggi sono evidenziati tanto dal dialogo quanto dagli
arredi scenici. Le connotazioni magiche di Looney, in particolare, sono
poste in rilievo dal mobilio e dagli oggetti della sua casa:
Arredi
Nella sezione centrale
Pareti magiche
Un tavolo magico
Un tappeto magico
Un corno, un flauto, e un violino magici
Un fischietto magico
Un gatto magico addormentato su uno stuoino magico
Polveri magiche, etichettate ‘nera’, ‘bianca’, ‘gialla’, ecc.
Alcuni cappelli magici, anelli magici, mantelli e spade magici appesi
ordinatamente a dei pioli.38
D’altro canto, nell’unica scena in cui Muggins e Sly-Boots compaiono da
soli gli arredi scompaiono quasi totalmente, ridotti alla sola banale pompa
d’acqua del paese, totalmente priva di tratti ideali o magici. Analogamente
agli oggetti, anche l’organizzazione degli spazi del dramma sembra
assumere connotazioni particolari. La prima e la terza scena mostrano sia
un interno sia un esterno e personaggi che transitano tra i due. L’interno è
il luogo associato a Looney (che ne è il proprietario) e Blind Boy (che lo
assiste), mentre l’esterno è legato ai due mascalzoni, che si riuniscono
sempre lì per concepire i loro progetti truffaldini. Le diverse connotazioni
dei due ambienti corrispondono ad un loro uso attivo: col progredire del
dramma l’utilizzo dello spazio si adegua all’azione delineata nell’intreccio.
« LOONEY. Come, B.B., shall we have Blue Sky to-day?... Yes? / BLIND BOY. Yes, Blue Sky,
Blue Sky! Quick. (A tune plays). / (LOONEY holds the paper on which is the powder, and they both
blow it out through a third window, and instantly the whole sky becomes suffused with blue [...]). [...] /
MUGGINS. Sly-Boots is one of the ‘cutest men I have ever had the pleasure of meeting... and I’ve
met a number of ‘em in... I’ve never yet known Sly-Boots make a blunder in business. If he
says this or that will make money -- it’s a certainty. I’ve seen it proved over and over again.
You can’t fool him.». Ivi, pp. 207, 208-209.
38 « PROPERTIES. In Centre Division. Magic Walls. A Magic Table. A Magic Carpet. A Magic Horn,
Flute, and Fiddle. A Magic Whistle. A Magic Cat asleep on a Magic Mat. Magic Powders: Marked
Black, White, Yellow, etc. Some Magic Hats, some Magic Rings, some Magic Cloaks and Swords, neatly
hung round on Pegs.». Ivi, pp. 198-199.
37
39 AAR Anno VI, numero 12 – Novembre 2016 Da una separazione netta tra i due spazi nella prima scena, nella quale la
Magia è confinata all’interno (le istruzioni magiche e la creazione del cielo
blu) e il materialismo all’esterno (i progetti malevoli di Sly-Boots), si passa
alla seconda scena in cui si riscontra il primo tentativo di fondere i due
ambienti, vale a dire di attivare la magia (ossia di creare il cielo blu, il cui
luogo deputato è l’interno della casa di Looney) all’esterno; questo fallisce
poiché messo in atto da Sly-Boots, un personaggio privo di connotazioni
magiche, palesandosi invece come un ben più ordinario avvelenamento. Si
giunge infine all’ultima scena in cui sono nuovamente compresenti un
interno ed un esterno, ma stavolta, poiché la magia per fare il cielo blu è
gestita dai personaggi più elevati, la divisione tra gli spazi diviene
finalmente permeabile e la magia della casa fuoriesce per invadere la città e
assoggettarla al suo incantesimo. L’atto creativo compiuto assieme a Blind
Boy – metafora dell’opera d’arte teatrale – sopraffà i due mascalzoni e
l’intera cittadinanza costringendoli ad abbandonare il comportamento
materialista (in altri termini il realismo e la scena commerciale). Ed è
interessante notare che Looney non si limita a sconfiggere gli avversari
mediante le parole e conquistandone lo spazio, ma impiega anche il suono
per incantarli e costringerli ad unirsi in un armonico movimento collettivo.
La musica viene ripetutamente impiegata nel dramma per creare o alludere
ad un’atmosfera magica. Più specificamente viene evocata la prima volta
che Looney appare e quando entra in scena Blind Boy, ma anche quando i
due creano il cielo blu e quando incantano la folla39. La didascalia
conclusiva – scritta da Craig impiegando la prima persona, così da distrarre
l’attenzione dall’azione comica del dramma e costringere il fruitore ad
assumere la prospettiva registica dell’autore – è significativa in questo
contesto, richiamando esplicitamente il potere che la musica ha sull’uomo e
la visione che Il Flauto Magico evoca in Craig (o meglio in Tom Fool, la sua
‘maschera’ drammaturgica):
Nel frattempo Looney e Blind Boy iniziano a suonare l’intera Ouverture del ‘Flauto
Magico’ di Mozart. Mentre viene eseguita questa cosa bellissima Muggins e gli
abitanti del villaggio arrivano all’esterno, a destra, e vengono ammaliati dalla musica.
Sbirciano gli esecutori attraverso le due finestre. Noi e loro vediamo cose strane
attraverso la terza finestra, che si apre nuovamente sul fondo della scena. ---- Un Re e
una Regina cavalcano lentamente in riva ad un fiume, e il loro riflesso rende
estremamente gradevole l’acqua sulla quale esso scivola. ... Una Luna Blu sale
lentamente... Annoterò per lo stage-manager le altre cose che vedono la prossima volta
che ascolterò l’Ouverture de ‘Il Flauto Magico’. Sarà ciò che vedo nella mia
immaginazione – e ciò che vedo sarà ciò che avverrà... Di certo nulla di meno di una
mattinata argentina e una sera dorata – e mentre suoneranno le ultime note, la notte
sarà già scesa, rivelando un cielo di un blu ancora più intenso di prima.40
Cfr. ivi, pp. 199, 204, 207, 212.
«Meantime LOONEY and BLIND BOY commence to play the complete Overture to ‘The Magic Flute’
by Mozart. While this beautiful thing is being played MUGGINS and the inhabitants of the village arrive
outside, R., and are held spellbound by the music. They peer through the two windows at the players. We
and they see strange sights through the third window, which again opens wide at the back of the scene. –
39
40
40 Paola Degli Esposti, Le impronte della Über-­Marionette La musica trova qui un prezioso sostegno negli elementi visivi. In effetti il
dramma si presta particolarmente ad un impiego espressivo e ‘craighiano’
di luce e colore. Il titolo stesso lo suggerisce, alludendo alla soluzione
scenografica effettivamente creata da Craig nel 1904 in vista
dell’allestimento di Venice Preserved di Thomas Otway (poi non andato in
porto), un cielo blu appunto, che era estremamente efficace proprio grazie
all’interazione tra luce e colore:
Si trattava di una superficie formata da tante nappine di color blu oltremare
unite assieme, sulle quali la luce dei riflettori giocava in modo da produrre
l’impressione di un’immateriale vastità che, così affermava Gordon Craig, mai
prima era stata ottenuta a teatro.41
Il titolo del testo, inoltre, indicandone il Leitmotif, la creazione del cielo blu,
se pone al centro l’arte craighiana come strumento di riforma del teatro
contemporaneo, sottolinea anche il dualismo tra magia e immaginazione da
un lato e materialismo e ottuso realismo dall’altro. L’idea di un magico
cielo blu che conquista una sterile realtà in bianco e nero è uno dei temi
centrali del dramma sin dalla prima scena. Dopo il dialogo con
l’ingannevole e ben poco spirituale Sly-Boots e il furto dell’ambita polvere,
apparentemente riuscito, Looney e Blind Boy fanno diventare blu un cielo
grigio: che fino a quel momento la tinta sia cupa è dimostrato dall’arrivo,
nel momento esatto dell’incantesimo, di Cockatrice che entra «con l’ombrello
gocciolante e il volto grondante di pioggia»42. D’altro canto la scena successiva
mostra come al di fuori dalla casa magica e nelle mani di personaggi
materialisti il processo di creazione del cielo blu, evento appunto magico,
non possa che fallire: una volta lasciata la casa, il mascalzone cerca di
operare la trasformazione del cielo (che con l’incantesimo di Looney
evidentemente è diventato blu solo sopra la sua casa, ma non nel resto del
villaggio). Il tentativo di Sly-Boots, abortito, chiarisce che l’esperimento del
mago non può essere ripetuto con successo dal truffatore, il cui mondo
mercantilistico è ancora fosco. La vera conquista della realtà cupa e
materica da parte della magia e dell’immaginazione può solo avvenire
grazie all’arte di Looney, che infatti nel finale crea un cielo blu su tutto il
villaggio incantando la folla che inizia a danzare.
Ancora qualche parola riguardo alla musica. Questo coefficiente scenico è
un trait d’union dei personaggi elevati – diversamente che per i due
– A King and a Queen are riding slowly along by the edge of a stream, their reflection giving great
delight to the water in which it glides... A Blue Moon is slowly rising... What more they see I will write
down for the stage manager when next I hear the Overture of ‘The Magic Flute’. It will be what I see in
my imagination – and what I see is what shall take place... Surely no less than a silver morning, and a
golden evening – and as the last notes sound the night shall have come on, revealing a sky of deeper blue
than before». Ivi, p. 212.
41 H. Van de Velde, La mia vita, Milano, Il saggiatore, 1966, p. 273.
42 «With umbrella dripping and a face streaming with rain». BS, p. 207.
41 AAR Anno VI, numero 12 – Novembre 2016 delinquenti – come è confermato dalle circostanze che circondano le azioni
di Blind Boy. Come accade anche nel caso di Looney, quando il ragazzo
cieco entra in scena si ode una musica, un fenomeno che secondo il mago è
un tratto caratterizzante del suo amico:
Sly-Boots […]. [Blind Boy] Arriverà presto?
Looney. Non appena inizierà la musica: entra sempre con la musica. (Si sente
una melodia). Appunto… eccolo qui.
(Entra Blind Boy).43
Dopo essere entrato in scena, Blind Boy si unisce a tutte le azioni musicali e
rituali di Looney. Creano insieme il cielo blu, accordano gli strumenti,
suonano l’Ouverture del Flauto Magico catturando con un sortilegio l’intero
villaggio44. Blind Boy raddoppia inoltre le azioni di Looney ed entro certi
limiti anticipa l’incantamento finale. Spiega a Sly-Boots perché il mago
abbia detto che «vede e non vede»45 in una maniera che ricorda il modo con
cui in precedenza Looney aveva spiegato come fare il cielo blu; e mentre è
impegnato in questo compito, ipnotizza il mascalzone, allusione appunto a
quanto accadrà, in scala ben maggiore, alla fine della pièce.
La coppia magica è interessante anche per un altro aspetto. Metafora del
potere mentale, Looney incarna l’intelletto, lo sguardo speculativo, e quindi
le digressioni riguardanti le questioni teoriche di norma spettano a lui;
infatti a lui vengono attribuite le battute che rispecchiano l’estetica
craighiana, o almeno le più significative46. Non sorprende quindi, che tutte
le critiche di Sly-Boots siano rivolte a lui, soprattutto quando sottolinea lo
scarso senso pratico che le invenzioni del mago rivelerebbero (accusa che,
come si è detto, viene in più occasioni rivolta al lavoro di Craig). Looney
inoltre introduce Blind Boy, momento che costituisce un punto di svolta nel
dramma, causando uno slittamento da una prospettiva logica ad una
prospettiva visionaria. Descrivendo il suo assistente, il mago infatti adotta
termini razionali che evidentemente non possono definirlo se non in
maniera molto vaga e imprecisa, perché la creatura descritta non è
commensurabile col linguaggio razionale:
Looney. Mah, alcune persone vedono certe cose, e altri ne vedono altre. Sto
giusto aspettando un amico che arriverà a minuti e che non può vedere nulla.
Sly-Boots. È cieco, quindi?
Looney. Beh, lo è e non lo è.
Sly-Boots. Cosa?... cieco e non cieco?
Looney. Certo... vede e non vede. Non è meraviglioso?
« SLY-BOOTS [...]. Will he [the Blind Boy] be here soon? / LOONEY. As soon as the music
strikes up: he always comes in with music. (A tune plays) There... here he is. / (Enter the
BLIND BOY)». BS, p. 204.
44 Cfr. ivi, pp. 207, 209, 212.
45 «Can see and can’t see». Ivi, p. 204.
46 Cfr., per esempio, ivi, p. 200.
43
42 Paola Degli Esposti, Le impronte della Über-­Marionette Sly-Boots (al pubblico). Pietoso direi... Sì, fantastico... fantastico! (Si avvicina
pian piano alla porta). Sarà qui presto?
Looney. Non appena inizierà la musica: entra sempre con la musica. (Si sente
una melodia). Appunto... eccolo qui.47
La sola affermazione che il mago può fare su Blind Boy è che «vede e non
vede»: solo un ossimoro può dare un’idea approssimativa della sua natura.
Diversamente da Looney, egli è connesso all’intuizione, alla condizione del
visionario e all’immaginazione, tratti irrazionali a cui allude anche
l’associazione del ragazzo con la musica. Come Tiresia, cieco al mondo
materiale, può percepire una verità più profonda che i normali esseri
umani non possono vedere. In altri termini è il rappresentante di una antica
stirpe di veggenti le cui origini risalgono ad un tempo mitico, radici remote
testimoniate dal suo cognome, Wayback (letteralmente, «molto tempo
addietro») come confermano le sue stesse parole ironiche: «Non è un
cognome davvero antico, signor Boots, certo non come Welleston o
Devonham o Egersley… la nostra famiglia è arrivata solo con l’Arca»48.
Benché cieco, il personaggio percepisce con l’occhio della mente, oltre i
limiti dell’occhio umano; lo ammette inconsapevolmente persino Sly-Boots
nel dialogo con Blind Boy, imperniato sulla capacità di vedere, quando
commenta ironico: «Davvero… dite che vedete vostra madre? Allora
vedete meglio di me…»49.
In altri termini, Looney – vale a dire l’intelletto, il deus ex machina della
situazione – e Blind Boy – l’immaginazione e la capacità visionaria – sono le
due metà complementari di un’unità magica. A conferma di ciò, i due veri e
propri esperimenti magici del dramma sono entrambi messi in atto da
Looney e Blind Boy assieme: nella prima occasione il mago suggerisce di
creare un cielo blu e, dopo che il suo assistente si dice entusiasticamente
d’accordo, si ode una musica e «Looney regge il foglio su cui vi è la polvere, ed
entrambi la soffiano via attraverso una terza finestra, e immediatamente tutto il
cielo diviene blu»50; nel secondo episodio «Looney e Blind Boy iniziano a
suonare l’intera Ouverture del ‘Flauto Magico’ di Mozart. Mentre viene eseguita
«LOONEY. Why, some people see some things, and some see others. I am now expecting a
friend to come in at any minute who can see nothing. / SLY-BOOTS. Is he blind, then? /
LOONEY. Well, he is and he isn’t. / SLY-BOOTS. How?... blind and not blind? / LOONEY.
Exactly... can see and can’t see. Isn’t it wonderful? / SLY-BOOTS (to the audience). Pitiful, I should
say... Yes, marvellous... marvellous! (He edges towards the door). Will he be here soon? / LOONEY.
As soon as the music strikes up: he always comes in with music. (A tune plays). There... here he
is». Ivi, p. 204.
48 « It’s not really an ancient family name, Mr. Boots, nothing like the Wellestons or the
Devonhams or the Egersleys, you know... our family only came over with the Ark ». Ivi, p.
205.
49 «Really... You say you see your Mother?... then you see better than I do...». Ivi, p. 206.
50 «LOONEY holds the paper on which is the power and they both blow it out of the window, and
instantly the whole sky becomes suffused with blue». Ivi, p. 207.
47
43 AAR Anno VI, numero 12 – Novembre 2016 questa cosa bellissima Muggins e gli abitanti del villaggio arrivano all’esterno, a
destra, e vengono ammaliati dalla musica»51.
Sotto la superficie
Durante le mie ricerche mi sono trovata a riprendere periodicamente in
mano i drammi per marionette di Edward Gordon Craig. Continuavo ad
avere l’impressione che qualche elemento importante mi stesse sfuggendo,
in particolar modo in Blue Sky. Alcuni dettagli in particolare rimanevano
oscuri. Ad esempio, con la figura di Sly-Boots si allude piuttosto
chiaramente a George Bernhard Shaw dato che il nome ‘vero’ del truffatore
è Don Johnny Bernard Bull (Sly-Boots è il soprannome), vale a dire una
sintesi di riferimenti a Don Giovanni (personaggio che si ritrova in Man and
Superman e in altre opere di Shaw), a John Bull’s Other Island, sempre di
Shaw, e al secondo nome dell’autore irlandese; Shaw, tuttavia, non è un
obiettivo consueto delle accuse di plagio di Craig, il che rende poco
comprensibile o apparentemente poco motivata la scelta di usarlo come
bersaglio in Blue Sky. Ancora, in una nota a piè di pagina all’inizio del testo,
Craig, oltre a giocare con le identità (sostiene che l’autore del Drama for
Fools – ossia il suo alter ego Tom Fool – sia morto da poco), dice: «Conosco le
sue opinioni [di Tom Fool] sugli attori. Erano le più lusinghiere»52.
Potrebbe trattarsi semplicemente di sarcasmo, naturalmente, considerato il
punto di vista del teorico inglese sugli interpreti umani, ma nella medesima
nota aggiunge una considerazione apparentemente inesplicabile: «In alcuni
punti il mio amico [Tom Fool] ha lasciato l’opera assai poco delineata –
come se pensasse che gli attori potessero rimpolpare ciò che aveva
abbozzato»53. Dato che Blue Sky è un dramma per marionette,
l’affermazione lascia piuttosto perplessi. È improbabile che per distrazione
l’autore abbia scritto ‘attori’ anziché ‘marionette’, poiché le marionette non
possono improvvisare. Potrebbe aver inteso scrivere ‘marionettisti’, ma il
fatto che poco prima nella nota menzioni gli attori fa sospettare che
intendesse proprio riferirsi agli interpreti umani. Infine, nel dramma si
trovano alcune didascalie che, ancora una volta, sembrano implicare la
presenza di questi ultimi: «Leave it to the comedians» o «Leave it to the
comedian» («Si lasci ai comici» o «Si lasci al comico»), Craig scrive in tre
occasioni54. Se una singola occorrenza potrebbe essere una svista, non
sembra plausibile che un numero così cospicuo di riferimenti agli attori
possa essere il risultato di meri errori materiali. Tutto ciò sembra suggerire,
«LOONEY and BLIND BOY commence to play the complete Overture to ‘The Magic Flute’ by Mozart.
While this beautiful thing is being played MUGGINS and the inhabitants of the village arrive outside, R.,
and are held spellbound by the music». Ivi, p. 212.
52 «I know his opinions about actors. They were the very highest». Ivi, p. 198n.
53 «In some passages my friend has left the work very vague – as though he felt the actors
could fill out what he had sketched in». Ivi.
54 Ivi, pp. 199, 207, 208.
51
44 Paola Degli Esposti, Le impronte della Über-­Marionette piuttosto, che la teoria craighiana riguardante gli interpreti scenici sia in
qualche maniera chiamata in causa nel testo.
Sviamento e dissimulazione sono tratti ricorrenti negli scritti craighiani, in
particolar modo quando questi riguardano la sua teoria recitativa55; di
conseguenza pare utile verificare se le perplessità che Blue Sky di primo
acchito solleva siano dovute alla presenza di riferimenti nascosti,
riconsiderando il testo assieme all’altro dramma per marionette analizzato
in precedenza, Romeo and Juliet, in cui sembrano celarsi alcune
considerazioni sulla recitazione.
Un legame parzialmente nascosto sembra connettere i due testi,
riconoscibile alla luce dell’attività berlinese di Craig tra il 1904 e il 190656.
Durante il soggiorno nella capitale tedesca, si verifica un episodio
interessante, documentato anche dalla corrispondenza tra Kessler e l’artista
inglese57. Nel 1904 Henry Van de Velde inizia ad interessarsi
particolarmente al teatro, tanto da costruire plastici che attirano
l’attenzione sia di Reinhardt sia di Craig58. I rapporti di quest’ultimo con
l’artista belga conducono alla collaborazione di un’allieva di Van de Velde
con Craig per un progetto che ha un esito molto positivo, come racconta
l’architetto di Anversa:
Gordon Craig mostrò vivo interesse anche per il Seminario; persuase la mia
allieva Erica von Scheel a collaborare con lui nell’esecuzione di un fondale
rappresentante il cielo, dal quale si riprometteva uno straordinario effetto. Si
trattava di una superficie formata da tante nappine di color blu oltremare
unite assieme, sulle quali la luce dei riflettori giocava in modo da produrre
l’impressione di un’immateriale vastità che, così affermava Gordon Craig, mai
prima era stata ottenuta a teatro. Erica von Scheel, con enorme pazienza,
eseguì parte di questo «cielo», servendosi di centinaia di nappine, e il risultato
parve più efficace ancora di quanto si fosse aspettato Gordon Craig. Nella
grande sala del Museo, Harry Kessler organizzò una mostra degli schizzi
dello scenografo inglese.59
Craig concepisce un nuovo metodo per creare un cielo blu mediante
centinaia di piccole sfere di seta o lana (le ‘nappine’) cucite insieme in
Cfr. P. Degli Esposti, The Fire of Demons and the Steam of Mortality: Edward Gordon Craig and
the Ideal Performer, «Theatre Survey», LVI, 1, January 2015, pp. 4-27 e P. Degli Esposti, Un
gioco di specchi. Craig tra teoria e strategie di sviamento, «Biblioteca Teatrale», in corso di
pubblicazione.
56 Cfr. L. Mango, L’officina teorica di Edward Gordon Craig, Titivillus, Corazzano (Pisa), 2015,
pp. 177-192.
57 Devo in questa sede ringraziare Lorenzo Mango che mi ha segnalato l’episodio qui
menzionato.
58 Cfr. H. Van de Velde, La mia vita, cit., p. 272.
59 Ivi, p. 273. La mostra sì tenne al Großhergliches Museum für Kunst und Kunstgewerbe
dall’inizio di maggio al 15 giugno 1905. Cfr. E. G. Craig, H. Kessler, The Correspondence of
Edward Gordon Craig and Count Harry Kessler 1903-1937, ed. by Lindsay Mary Newman,
[London], Modern Humanities Research Association and the Institute of Germanic Studies
University of London, 1995, p. 46 n47.
55
45 AAR Anno VI, numero 12 – Novembre 2016 maniera molto serrata per evitare soluzioni di continuità e illuminate in
maniera da creare un effetto sopraffacente di infinitezza60. Il commento di
Van de Velde esprime un entusiasmo pienamente condiviso da Craig, che
ne è soddisfatto a tal punto da chiedere a Kessler di indagare sulla
possibilità di brevettarlo; ritiene infatti essenziale definirne legalmente la
paternità in modo da proteggerla da indebite appropriazioni:
L’Affare Blu è stato sperimentato: appeso, illuminato e trovato assolutamente
Splendido! Vorrei davvero che l’aveste visto. Ditemi cosa è necessario fare per
brevettarlo – e se Van de Velde ha avuto esperienze in questo campo e voglia
farlo per noi. […] Ma seriamente davvero, una volta che lo si è brevettato e
mostrato a Brahm, credo che lo farà montare… Solo, bisogna fare tutto
immediatamente. Mi chiedo: Van de Velde ha tempo? Ho sentito dire che ci
vogliono due settimane per brevettarlo!! Per assicurarsi la protezione basilare
dell’idea. Sono riuscito a persuadere Hofmannsthal a finire il dramma [Venice
Preserved] sotto una balza blu di quel genere, ma ciò sarà impossibile se non si
riesce a mostrare presto qualcosa a Brahm.61
Che Craig pensi subito ai diritti d’autore per il cielo blu è doppiamente
rilevante, in primo luogo perché evidenzia la sua esigenza di «proteggere
l’idea», talmente fondamentale che, per quanto sia urgente mostrarlo a Otto
Brahm in previsione dell’allestimento di Venice Preserved nell’adattamento
di Hofmannsthal, munirsi del brevetto prima di farlo sembra una conditio
sine qua non. Inoltre è significativo del valore di questa creazione per il
teorico inglese, che assai di rado pensa a tutelare legalmente soluzioni
tecniche, e in casi molto particolari, vale a dire quello degli screens (nel
1912), o quello dei composite blocks concepiti nel 1927 per Hamlet62.
Ma soprattutto la creazione innovativa del cielo blu e il desiderio di
proteggerlo da possibili plagi sembra un indizio decisivo per connettere
Blue Sky – che a quell’invenzione scenografica pare alludere nel titolo –
all’esperienza berlinese tra il 1904 e il 1906.
Cfr. ivi, p. 27 n21.
«The Blue Business was tried: hung, lighted & found entirely Beautiful! I very much wish
you had seen it. Do tell me what has to be done to Patent it – & whether Van de Velde has
had experience of the kind & will do it for us. […] But most seriously – the thing once
patented & then shown to Brahm & I believe he will have it made – Only all must be
immediate. I wonder has Van de Velde time? I hear it takes 2 weeks to patent it!! to secure
the 1st protection of the idea. I have been able to persuade Hofmannsthal to end the play
under such a fringe of blue, & this becomes rather impossible if Brahm cannot be shewn
something soon». Ivi, pp. 27-28.
62 Il brevetto degli screens, che reca il n. 1022020, viene richiesto alle autorità statunitensi nel
1910 e concesso il 2 aprile 1912. Il brevetto è consultabile online mediante il database dello
United States Patent and Trademark Office
http://patft.uspto.gov/netahtml/PTO/patimg.htm (ultimo accesso in data 11 agosto 2016).
Sull’intenzione di chiedere il brevetto per i composite blocks cfr. E. G. Craig, Harry Kessler,
The Correspondence of Edward Gordon Craig and Count Harry Kessler 1903-1937, cit., pp. 145,
153, 156.
60
61
46 Paola Degli Esposti, Le impronte della Über-­Marionette In questo stesso periodo, mentre lavora al progetto per l’Über-Marionette
International Theatre, Craig – grazie alla mediazione e all’insistenza di
Harry Kessler – sta anche dialogando con Max Reinhardt in merito ad una
possibile collaborazione. Poiché l’attenzione del regista austriaco si sta
spostando sul Deutsches Theater, di cui assume la direzione nel 1905, Craig
privatamente spera che Reinhardt possa lasciare le produzioni del Neues
Theater completamente nelle sue mani63. I piani del collega sono tuttavia
diversi, tanto che gli offre piuttosto il ruolo di ‘regista dietro le quinte’ per
un certo numero di allestimenti. La proposta prevede che Craig sia l’unico
responsabile artistico per queste messinscene, ma che non tratti
direttamente con i professionisti coinvolti (attori, scenografi e via dicendo).
Data la sua scarsa dimestichezza con la lingua tedesca, il teorico inglese
dovrebbe istruire Reinhardt stesso o qualche altro intermediario che
riferirebbe fedelmente le sue idee a interpreti, falegnami e chiunque altro
sia coinvolto. Craig non valuta positivamente la proposta e il progetto
abortisce64.
Secondo la testimonianza di Edward Craig, figlio del teorico britannico, più
o meno nello stesso periodo si verifica un episodio che suscita l’ostilità di
Craig nei confronti di Reinhardt e la convinzione che sia un plagiario:
Convinto che i disegni di Craig fossero la soluzione ideale per il tipo di
produzione che aveva in mente, Reinhardt disse ai suoi giovani assistenti di
andare alla mostra di Craig e di assorbirli, perché era il tipo di lavoro che
avrebbe voluto in futuro; saputo ciò, Craig non interpretò tutto ciò come
ammirazione ma come un vero e proprio furto*.
*Craig fu furioso quando un giorno andò alla Galleria Friedmann e Weber e
trovò due giovani artisti che stavano eseguendo rapidi schizzi dei suoi disegni
[...]. Probabilmente questo piccolo, sciocco incidente contribuì più di qualsiasi
altra cosa ad allontanare Craig da Reinhardt, con il quale era stato molto
amichevole.65
L’appunto di Edward è forse impreciso, poiché le memorie di Craig padre
fanno riferimento ad una visita (in un momento imprecisato del 1905) di
Reinhardt e dei suoi assistenti nel suo atelier, non ad una mostra66. In ogni
Cfr. ivi, p. 56.
Cfr. L. Mango, L’officina teorica di Edward Gordon Craig, cit., pp. 177-192
65 «Reinhardt, convinced that Craig’s designs were ideal for the kind of productions he had
in mind, told his young assistants to go to Craig’s exhibition and drink them in because that
was the type of work he wanted in the future, Craig, hearing of this, did not see it as
admiration, but as downright robbery*. […]* Craig was furious when, one day, he went
round to Friedmann and Weber’s Gallery and found two young artists making rough
sketches of his designs [...]. Probably this silly little incident did more than anything else to
estrange Craig from Reinhardt with whom he had been very friendly». E. Craig, Gordon
Craig: the story of his life, New York, Limelight, 1985, pp. 199-200, p.376 n10. Edward Craig
segnala che la notizia è derivata da ricordi che il padre Edward Gordon Craig gli ha
raccontato personalmente.
66 Cfr. E. G. Craig, Index to the story of my days, Cambridge, Cambridge University Press,
1981, p. 270.
63
64
47 AAR Anno VI, numero 12 – Novembre 2016 caso, il periodo in cui si situa l’episodio da cui trae origine la diffidenza nei
confronti del regista austriaco parrebbe databile tra il 1904 e il 1905, vale a
dire prima che la collaborazione tra i due artisti venga ipotizzata. Questo
potrebbe contribuire a spiegare le resistenze dimostrate da Craig durante la
trattativa.
Partendo da questi presupposti, diversi elementi sembrano consentirci di
rilevare la presenza di Max Reinhardt in Blue Sky. Negli anni berlinesi il
regista austriaco diventa l’obiettivo primo delle accuse di plagio mosse da
Craig, e appunto il plagio (o meglio il furto) è un tema evidente del
dramma. Inoltre, il rapporto di lavoro concepito e proposto da Reinhardt
nel 1905 presenta tratti riconoscibili nel rapporto tra il mago e il mascalzone
nella pièce: Sly-Boots vuole imparare il segreto per fare il cielo blu da
Looney per poterlo vendere, mentre a Craig, comunque protettivo nei
confronti delle proprie idee artistiche, Reinhardt appare desideroso di
apprendere i suoi segreti per poter produrre spettacoli (e quindi ricavarne
profitto). Da notare che, fin dal primo momento in cui esprime l’esigenza di
un brevetto per il cielo blu concepito a Berlino nel 1904, il teorico inglese
segnala anche che la soluzione scenografica ha notevoli potenzialità
commerciali67. Infine, il primo lavoro che Craig ipoteticamente dovrebbe
dirigere nell’ambito della collaborazione con Reinhardt è un allestimento
del Caesar and Cleopatra di Shaw, e la figura di Sly-Boots, come si è detto,
allude chiaramente al drammaturgo irlandese68.
L’insieme di questi elementi suggerisce che la figura di Sly-Boots, che in sé
assomma tratti di Shaw e Reinhardt, rappresentando una sorta di loro
fusione, possa contenere un rinvio nascosto al periodo berlinese di Craig.
Ciò risulterebbe particolarmente interessante alla luce della presenza di
entrambi gli artisti nell’altro dramma per marionette cui abbiamo
accennato, Romeo and Juliet. Qui Reinhardt compare come personaggio
minore, ma se ne rimarca comunque l’apprensione per la possibile
presenza di Appia e Craig (non a caso si presenta in scena ‘travestito’ da
svizzero)69, come se temesse di affrontare quelle che il teorico inglese ritiene
vittime dei suoi plagi; Shaw viene invece menzionato come il responsabile
del dialogo e dell’azione sciocchi e inconsistenti del dramma. Il riferimento,
con diverse modalità, alle due personalità, palese in questo dramma e
occultato in Blue Sky, e il loro punto d’incontro – nella biografia craighiana
– nell’ipotesi di allestimento del Caesar and Cleopatra all’interno dell’ipotesi
di collaborazione Craig-Reinhardt, sembrano confermare un collegamento
fra i due testi e gli anni berlinesi di Craig.
Per Romeo and Juliet il legame con il periodo tedesco sembra più flebile, ma
vi sono comunque diversi elementi che paiono alludervi. In primo luogo
riprendiamo l’unica battuta del personaggio di Reinhardt nel dramma edito
Cfr. E. G. Craig, H. Kessler, The Correspondence of Edward Gordon Craig and Count Harry
Kessler 1903-1937, cit., p. 27
68 Cfr. ivi, pp. 54-55.
69 Cfr. RJ, 4.
67
48 Paola Degli Esposti, Le impronte della Über-­Marionette nel 1918, che esprime timore per la possibile presenza di Craig. La raccolta
del Drama for Fools del 2012, che nel caso di questo dramma riporta una
collazione del testo a stampa con le correzioni presenti nei dattiloscritti
preparatori, offre una frase ancora più esplicita70: in una battuta non
presente nella versione pubblicata nel 1918, Bacon dice a Reinhardt: «No,
Max; non sai che nessuno imita tranne te?»71. Questi due elementi
sembrano significativi se consideriamo che l’episodio che porta alle accuse
di plagio nei suoi confronti – la visita degli assistenti del regista austriaco
alla mostra delle opere di Craig o al suo atelier per ‘spiarne’ le opere –
parrebbe risalire sempre al periodo berlinese.
È interessante poi notare che la scelta linguistica adottata per il personaggio
di Shakespeare nel testo potrebbe nascondere un’ulteriore allusione proprio
agli eventi di quegli anni. Come si è visto, Shakespeare parla in pseudotedesco, scelta che comporta un effetto grottesco. Il cortocircuito tra
Shakespeare, Reinhardt e lingua germanica in Romeo and Juliet, è però curioso
anche per motivi differenti. Ricordiamo che nella realtà storica il fallimento
della trattativa tra Reinhardt e Craig è originato dalla soluzione proposta
(ossia di dirigere gli spettacoli per interposta persona) per ovviare alla
scarsa conoscenza del tedesco del teorico inglese; la lingua maccheronica
dello Shakespeare di Romeo and Juliet potrebbe ironicamente richiamare
l’appunto di Reinhardt in merito alle capacità espressive di Craig.
L’edizione del Drama for Fools del 2012 aggiunge un altro elemento che
sembra confermare tale ipotesi. Il testo in questa versione vede l’aggiunta
di una battuta alla parte di Reinhardt e pronunciata – nota la didascalia – «in
inglese scadente»72, indicazione che pare suggerire una prosecuzione
polemica alla questione sollevata da Reinhardt nel 1905: se il tedesco di
Craig non è buono, l’inglese di Reinhardt non è migliore73.
Sulla modalità scelte nell’edizione del testo cfr. la nota degli editori in E. G. Craig, Le
Théâtre des fous / The Drama for Fools, cit., p. 277. La stessa operazione viene fatta anche per
gli altri drammi; in tutti i casi il volume non specifica da quali dattiloscritti specifici
provengano le singole aggiunte operate ai testi.
71 «No, Max; don’t you know that nobody imitates but you?». Ivi, p.272.
72 «In bad English». Ivi.
73 I curatori francesi del Drama for Fool ritengono il gioco linguistico come esito di un
atteggiamento antinazionalista e antibellico di Craig, in reazione al contesto celebrativo (il
tricentenario della morte di Shakespeare) e nazionalistico (antitedesco in particolare) in cui si
colloca la prima stesura del testo (cfr. ivi, p. 277). Un’allusione antibellica è forse intuibile tra le
pieghe del testo nella versione integrata con i dattiloscritti, visto che la battuta di Romeo in cui
annuncia a Giulietta di aver «ricevuto una medaglia per essermi distinto in un combattimento
a cui ho preso parte per amor tuo e per la patria» («Received a medal for distinguished
gallantry in a combat in which I took part for your sake and for my country’s», RJ, p. 5) si
trasforma in «ho ricevuto la Vittoria Cross per essermi distinto nell’ultima guerra, in cui sono
andato per amor tuo e per la patria (l’Orchestra qui suona distrattamente ‘Tipperary’)» (« I have
received the Victoria Cross for distinguished gallantry in the late war to which I went for
your sake and for my country’s. The Orchestra here gaps out ‘Tipperary’», E. G. Craig, Le Théâtre
des fous / The Drama for Fools, cit., p. 272). Cambia infatti il tipo di medaglia (la Victoria Cross è
conferita molto raramente e solo per azioni eccezionali), il combattimento (il termine combat
rinvia ad un combattimento su piccola scala) diventa l’ultima guerra, e viene aggiunto il
70
49 AAR Anno VI, numero 12 – Novembre 2016 Al contempo, la fortuna artistica del regista austriaco, per quanto
certamente legata a produzioni di vario genere, prende grande slancio dalle
sue produzioni shakespeariane, e del 1905 è la prima celebrata regia di A
Midsummer Night’s Dream, che, secondo John Styan, il regista assume come
proprio vessillo e che è nota per le soluzioni spettacolari di grande
impatto74. La scelta di inserire Reinhardt nella parodia di un testo
shakespeariano, Romeo and Juliet, che come si è visto impiega soluzioni
sceniche ad effetto, potrebbe quindi essere un altro modo per ribadire il
riferimento agli anni berlinesi. Vale infine la pena ricordare che il Caesar and
Cleopatra di George Bernard Shaw, che nell’ipotetica collaborazione CraigReinhardt sarebbe dovuto essere il primo allestimento, è un esplicito
rifacimento shakespeariano. Quando Shaw viene accusato, in Romeo and
Juliet, di essere la causa della deformazione e del decadimento della
tragedia shakespeariana originale, non sembra priva di fondamento
l’ipotesi che nell’accusa si nasconda un tacito riferimento a quella pièce di
Shaw e a quella produzione mai andata in porto. Il legame di Romeo and
Juliet con gli eventi degli anni 1904-1906, benché meno chiaro di quanto non
sia quello di Blue Sky, sembrerebbe quindi suggerito da diversi indizi.
La possibile connessione con l’attività berlinese è suggestiva soprattutto
perché nello stesso periodo il teorico inglese sta cercando di dare corpo al
suo Über-Marionette International Theatre. Il 20 ottobre 1905 Kessler
sottolinea le difficoltà del progetto, incoraggiandolo piuttosto ad accettare
la proposta di Reinhardt75. Qualche settimana più tardi, Craig gli scrive a
proposito del proprio ruolo al Neues Theater:
Di gran lunga l’idea migliore [...] è che Reinhardt mi metta a capo degli
allestimenti e che lasci che diventi il teatro in cui offrire tutti i drammi
dell’immaginazione e per iniziare una nuova era nel lavoro scenico. Una
persona legata a doppio filo con la maggior parte dei migliori teatri tedeschi
mi ha detto oggi che Reinhardt non è riuscito a liberarsi della sala, dopo
tutto.76
commento musicale, una canzone molto amata dalle truppe inglesi durante la prima guerra
mondiale. Tuttavia il gioco linguistico non sembra far parte dell’ironia antibellica che sembra
emergere qui. La presenza di Reinhardt in una versione così parodistica, e certamente non
positiva, che parla un inglese storpiato e uno Shakespeare che parla un tedesco maccheronico
non sembrano certo filotedeschi (semmai il contrario). I motivi della scelta di Craig, quindi,
devono a mio avviso essere ricercati altrove.
74 Cfr. J. L. Styan, Max Reinhardt, Cambridge, Cambridge University Press, p. 55; cfr. anche
C. Gazioli L’antitecnologismo espressionista: la scena in funzione dell’attore, in U. Artioli (a cura
di), Il teatro di regia. Genesi ed evoluzione (1870-1950), Roma, Carocci, 2004, pp. 83-98, rif a pp.
86-87 e, per un’analisi più estesa dello spettacolo, Noriko Obayashi, Production Analysis on A
Midsummer Night’s Dream by Max Reinhardt in 1905, in «Bigaku», LII, 2, 2001, pp. 71-83.
75 Cfr. E. G. Craig, H. Kessler, The Correspondence of Edward Gordon Craig and Count Harry
Kessler 1903-1937, cit., pp. 52-53. Kessler giunse addirittura a minacciare l’’ammutinamento’
(ossia di non aiutarlo più a realizzare il progetto di Dresda) per costringerlo ad accettare la
proposta di Reinhardt. Cfr. ivi, p. 57.
76 « Far and away the best plan [...] is that Reinhardt should put me into the Neues Theater
as master of the stage and should let it be the theatre for presenting all the imaginative plays
50 Paola Degli Esposti, Le impronte della Über-­Marionette Queste parole sembrano assumere un significato particolare nel contesto
storico in cui si collocano. Benché gli allestimenti rivoluzionari a cui si
allude non siano specificati, il progetto principale di Craig nel 1905 è
l’Über-Marionette International Theatre77; considerando le difficoltà
pratiche che sta incontrando nella realizzazione, sembra plausibile che le
produzioni a cui sta pensando per il Neues Theater siano quelle che
intende allestire appunto entro quel progetto.
Date queste premesse, la presenza di Reinhardt e Shaw in Romeo and Juliet e
Blue Sky (in qualità di personaggi o di figure cui si allude) potrebbe
assumere un significato che va oltre il mero desiderio di farne oggetto di
scherno. Rinviando all’esperienza del periodo berlinese, è ipotizzabile che
sotto la superficie vi sia un riferimento al progetto per l’Über-Marionette
International Theatre e più in generale alla teoria della Über-Marionette.
Riconsideriamo a questo punto i due testi alla luce di tale supposizione.
In Romeo and Juliet troviamo alcuni elementi interessanti. Il primo è legato
ad una serie di scritti ai quali Craig lavora tra il 1911 e il 1923 (il medesimo
periodo, appunto, in cui compone sia Romeo and Juliet sia Blue Sky), la
maggior parte dei quali rimasti in forma manoscritta. Si tratta di saggi che
segnalano, in modi diversi, la rilevanza attribuita da Craig alla Commedia
dell’Arte78. In alcuni di questi, però, si aggiungono altri elementi
particolarmente interessanti ai nostri fini: da un lato l’influenza della
Commedia dell’Arte sulla produzione shakespeariana e, dall’altro, la
caratteristica antiletteraria che accomuna la prima alla seconda. Nate e
sviluppatesi secondo Craig sul palcoscenico come creazione dell’intera
compagnia, infatti, sarebbero entrambe contraddistinte da una cospicua
dipendenza dalla pratica all’improvviso. Nel caso di Shakespeare, la
qualità letteraria che ne caratterizza la scrittura drammatica sarebbe l’esito
di un passaggio successivo, quando l’attore Shakespeare inizia ad ambire
alla gloria letteraria e fissa quindi le sue tragedie e commedie nella versione
del folio79. Il teatro di Shakespeare, nella forma che ci è giunta, sarebbe in
altri termini il consolidamento dell’esito ultimo della prassi d’un tipo di
and for making a new Era in stage work. I have been told today by a man connected very
closely with most of the best theatres in Germany that Reinhardt has been unable to dispose
of the theatre after all». Ivi, p. 56.
77 Sullo Über-Marionette International Theatre project cfr. I. Eynat[-Confino], Gordon Craig,
the ÜberMarionette and the Dresden Theatre, «Theatre Research International», V, 3, Autumn
1980, pp. 171-193 e I. Eynat-Confino, Beyond the Mask: Gordon Craig, Movement and the Actor,
Carbondale, Southern Illinois University Press, 1989, pp. 147-150.
78 Cfr. L. Mango, La costruzione della memoria del moderno. Edward Gordon Craig e la Commedia
dell’Arte, in E. Randi (a cura di), Il ‘mito’ della Commedia dell’Arte nel Novecento europeo,
Acireale, Bonanno, 2016, pp. 25-41.
79 Cfr. E. G. Craig, Shakespeare’s Plays, in «The Mask» VI, 2, October 1913, pp. 163-168; il testo
è ripubblicato con minime modifiche e con il titolo Shakespeare’s Collaborators, in E. G. Craig,
The Theatre Advencing, Boston, Little, Brown and co., 1919, pp. 114-123.
51 AAR Anno VI, numero 12 – Novembre 2016 attore che fa dell’improvvisazione una componente fondamentale della sua
tecnica, come Craig dichiara in Shakespeare’s Plays:
A mio avviso i drammi di Shakespeare furono creati in stretta collaborazione
con l’impresario del teatro e con gli attori; in effetti, praticamente con l’intera
compagnia, che li inventava, li allestiva, e li recitava. Credo anche che se
potessimo dare un’occhiata ai manoscritti dei drammi scopriremmo una
massa di correzioni, aggiunte e tagli segnati da diverse mani. Credo che gli
improvvisatori (e i comici dell’epoca erano grandi improvvisatori) abbiano
contribuito molto alle commedie, e non poco a diverse tragedie.80
La modalità di composizione dei testi sarebbe strettamente legata a questa
pratica. Craig, infatti, continua ipotizzando che la stesura dei drammi
shakespeariani avvenisse in tre fasi distinte:
Il primo periodo ne vedeva la composizione dell’abbozzo; il secondo li vedeva
recitare, e in questo periodo venivano aggiunti molti monologhi, e persino
scene, di settimana in settimana, durante le prove e dopo gli spettacoli; il terzo
periodo li vedeva consegnati al poeta per la revisione in vista della stampa.81
Che questa prassi sia a suo avviso esito dell’influenza dei comici dell’arte
non è esplicito, ma vi sono allusioni significative in tal senso sia nel saggio
che include questi passi sia altrove. Nell’articolo troviamo un paio di
riferimenti en passant: una nota a piè di pagina assente nella versione
pubblicata nel 1913 in «The Mask», ma presente nella versione inclusa nel
1919 in The Theatre Advancing, in cui si rinvia ad un’imprecisata storia della
Commedia dell’Arte (probabilmente uno dei testi rimasti in forma
manoscritta e a cui Craig lavora tra il 1911 e il 1921)82; il teorico inglese
afferma poi che la creazione della drammaturgia shakespeariana e più in
generale elisabettiana secondo questa procedura è credibile per chiunque
abbia studiato la prassi dell’Improvvisa83. Più esplicito è nell’affermazione,
fatta qualche anno più tardi, nel 1922, secondo la quale i comici dell’arte
«In my opinion the Dramas were created by Shakespeare in close collaboration with the
Manager of the Theatre and with the actors; in fact, with practically the whole of the
company who invented, produced, and acted them; and I believe that a glimpse at the
manuscript of the Plays would reveal a mass of corrections, additions, and cuts made in
several handwritings. I believe that the improvisators...and the comedians of that day were
great improvisators... contributed a great deal to the Comedies, and not a little to several of
the Tragedies». E. G. Craig, Shakespeare’s Plays, cit., pp. 163-164
81 «The first period saw them sketched out; the second saw them acted ... and at this period
many speeches and even scenes were added from week to week, at rehearsal and after
performances... and the third period saw them handed over to the poet for revision before
being printed». Ivi, p. 164
82 Cfr. E. G. Craig, Shakespeare’s Collaborators, cit., p. 118n. Sulla storia della Commedia
dell’Arte progettata da Craig cfr. L. Mango, La costruzione della memoria del moderno. Edward
Gordon Craig e la Commedia dell’Arte, cit., pp. 29-36.
83 Cfr. E. G. Craig, Shakespeare’s Plays, cit., p. 166.
80
52 Paola Degli Esposti, Le impronte della Über-­Marionette avrebbero influenzato Shakespeare (assieme a Lope de Vega e Molière)84, e
del resto, come segnala Lorenzo Mango, una parte della storia della
Commedia dell’Arte progettata da Craig voleva essere dedicata alla sua
influenza su Shakespeare85.
Che per il teorico sia riconoscibile un legame tra Shakespeare e l’esperienza
della Commedia dell’Arte è quindi indubbio. È suggestivo perciò che Craig
decida di affrontare una riscrittura farsesca di Romeo and Juliet negli stessi
anni in cui sta lavorando alla storia dell’importante fenomeno spettacolare
italiano e ai suoi rapporti con l’opera shakespeariana (ma anche con altri
esponenti e fenomeni teatrali)86.
Tracce di tale legame si possono intravedere nel business di alcuni
personaggi della pièce, vale a dire nelle loro azioni e nelle loro controscene.
Il corpus delle reazioni soprattutto – e probabilmente non a caso – di
Shakespeare, ma anche di Reinhardt, possiede una qualità farsesca che
assume tratti degni di nota, perché ha molto in comune con i lazzi fisici
della Commedia dell’Arte. Si potrebbe obiettare che in realtà si tratta di un
tipo di comicità caratteristica del teatro di marionette popolare, in
particolar modo degli spettacoli di Punch and Judy, di grandissimo
successo sin dal Settecento in Gran Bretagna. Se ciò è certamente vero, non
contrasta affatto con una possibile traccia della Commedia dell’Arte
all’interno di Romeo and Juliet, anzi, suggerisce un ulteriore elemento a
sostegno, che possiamo individuare se consideriamo quale sia l’origine
della figura di Punch.
A partire dal numero di ottobre 1912, lo stesso che include The Commedia
dell’Arte Ascending, in «The Mask» inizia a comparire la traduzione inglese
di una serie di capitoli della Storia dei burattini di Yorick. Nel fascicolo del
gennaio 1914, immediatamente successivo a quello in cui Craig include
Shakespeare’s Plays, Craig pubblica la parte che tratta della storia del teatro
di figura in Inghilterra, e della nascita del Punch and Judy Show87. Dopo aver
sottolineato che in Shakespeare e negli elisabettiani vi sono diversi
riferimenti alle marionette, sostenendo che addirittura alcuni dei loro testi
fossero scritti in prima battuta per questa tipologia di scena88, Ferrigni parla
della nascita di Punch. Il paragrafo reca il titolo significativo Il regno di
Pulcinella (The Reign of Punchinello) ed inizia in maniera estremamente
interessante ai nostri fini: «Scoppiò finalmente, coll’anno 1688, la
memorabile rivoluzione che inaugurò in Inghilterra una nuova era
E. G. Craig, Introduction, in C. Goldoni, The Liar, translated by G. Lovat Fraser, Knopf, New
York 1922, pp. 5-8, rif. p. 6.
85 Cfr. L. Mango, La costruzione della memoria del moderno. Edward Gordon Craig e la Commedia
dell’Arte, cit., pp. 34-35.
86 Cfr. ivi, pp. 36-37.
87 Cfr. Yorick [Pietro Coccoluto Ferrigni], A History of Puppets, in «The Mask», IV, 3, January
1914, pp. 205-216.
88 Cfr. ivi, pp. 206-207, Oltre ad esempi da Ben Jonson e Robert Greene, Ferrigni cita il caso
del Julius Ceasar shakespeariano.
84
53 AAR Anno VI, numero 12 – Novembre 2016 politica... e portò [...] il glorioso Pulcinella italiano sul trono de’ burattini
d’Albione!»89. La maschera napoletana è in altri termini il punto d’origine
della popolarissima figura inglese, chiudendo così un triangolo ai cui
vertici troviamo il teatro di marionette, il teatro shakespeariano e la
Commedia dell’Arte.
Se quindi le controscene di Shakespeare, Reinhardt e Bacon in Romeo and Juliet
ricordano quelle del Punch and Judy Show, implicitamente rimandano
all’elemento distintivo della pratica all’improvviso dei comici dell’arte, il
lazzo. E se in questo dramma potrebbero sembrare inserti esornativi, in
realtà sono interpretabili come i primi passi di un processo durante il quale
tale prassi ritorna in primo piano all’interno della poetica dell’attore
craighiana. In questa fase rimane in qualche modo impotente, all’interno di
un testo in cui regna – al di sotto dell’apparenza comica – una indubbia
cupezza.
Le marionette in effetti qui sono versioni degradate del modello nobile.
Juliet è un personaggio estremamente frivolo, cinico e superficiale, Romeo
cade letteralmente a pezzi, vampirizzato dall’amata, Shakespeare è una
figura inerme e le ‘tre streghe’ sono creature maligne che rovinano
deliberatamente un grande testo shakespeariano. In vari modi, tutti
riflettono una ben nota presa di posizione di Craig in The Actor and the
Über-Marionette:
La marionetta mi pare l’ultima eco dell’arte bella e nobile di una civiltà
passata. Ma, come avviene per tutte le arti che son cadute in mani grossolane
o volgari, si è svilita. Tutti i fantocci non sono ora che dei comici da farsa. Essi
imitano gli attori del più grande palcoscenico di carne. Entrano in scena
unicamente per cadere col sedere a terra. Bevono solo per barcollare e
amoreggiano soltanto per far ridere. Hanno dimenticato il consiglio della loro
Madre, la Sfinge.90
La descrizione ben si adatta a Romeo and Juliet. Il registro comico qui è
spesso quello del low comedian91, soprattutto nel modo in cui si ritrae il
Yorick [Pietro Coccoluto Ferrigni], La storia dei burattini, Firenze, Bemporad, 1902, p. 207.
La traduzione in «The Mask» recita: «The memorable revolution that broke out in 1688,
inaugurated in England a new political era, and raised [...] the glorious Italian Punchinello
to the throne of Marionettes in Albion». [Pietro Coccoluto Ferrigni], A History of Puppets, cit.,
p. 209.
90 «The Marionette.... appears to me to be the last echo of some noble and beautiful art of a
past civilization. But as with all art which has passed into fat or vulgar hands, the Puppet
has become a reproach. All puppets are now but low comedians. They imitate the
comedians of the larger and fuller blooded stage. They enter only to fall on their back. They
drink only to reel, and make love only to raise a laugh. They have forgotten the counsel of
their Mother, the Sphinx». E. G. Craig, The Actor and the Über-Marionette, «The Mask», I, 2,
April 1908, pp. 3-15, rif a p. 11. Una traduzione integrale – alternativa alla nostra – del
saggio è presente in E. G. Craig, L’attore e la supermarionetta, in E. G. Craig, Il mio teatro, a
cura di F. Marotti, Milano, Feltrinelli, 1971, pp. 33-57.
91 Nel brano, infatti, Craig usa l’espressione low comedian riferendosi al ruolo specifico
assunto dagli attori di tradizione, che include tratti del caratterista ma anche di altri ruoli
89
54 Paola Degli Esposti, Le impronte della Über-­Marionette comportamento di Shakespeare e Reinhardt, ma anche negli effetti farseschi
provocati dai due protagonisti. Per quanto divertente nei suoi risultati,
questa scelta sottolinea la degradazione delle marionette; e la comicità
gestuale di Shakespeare pare rinviare alla contaminazione sofferta da una
preziosa tradizione ad opera del volgare gusto contemporaneo. Le
osservazioni di Craig in The Actor and the Über-Marionette trovano in questa
pièce una traduzione a tal punto aderente che Shakespeare si ritrova
letteralmente «col sedere a terra»92, mentre si può facilmente dire che i due
giovani amoreggino «soltanto per far ridere». Le mani grossolane che
manipolano le figure sono inoltre perfettamente rappresentate dalle tre
streghe che trasformano in farsa la tragedia shakespeariana, insultando
l’alter ego dell’autore elisabettiano con espressioni rozze e bizzarre,
chiamandolo «vecchio sciocco sentimentale» e «unno»93. Il fatto che queste
operatrici di degradazione siano raffigurate come donne potrebbe essere
un’ulteriore allusione a The Actor and the Über-Marionette. Quando nel
saggio Craig descrive il decadimento della marionetta e l’inizio del teatro
umano, nel capoverso intitolato a lato del testo come La Caduta (The Fall,
ovvio riferimento alla Genesi), attribuisce tale declino all’azione di due
donne che dissacrano la Marionetta Divina imitandola – dando così vita
alla scena di carne – e condannandola all’oblio94:
L’attore nasce dalla sciocca vanità di due donne, che non furono abbastanza
forti da guardare il simbolo della Divinità senza desiderare di metterci mano;
e la loro parodia si dimostrò redditizia. Nell’arco di cinquanta o cent’anni
luoghi dedicati a tali parodie spuntarono ovunque. L’erba cattiva, si dice,
cresce rapidamente, e questa landa desolata di erbacce, il teatro moderno,
mise radici in fretta. [...] Con lo svanire del fantoccio e l’affermazione di
queste donne che facevano mostra di sé sul palcoscenico al suo posto,
giunsero lo spirito oscuro chiamato Caos, e sulla sua scia il trionfo della
Personalità incontrollata.95
come il mamo, connotato comunque da una comicità grossolana e molto fisica. Al riguardo
cfr. P. Degli Esposti, La metamorfosi del sistema teatrale inglese. Dal Theatres Act (1843) alla fine
dei ruoli, in U. Artioli (a cura di), Il teatro dei ruoli in Europa, Padova, Esedra, 2000, pp. 83-125,
rif a pp. 122-124, P. Degli Esposti, Ulteriori note su Robertson e il sistema dei ruoli, in «Il castello
di Elsinore», XIII, 37, 2000, pp. 117-122.
92 Cfr. RJ, p. 5.
93 «You sentimental old fool! » e «You Hun!». Ivi, p. 7.
94 La degradazione ‘storica’ della marionetta descritta da Craig ricorda curiosamente la
pronuncia teorica di Charles Nodier. Craig conosce – e talvolta cita – l’autore francese, con il
quale tra l’altro sembra condividere l’ammirazione per il celebre mimo Jean-Gaspard
Debureau, se le parole pubblicate in «The Mask» a firma Dorothy Nevile Lees sul celebre
Pierrot francese sono come di norma espressione di opinioni condivise con Craig. Cfr. J.
Champfleury, Gaspard Debureau. Notes upon a Celebrated Pierrot with an introductory word by
Pierre Ramés [Dorothy Nevile Lees], «The Mask», VII, 1, July 1914, pp. 69-74, rif a pp. 69-71.
Studiare la connessione tra Craig e Nodier porterebbe qui fuori tema, ma l’argomento
meriterebbe un approfondimento. Su Nodier, cfr. E. Randi, Anatomia del gesto, Padova,
Esedra, 2001, pp. 57-112.
95 «The actor springs from the foolish vanity of two women who are not strong enough to
look upon the symbol of godhead without desiring to tamper with it; and the parody
55 AAR Anno VI, numero 12 – Novembre 2016 Naturalmente la misoginia di Craig – tratto che emerge ripetutamente sia
nei testi pubblicati che nei quaderni manoscritti – è alla base della scelta di
porre due donne come causa di tale decadimento, ma più rilevante per la
nostra tesi è che come due donne in The Actor and the Über-Marionette sono
ritenute la causa del passaggio svilente dalla marionetta al suo facsimile
umano, analogamente in Romeo and Juliet tre figure femminili
malignamente trasformano la tragedia shakespeariana in una becera farsa,
con protagonista una moderna ‘prima donna’ che distrugge le vestigia
della nobile tradizione shakespeariana rappresentata da Romeo. In questa
prospettiva, la pièce diventa la drammatizzazione del primo punto di svolta
nel processo storico raffigurato da Craig in The Actor and the ÜberMarionette, vale a dire il momento in cui la recitazione umana prese il posto
della danza della marionetta.
Anche Blue Sky sembra rimandare alla teoria recitativa craighiana. Per
quanto si tratti di un dramma per marionette, come si è anticipato, vi sono
diverse allusioni agli attori, e benché il termine comedian nelle didascalie si
riferisca ai personaggi negativi del testo, Sly-Boots e Muggins, la tecnica
suggerita nelle indicazioni sceniche, l’improvvisazione, è assai apprezzata
da Craig perlomeno nella forma offerta dalla Commedia dell’Arte. Il
termine stesso comedian riporta alla mente l’espressione usata per indicare
gli storici virtuosi di tale tecnica, i comici dell’arte, e pare verosimile che ciò
sia ben chiaro a Craig che nel medesimo periodo in cui lavora al dramma
sta meditando la sua mai terminata Storia della Commedia dell’Arte. Del resto,
quando suggerisce di lasciare all’attore libertà di recitare all’impronta è
assai difficile si possa riferire all’interprete contemporaneo, che in
Shakespeare’s Plays viene menzionato en passant come colui che, al contrario,
non è capace di farlo. Assai più verosimile è che il modello sia quello dei
grandi comici del Cinque-Seicento che – Craig lo dice chiaramente nel
medesimo saggio – erano grandi improvvisatori, o forse una figura che
ancora sta lottando per emergere, che però almeno per questo genere di
capacità dovrebbe assorbire l’abilità dei comici rinascimentali96. La
contiguità tra questi ultimi e l’interprete scenico del futuro emerge dal
confronto tra gli scritti sull’Improvvisa e sulla recitazione pubblicati in
«The Mask».
Quando nel 1911-1912 il teorico inglese dedica tre numeri della rivista
appunto alla Commedia dell’Arte, non solo mostra il suo apprezzamento
proved profitable. In fifty or a hundred years, places for such parodies were to be found in
all parts of the land. Weeds, they say, grow quickly, and that wilderness of weeds, the
modern theatre, soon sprang up. [...] With the fading of the Puppet and the advance of these
women who exhibited themselves on the stage in his place, came that darker spirit which is
called Chaos, and in its wake the triumph of the riotous Personality». E. G. Craig, The Actor
and the Über-Marionette, cit., p. 14.
96 Cfr. E. G. Craig, Shakespeare’s Plays, cit. pp. 167 (sugli attori contemporanei), 164 (sugli
attori rinscimentali-barocchi).,
56 Paola Degli Esposti, Le impronte della Über-­Marionette per una forma spettacolare che è rimasta «alla ribalta per due secoli [...]
senza l’ausilio del letterato»97, ma anche per la tecnica d’improvvisazione
per la quale chi la praticava era celebre98. Craig non analizza né descrive la
tecnica in sé, ma la usa come cavallo di Troia per riaffermare i principi della
sua teoria sulla recitazione e come stimolo per incitare gli interpreti
contemporanei a intraprendere il cammino che li possa portare a diventare
artisti. Come afferma in The Actor and the Über-Marionette, «essi devono
creare per se stessi una nuova forma di recitazione, fatta principalmente di
gesti simbolici. Oggi impersonano e interpretano; domani dovranno
rappresentare e interpretare; e l’ultimo giorno dovranno creare»99. Gli attori
devono imparare a creare, ed appunto nell’inventiva sta il valore
dell’improvvisazione. Grazie ad essa, invece di impersonare o imitare, il
comico dell’arte creava, raggiungendo l’ultimo stadio del processo che
l’interprete contemporaneo deve ancora iniziare. Questo spiega perché
Craig (o più verosimilmente Dorothy Nevile Lees per lui) traduca un passo
particolare dalla Histoire du Théâtre Italien (1730) di Francesco Riccoboni, in
cui l’italiano afferma che
l’attore che improvvisa recita più animatamente e con maggior naturalezza di
chi recita una parte imparata a memoria. Le persone percepiscono meglio, e
quindi dicono meglio, ciò che inventano di quanto prendono a prestito da
annotazioni e memorizzano.100
Craig usa le parole di Riccoboni per sottolineare che la creatività – una
qualità propria dell’improvvisazione – è l’elemento che trasforma la
recitazione in arte. In The Commedia dell’Arte Ascending spiega che un
comico evitava gli inconvenienti dell’emozione usando una maschera e
l’accidentalità nel gesto «imprigionando i piedi in scarpe pesanti e
rialzate»101. Per quanto bizzarra – o meglio, proprio perché storicamente
scorretta –, l’idea che un comico dell’arte possa usare calzature di tal
«The stage for two centuries [...] without the assistance of the literary man». John Semar
[Edward Gordon Craig], Commedia dell’Arte or Professional Comedy, «The Mask», III, 7-9,
January 1911, pp. 99-100, rif. a p. 99.
98 Cfr. L. Mango, La costruzione della memoria del moderno. Edward Gordon Craig e la Commedia
dell’Arte, cit., e P. Degli Esposti, Parole in maschera. Edward Gordon Craig, «The Mask» e la
Commedia dell’Arte, in E. Randi (a cura di), Il ‘mito’ della Commedia dell’Arte nel Novecento
europeo, cit., pp. 43-55.
99 «They must create for themselves a new form of acting, consisting for the main part of
symbolical gesture. Today they impersonate and interpret; tomorrow they must represent and
interpret; and the third day they must create». E. G. Craig, The Actor and the Über-Marionette,
cit., p. 5.
100 «The actor who improvises acts with more animation and more naturally than he who
plays a part which he has learned by heart. People feel better, and therefore say better, what
they invent than what they borrow from notes and memorise». John Semar [Edward
Gordon Craig], The Commedia dell’Arte or Professional Comedy, cit., pp. 99-100.
101 «By imprisoning their feet in raised and heavy shoes». E. G. Craig, The Commedia dell’Arte
Ascending, «The Mask», V, 2, October 1912, pp. 104-108, rif. a p. 108.
97
57 AAR Anno VI, numero 12 – Novembre 2016 genere, molto più adatte alla Über-Marionette che ad un attore di cui è ben
nota la sofisticata tecnica acrobatica, tradisce l’intento di Craig, vale a dire
impiegare la Commedia dell’Arte per riconfermare la validità della sua
teoria recitativa, anche se riscrivendo i dati storici e sovrapponendo gli
antichi comici all’interprete scenico del futuro.
Può risultare difficile comprendere come Craig possa conciliare il proprio
interprete scenico ideale, che rinuncia all’affermazione del proprio ego e le
cui azioni sono totalmente controllate, con l’ammirazione per
l’improvvisazione, tanto profonda che la Über-Marionette sembra entro certi
limiti adottarne la tecnica. Per cercare di chiarire questo snodo della teoria
craighiana è utile mettere a fuoco alcuni punti. Per quanto il teorico inglese
non precisi mai quale sia esattamente la sua idea di improvvisazione, il
riferimento alla prassi dei comici dell’arte, dotati di tecnica sopraffina e
promotori di una raffigurazione antipsicologica, segnala che il loro tipo di
recitazione è, per Craig, controllatissima e anemotiva (l’ipotesi craighiana
che la casualità gestuale e l’emotività sarebbero state evitate
nell’improvvisa tramite l’impiego di calzature particolarmente ingombranti
è significativa in questo senso). Al contempo l’attore che adotta tale tecnica
ha un vantaggio indiscutibile rispetto all’interprete che si è soliti vedere a
teatro. L’improvvisatore infatti non replica una scrittura preesistente, non
imita una psicologia pre-definita da altri (il drammaturgo, più
precisamente), non è responsabile di perpetuare quel processo di
allontanamento dalla sfera superiore che è insito invece nel processo di
interpretazione tradizionale. In altri termini non dà forma a una mera
‘copia della copia’ in senso platonico. Che Platone sia un punto di
riferimento per Craig è confermato dai diversi riferimenti nei suoi scritti, e
ribadito in molti studi storici sul teorico102. Soprattutto è esplicitamente
menzionato come punto di riferimento per la condanna dell’attore
imitativo in The Actor and the Über-Marionette; più precisamente a sostegno
della condanna dell’interprete mimetico è riportato un passo dal terzo libro
della Repubblica di Platone in cui viene rifiutata la cittadinanza nella
repubblica platonica all’attore pantomimico103.
Come possa la creatività dell’improvvisatore non essere soggettiva, vale a
dire non condizionata dalla situazione e dalla individualità contingente del
performer (termine che meglio di altri si adatta all’attore ideale craighiano) è
deducibile dalla natura del modello recitativo ideale del teorico inglese, la
Über-Marionette. In particolare, vale la pena porre l’attenzione su un saggio
Cfr. L’annotazione di Craig del giugno 1909 in E. G. Craig, Day-book 1. November 1908 to
March 1910, p. 133, Edward Gordon Craig Collection, Harry Ransom Center, University of
Texas at Austin; Denis Bablet, The theatre of Edward Gordon Craig, London, Eyre Methuen,
1981, p. 138; F. Marotti, Gordon Craig, Bologna, Cappelli, 1961, pp. 111, 136; L. Senelick,
Gordon Craig’s Moscow Hamlet: A Reconstruction, Westport, Conn., London, Greenwood
Press, 1982, p. 16; I. Eynat-Confino, Beyond the Mask: Gordon Craig, Movement and the Actor,
cit., p. 133.
103 Cfr. E. G. Craig, The Actor and the Über-Marionette, cit., p. 5 e nota.
102
58 Paola Degli Esposti, Le impronte della Über-­Marionette del 1912, Gentlemen, the Marionette, in cui il teorico inglese chiarisce come il
manovratore della Über-Marionette non sia un individuo in carne ed ossa, e
i fili che la reggono siano immateriali:
Chi può dire quali saranno i fili che guideranno la Über-Marionette? Non credo
nel meccanico, né nel materiale... I fili che si dipanano tra la divinità e l’anima
del Poeta sono quelli che potrebbero governarla. Non sono rimaste a Dio altre
corde del genere, per un’altra figura? Non ne dubito.104
Questi fili sono un canale di comunicazione mediante il quale l’ispirazione
divina può penetrare nella Über-Marionette e dare forma all’arte davanti
agli occhi dello spettatore senza che la mimesi – e quindi il processo di
allontanamento dalla sfera superiore – sia innescata. Sullo sfondo
dell’affermazione craighiana si intravedono tracce delle riflessioni di Kleist.
L’interprete ideale di Craig è il veicolo che trasmette il divino esattamente
come la marionetta kleistiana è lo strumento perfetto del marionettista
oltremondano nel saggio Sul teatro di marionette, che non a caso Craig
pubblica, nel 1918, in «The Marionnette»105. Come per Kleist il fantoccio è lo
strumento perfetto che permette di andare oltre l’io riflessivo, privo di
armonia divina, e trasmettere im-mediatamente la perfezione della sfera
superiore, così per Craig la Über-Marionette è l’interprete libero dai limiti
dell’umano e lo specchio del sovramondano. L’improvvisazione, in questo
contesto, diventerebbe la concretizzazione dell’ispirazione superiore in una
forma percepibile, non degradata dal procedimento mimetico, in un
processo che per certi versi richiama la fusione di dionisiaco e apollineo di
nietzcheana memoria. L’interprete ideale, grazie ai fili invisibili che lo
legano alla sfera celeste, sarebbe infuso di spirito divino, in qualche modo
invasato (ma non dall’ebbrezza vitale di Nietzsche), e grazie al suo
superiore controllo riuscirebbe a dare forma armonica all’invasamento che
lo domina, creando una forma non premeditata, improvvisata, appunto.
La connessione tra l’improvvisazione e la Commedia dell’Arte da un lato e
la Über-Marionette dall’altro, fornisce nuovi strumenti interpretativi che
possono gettare luce su quanto è apparentemente oscuro in Blue Sky. Se le
parole di Craig sembrano alludere ad una somiglianza tra i comici
rinascimentali e il suo interprete ideale, allora i riferimenti
all’improvvisazione e agli attori in questo puppet play assumerebbero un
senso importante, facendo della pièce un dramma per Über-Marionette
piuttosto che un ‘semplice’ testo per marionette. Ma c’è di più.
«What the wires of the ueber-marionette shall be, what shall guide him, who can say? I
do not believe in the mechanical..., nor in the material... The wires which stretch from
Divinity to the soul of the Poet are wires which might command him; ... has God no more
such threads to spare... for one more figure? I cannot doubt it». E. G. Craig, Gentlemen, the
Marionette, in «The Mask», V, 2, October 1912, pp. 95-97, cit. a p. 97.
105 Cfr. H. von Kleist, On the Marionnette Theatre, in «The Marionnette», 4, January [June]
1918, pp. 105-113.
104
59 AAR Anno VI, numero 12 – Novembre 2016 Vi sono diverse affermazioni bizzarre nella commedia, che sembrano essere
una conseguenza della strategia che Looney adotta per confondere SlyBoots, talvolta alludendo a evidenti doppi sensi teatrali. Uno di questi
episodi si colloca nella prima scena. Looney sta mostrando a Sly-Boots la
procedura per fare il cielo blu:
Looney. Le mie ricette sono semplici. Per un Cielo Blu mescolate bianco e nero
in ugual misura e avrete un cielo blu... Solo, bisogna stare attenti a quando si
mescola... dipende tutto da quello.... senza tralasciare dove si mescola... questo
è essenziale.... e soprattutto, bisogna fare attenzione a come si mescola... le
polveri... una alla mattina... una la notte. Solo, come dicevo, bisogna osservare
le unità. Questa è una delle Polveri Bianche... questa è una delle Nere... Le
mettiamo in un bicchiere... le scuotiamo... le mettiamo a terra... ci
inginocchiamo e le osserviamo... ci alziamo... ci inginocchiamo di nuovo... poi
alziamo un’altra volta... Ora ci inginocchiamo ancora... Guardate...
Sly-Boots. Sto guardando.
Looney. Cosa vedete?
Sly-Boots. Nulla di nulla.
Looney. Bene.... Ora prendete la polvere che spargete su un foglio di carta
bianca... lo tenete nella mano destra a livello della bocca... tenete nella mano
sinistra un bicchier d’acqua... e poi.... Ditemi: che tipo di illuminazione avete
in casa?
Sly-Boots. Elettrica.
Looney. Ah, peccato.
Sly-Boots. Perché?
Looney. Dovreste sapere come spegnere le candele.106
L’episodio mostra il metodo che Looney impiega per contrastare il
tentativo di Sly-Boots di appropriarsi del suo segreto per scopi indegni.
Spiega la procedura necessaria, ma solo in maniera semi-incomprensibile,
mettendo in atto un rituale apparentemente comico e dicendo frasi
sconcertanti. Si noti che non dice mai vere e proprie menzogne, benché
parli per enigmi; ciò suggerisce che le sue parole non siano pronunciate
unicamente per confondere e sviare Sly-Boots. Per fare il cielo blu è
necessario un rituale, come conferma il finale del dramma, e che l’episodio
alluda inoltre al teatro è chiaramente rivelato dal riferimento alle unità
«Looney. My recipes are simple. For a Blue Sky, mix white and black in equal quantities,
and you have a blue sky... Only you must be careful when to mix... all depends upon that...
never forgetting where you mix... that is essential... and, above all, be prudent how you mix...
the powders... one in the morning... one at night. Only, as I say, you must observe the
unities. Come, now, let me show you how the Blue Sky Recipe is managed. This is one of the
White Powders... this is one of the Black... We place in a Glass... we shake them... we put
them in the ground... we kneel and regard them... we rise... we kneel again... we rise once
more... Now we kneel again... Look... / Sly-boots. I am looking. / Looney. What do you see?
/ Sly- Boots. Nothing at all. / Looney. Good... Now take the powder, which you spread on
to a sheet of white paper... you hold it in your right hand level with the mouth... you hold a
glass of water in your left hand... and then... Tell me – how is your house lighted? / SlyBoots. By electricity. / Looney. Ah, that is a pity. / Sly-Boots. Why? / Looney. You ought to
know how to blow out candles». BS, pp. 200.
106
60 Paola Degli Esposti, Le impronte della Über-­Marionette aristoteliche. L’implicazione pare essere che la cerimonia necessaria per
fare il cielo blu sia di natura teatrale.
Il rito stesso nasconde riferimenti che possono aiutare a spiegare quale
specifico significato teatrale Craig intenda esprimere. Benché il dialogo sia
apparentemente comico, trapelano allusioni all’opus alchemico. La
procedura per creare il cielo blu richiede di mescolare una polvere bianca e
una polvere nera, che paiono rinviare all’albedo e alla nigredo, due fasi del
processo alchemico. L’allusione è in qualche misura apparentemente
ribadita dal riferimento al giorno e alla notte (che non a caso ricorda la
Grand Nuit, concetto sviluppato entro la medesima tradizione). Certo, il
processo non si conclude con la creazione dell’oro, ma il blu del cielo
craighiano ha una connotazione altrettanto spirituale. Inoltre è interessante
rilevare che Leonardo da Vinci, per cui Craig esprime ammirazione,
sosteneva che mescolando bianco e nero si sarebbe ottenuto il blu, e benché
in varie occasioni il maestro rinascimentale abbia condannato l’alchimia, la
sua posizione è ambivalente, talvolta dimostrando ammirazione per gli
antichi alchimisti per le loro invenzioni107. Se ricordiamo che Irène Eynat
Confino segnala che diverse tradizioni esoteriche, tra le quali l’alchimia,
influenzano la poetica di Craig, incluso il suo concetto di Über-Marionette108,
l’allusione all’Oeuvre sembrerebbe un ulteriore indizio della connessione tra
Blue Sky e la teoria craighiana sull’interprete scenico.
Certo, il tema alchemico, in questo testo, non parrebbe approfondito, e
tuttavia l’allusione ad una tradizione così connotata non sembra casuale,
sembrando piuttosto uno strumento fornito dall’autore per comprendere
l’affermazione riguardo alle candele all’interno di questo stesso dialogo.
Un artista particolare, tra i conoscenti ed amici di Craig, William Butler
Yeats, è estremamente interessato all’alchimia, al punto che molte sue
opere sono impregnate di riferimenti a tale pratica109. I suoi rapporti con il
E. McCurdy (edited by), Leonardo da Vinci’s Note-books, New York, Empire State book
Company, 1923, p. 227. Ci riferiamo qui all’edizione curata da McCurdy (nello specifico alla
prima edizione americana del 1923 che riproduce la prima edizione inglese del 1906) perché
proprio questa viene recensita in «The Mask» e quindi nota a Craig.. Cfr. la recensione a The
Notebooks of Leonardo da Vinci, translated by Edward McCurdy, in «The Mask», III, 4-6, October
1910, p. 92. La recensione è anonima ma a stilare questo tipo di scritti sono Craig e Dorothy
Nevile Lee (i cui interventi di norma rispecchiano in maniera fedelissima le opinioni di
Craig); lo stile della recensione, peraltro, sembra suggerire che a scriverla sia stato Craig
stesso. Su Leonardo e l’alchimia, cfr. ad esempio B. T. Moran, Distilling Knowledge: Alchemy,
Chemistry, and the Scientific Revolution, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 2009,
pp. 37-39: P. Vulliaud, Il pensiero esoterico di Leonardo, Roma, Edizioni mediterranee, 1987; B.
Boni, Leonardo da Vinci e l’alchimia, «Chimica» XXX, 12 , dicembre 1954, pp. 401-405; C.
Vasoli, Note su Leonardo e l’alchimia, in E. Bellone, P. Rossi (a cura di), Leonardo e l’età della
ragione, Milano, Scientia, 1982, pp. 69-77.
108 Sull’interesse di Craig per le tradizioni esoteriche, cfr. I. Eynat-Confino, Beyond the Mask:
Gordon Craig, Movement and the Actor, cit., pp. 126-144.
109 Cfr. ad esempio W. T. Gorsky, Yeats and Alchemy, Albany, State University of New York
Press, 1996 e R. M. Schuler, W. B. Yeats: Artist or Alchemist?, «The Review of English
Studies», XXII, 85, February 1971, pp. 37-53.
107
61 AAR Anno VI, numero 12 – Novembre 2016 teorico inglese sono duraturi: l’amicizia e il rispetto artistico fra loro induce
Craig a consentire a Yeats di impiegare gli Screens all’Abbey Theatre;
inoltre diversi lavori del drammaturgo irlandese sono recensiti in «The
Mask», che pubblica anche un articolo a firma di Yeats e una versione di
The Hour-Glass (il testo yeatsiano per il cui allestimento vengono impiegati
gli Screens). L’affinità tra i due è tale che quando Craig disegna una
scenografia per quest’ultimo dramma, secondo Karen Dorn il suo bozzetto
«[anticipa] l’andamento circolare, le spirali, e le fasi lunari
dell’immaginario successivo di Yeats, il tipo di movimento che Yeats già
considerava simbolico»110.
Ad essere particolarmente interessante in relazione a Blue Sky è che nel 1903
Craig legge uno dei drammi del drammaturgo irlandese, Where There is
Nothing, esprimendo il desiderio di produrlo, come il poeta di Dublino
scrive ad uno dei suoi corrispondenti:
Miss Edith Craig, la figlia di Ellen Terry, si è procurata per caso una copia [di
Where There is Nothing] e ha persuaso la Stage Society ad intraprenderne la
produzione. E ora Gordon Craig, suo fratello, vuole allestirlo con scenografie
elaborate al posto di Maeterlinck, che gli avevano chiesto di mettere in scena.
È un grande innovatore, qui, in ambito scenografico, e ha iniziato esperimenti
che possono forse rivoluzionare tutta l’arte [del teatro].111
Anche se Craig poi non allestirà il dramma, ne viene sufficientemente
colpito da compiere diversi importanti passi verso una messinscena del
testo; visto il numero ridotto di produzioni craighiane, sembra ragionevole
presumere che lo avesse studiato con attenzione112. Appunto a quel testo di
Yeats sembrerebbe riferirsi in maniera criptica Blue Sky, in particolare per
«[Anticipated] the circling, gyring, and lunar phases of Yeats’s later imagery, the kind of
movement Yeats already considered symbolical». K. Dorn, Dialogue into Movement, in R. O’
Driscoll, L. Reynolds (edited by), Yeats and the Theatre, Toronto, Macmillan of Canada, 1975,
p. 125. Per quanto concerne le pubblicazioni di e su Yeats in «The Mask» cfr., ad esempio,
W. B. Yeats, The Tragic Theatre, «The Mask», III, 4-6, October 1910, pp. 77-81; P.N. [Dorothy
Nevile Lees], The Abbey Theatre Success, «The Mask», III, 10-12, April 1911, pp. 190-191 (a
seguire vi sono estratti da recensioni dello spettacolo apparsi alcuni quotidiani irlandesi); W.
B. Yeats, The Hour Glass, «The Mask», V, 4, April 1913, pp. 327-346, Anonimo [probabilmente
Edward Gordon Craig], recensione di Per Amica Silentia Lunae, , «The Mask», VIII, 10, pp. 3940.
111 « Miss Edith Craig, Ellen Terry’s daughter, got hold of a copy [of Where There is Nothing]
by chance and persuaded the Stage Society to undertake its production. And now Gordon
Craig, her brother, wants to produce it with elaborate scenery instead of Maeterlinck which
they had asked him to do. He is the great innovator here in the matter of scenery and has
begun experiments which may perhaps revolutionize the whole art.». Estratto non datato di
una lettera di Yeats a John Quinn contenuto in una lettera del 18 febbraio 1903 di John
Quinn agli avvocati Alexander e Colby, in W. B. Yeats, The Variorum Edition of the Plays, ed.
by R.K. Alspach, assisted by C.C. Alspach, Macmillan, London, 1966, pp. 1166-1167, rif. a p.
1167.
112 Al rigurado, cfr. anche E. G. Carlotti, Le danze dei simboli: scrittura e pratica scenica nel teatro
di W. B. Yeats, Pisa, ETS, 1993, pp. 34-35.
110
62 Paola Degli Esposti, Le impronte della Über-­Marionette quanto concerne l’inattesa digressione sulla luce elettrica e di candela che
apparentemente interrompe le istruzioni di Looney a Sly-Boots.
Benché vi sia una ragione pratica perché Looney affermi che Sly-Boots
dovrebbe «sapere come spegnere le candele»113 – si deve soffiare via la
polvere per poter fare il cielo blu, come si scoprirà più avanti nel dramma –
una simile motivazione sembra piuttosto debole per giustificare la presenza
della battuta, che in assenza di una diversa ragion d’essere sembrerebbe
futile. Non è certo necessario un grande impegno per imparare il puro e
semplice atto pratico di spegnere una candela, e questo suggerisce che vi
sia un significato nascosto dietro l’episodio. Where There is Nothing
sembrerebbe poter fornire la chiave per svelare tale significato, anche
considerando il contesto rituale-alchemico – così consonante con la poetica
di Yeats – in cui sono collocate le battute di Looney.
Il protagonista del dramma irlandese, Paul Ruttledge, è un uomo ricco
piuttosto anticonvenzionale. Non solo evita la normale interazione sociale e
disdegna qualsiasi attività finanziariamente proficua, ma è anche un
visionario, sia in senso letterale che metaforico, in questo ricordando
Looney e Blind Boy. Le sue parole risultano incomprensibili e disorientanti
per i suoi conoscenti e famigliari – come lo sono quelle di Looney e Blind
Boy per Sly-Boots – che ritengono abbia perso contatto col mondo reale,
caratteristica che secondo Sly-Boots connota anche i due protagonisti
positivi di Blue Sky114. Un’altra analogia interessante con la farsa craighiana
si incontra alla fine del dramma di Yeats. L’azione si chiude con la rivolta
di un villaggio intero contro Paul, accusato di stregoneria; similmente, la
pièce di Craig si conclude con il tentativo di Muggins (complice di SlyBoots) di sobillare il paese in cui vive il mago contro di lui. La differenza
sembrerebbe stare nel fatto che se Paul viene ucciso dalla folla, Looney e
Blind Boy la neutralizzano ipnotizzandola; tuttavia, poiché il protagonista
di Where There is Nothing ritiene che la morte sia un momento di liberazione
dalla prigione della carne e un passo necessario al fine di ottenere la
beatitudine metafisica, la divergenza tra i due testi sembrerebbe solo
superficiale.
La positività della morte ritorna implicitamente nel testo yeatsiano. Fin
dall’inizio Paul Ruttledge mostra di non provare interesse per le attività
utili al sostentamento, atteggiamento sottolineato a chiare lettere dai suoi
due ultimi adepti – dei monaci sospesi a divinis – verso la fine del dramma:
Aloysius. Vorrei che anche noi avessimo qualcosa da mangiare. A quest’ora
dovrebbero essere a tavola, al monastero. Si staranno godendo una bella cena,
oggi, in modo da sopportare il digiuno di domani.
«How to blow out candles». BS, pp. 200.
Cfr. W. B. Yeats, Where There is Nothing, in W. B. Yeats, The Variorum Edition of the Plays,
cit., pp. 1064-1165, rif. a p. 1085; BS, p. 203.
113
114
63 AAR Anno VI, numero 12 – Novembre 2016 Colman. A volte penso che fratello Paul dovrebbe pensare un po’ di più a noi.
Va tutto bene per lui, che è tutto preso dai suoi pensieri e dalle sue visioni, che
non sa se è sazio o sta digiunando.115
Paul trascura la carne; continua inoltre ad affermare che, perché l’essere
umano raggiunga la perfezione, tutte le costruzioni razionali e materiali
dell’umanità devono essere distrutte. Nella seconda scena del quarto atto,
in particolare, si sveglia da uno dei suoi stati di trance e, in una sorta di
rituale, spegne, soffiando, sette candele, chiarendo (o meglio predicando,
visto che è temporaneamente diventato monaco) di volta in volta il
significato di ognuna delle sette azioni, in ciascun caso spiegandolo subito
dopo averne spenta una e prima di estinguere la seguente. Le candele sono
metafore degli aspetti della vita umana che vanno distrutti perché
l’umanità raggiunga un’inebriante beatitudine oltremondana116.
Sia le parole sia le azioni impiegate da Paul Ruttledge sono significative, se
poste in relazione a Blue Sky. Alla luce del dramma di Yeats, l’affermazione
di Looney secondo la quale per fare il cielo blu (il cui significato metafisico
è consonante con l’obiettivo oltremondano di Paul Ruttledge) un adepto
dovrebbe saper spegnere le candele, sembrerebbe alludere alla necessità di
estinguere tutte le forme razionali e materiali al fine di creare l’opera d’arte.
O meglio, se la mia ipotesi per cui Blue Sky è un dramma per la ÜberMarionette è corretta, alla necessità che l’attore ‘muoia’ per poter diventare
un artista, concetto che troviamo nella nota epigrafe a The Actor and the
Über-Marionette, ma anche nelle lettere di Craig ad Eleonora Duse117.
Secondo Paul Ruttledge, le persone che incontra «sono come animali da
fattoria; hanno dimenticato la propria libertà; i corpi umani sono un
travestimento, una finzione che mantengono per ingannarsi a vicenda»118.
Analogamente, nella concezione di Craig l’inartistico attore moderno, erede
dell’atto di imitazione svilente descritto in The Actor and the Über-Marionette
come momento di fondazione del teatro umano, è schiavo del realismo
ingannevole e di una concezione puramente materialistica della scena –
come Muggins e Sly-Boots in Blue Sky –, di un’umanità degradata e
degradante di cui dovrebbe liberarsi per poter creare.
«ALOYSIUS. I wish we had something ourselves to eat. They should be sitting down to
their dinner in the monastery now. They will be having a good dinner to-day to carry them
over the fast to-morrow / COLMAN. I am thinking sometimes, Brother Paul should give
more thought to us than he does. It is all very well for him, he is so taken up with his
thoughts and his visions he doesn’t know if he is full or fasting».William Butler Yeats, Where
There is Nothing, cit., p. 1147.
116 Cfr. ivi, pp. 1137-1140.
117 Cfr. E. G. Craig, A Letter to Eleonora Duse from Gordon Craig, «The Washington Post»,
December 1, 1907, SM4, and E. G. Craig, To Madame Eleonora Duse, «The Mask», I, 1, March
1908, pp. 12-13. Si veda anche Cfr. P. Degli Esposti, The Fire of Demons and the Steam of
Mortality: Edward Gordon Craig and the Ideal Performer, cit., pp. 8-24.
118 «Are like farmyard creatures, they have forgotten their freedom, human bodies are a
disguise, a pretence they keep up to deceive one another». Yeats, Where There is Nothing, cit.,
p. 1069.
115
64 Paola Degli Esposti, Le impronte della Über-­Marionette Blue Sky sembrerebbe così rappresentare la drammatizzazione del passo
conclusivo nel processo che porta alla creazione della Über-Marionette. Se
Romeo and Juliet ritrae la corruzione della marionetta provocata
dall’umanità, Blue Sky ripropone l’ultima fase, in cui l’opera d’arte teatrale
si compie e la Über-Marionette compare. Qui il mago, che sa come spegnere
le candele, vale a dire come andare oltre i limiti della carne, incanta
l’umanità che danza alla sua musica, dimentica di sé. In altri termini, alla
fine del dramma craighiano Looney tira i fili metaforici che costringono i
fantocci raffiguranti i truffatori e la gente del villaggio a danzare; e la
Danza, come spiega Craig, è un tratto distintivo della Über-Marionette.
65 Anno VI, numero 12 – Novembre 2016 Rossella Mazzaglia
Metamorfosi di Pinocchio nella nuova scena italiana
Il personaggio di Pinocchio ha conosciuto, dal secondo Novecento ad oggi,
un destino particolare: investito da una fortuna rara, per le ricerche
scientifiche e le trasposizioni teatrali e cinematografiche dedicategli, il
burattino dal naso lungo, uscito dalla penna di Collodi, viene interrogato e
scrutato da artisti e studiosi fino al fondo della sua ambigua sostanza di
legno e carne, che è variamente rimescolata e ricomposta al di sotto della
sua riconoscibile e gaia parvenza.
Infantile e gioviale marionetta predisposta ad una rinascita in umano
nell’originario racconto, diviene reliquia parassitaria nel libro notturno (e
parallelo) di Giorgio Manganelli, d’imprigionata immobilità – da scrutare
con ‘occhi di legno’ – nelle molteplici ed esemplari versioni beniane, afasico
e decrepito vecchio al finire del ciclo fiabesco di Virgilio Sieni (2000-2002).
Le ragioni delle sue metamorfosi affondano nel reale, ma sono anche
inscritte nel testo: Pinocchio non è solo la storia di un burattino, né
tantomeno di un bambino. Pinocchio è piuttosto un’idea, che abbraccia una
visione dell’infanzia. È, pertanto, anche una storia sulla crescita e sulla
costruzione dell’identità, che artisti del teatro italiano e d’oltralpe hanno
variamente reinterpretato, assieme a numerosi cineasti e registi televisivi
almeno dagli anni quaranta in poi.
Nel teatro italiano d’inizio millennio, Pinocchio è stato, in particolare,
proposto con rinnovata insistenza fuori dall’ambito della produzione per
l’infanzia in spettacoli realizzati con persone che condividono una
condizione di diversità. Per la sua innata differenza dai bambini di carne e
ossa, e per le prove che deve affrontare per diventare umano, il burattino
collodiano si è prestato, infatti, a letture esistenzialiste e a parallelismi
rispetto al processo di definizione e di rappresentazione individuale e
sociale della soggettività. Casi emblematici sono Pinocchio Nero di Marco
Baliani del 2004; lo studio del 2007, e la versione definitiva del 2008, di
Pinocchio. Lo spettacolo della ragione di Armando Punzo; la creazione per Gli
Amici di Luca, con interpreti con pregresse esperienze di coma, di
Babilonia Teatri nel 2012 e la coreografia per e con un non vedente di
Virgilio Sieni in Pinocchio. Leggermente diverso del 2013.
Nonostante l’evidente eterogeneità che li contraddistingue, questi artisti
hanno trovato nel personaggio di Pinocchio (ancor più che nel romanzo)
uno strumento drammaturgico funzionale alla loro ricerca teatrale,
stimolata da una comune tensione etica del fare teatro: per Baliani, il
Pinocchio realizzato a Nairobi è una scoperta nel passato, il recupero della
follia creativa degli inizi che si proietta sul senso dell’operare presente e
66 © 2016 Acting Archives ISSN: 2039‐9766 www.actingarchives.it Rossella Mazzaglia, Metamorfosi di Pinocchio nella nuova scena italiana
futuro. Per Punzo, è l’occasione di raccontarsi in prima persona, per
scontrarsi anche contro lo sminuimento del valore artistico del proprio
teatro. Per Babilonia Teatri, è un modo per ritornare alla verità di Beauty, la
ragazza nigeriana conosciuta nel carcere di Verona; per ritrovare, quindi,
l’originario bisogno di autenticità, che è ora affiancato dall’urgenza di dirsi
degli attori in scena, con un’integrazione narrativa che funge da
esperimento e da modello. 1 Per Sieni, è la conferma di un’avvenuta
apertura all’estraneità dell’altro: il vissuto e l’esperienza del non vedente
Giuseppe Comuniello entrano nella trama dello spettacolo, che presenta un
Pinocchio molto distante da quello malinconico che aveva presentato in un
precedente ciclo fiabesco dedicato al burattino collodiano.
Obiettivo di questo scritto non è, però, ragionare sugli equilibri tra estetica
e sociale in contesti di disagio o con attori e danzatori disabili, quanto
fotografare le modalità in cui questa tensione si è dissolta nelle forme degli
spettacoli su Pinocchio. Laddove la specificità dei processi si è inscritta
dentro una linea drammaturgica riferita alla persona e all’essere umano, le
domande insite nel racconto e quelle implicite sulla funzione del teatro
hanno finito, infatti, per coesistere e sollecitare una sperimentazione delle
categorie estetiche tale da nutrire anche visioni, poetiche e modalità
creative degli artisti, visti singolarmente rispetto alla pertinenza di
categorie interpretative come ‘teatro sociale’, ‘della diversità’, ‘delle
persone’, di cui si parlerà, dunque, in maniera specifica, a partire
dall’analisi degli spettacoli.
Dalla letteratura alla scena: il mistero dell’infanzia
Pinocchio penetra nel mistero dell’infanzia e nell’inquietudine della
crescita. Presenta una storia esemplare attraverso un processo di
acquisizione dell’identità che al proprio interno rivela, però, delle
contraddizioni, in parte imputabili alla sua genesi. Originariamente, viene
pubblicato a puntate sul «Giornale per i Bambini» dal luglio all’ottobre del
1881 sotto il titolo Le storie di un burattino e si conclude con la scena
disperata ed inquietante di Pinocchio impiccato che scalcia, appeso al ramo
della Quercia grande, ucciso dal Gatto e dalla Volpe. A seguito delle
pressanti insistenze del pubblico infantile e del direttore del giornale,
Guido Biagi, Collodi però lo risuscita, scrivendo all’inizio del XVI capitolo
che non era, d’altro canto, «ancora morto perbene». Riprende dunque vita
nel febbraio 1882, dopo diversi mesi di silenzio, all’interno di una seconda e
imprevista parte, diversamente titolata Le avventure di Pinocchio, che si
conclude nel gennaio 1883, con la metamorfosi finale. Pinocchio acquista,
dunque, un destino e il riscatto dell’umanizzazione; non impara solo ad
Cfr. Babilonia Teatri, Dietro lo specchio, intervento inedito pronunciato all’incontro La lingua
di Babilonia Teatri, 5 marzo 2015, Università di Bologna (consultato per gentile concessione
della compagnia).
1
67
AAR Anno VI, numero 12 – Novembre 2016
essere obbediente, quanto a cavarsela da solo dinanzi alle difficoltà della
vita. La sua crescita è così compiuta e la maturità raggiunta.
A prescindere dalle molteplici varianti che costituiscono ormai un oggetto
di studio a sé, 2 il testo normalmente disponibile, a cui guardano le
messinscene teatrali, deriva dalla ricomposizione di tutti gli episodi
nell’edizione del 1883: Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino
(Editore Paggi di Firenze), in cui Collodi apporta qualche ritocco al testo e
che, soprattutto, presenta una significativa inversione di titolo e sottotitolo,
indice della fama immediatamente raggiunta dall’eroe-personaggio del
romanzo. Nell’insieme, la compattezza del formato non annulla, però, del
tutto, le contraddizioni interne, dovute al particolare work-in-progress della
storia: la figura di Pinocchio si mostra meno lineare nella prima parte, che
presenta infatti un andamento più «curvilineo» rispetto alla seconda, dove
l’azione è invece finalizzata, «il ritmo si scioglie, si allarga, si complica;
interviene finalmente la Metamorfosi, e con essa la peripezia si muta in
fiaba».3
Anche al momento della ricomposizione in volume, la pubblicazione del
romanzo non sancisce, inoltre, la fine della sua vicenda editoriale, tanto che
nelle ristampe il testo è, limitatamente, rivisto per rettificare taluni errori
della prima edizione che andavano a modificarne in parte il significato.4
Nessun passaggio nella ricostruzione di quest’avventura editoriale sembra,
però, di rilievo per l’analisi delle forme teatrali contemporanee ispirate al
racconto, che nelle edizioni in commercio ha ormai acquisito le rettifiche ed
è presentato in maniera consequenziale e unitaria. Alcuni spunti, derivanti
invece dalla contestualizzazione storica e letteraria dell’opera, consentono
di individuare meglio le derive e libertà interpretative di registi e attori
rispetto al testo originario.
Negli anni in cui Collodi scrive la storia – racconta Ornella Castellani
Pollidori – trionfava, nel pedagogismo, la ‘filosofia dell’aiutarsi’,
immediatamente riassumibile nella frase «Aiutati che Dio t’aiuta». Oltre
alla letteratura straniera, nel 1865 esce anche in italiano un libro di Gustavo
Straforello, intitolato appunto Chi s’aiuta Dio l’aiuta (Treves, Milano) e
anche nello zibaldone collodiano compaiono frasi di tal sorta. La lettura di
Pinocchio di Castellani Pollidori è, pertanto, che in ultimo prevalga ne Le
Avventure di Pinocchio l’esaltazione di «un processo di autoeducazione e di
Cfr. Pinocchio e la sua immagine, a cura di Valentino Baldacci, Andrea Rauch, FirenzeMilano, Giunti, 2006.
3 Roberto Fedi, Collodi i misteri le fate in Carlo Collodi, Lo spazio delle meraviglie, Milano,
Amilcare Pizzi Editore, 1990, p. 77.
4 Punto di riferimento essenziale per gli studiosi di Pinocchio è l’imponente edizione critica
de Le avventure di Pinocchio curata da Ornella Castellani Pollidori (Fondazione Nazionale
Carlo Collodi, Pescia, 1983), mentre una panoramica delle interpretazioni letterarie può
essere rintracciata nel già citato Carlo Collodi, Lo spazio delle meraviglie.
2
68
Rossella Mazzaglia, Metamorfosi di Pinocchio nella nuova scena italiana
formazione del carattere alla scuola dell’esperienza»:5 il primo Pinocchio è
dunque solo una testa dura e un carattere debole, il secondo è una persona
temprata dalle avversità della vita, che non merita più un capo di legno, dal
punto di vista materico e simbolico. Secondo quest’ipotesi, la chiave per il
riscatto di Pinocchio non è, quindi, l’obbedienza, come invece da molti
sostenuto e a teatro talvolta suggerito (si pensi, per esempio, al Pinocchio
beniano).
Questo filone di studi filologici che, sin dall’uscita del romanzo, ha
contribuito alla sua storicizzazione ed esegesi, conta moltissime e
minuziose ricerche inerenti il rapporto del testo con l’epoca e con il
paesaggio toscano, con la biografia di Collodi, con il genere pedagogico e la
letteratura per l’infanzia, oltre che rispetto alla struttura e alla forma
conclusiva dello scritto legate alla sua gestazione e diffusione. Le
informazioni che ricaviamo da queste ricerche vanno però, di necessità,
filtrate e a loro volta contestualizzate rispetto all’analisi teatrologica. Nel
fare il punto, anche parziale, sulle ricerche legate a Pinocchio, bisogna in
altri termini specificare e ricordare la prospettiva da cui si guarda a questa
storia: una scrittura scenica autonoma rispetto al romanzo che impone una
cernita tra i filoni, anche contrastanti, dell’amplissima letteratura critica su
Le avventure di Pinocchio funzionale alla comprensione degli elementi
effettivamente transitati sulla scena.
Accanto alle ricostruzioni filologiche, esiste, in particolare, una moltitudine
di approcci irriducibile dentro categorie schematiche che Castellani
Pollidori chiama ironicamente pinocchiologia, «disciplina che conta
centinaia, se non migliaia di cultori, e di tutte le parti del mondo […] che
tendono a cavare dal testo delle Avventure, scrutandolo coi filtri più vari,
certamente più cose di quante il Collodi non abbia inteso mettervi». 6
Specularmente opposto il punto di vista espresso, nel 1968, da Giovanni
Jervis, che suggerisce, piuttosto e con altrettanta ironia, che Pinocchio si sia
accorto di cose di cui Collodi non si accorse e che nel testo siano perciò
cadute, quasi per distrazione, delle contraddizioni che lo animano oltre una
riflessione consapevole del suo autore. 7 Di segno contrario, dunque, le
ricerche strutturaliste e post-strutturaliste cui certamente la filologa allude,
parlando di pinocchiologia. Tra queste, alcuni saggi di stampo semiologico
sono diventati dei riferimenti imprescindibili per l’analisi delle opere
contemporanee ispirate al romanzo collodiano. Sono Pinocchio uno e bino di
Emilio Garrone e Pinocchio: un libro parallelo di Giorgio Manganelli.
5 Ornella Castellani Pollidori, Le avventure di un capolavoro, in Carlo Collodi, Lo spazio delle
meraviglie, cit., p. 108.
6 Ivi, p. 99.
7 Giovanni Jervis, Prefazione a Carlo Collodi, Le avventure di Pinocchio, Torino, Einaudi, 1968,
p. X.
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AAR Anno VI, numero 12 – Novembre 2016
Uno e bino, Pinocchio, in quanto è come se ne Le avventure esistessero due
romanzi in uno: il primo va dal I al XV capitolo, ovvero alla morte per
impiccagione di Pinocchio, ma l’altro non ne è la continuazione, bensì li
comprende entrambi. Un Pinocchio II complessivamente più grande ha,
cioè, fagocitato il Pinocchio I, che di fatto si dissolve nella ricezione
complessiva del romanzo integrale, ispirando un senso di omogeneità
assente nella concezione iniziale dell’opera e nella sua struttura. Questa
distinzione risulta particolarmente utile per comprendere la logica
narrativa adottata dagli artisti teatrali rispetto alla metamorfosi del
burattino in bambino.
Da parte sua anche Manganelli, scrivendo un libro parallelo, scava dentro la
storia di Pinocchio. Ben oltre la profondità di analisi dei singoli passaggi, la
sua lettura indica un approccio interpretativo che può essere agevolmente
esteso al teatro; il Pinocchio di Manganelli non vuole, infatti, essere un
commento dell’opera originaria (che, simile ad una «lamina inscritta»,
possa essere percorsa linearmente), quanto la perlustrazione dei suoi
itinerari interni, delle sue parole come fossero «indizi […] che il libro si è
lasciato alle spalle, o che si trovano sparsi nel suo alloggio cubico, ospizio
di tracce, annotazioni, parole trovate, schegge di parole, silenzi». 8 E se
Pinocchio è specialmente cubico, la scena che lo rappresenta, come si avrà
modo di vedere, lo è in maniera ancora più marcata.9
Nel penetrare la membrana esterna della storia e del personaggio di
Pinocchio, registi, attori, danzatori e coreografi hanno, infatti, rintracciato e
ricollocato nel presente gli indizi delle contraddizioni interne al romanzo,
sfruttando innanzitutto l’ambiguità di Pinocchio, essere di carne e di legno,
al tempo stesso soggetto e oggetto, umano e materico. Hanno così innestato
nella figura di Pinocchio l’irriducibile singolarità di corpi diversi, non per
appiattirli sulla loro immagine quotidiana, bensì per dilatarla, restituendole
una durata in cui riconoscere ed esibire le tracce sedimentate, disseminate e
sopravvissute di un’umanità ulteriore e remota. Nel farlo, hanno agito fuori
dallo «spazio letterario del teatro», ovvero da quell’ambito che, senza
Giorgio Manganelli, Pinocchio: un libro parallelo, Milano, Adelphi, 2002, p. 8.
Tanto gli sviluppi semiotici e il concetto, quindi, di testo spettacolare, quanto la
formulazione e specificazione della nozione di scrittura scenica, fanno da premessa
metodologica a questo parallelismo, che infatti si serve di nozioni sviluppate in ambito
semiotico. Particolarmente utile è pensare lo spettacolo come «sistema di segni (e non come
sistema di trasposizione di segni)» e riconoscere la portata critica e metariflessiva
dell’operatività teatrale, implicita nel concetto di scrittura. Cfr. in merito Maurizio Grande,
Scena Evento Scrittura, a cura di Fabrizio Deriu, Roma, Bulzoni, 2005, pp. 83-88, e Lorenzo
Mango, La scrittura scenica. Un codice e le sue pratiche nel teatro del Novecento, Roma, Bulzoni,
2003, pp. 13-47. Per la distinzione tra spettacolo e testo spettacolare, si rinvia invece a Marco
De Marinis, Semiotica del teatro. L’analisi testuale dello spettacolo, Milano, Bompiani, 1982, p. 61.
8
9
70
Rossella Mazzaglia, Metamorfosi di Pinocchio nella nuova scena italiana
costituire il dramma, fa il teatro: dalle critiche alle polemiche, alle memorie
e al racconto.10
Nelle interviste e nei materiali sugli spettacoli non compaiono citazioni
esplicite a precedenti teatrali, se non, in alcuni casi, con riferimento
all’opera di Carmelo Bene. I suoi molteplici pinocchi stanno, anzi, alle
rivisitazioni contemporanee del burattino collodiano come la pre-istoria
alla storia: non è passato, bensì una presenza immanente, penetrata
nell’immaginario e che riaffiora, velatamente o in maniera esplicita, in base
alle necessità espressive dei singoli artisti. La ricordiamo, dunque, nel
confronto con il processo di teatralizzazione de Le avventure di Pinocchio
messo in atto da Pommerat, per ritornare in seguito agli esempi recenti di
scrittura scenica ispirati dal personaggio collodiano.
Ossessionato da Pinocchio come da Amleto, Carmelo Bene disconosce il telos
della trasformazione umana del burattino, che reputa anzi mortificante e,
perciò, taglia quasi integralmente la seconda parte del romanzo, incentrata,
appunto, sul percorso che porta al cambiamento;11 l’immagine burattinesca
dei capitoli iniziali prevale, dunque, su quella umana, sovrapponendosi
invece al contraltare provvidenziale di una fata-bambina di cera. Anche
l’irrigidimento legnoso del corpo dell’attore, da cui guizza uno sguardo
penetrante, lo aliena dall’umanità della carne del bambino, al tempo stesso
in cui lo differenzia dal giocattolo-burattino quanto basta da farlo apparire
quale raffigurazione di un’idea; secondo Roberto Tessari, come la
«quintessenza dell’Infanzia».12
Per quanto le modalità di scrittura scenica di Bene siano uniche, il processo
di distanziazione dal romanzo proposto e la sua interpretazione del
personaggio costituiscono un precedente esemplare per il teatro italiano
contemporaneo. Bene, infatti, rileva dal testo il parlato monologico e
dialogico e, come dicevamo, ripropone solo la prima parte del romanzo,
pur alludendo ai contenuti della sua prosecuzione. 13 Soprattutto, non
insegue il dramma del burattino nelle peripezie per diventare umano e
pone all’origine del proprio racconto la fata: è lei a salvarlo e, perciò, ad
esserne responsabile, genitrice. In tal senso, essa è, dichiara, la Provvidenza
Bambina che gioca con il bambino-di-legno Pinocchio: «è appunto
dall’ottica di un simile bambino […] che si esplica la lettura beniana del
testo: tanto educatamente fedele da risultare infedele».14 Collodi, in altri
Ferdinando Taviani, Uomini di scena, uomini di libro. Introduzione alla letteratura teatrale
italiana del Novecento, Bologna, Il Mulino, 1995, pp. 13-15.
11 Per il testo dello spettacolo, cfr. Carmelo Bene, Pinocchio, Milano, Bompiani, 2014 e
l’introduzione di Piergiorgio Giacché, Pinocchio letto per Bene, cui ci siamo rifatti
menzionando ‘gli occhi di legno’ di Bene in Pinocchio.
12 Roberto Tessari, Pinocchio. «Summa atheologica» di Carmelo Bene, Firenze, Liberoscambio,
1982, p. 43.
13 Ivi, p. 20.
14 Ivi, p. 21.
10
71
AAR Anno VI, numero 12 – Novembre 2016
termini, sparisce dalla scrittura scenica di Bene, che relega l’io-narrante del
romanziere in secondo piano, per esprimersi in prima persona come
Pinocchio-infante-di-legno, anche quando assume la voce degli altri
personaggi.
Del tutto diverso è il processo che mette in atto Joël Pommerat, a cui
facciamo riferimento sia per indicare la fortuna teatrale del racconto anche
fuori dai confini italiani, sia per esplicitare un processo di teatralizzazione
del romanzo di Collodi che differisce tanto dal modello di Bene, quanto
dagli altri esempi di scrittura scenica che andremo a vedere. Pommerat
dirige la propria drammatizzazione de Le avventure di Pinocchio, che
attualizza e destina a un pubblico misto: il suo Pinocchio, dapprincipio
sgradevole e aggressivo, matura e si trasforma progressivamente in
bambino, come racconta un ‘narratore’ che – nei panni di un presentatore
da circo – commenta di continuo la storia, facendo da collante tra gli
episodi agiti.15
Il tema della povertà e il desiderio sfrenato di una vita diversa emergono
come motivo conduttore del testo drammaturgico e dello spettacolo, che si
ispira anche, apertamente, al telefilm di Luigi Comencini del 1972: come il
giovane attore dello sceneggiato (Andrea Balestra), nello spettacolo, Maya
Vignado mostra tutta l’irriverenza della fanciullezza, con movenze decise e
frasi schiette. Ricorda, appunto, la spontaneità ricercata da Comencini nel
bambino, che prevale sulle opzioni di riprendere burattini veri e propri,
meno verosimili e reali. Nello spettacolo di Pommerat, Pinocchio indossa
un caschetto d’aviatore, ha il volto ricoperto di cerone bianco e labbra e
occhi cerchiati da un contorno nero, che sparisce dopo la metamorfosi: il
corpo di donna dell’attrice si annulla, cioè, nella raffigurazione del
personaggio, che è comunque lontana dall’immaginario legato al burattino.
All’interno di un’ambientazione da fiera primonovecentesca, nel
linguaggio e rispetto alla logica che muove l’azione, l’autore introduce
elementi che possano dare concretezza ad un racconto pensato in un’epoca
e per un pubblico differenti. La pancia della balena, che offre tutto ciò che
inizialmente il burattino avrebbe voluto, è per esempio tradotta,
visivamente, con un supermercato ricco di ogni bene.
In Pinocchio Pommerat non opera, quindi, solo una riduzione per la scena
del romanzo, ma lo modernizza e usa espedienti drammaturgici inediti
(come la presenza del narratore-presentatore), che rielaborano e rinnovano
l’interpretazione dell’opera collodiana. La sua opera corrisponde pertanto a
un adattamento che prevede la stesura del testo drammatico, seguita dalla
Lo spettacolo Pinocchio è prodotto dalla Compagnia Louis Brouillard, diretta da
Pommerat, e debutta all’Odéon Théâtre de l’Europe-Ateliers Bethier di Parigi l’8 marzo 2008.
Per il testo drammaturgico, cfr. Joël Pommerat, Pinocchio, Arles, Actes Sud, 2008 e, in
italiano, Joël Pommerat, Cenerentola-Pinocchio, Spoleto, Editoria e Spettacolo, 2015. Per uno
studio critico dell’opera, cfr. Elena Gaffuri, Il lavoro drammaturgico di Joël Pommerat, Milano,
EDUCatt Università Cattolica, 2014, pp.77-118.
15
72
Rossella Mazzaglia, Metamorfosi di Pinocchio nella nuova scena italiana
corrispondente trasposizione registica.16 Non meno attuale, ma totalmente
diverso, il rapporto col romanzo di Virginio Liberti e di Roberto Latini, che
ci riportano ad una scrittura scenica autonoma e al peso dell’eredità di Bene
sul teatro italiano contemporaneo.
Un quarantenne dall’aspetto trasandato e dalla barba incolta accoglie il
pubblico di Perduto Pinocchio del Teatro Studio Krypton, per la regia di
Virginio Liberti: umano, cresciuto ed emarginato, nel confronto con la
realtà il bambino di allora ha finito per sfuggire il mondo e per cadere
vittima della propria mente, che non sa più come rapportarsi
all’immaginazione fantastica che l’aveva prima nutrita. Pinocchio è
perduto, si è perduto e ha perduto la propria infanzia: ormai solo, seduto
dinanzi al pubblico, si lamenta per l’abbandono di tutti e per i suoi
malesseri; va in cerca dei vecchi amici, che appaiono in sembianze
zoomorfe o dal volto deformato su uno schermo alle sue spalle,
intrecciando una polifonia di voci che finisce per sopraffarlo.17
Anche Roberto Latini, regista e interprete di Fortebraccio Teatro, annulla la
levità del racconto per riflettere sulla quotidianità della vita
contemporanea. Nello spettacolo NOOsfera Lucignolo del 2011, sprazzi del
romanzo escono dalla bocca di Lucignolo, che evoca gli altri personaggi
della fiaba con un dinamismo vocale in contrasto con la rigidità del corpo.
Seduto con un cappio al collo su una sedia posta sopra una pozza d’acqua,
Lucignolo parla, cade e, in ultimo, rantola.18 L’intera storia di Pinocchio è
letta negativamente e, anzi, il romanzo è, per Latini, «un piccolo manuale
dell’italianità»: meglio esaltare Lucignolo «e la sua sfacciata ignoranza,
piuttosto che il perbenismo consolante di questa cultura», scrive nelle note
di presentazione del suo spettacolo.19
Quando sembra salvare il personaggio di Pinocchio, l’attore e regista lo fa
pensando, piuttosto, al teatro e solo di riflesso al romanzo. Ridà carne e
forma al burattino, col suo lungo naso appiccicato ad un volto sbiancato,
nello spettacolo Ubu Roi (2012), come citazione esplicita del personaggioPinocchio di Carmelo Bene: icona teatrale, decontestualizzata e inserita ora
ad infarcire ulteriormente uno spettacolo denso di rimandi culturali, per
assolvere alla funzione di ‘testimone’ o ‘spettatore’ dinanzi alle maschere e
al meccanismo teatrale di Alfred Jarry. Il suo Pinocchio parla, infatti, nella
16 In generale, sulle modalità di trasposizione dal romanzo alla scena, di estrema linearità è il
volume di Marta Marchetti, Camus e Dostoevskij. Il romanzo sulla scena, Roma, Bulzoni, 2007,
part. pp. 143-170.
17 Cfr. Renato Palazzi, Perduto Pinocchio, «Delteatro», 10 ottobre 2014, www.delteatro.it;
Graziano Graziani, Perduto Pinocchio l’innocente di Virginio Liberti, «TeatroeCritica», 21
gennaio 2014, www.teatroecritica.net .
18 Cfr. Massimo Marino, Disagi di un Pinocchio solitario, «Corriere di Bologna», 28 maggio
2011.
19
Roberto
Latini,
Noosfera,
note
di
presentazione
dello
spettacolo,
www.fortebraccioteatro.com .
73
AAR Anno VI, numero 12 – Novembre 2016
lingua di Shakespeare20 e, in un momento significativo dello spettacolo, si
volge a guardare negli occhi Padre Ubu (Savino Papparella) «come in uno
specchio», 21 per riconoscersi e riconoscere, forse, che è tutto solo una
questione di immaginazione.
Infanzia, crescita, malessere del vivere, teatro come eredità e alternativa
rispetto al presente sono solo alcune delle derive semantiche di un
amplissimo ‘immaginario pinocchiesco’, distante ormai dall’autorialità di
Collodi e dall’intenzione pedagogica del romanzo, che fa da sfondo,
assieme agli studi critici citati, anche agli spettacoli con attori e danzatori
sorti da una condizione o da una prospettiva di diversità. Li andiamo ora
ad analizzare, attraversando l’opera di Punzo, Baliani, Babilonia Teatri e
Sieni, per capire differenze e comunanze del loro sguardo su Pinocchio.22
Ritornare legno: Pinocchio per Armando Punzo
Per creare, mi sono distrutto; mi sono così esteriorizzato dentro di me che dentro di me non
esisto se non esteriormente. Sono la scena viva sulla quale passano svariati attori che
recitano svariati drammi. (Fernando Pessoa, Il libro dell’inquietudine)
Nelle versioni teatrali di Carmelo Bene, Pinocchio rifiuta l’ascesi della
metamorfosi in umano e anche Armando Punzo, unico tra gli artisti qui
considerati, nega il destino raccontato ne Le avventure di Pinocchio. Aderisce,
piuttosto, alla storia del burattino del primo romanzo, abbracciando la
creazione di un Collodi di cui sottolinea le pressioni esterne che lo
costrinsero a proseguire in una scrittura per lui già compiuta.23 Ipotizza che
una volta affacciatosi alla realtà, Pinocchio la respinga e inverta il processo,
20 Intervista a Roberto Latini, riportata nella tesi di laurea di Jessica Bestetti, Avanguardia nel
teatro francese: da Alfred Jarry ad Antonin Artaud, Università degli Studi di Milano, a.a.20122013, pp. 164-168, consultata per gentile concessione della compagnia Fortebraccio Teatro.
21 Favoloso Mondo di Ubu. Roberto Latini e un’occasione chiamata Alfred Jarry, intervista a cura di
Silvia Mei, «Culture teatrali», versione online, 21 febbraio 2012.
22 Merita, inoltre, una menzione lo spettacolo Fratellini di legno, realizzato nel 1999 da Tam
Teatromusica con i detenuti del carcere di Padova e la regia di Michele Sambin. L’opera
resta, in questo caso, fedele alla trama di Collodi, che però restituisce in maniera tale da
suggerirne la pertinenza rispetto alla vita contemporanea, per le trasgressioni, i sogni, le
furbizie e i buoni propositi che nel testo si sovrappongono in maniera paradossale. Lo
spettacolo, Premio Enrico Maria Salerno 2000, è documentato all’interno di
TamTeatromusica, Archivio Tam, Padova, IV volume, 2010.
23 La sua interpretazione rispecchia una lettura personale: mentre è risaputo che Pinocchio
dovesse finire al capitolo XV e sono note le sollecitazioni affinché proseguisse la storia, non
si può dire similmente che il tipo di sviluppo del personaggio sia stato indotto da particolari
condizionamenti, né che Collodi abbia resistito a una continuazione del racconto che
comportava, piuttosto, lauti guadagni. Sembra, invece, che la visione di Punzo sulla
prigione della realtà in cui viviamo lo abbia reso particolarmente sensibile alle limitazioni
della libertà di scelta personale, indotte dalle pressioni esterne, fino a suggerirgli l’originale
rivisitazione dell’opera collodiana. Cfr. intervista inedita dell’autrice ad Armando Punzo, 29
febbraio 2015, Bologna.
74
Rossella Mazzaglia, Metamorfosi di Pinocchio nella nuova scena italiana
per ritornare burattino. Ritorno in cui s’identifica lui stesso, quando ricorda
l’«ossessione maniacale» che lo spinge a «non voler più esserci / Non voler
più far parte / prender parte a questa umanità» e, interrogandosi su come
si possa «ri-vedere / Come pappa ri-scaldata / L’esistenza che non esiste /
Il teatro degli altri», s’immagina solo: «io (lui) guardo a me che non è me».24
Io e lui sono, infatti, l’attore e il personaggio, ma anche Punzoattore/regista/artista rispetto al «caro artista impiegato» ch’egli nomina
alla fine dello spettacolo: identità molteplici che possono convivere nello
stesso corpo e che lo fanno sentire più vicino al Pinocchio del primo
romanzo, spingendolo infine ad arretrare, a sottrarsi, proprio come il suo
Pinocchio rispetto alla prospettiva di crescita e metamorfosi.
D’altro canto, non mancano ulteriori nessi tra Punzo e Bene, secondo la
critica, che individua nelle sonorità vocali di questo Pinocchio una
somiglianza con quella prima «macchina attoriale». 25 Soprattutto, però,
entrambi ci riportano alla lettura marcusiana che Giovanni Jervis fa de Le
avventure di Pinocchio nel 1968, quando spiega l’educazione come
«l’amorevole repressione che è necessaria per spostare l’infante
dall’universo del piacere al principio della realtà», inteso a sua volta come
l’«apprendimento di regole e valori condizionati da premi e sanzioni».26
Giudicato da questa prospettiva, Pinocchio appare sin dalla nascita
sovrastato da adulti e vecchi, resi tali anch’essi, non dall’età, bensì dal
compito (punitivo-educativo) che assolvono e che li identifica. Il Pinocchio
I di Garrone prevale, pertanto, nello spettacolo di Punzo a risarcire il
burattino dal percorso che gli è stato imposto, mentre per gli altri artisti
ricordati, come per la maggior parte di noi, lettori e spettatori, Pinocchio
coincide con il Pinocchio II, con il romanzo, insomma, della metamorfosi in
umano.
Lo spettacolo di Punzo, come di consueto, nasce dopo un periodo lungo e
fitto di prove. Il regista presenta, infatti, un primo studio di Pinocchio. Lo
spettacolo della Ragione nel luglio 2007 e, nell’estate successiva, la versione
definitiva, all’interno del carcere di Volterra.27
Si entra, come sempre, uno alla volta, nella Fortezza, sfilando tra le
sbarre e i cortili vuoti, tra cespugli di rose lilla e alberelli di ulivo.
24 Dal
testo dello spettacolo, riportato in estratto sul sito della compagnia,
http://www.compagniadellafortezza.org/new/gli-spettacoli-2/gli-spettacoli/pinocchio/
25 Cfr. Gherardo Vitali Rosati, C’era una volta… un uomo che voleva diventare un pezzo di legno,
data di pubblicazione: 11 agosto 2008, www.drammaturgia.it.
26 Giovanni Jervis, Prefazione a Carlo Collodi, Le avventure di Pinocchio, cit., pp. VII-XXII.
27 Pinocchio. Lo Spettacolo della Ragione è una produzione Carte – Blanche – Centro Nazionale
Teatro e Carcere /Volterra Teatro, Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Regione
Toscana, Comune di Volterra, Provincia di Pisa, Centro Formazione Professionale Volterra,
Cassa di Risparmio di Volterra, Fondazione Cassa di Risparmio di Volterra. Il primo studio
debutta tra il 23 luglio e il 27 luglio 2007 al Carcere di Volterra.
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AAR Anno VI, numero 12 – Novembre 2016
L’isola del teatro è un rettangolo al centro della corte, separato alla
vista da grandi tendoni neri.28
Non cambia l’esperienza di straniamento che, sempre, vive lo spettatore al
suo ingresso alla Fortezza tra il primo studio e lo spettacolo del 2008, cui ci
rifacciamo per la descrizione seguente.
Sotto un cocente sole estivo, il pubblico accede al cortile camuffato del
carcere e si assiepa su gradinate, all’interno di una scatola dalle alte pareti
nere, sovrastata, in cima, da grandi teste di asini, anch’esse nere, e con il
suolo ricoperto di sabbia. Aggirandosi nervosamente per la scena, Punzo si
dimena, fruga tra la sabbia, mentre una voce fuori campo ne descrive il
girovagare parallelo nel soggiorno, nel salotto, nella stanza dove si
raccoglieva la famiglia nell’infanzia, dove – dice: «ho sperato, mi sono
ridotto sempre più e ora muoio un’ora dopo l’altra». «Muoio un’ora dopo
l’altra», ripete dal vivo anche l’attore, mentre nuovamente scruta e solleva
la sabbia, continuando a girare nervosamente.
In fondo, un ciuco dalle lunghe orecchie (Aniello Arena), vestito di nero e
con colletto bianco arricciato e trucco da Pulcinella tragico, regge la cornice
bucata di un quadro che lo mostra immobile, un’icona sovraimposta alla
scenografia, fatta per il resto di una panca, un tronco, un baule, un mezzo
busto dalle braccia tronche – immagine umana ‘reificata’ – che Punzo
introduce da una porta nera, provando brevemente a riprodurne la
postura.29 Quando torna al microfono, la sua voce dal vivo si altera, quasi il
fiato non consentisse alle parole di uscire e lo costringesse a un balbettio
impedito, da cui scaturisce una sonorità più esile; la voce di Pinocchio è
così estratta dal corpo di Punzo prima che ne compaia la figura, come per il
magico ciocco parlante di Collodi.
L’attore-regista porta addosso la giacca e i pantaloni neri che sono ormai
segno riconoscibile della sua persona, esibita come fosse una maschera di
sé (rafforzata dalle parole fuori campo sull’infanzia), che tuttavia si
frantuma, progressivamente, facendo da filtro verso altre identità. Il suo
corpo, il ‘me’ cui prima accennavamo, sembra dunque l’involucro che
fascia alterità che spingono per affiorare, perché più vere e necessarie, in
fondo – sembra, almeno, dirci con parole e gesti – della sua immagine,
altrettanto ‘reificata’. L’attore si approssima, così, al personaggio assieme
ai suoi fantasmi: «sento voci la sera che fatico a mettere a letto» confessa,
mentre interpone la vocina quasi in falsetto di Pinocchio e il raglio
dell’asino, prologo significativo alla nascita figurale del personaggio,
Rossella Battisti, Pinocchio chiuso in carcere: liberiamolo, «L’Unità», 30 luglio 2007, p. 17.
La scelta dell’interprete acquista, a posteriori, quasi una valenza simbolica. A partire da
questo spettacolo, Arena è diventato, infatti, quasi un alter ego di Punzo, l’attore in cui ha
preso corpo la sua visione poetica e registica, in assenza di condizioni di lavoro che
consentissero pari continuità al resto della compagnia.
28
29
76
Rossella Mazzaglia, Metamorfosi di Pinocchio nella nuova scena italiana
quando si fa attaccare un naso posticcio da uno spettatore e trasforma
l’espressione smarrita del volto in un sorriso forzato, muovendosi a scatti e
andando incontro all’asino, di cui sentiamo per la prima volta la voce
mentre, ragliando, invoca il paese dei balocchi.
Dalla porta da cui aveva introdotto il busto d’uomo, ora Pinocchio
estrapola un fantoccio identico per fisionomia e abiti al Punzo-persona, un
fantoccio-cadavere che lo riporta al quotidiano e cui si rivolge, infatti, con il
nome di Sancho, alludendo al realismo e alla praticità del personaggio di
Cervantes. 30 Accanto al fantoccio steso al suolo, Punzo chiama anche la
fatina (madre moralizzatrice del romanzo), invocandone la morte. Come un
bambino capriccioso e un po’ nevrotico detta ordini, comandando
innanzitutto il proprio funerale: simili a servi di scena, tre uomini a torso
nudo e dal volto coperto, lo portano in processione e, infine, come il Corvo,
la Civetta e il grillo parlante di Collodi, ne diagnosticano la vita. Pinocchio
chiama allora i suoi ‘amici’, presto identificati dai costumi carnevaleschi: il
Gatto, la Volpe, un coniglio bianco, un Pinguino e, man mano, altre figure
grottesche, probabile memoria dello spettacolo dedicato a Rabelais nel 2006
(Budini, Capretti, Capponi e Grassi Signori, ovvero la Scuola dei Buffoni).
Alle spalle di Pinocchio, mentre egli menziona la «luce ingannevole» da cui
vorrebbe tenersi lontano, una finestra è intanto aperta su una cucina vera e
propria, in cui donne e uomini affettano e tagliano cibo. Mangiare e vivere
si prospettano come termini equivalenti di una società ridotta ai bisogni
biologici, al consumo, e indifferente alla cultura. Fuor di metafora, la storia
che lega le sorti della compagnia e di Punzo alle scelte dell’istituzione
carceraria ricorda l’introduzione dei corsi di cucina di slow food, che ora si
affacciano sulla scena del teatro, minacciandola: «spettacolo senza ragione,
il vostro. Fatelo voi lo spettacolo!» gridano, infatti, dall’arena e Pinocchio e
Punzo.
Con la voce che si ingrossa, inciampa e si assottiglia, l’attore si sposta,
acquattandosi tra i personaggi per terra, esprimendo un rifiuto parallelo a
quello prima inscenato da Pinocchio, che voleva morire condotto in spalla
in un «funerale meraviglioso», per negarsi la metamorfosi che rischiava di
approssimarlo alla realtà. Anche se l’enunciato è impersonale, nel lettoreattore dal naso pinocchiesco riconosciamo pertanto il regista Punzo,
quando afferma:
Non si può mettere in scena / quello che non si ama / Non si può dare
complicità / a quello che non vuoi / vedere e non vorresti / mai essere / non
hai mai voluto essere / non si può continuare ad appartenere / ad un progetto
Per quanto nel fantoccio-cadavere Punzo individui una realtà mortuaria da cui
allontanarsi, e non la prova di una perdita ormai irrevocabile, l’espediente del doppio
ricorda La classe morta di Tadeusz Kantor del 1975, dove una classe di vecchi portava in
spalla, depositava sui banchi e accatastava al suolo dei manichini dalle sembianze giovanili
abbigliati da scolari, quali metafora di un’infanzia mortificata e uccisa.
30
77
AAR Anno VI, numero 12 – Novembre 2016
/ insensato (anche se di madre natura umanitario) /anche se ipotizzato a fin di
bene / che bene non è/ sociale / che sociale non è31
Nelle difficoltà che ripetutamente ricadono sull’attività del teatro in
carcere, nei dubbi che queste possono aprire, s’infila la tentazione della
realtà, che prende le forme dei personaggi del romanzo: un attore, vestito
da scolaro, con grembiulino e libro in mano, dalla scalinata in cui siede il
pubblico lo chiama, sollecitandolo con determinazione a seguirlo. In un
gioco di ruoli invertiti, non è, cioè, Lucignolo a tentarlo verso la strada della
perdizione, quanto il bambino diligente che lo richiama all’ordine.
Punzo schiude un’altra porta alle sue spalle, dove una sorta di Elvis vestito
d’azzurro lo sprona, similmente, ad abbandonare i pensieri e a godersi la
vita con leggerezza: una sdraio al sole, una birra, la gazzetta dello sport...
mentre legge e schernisce uno stralcio significativo del Libro delle
Inquietudini di Soares – Pessoa: «Sento più mie certe figure scritte nei libri,
certe immagini conosciute sulle illustrazioni, di molte persone che si dicono
reali». Questa citazione apre una prospettiva di senso che accresce l’asse
semantico che si è, finora, andato definendo: il paese dei balocchi,
originariamente nominato dal ciuco e corrispondente al «luogo
dell’indefinito» citato da Pinocchio, 32 si opponeva prima alla stanza
dell’infanzia, come ora a questa cultura culinaria che penetra dalla finestra
e da quest’ultima porta, simile all’anta di un armadio ma incastonata, come
un boccascena, da un siparietto rosso.
Nel momento in cui Punzo entra, attratto dal cantante e da una corte di
scolari e altri personaggi anonimi, il pianto ragliante del ciuchino
Lucignolo accresce il pathos drammatico, per stemperarsi al suo ritorno,
quando i due si abbracciano e Pinocchio-Punzo si volge all’amico Volpe,
che con dolcezza recita Rabelais. Riprende in mano un ‘libro del sapere’ che
lo accompagna in questo, come in altri suoi spettacoli, da cui legge stralci
dall’Artaud di Pour en finir avec le jugement de Dieu e di Succubi e Supplizi,
giustapponendo ancora sonorità vocali estreme che lottano dentro il suo
corpo, dall’abito quotidiano e dal volto segnato dal naso pinocchiesco. Se
dalla bocca di Bene, nelle vesti di Pinocchio, uscivano le voci degli altri
personaggi del romanzo, quella di Punzo ospita, perciò, presenze che
derivano dalle sue letture e dai suoi personali ‘compagni’ di strada:
attraverso una phoné che si divarica a lasciare spazio a diverse maschere
vocali, i molteplici sé dell’artista entrano, così, sul palco, prescindendo
dalla storia del burattino collodiano.
La costruzione drammaturgica del Pinocchio della ragione di Punzo non
esplora, dunque, solo la dimensione del tempo, sostituendo la cronologia
Questa parte del testo, enunciata nello spettacolo, è trascritta in Armando Punzo, È ai vinti
che va il suo amore, cit., p. 171.
32 Ivi, p. 186.
31
78
Rossella Mazzaglia, Metamorfosi di Pinocchio nella nuova scena italiana
coatta che dall’infanzia porta alla morte con un funerale anticipato e
liberatore. Insiste anche sulla spazialità, attraverso la dialettica del dentro e
del fuori: incastonata dentro le geometrie di porte e finestre, la realtà
rispecchia l’inquadramento di linee rette che impediscono il caos della
spiaggia, dove le orme del girovago si perdono e in cui, in ultimo, riposano
casse di libri, un’armatura e legni, come rottami arenati dopo una tempesta.
Guardando la cucina, si pensa perciò anche alla Tabaccheria che l’eteronimo
pessoano Álvaro de Campos scriveva nel 1928. Lì, la finestra schiudeva agli
occhi del poeta, confinato nella sua stanza, un’umanità concreta che ne
accresceva il senso di solitudine, esasperandone la disillusione nichilista.
Contro quest’umanità vacua, da naufrago, Pinocchio invece resiste e con
l’affannato scontro delle sue voci interiori anticipa l’ingresso di nuovi
fantasmi; ansima ed esibisce una prova estrema che richiama anche il
magistero di Grotowski, da cui Punzo peraltro proviene, mostrando l’attore
come vittima sacrificale (evocazione e ricordo de Il principe costante
impersonato da Ryszard Cieslak nel 1965).
Un corteo di uomini senza volto entra in scena portando casse di libri,
mentre egli chiama Pasolini, Kafka, Rabelais, Volpe, Gatto, Lucignolo:
«amici amici amici». Indossato un elmo, parte quindi con Lucignolo in
cerca dei mulini a vento. Restano d’ora in poi, fin quasi alla fine, le parole
di sottofondo di Don Chisciotte, recitate da un altro attore che non
vediamo, con un espediente che, specularmente, ricorda la voce fuori
campo dell’inizio. Entrano, con gran frastuono, marinai in lotta contro una
tempesta di shakespeariana memoria, un angelo e persino la Madonna
addolorata, ma Punzo chiede a tutti il silenzio, per sentire ancora, nel
sottofondo, quella voce che non si ferma, che non si arrende. Rimasto solo,
sulle note del Chiaro di luna di Beethoven, indossa i panni di un fantoccio
dal colletto rosso, con una maschera e dei pantaloni colorati che lo
trasfigurano in un corpo «ir-reale», né umano, né burattino, aspirazione
infine di un tempo che non sia più ordinario.33
Come la conclusione rivela, il percorso del regista dentro la storia di
Pinocchio è un percorso verso lo straniamento, a partire da un’ipotetica,
mai realmente compiuta, identificazione con il personaggio letterario, che
cerca ripetutamente di uscire dalla propria storia. Ritornando indietro,
Pinocchio incontra i suoi compagni di strada, che sono, però, spogliati dei
tratti del racconto e delle soggettività che li rendevano personaggi e, in
quanto maschere atemporali, abitano ora il mondo immaginario del teatro:
Gatto, Volpe, Lucignolo compaiono accanto ai fantasmi evocati dalla
parola, da Artaud a Rimbaud al Don Chisciotte, in cui Pinocchio pare per
breve tempo riconoscersi, per partire, come se fosse ora il cavaliere errante
di Cervantes, all’avventura con l’amico Lucignolo. Calato nella sua finta
metamorfosi che lo trasforma in altro, abbandona così al suolo il suo
33
Ivi, p. 183.
79
AAR Anno VI, numero 12 – Novembre 2016
cadavere-doppio dalle sembianze umane, reali e fin troppo terrene, dando
corpo a un senso residuale dell’umano, cui è ipotizzabile che anche Collodi
possa aver pensato nel creare il proprio burattino. Ricorda, infatti, Paolo
Fabbri che «chi fosse andato all’epoca di Collodi alla chiesa
dell’Annunziata, avrebbe visto appesi al soffitto centinaia di fantocci di
cera, ex voto donati alla chiesa da chi lasciava la città: ci si faceva
riprodurre interamente, si donava il fantoccio e la chiesa lo attaccava al
soffitto a ricordo del donatore».34
Il regista crea un rapporto empatico, perciò, con i personaggi di cui
estrapola pochi tratti caratterizzanti, solo quando serve e solo per il tempo
necessario alla propria visione, siano essi evocati con la parola o citati
attraverso segnalatori iconici, come il costume. Di fatto, però, l’intreccio dei
livelli referenziali conferma ed enfatizza «l’esistenza fittiva dei personaggi»
e «la forza della finzione», 35 nel momento stesso in cui si contraddice
l’incarnazione del personaggio e la fusione del suo corpo con quello
dell’attore.
L’identità restaurata
Delle versioni che qui consideriamo la più lineare è senz’altro quella di
Baliani per i ragazzi di strada di Nairobi, i cosiddetti chokora, che in kiswairi
significa spazzatura. Scrive Baliani di quest’esperienza:
abbiamo finito per interpretare la trasformazione finale del burattino in
bambino come uno scotto da pagare alla morale. In fondo oggi ci dispiace che
Pinocchio diventi un ragazzo in carne e ossa, come se così perdessimo con lui
l’istinto alla ribellione e alla fuga.
Ma qui a Nairobi non è così. Per questi ragazzi di strada poter diventare
normali è una conquista sociale, un salto di qualità nella loro esistenza.36
Paolo Fabbri, Dal burattino al cyborg. Varianti, variazioni, varietà, in Le avventure di Pinocchio.
Tra un linguaggio e l’altro, a cura di Isabella Pezzini, Paolo Fabbri, Roma, Meltemi, 2002, p.
278.
35 Cfr. Jean-Pierre Ryngaert, Julie Sermon, Le personnage théâtrale contemporain. Décomposition,
recomposition, Montreuil, Édition Theatrales, 2006, p. 86.
36 Marco Baliani, Pinocchio nero. Diario di un viaggio teatrale, Milano, Rizzoli, 2005, p. 151. Per
una ricostruzione dell’esperienza, si veda anche Storia del Pinocchio Nero. Percorsi e riflessioni
per la classe, a cura di Giulio Cederna, John Muiruri, Giunti Progetti Educativi e il DVD dello
spettacolo che lo correda. Si segnala anche il documentario sul lavoro preparatorio del
Pinocchio Nero e sulla sua rappresentazione a Nairobi, non in commercio e utilizzato a scopo
didattico da Amref Health Africa, da cui mi è stato gentilmente fornito a scopo didattico e di
studio. Le tecniche di narrazione e il passato nell’animazione di Baliani riaffiorano in forme
diverse nel lavoro con i ragazzi, incentivati a costruire una fiducia nell’azione del gruppo,
qui descritta in relazione al racconto collodiano. Per il percorso dell’attore e regista, cfr. in
particolare, Silvia Bottiroli, Marco Baliani, Zona, Pieve al Toppo, Civitella in Val di Chiana,
2005; Fabrizio Fiaschini, Alessandra Ghiglione, Marco Baliani. Racconti a teatro, Firenze,
Loggia dè Lanzi, 1998; La bottega dei narratori, a cura di Gerardo Guccini, Roma, Dino
Audino, 2005.
34
80
Rossella Mazzaglia, Metamorfosi di Pinocchio nella nuova scena italiana
Nel riferimento al racconto, Baliani costruisce un Pinocchio parallelo, che
solo a tratti (per analogia, associazione mentale e per imitazione, pensando
alla legnosità della marionetta) incrocia quello di Collodi. Tra gli indizi che
tra l’uno e l’altra è possibile rinvenire, in questo caso, molti sono comunque
quelli di tipo analogico. La fame di Pinocchio è la fame del ragazzo di
strada, scappato di casa, anch’egli orfano di madre e senza padre, e perciò
costretto a difendersi da solo contro il pericolo sempre incombente della
Morte. La creazione dello spettacolo non è, d’altro canto, il motore del
lavoro: la realizzazione del Pinocchio Nero è inscindibile dall’azione di
recupero sociale di Amref, da cui nasce l’iniziativa teatrale.37
Prima e dopo, gli effetti di quest’esperienza si misurano sulla possibilità
degli attori di farsi, a loro volta, agenti sociali per la comunità di
appartenenza attraverso un processo di autonomizzazione da Baliani e
dalla sua équipe, per quanto non dagli operatori che continuano ad agire
nel territorio. Anche Le avventure di Pinocchio, racconto ignoto ai giovani di
Nairobi, viene introdotto in un secondo momento, dopo che alcuni
laboratori sono già avvenuti e sempre in stretta interconnessione con
l’ambiente, com’è del resto tipico del teatro sociale.
«Smagriti dentro giacche e cappotti slargati», «ricoperti d’unto da testa a
piedi», e ormai perfettamente «mimetizzati con il non colore della strada», i
chokora non hanno corpo, «non sono persone, sono cose»,38 cui pertanto
manca un’identità. Il passaggio da Pinocchio (e, perciò, da un personaggio
che possa anche consentire, attraverso l’altro, di parlare di sé) è lo
strumento di un duplice percorso: a ritroso, nella memoria respinta della
propria esistenza, e in avanti nelle tecniche e nelle esperienze collettive di
teatro, per acquisire strumenti fisici che liberino le potenzialità espressive
trattenute nel corpo. A tal fine, l’allenamento fisico e dell’immaginazione
(dote dell’infanzia qui negata e da attivare) e il ‘restauro’ della biografia
individuale compartecipano alla costruzione del personaggio. La sua
funzione cambia, invece, man mano: Pinocchio è prima la maschera vuota
che consente di narrarsi nascondendosi, poi lo strumento di emancipazione
personale e di trasfigurazione teatrale.
Se l’esperienza artistica attinge, senz’altro, dalla realtà concreta dei ragazzi
(che improvvisano, integrano piccole scene, scelgono in linea di massima i
loro personaggi, portano incise sui corpi le cicatrici delle loro sventure
Lo spettacolo Pinocchio Nero è prodotto da Amref Italia per la regia e su un progetto di
Marco Baliani. Debutta a Nairobi il 21 agosto 2004 al Bomas Theatre di Nairobi. Seguono tre
repliche nei giorni successivi: al capannone Go-down di Nairobi, per un pubblico più
selezionato; nel campo di calcio accanto al centro di accoglienza di Amref e, su un prato,
all’interno della cittadella dell’ONU, per impiegati, funzionari e personalità politiche. È
presentato in Italia il 2 e 3 settembre 2004 al Globe Theatre di Villa Borghese a Roma e, 8 e 9
settembre, a Palermo, nella Chiesa di Santa Maria dello Spasimo. Toccherà in seguito altre
tappe nel corso di una tournée italiana del 2005.
38 Marco Baliani, Pinocchio nero, cit., p. 21.
37
81
AAR Anno VI, numero 12 – Novembre 2016
come Pinocchio il naso sul volto), il loro essere in scena non comporta,
però, un’immissione senza veli della realtà. Al contrario, trasporta anche la
loro vita su una dimensione simbolica e narrativa: la presenza dei corpi è
risemantizzata, mostrando la loro trasformazione dalla catasta di legni
poveri, figurati dai corpi irrigiditi e contratti dell’inizio, in persone.
Lo spettacolo si sviluppa secondo un’alternanza di scene che seguono i
capitoli collodiani, reinterpretandoli e dando a termini come fame, freddo,
paura e morte un significato riconoscibile per gli attori che li interpretano.
Dapprincipio, un giovane narratore canta, rivolgendosi al pubblico, cui
chiede di non essere più chiamato chokora. Segue la ‘scena della catasta’,
nata dall’immagine dei ciocchi da ardere osservati da Baliani accanto a un
piccolo mercato di Nairobi:
Nella discarica i ragazzi sono ancora pezzi di legno, poi si svegliano ma
restano pupazzi, sono ancora cose, anche Pinocchio è una cosa che parla e
sente ma che può crescere, nemmeno può morire. I nostri ragazzi sono tanti
Pinocchi in attesa di diventare qualcos’altro. Finché resti di legno, di te
possono fare quello che vogliono, possono usarti anche per accendere un
fuoco. Forse sta in questo il segreto del fascino suscitato in loro dalla storia di
Pinocchio, forse avevano subito sentito che Pinocchio era uno di loro.39
Dopo il prologo, tutti gli attori, accorsi intanto sulla scena, oscillano
irrigiditi, cadono a terra, sono manipolati dal narratore, che, tra di loro,
identifica Geppetto, subito dopo lasciato solo a costruire il burattino: di
spalle, nasconde la sostituzione del legno che reggeva in mano con un
bambino, attraverso una delle trovate teatrali che, a più riprese durante lo
spettacolo, trasformano la povertà dei mezzi in ricchezza immaginativa.
Allo stesso modo, l’impiccagione alla Quercia Grande di Pinocchio
prenderà la forma di ombre nere, costruite dai corpi degli altri attori
mascherati (gli assassini), e il carretto che conduce al paese dei balocchi
sarà composto da ragazzi che agiscono all’unisono, mentre il pesce tonnobalena verrà raccontato a voce dal coro, usando la parola per evocare ciò
che non può essere rappresentato, com’è tipico del teatro di narrazione.
Quando Pinocchio, ingrato al padre che l’ha costruito e che gli ha insegnato
a muovere i primi passi, scappa, tornano ancora in massa i ragazzi,
muovendosi e correndo come il burattino e, perciò, moltiplicandone la
figura: il coro funge quindi da cassa di risonanza e rafforza il senso delle
singole scene; si tramuta in scenografia vivente e interagisce con gli
interpreti. È, inoltre, il dato visibile di un laboratorio fatto di esercizi,
improvvisazioni, allenamenti che non hanno solo affinato tecniche di
movimento, ma che hanno insegnato ai ragazzi a relazionarsi tra di loro in
39 Marco Baliani, citato in Storia del Pinocchio Nero. Percorsi e riflessioni per la classe, a cura di
Giulio Cederna, John Muiruri, cit., p. 9.
82
Rossella Mazzaglia, Metamorfosi di Pinocchio nella nuova scena italiana
maniera non competitiva. Anche Pinocchio non è identificato con un unico
attore, ma è impersonato indistintamente da tre interpreti.
L’esibizione dei personaggi non è, comunque, naturalistica. D’altro canto,
lo stesso Baliani, in una conversazione con Simone Soriani sul teatro di
narrazione, ha giudicato ‘finito’ il mondo della verosimiglianza, ormai
soppiantato dall’iperrealismo di cinema e televisione, rimarcando
l’esigenza del teatro contemporaneo di liberarsi «da tutte le pastoie del
naturalismo e della verosimiglianza per lavorare su una dimensione più
simbolica, metaforica, senza tuttavia perdere l’insegnamento di
Stanislavskij sul rapporto tra attore e personaggio…».40 Anche in Pinocchio
Nero, i personaggi perciò esistono, per quanto «interpretati da persone, da
attori che in qualsiasi momento possono uscire dalla finzione»,41 usando
danza, canto, parola e musica.
Durante lo spettacolo, come anticipato, la fame e il freddo sono riportati
nella realtà di Nairobi, senza interrompere la linearità del racconto. Il
bisogno di calore, che Collodi collocava nella povera dimora di Geppetto, è
rappresentato in strada, dove alcuni ragazzi invitano Pinocchio a unirsi a
loro, bruciandogli i piedi per scaldarsi. La quarta scena (dopo la catasta, la
nascita e la fuga in strada) ritorna, invece, al tema del teatro con il
personaggio di Mangiafuoco, che altera la fisicità dell’attore, coperto da
lunga barba e ingigantito dall’uso dei trampoli. Egli introduce la funzione
del teatro, quale spazio di una finzione in grado di svelare delle verità
invisibili: «Ricordati – dice Mangiafuoco a Pinocchio – che c’è sempre
qualcosa di buono in chi ti sembra cattivo». Scompaiono, invece, il gatto e
la volpe. Gli assassini sono, piuttosto, anonime presenze notturne. Così
sono concepiti nelle improvvisazioni dei ragazzi e, così, compaiono in
scena: vestiti di nero e senza volto, mentre cingono Pinocchio alle spalle
con un drappo, impiccandolo. La fata che giunge a salvarlo, immaginata
come lo spirito che alberga nelle cose del mondo, non fa magie (a parte
parlare con gli animali) e non regala nulla: ha senz’altro una funzione
moralizzatrice, da mentore, ma nel parlare al burattino, ricorda anche che
solo da lui dipende la trasformazione che dice di desiderare.
Come i personaggi, così anche alcuni frammenti del romanzo collodiano
sono omessi. Restano, comunque, i passaggi principali in vista della
metamorfosi finale: convinto da Lucignolo a montare sul carro che va al
paese dei balocchi, Pinocchio si ritrova a godersi la felicità fugace di un
Marco Baliani, colloquio riportato in Simone Soriani, Sulla scena del racconto, Zona, Pieve al
Toppo, Civitella in Val di Chiana, 2009, p. 148. Quest’approccio non è, probabilmente,
menzionato a caso da Baliani, in quanto fa parte della sua formazione. Negli anni Ottanta,
Baliani segue come uditore un corso tenuto a Roma da Dominique De Fazio dell’Actors
Studio e inizia, contestualmente, a studiare l’interiorità del personaggio e la sua espressione
attraverso l’azione fisica, che coniuga ad un approccio esterno al personaggio, a partire dalla
maschera e dall’espressività del volto (Silvia Bottiroli, Marco Baliani, cit., p. 40).
41 Ivi, p. 150.
40
83
AAR Anno VI, numero 12 – Novembre 2016
miraggio. L’omino dalla voce ridente e carezzevole incita il gruppo a
esprimere i propri desideri. Piovono le proposte: «una piscina grande come
tutta Nairobi!», «andare al cinema da mattina a sera!», «vedere il Blues!»,
«birra!», «polli da mangiare!», «giocare a pallone tutto il giorno, con le
scarpe, però!», perché le scarpe sono anche il bene più prezioso che un
ragazzo di strada può avere, per cui vale la pena rubare e, talvolta,
rischiare di morire. Scarpe, dunque, e da calcio, uguali per tutti, nere con
strisce gialle: gli attori le indossano e, in sincrono, palleggiano a ritmo con
palle immaginarie, ma d’improvviso, a uno slancio corrisponde
l’irrigidimento. Bloccati, iniziano a ragliare come ciuchini.
Segue la storia così come nel romanzo: quando è gettato in mare, vediamo
Pinocchio nuotare (sorretto di nascosto dai compagni) su un grande telo
azzurro; poi il tonno-balena e il ritrovamento di Geppetto, ma è alla fine,
verso cui la narrazione avanza ormai con chiarezza, che si rivela il senso
del percorso. La scena conclusiva, come il prologo cui è specularmente
connessa, è estranea al racconto collodiano e mostra, appunto, le persone
(ancor prima che gli attori), fuori dai personaggi: nelle immagini finali
dello spettacolo un bambino solleva un passaporto, dichiarando il proprio
nome. E così fanno anche gli altri ragazzi. L’identificazione con il
personaggio non coincide perciò, sul piano simbolico, con la mortificazione
della persona (da cui parte e cui ritorna), ma è semmai uno strumento
artistico per il suo recupero sociale. Il vissuto individuale, percepito prima
come estraneo, è nel processo creativo riconquistato come tempo personale
del proprio passato e può, pertanto e infine, trasformarsi anch’esso in
racconto.
Il kairos
Inghiottiti, invece, dentro un punto isolato della loro storia sono gli attorinon attori del Pinocchio di Babilonia Teatri: nell’attimo della ferita si
condensa, per loro, il segreto rappresentativo della realtà presente.42
Quando Babilonia Teatri decide di confrontarsi con una suggestione
letteraria, rinunciando in parte all’autonomia della propria lingua teatrale,
l’attenzione primaria della compagnia ricade, del resto, sulla persona e solo
secondariamente sulla società. 43 Quest’interesse non è, inoltre,
esclusivamente tematico e si manifesta, anzi, nel rapporto con gli individui
che salgono in scena e nel processo creativo. I registi di Babilonia Teatri non
fanno teatro sociale: senza disconoscere le esigenze iniziali della
committenza, le contengono entro le possibilità di un prodotto di cui
42 Sulla polisemia del tempo teatrale e sulle sue forme di rappresentazione si veda anche
Paola D. Giovanelli, Interpretare il tempo, in Il tempo a teatro: attori, drammaturghi, eventi dal
Settecento all’età della regia, Bologna, Clueb, 2007, pp. VII-XXXV.
43 Cfr. Stefano Casi, Per un teatro pop. La lingua di Babilonia Teatri, Corazzano (PI), Titivillus,
2013, p. 147.
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Rossella Mazzaglia, Metamorfosi di Pinocchio nella nuova scena italiana
privilegiano l’espressione estetica. Le scelte della compagnia portano,
pertanto, ad uno scollamento tra laboratorio e contesto che annulla la
dimensione comunitaria caratteristica delle altre produzioni degli Amici di
Luca a favore di quella artistica, senza rinunciare, però, ad una tensione
etica e a un’attenzione al significato simbolico di quest’esperienza per gli
attori protagonisti.
In altri termini, i Babilonia non lavorano semplicemente per gli Amici di
Luca, bensì riconfermano la loro identità nell’incontro e nel dialogo aperto
con la compagnia e con la realtà esistente, in cui da anni si pratica teatro in
maniera continuativa con finalità terapeutiche, sociali e comunitarie, a
partire dal vissuto delle persone coinvolte.44 Anche se Valeria Raimondi ed
Enrico Castellani rifiutano qualsiasi etichetta, possiamo perciò interpretare
quest’esperienza nel quadro del «teatro delle persone», riprendendo la
definizione che Cristina Valenti applica alle forme teatrali che dagli anni
Novanta hanno dato regolarmente spazio alle alterità «non come oggetto di
indagine ma come soggetto di una ricerca sui linguaggi che ha messo al
centro le persone e le loro diversità».45
Accompagnati durante le prove e per il primo anno di repliche dallo
psicologo Stefano Masotti, Raimondi e Castellani definiscono un calendario
di lavoro compatibile con la finalizzazione spettacolare e che riporta la
straordinarietà della collaborazione entro una quotidianità di lavoro
adeguata alle loro possibilità creative e produttive. Vengono svolti 5
laboratori: il primo alla Casa dei Risvegli, tra gennaio e maggio 2012, con
I riferimenti più completi e aggiornati sulla pratica teatrale de Gli amici di Luca sono Dal
coma alla comunità. La Casa dei Risvegli Luca de Nigris, a cura di Roberto Piperno, Fulvio De
Nigris, Milano, Franco Angeli, 2014, e Il teatro dei Risvegli. Pratica creativa, cura e partecipazione
sociale delle persone con esiti di coma, a cura di Cristina Valenti, Fulvio De Nigris, Bologna,
Alberto Perdisa Editore, 2014. Altre fonti potrebbero essere citate sul rapporto tra arte e
salute, aprendo la riflessione alle potenzialità trasformative dell’arte sul contesto sociale e
relazionale degli interpreti e alle forme di empowerment implicate, ma non è questo lo scopo
del presente saggio, né chi scrive ha l’ambizione di conciliare punti di vista che, a seconda
degli obiettivi, portano inevitabilmente a conclusioni differenti. Si analizza, piuttosto, in
questo caso, la particolarità del processo drammaturgico di Babilonia Teatri con
un’attenzione precipua alla relazione personaggio-persona, consapevoli sia del valore
estetico dello spettacolo, sia dell’azione diffusa di sensibilizzazione consentita dalla sua
circuitazione e notorietà.
45 Cristina Valenti, Normalmente stranieri, in Il teatro dei risvegli, «Prove di drammaturgia.
Rivista di inchieste teatrali», anno XIV, numero 2, dicembre 2008, p. 2. Al proposito, si veda
anche Cristina Valenti, Arte ed emozione dal sociale, intervento al convegno Teatri solidali. Arte
e promozione dal sociale, Bologna, 17 aprile 2012, pubblicato online il 30 maggio 2012, su
a.teatro.org e reperibile all’indirizzo http://www.ateatro.it/webzine/2012/05/30/arte-edemozione-dal-sociale-il-teatro-per-l%C2%92educazione-e-l%C2%92inclusione/. Centrale, in
questo intervento, è il riconoscimento di un rinnovamento dell’arte dell’attore, indotto dalla
condizione professionale degli ‘attori-non attori’, che, lavorando con continuità, hanno
potuto sviluppare degli strumenti tali da coniugare la loro «presenza scenica priva di
artificio con una competenza tecnica in grado di manifestare inediti risultati espressivi»
(Cristina Valenti, Arte ed emozione dal sociale, cit.).
44
85
AAR Anno VI, numero 12 – Novembre 2016
tutta la compagnia teatrale de Gli Amici di Luca, che comprende una
ventina di persone, divise tra operatori, volontari e ragazzi con esiti di
coma. Si tratta di un lavoro preliminare di conoscenza reciproca, in cui
manca ancora una traccia drammaturgica legata a Pinocchio. Seguono
quattro residenze estive, delle prove aperte e un primo studio, cui
partecipano coloro che possono tenere fede all’impegno del laboratorio e
delle prove, dislocato nei mesi in altri luoghi e città: sono Paolo Facchini,
Luigi Ferrarini e Riccardo Sielli, ovvero i tre interpreti dello spettacolo,
presentato in anteprima il 7 ottobre 2012 alla Casa dei Risvegli di Bologna,
in occasione della Giornata nazionale dei Risvegli per la ricerca sul coma.46
All’ingresso del pubblico, il sipario è aperto su una scena abitata da pochi
oggetti (qualche giocattolo, delle corde, tre sedie) e un uomo obeso, il
tecnico della compagnia, Luca Scotton, seduto ad osservare la sala in
calzoncini, a torso nudo e con un naso tipo Pinocchio. Sulla canzone Lettera
a Pinocchio di Johnny Dorelli, entrano quindi dal fondo i tre protagonisti,
anche loro seminudi, che lentamente salgono sul palco, ponendosi in piedi
dinanzi al pubblico: sono gli interlocutori di un’intervista condotta dal
moderatore (Enrico Castellani) sui loro desideri e la loro storia, attraverso
continui rimandi al Pinocchio collodiano. Castellani ricorda la nascita di
Pinocchio per mano di Geppetto e dà poi la parola ai tre attori, identificati
con i loro nomi veri. Apprendiamo, così, di avere dinanzi tre pensionati per
disabilità, con pregresse esperienze di coma dovute ad incidenti stradali.
Guidato verbalmente dal moderatore, l’interprete al centro, Luigi Ferrarini
(che, unico, porta addosso un’imbragatura), viene agito dai compagni come
fosse una marionetta senza fili; poi, Luca Scotton, sceso intanto in sala, gli
mostra degli esercizi ch’egli imita, accompagnato dalla voce degli altri
attori, che elencano i personaggi della fiaba. Nella scena successiva,
Castellani li invita a parlare della loro Fata turchina. Quando sembrano
divagare, li ammonisce a rispettare il copione, mentre i tre descrivono la
loro donna ideale e, a seconda delle sollecitazioni del regista, mimano le
situazioni di cui parlano. Così, il più giovane, Riccardo Sielli, sale a cavallo
di una sedia come fosse una moto ma, quando sembra prendere una buca,
è soccorso dagli altri (che avevano, intanto, mimato dei musicisti sul
sottofondo sonoro di Patience dei Guns N’Roses). Con Facchini, giunto alla
guida di un trattore, si accende una lite, mentre, nei panni di una vecchina,
Ferrarini lo salva da buona ‘fata turchina’.
46 L’iter di realizzazione dello spettacolo è descritto nella tesi di laurea magistrale di
Veronica Saetti, Pinocchio. I Babilonia Teatri incontrano Gli Amici di Luca, c.d.l. in Lingue per la
promozione di attività culturali, Università degli Studi Modena e Reggio Emilia, a.a.
2011/2012, consultata per gentile concessione dell’autrice e della compagnia. Lo spettacolo,
di cui un primo studio è esibito ad Operaestate Festival Veneto, Bassano del Grappa
(Vicenza), Teatro Remondini, 30 agosto 2012, dopo la presentazione in anteprima alla Casa
dei Risvegli, il 7 ottobre 2012, debutta a Modena al Teatro Storchi l’ 8 dicembre 2012.
86
Rossella Mazzaglia, Metamorfosi di Pinocchio nella nuova scena italiana
Lo sketch successivo riguarda il paese dei balocchi: ora Facchini ricorda le
serate passate in discoteca, prima di entrare in coma, quando tutti lo
chiamavano Champagne. Balla su Le Freak degli Chic, ma pian piano si
butta a carponi trasformandosi in asino. Mentre è ancora a terra, il tecnico
avvicina tre sedie al proscenio: i tre si siedono e sfogliano dei cartelli di
cartone con la traduzione di Yesterday dei Beatles. A seguire, ognuno legge
un foglio, che sembra scritto di mano propria e che racconta esperienza e
uscita dal coma, fino al recupero parziale delle capacità fisiche.47 Le loro
parole mostrano la consapevolezza della trasformazione per sé e anche agli
occhi degli altri: «io non sono un pezzo di legno!» grida, infatti, Ferrarini
nel corso della sua lettura. A ciascuno è dato un gioco, come un camioncino
o un orsacchiotto, che gli attori muovono sulle note di Vita Spericolata di
Vasco Rossi. Quando termina la canzone, agendo ancora da servo di scena,
Luca Scotton attacca una corda all’imbragatura di Ferrarini, che viene
sollevato in aria. Tornato giù, si accascia sulla sedia, come gli altri, guidati
sempre verbalmente da Castellani, che, in ultimo, chiama il buio.
È nelle premesse stesse dello spettacolo escludere l’immedesimazione dei
tre attori col personaggio di Pinocchio. La strada che i Babilonia indicano
per consentire al pubblico di vedere oltre l’involucro (sociale e fisico) che
imprigiona la vita degli interpreti è, paradossalmente, quella che in
maniera più immediata rinvia al quotidiano, attraverso l’ostensione del
corpo seminudo dei ‘ragazzi’. Con passo incerto, claudicante e lento gli
attori percorrono dal fondo il corridoio che separa la fila di poltrone della
sala, camminando accanto al pubblico, prima di salire sul palco: da questi
tre corpi parte il viaggio del teatro, che è condotto assieme agli spettatori e
a vista di tutti, ed è un viaggio che va da fuori verso i molti e compromessi
dentro della loro realtà.
Consapevolmente, i Babilonia si misurano pertanto su un alto livello di
metateatralità dal punto di vista drammaturgico e metaforico. L’assenza di
finzione narrativa non schiaccia, infatti, la poesia del teatro che, senza
nominarla, lascia trasparire la prigione del corpo da cui anche l’attore del
Novecento ha lungamente cercato di uscire. 48 Le vie del teatro
professionale e di ricerca per consentire all’attore di mostrarsi attraverso il
corpo, che spesso hanno inneggiato a un training psico-fisico in grado di
liberare l’attore dagli automatismi personali, non sono, però, fino in fondo
perseguibili con attori con evidenti disabilità.
47 In realtà, i testi sono stati redatti dai due registi, tenendo conto, però, dei racconti degli
attori (come si evince dall’intervento di Valeria Raimondi alla tavola rotonda coordinata da
Cristina Valenti, La lingua di Babilonia Teatri, 5 marzo 2015, XXVII rassegna La Soffitta 2015,
Bologna).
48 Rispetto al parallelismo con i maestri del Novecento, cfr. Franco Ruffini, La libertà
dell’attore. Il carcere in senso metaforico: la prigione della parte e quella del corpo, «Cercare»,
supplemento al n. 68/69 di «Catarsi-Teatri delle diversità», 1 maggio 2015.
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AAR Anno VI, numero 12 – Novembre 2016
Ad una trasparenza che non coincide con un’autenticità appiattita
sull’apparenza, schiava cioè di uno sguardo che non sa andare oltre la
spontaneità di gesti solo parzialmente controllati, i registi dei Babilonia
Teatri arrivano, piuttosto, attraverso una costruzione drammaturgica in
tempo reale (nonostante, dunque, l’evidenza iniziale dei corpi, cui pian
piano l’occhio si abitua). Nello spettacolo, attraverso il formato
dell’intervista, Castellani espone e sviluppa una drammaturgia in diretta,
creando cesure che corrompono il senso di continuità della narrazione e
virano la percezione del tempo verso il presente della performance. Come
ben evidenziato da Stefano Casi nel volume Per un teatro pop, lo spettacolo
non amplifica così solo una parte di realtà, bensì rimette in discussione la
capacità di gestire il proprio rapporto con quella parte di realtà, e si rende
autentico nell’esibizione della relazione che i registi instaurano con gli
attori, svelando al pubblico il farsi della finzione. Le funzioni di ciascuno
sono del resto chiare, strettamente teatrali (regista-moderatore e attori) e
riconducibili anche a formati di una popolare cultura mediatica. 49 Nel
complesso, però, questo teatro non serve a riflettere sul medium in sé, che è
invece tramite verso la realtà, mezzo per sperimentare dinamiche di
relazione tra esseri umani diversi (in cui la diversità è data dal punto di
vista, dal contesto e dal ruolo).
Se elemento di riconoscimento del personaggio tradizionale è innanzitutto
il nome proprio, ora la voce fuori campo si rivolge, come dicevamo,
espressamente a Facchini, Ferrarini e Sielli, cognomi reali degli attori in
scena, che agiscono su precise sollecitazioni di Castellani, mentre egli
suggerisce analogie con la storia di Pinocchio e li manovra, verbalmente,
come fossero marionette. L’identità artistica coincide, in altri termini, con il
dato biografico. Inoltre, al procedere dello spettacolo, l’affioramento dei
tratti caratteriali li rende riconoscibili oltre la comune condizione,
palesando l’ambiguità esistente tra la persona e la «maschera fisica e
sociale» che la ricopre, oltre alla labilità del confine che le distingue.
Quando Ferrarini grida di non essere un pezzo di legno, l’impressione di
cosa voglia dire e l’urgenza che esprime sono dirette e facilmente
comprensibili. Con la sua semplice schiettezza, l’uomo rifiuta la mancanza
di integrità di Pinocchio, chiedendo che gli sia riconosciuta quella pienezza
che la storia individuale e i sentimenti rivelano, in scena, assieme alle sue
49 In merito, rinvio nuovamente al libro di Stefano Casi e a Castellani Enrico, Babilonia Teatri,
in Performing Pop, a cura di Fabio Acca, numero monografico di «Prove di drammaturgia.
Rivista di inchieste teatrali», n. 1, 2011, pp. 5-11. Nel corso di un incontro con Castellani e
Raimondi, Casi e Acca si sono inoltre intrattenuti sugli esempi di Cinico TV di Daniele Ciprì
e Franco Maresco, di cui Casi ha indicato l’adesione solo formale rispetto, per esempio, al
Pasolini dei Comizi d’amore (1965) nel confronto con il Pinocchio di Babilonia Teatri. Per il
rapporto con la realtà, si veda anche Cristina Valenti, La fabbrica della realtà, in Enrico
Castellani, Valeria Raimondi, Almanacco. I testi di Babilonia Teatri, Corazzano (PI), Titivillus,
2013, pp. 5-18.
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Rossella Mazzaglia, Metamorfosi di Pinocchio nella nuova scena italiana
imperfezioni fisiche: un’integrità, appunto, in quanto essere umano, che
contrasta con l’incompletezza sociale percepita da chi vive una condizione
presente di disabilità e la consapevolezza del proprio irrevocabile
cambiamento.
Anche il povero Pinocchio è, infatti, una creatura viva, ma
drammaticamente incompleta: non tanto la trasformazione finale del
racconto, quanto la contraddittorietà che anima il modo di essere ‘bino’ del
burattino parlante e pensante sembra porsi come il contraltare delle
similitudini suggerite da Castellani. Similmente, la complessità della
condizione dei tre interpreti in scena problematizza il tema della duplicità
di Pinocchio, richiamando alla mente il paradosso dell’attore-non attore
usato da Cristina Valenti nella descrizione di questa tipologia teatrale e per
parlare, specificamente, del Pinocchio di Babilonia Teatri.50 Gli interpreti si
mostrano, infatti, al tempo stesso come attori dall’acquisita spontaneità e
reattività (per la pratica continuativa condotta in seno a Gli Amici di Luca)
e come disabili dai ‘corpi segnati’, le cui azioni sono ricondotte alla loro
‘natura’, e non al processo di apprendimento e lavoro. Questa
contraddizione si rivela, particolarmente, in alcuni momenti dello
spettacolo, in cui il pathos drammatico dissimula scelte registiche e tecniche
attoriche precise. Avviene, per esempio, che Facchini si tramuti da
Champagne, che balla in discoteca, in un asino prostrato al suolo: spinto
dai suggerimenti di Castellani a immaginare e rendere visibili naso e coda
del somaro e la sua stessa caduta, al dissolversi dell’accompagnamento
sonoro, Facchini domina i tempi dell’azione scenica con l’enunciazione
reiterata dei suoi ‘perché’ e una smorfia che ne deforma il volto,
provocando una tensione emotiva che risalta nel silenzio e nell’immobilità
generali.
Inizialmente il sottotitolo dello spettacolo avrebbe dovuto essere il paese
dei balocchi, con riferimento a quel luogo del racconto in cui «Il giovedì
non si fa scuola, e ogni settimana è composta di sei giovedì e di una
domenica», in cui il gioco perenne ha, cioè, distrutto il tempo. Nello
spettacolo, tuttavia, il regista interroga Facchini sul suo personale paese dei
balocchi, che viene identificato con un momento preciso del vissuto
antecedente all’incidente stradale che ne ha causato il coma e la
conseguente disabilità. Nella scena immediatamente successiva, i tre attori
sfogliano i cartelli con le parole in italiano di Yesterday. Nel processo di
auto-rappresentazione, le vite di Facchini, Ferrarini e Sielli acquistano un
valore simbolico che, mentre li ricollega alla loro personale esperienza,
ricorda la condizione del malato, per cui il tempo, come discontinuità tra
prima e dopo, è una variabile condizionante tra l’identità interiore e
l’immagine pubblica di sé. Un modo di andare oltre la malattia e la
50 Il teatro dei Risvegli. Pratica creativa, cura e partecipazione sociale delle persone con esiti di coma,
a cura di Cristina Valenti, Fulvio De Nigris, cit., pp. 35-36.
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AAR Anno VI, numero 12 – Novembre 2016
disabilità (che stende un velo uniformante e annichilente sugli individui) è,
infatti, quello di risentire la voce delle persone, le loro esperienze e i loro
desideri, come avviene nella richiesta di Castellani di descrivere la propria
fata turchina, che i nostri tre attori interpretano con slittamenti continui tra
piano fisico e ideale, aggiungendo leggerezza a un messaggio che passa,
comunque, sotterraneo.51
Il paese dei balocchi, che nella finzione del racconto può permettersi
l’eternità, nella vita coincide con un periodo precisato: già passato, o non
ancora esperito, può per loro avverarsi solo come kairos, momentanea
contrazione del chronos, ovvero come frammento di un sogno estraniato
dalla continuità del vivere. Dinanzi alla materialità dei corpi si è frapposta,
cioè, un’immagine-tempo che amplifica la percezione del passaggio
d’identità pre e post-coma (tutto l’opposto della metamorfosi di Pinocchio).
A quell’immagine-tempo ricolleghiamo anche il momento dello spettacolo
in cui a ogni attore è consegnato un giocattolo, in virtù probabilmente di
un’associazione intuitiva con l’infanzia che, tuttavia, rimanda anche a
quell’oggetto che «presentifica e rende tangibile la temporalità umana in sé,
il puro scarto differenziale fra l’‘un tempo’ e l’ ‘ora non più’». 52 Senza
annullare l’apprezzabile leggerezza dello spettacolo, l’immissione di un
tempo umano, e così della storia personale, crea una frizione tra
rappresentazione e presenza, tra finzione e realtà, che i registi infine
espongono agli occhi degli spettatori senza risoluzioni concilianti.
Crescita e origine attraverso i sensi
Sieni crea Pinocchio. Leggermente diverso (2013) dopo una lunga
frequentazione della fiaba, particolarmente nel ciclo ad essa dedicato, tra il
1997 e il 2002. Tuttavia il percorso che ne precede la realizzazione non può
essere considerato di semplice continuità.
Considerando le caratteristiche specifiche di quei primi spettacoli quanto
torna nel Pinocchio con Comuniello è fondamentalmente il metodo
d’interazione con il pubblico e con i danzatori, già allora aperto al
contributo attivo degli interpreti. Il terreno di condivisione, comunque, non
è ancora legato al dato biografico, come per Pinocchio. Leggermente diverso,
bensì ancorato alle immagini e agli archetipi dei personaggi trattati.
Intorno al 1996-1997, quando il coreografo guarda alla fiaba, lo fa per
reagire all’intellettualismo che riconosce nelle coreografie del precedente
ciclo greco: esteticamente raffinate, di estrema complessità coreograficocompositiva, gli sembrano soffrire di una ‘pesantezza concettuale’ che
51 Rispetto al recupero dell’identità personale attraverso il teatro in condizioni di malattia,
tramite anche il lavoro su ruolo, parte e personaggio, si veda Alessandra Rossi Ghiglione,
Teatro e salute. La scena della cura in Piemonte, Torino, Ananke, 2011, pp. 39-43.
52 Giorgio Agamben, Il paese dei balocchi. Riflessioni sulla storia e sul gioco, in Infanzia e storia.
Distruzione dell’esperienza e origine della storia, Torino, Einaudi, 2001, p. 75.
90
Rossella Mazzaglia, Metamorfosi di Pinocchio nella nuova scena italiana
giudica schiacciante.53 Ripensa alle fiabe che la nonna gli raccontava da
bambino e, seguendo dunque un’altra tradizione orale, dopo il mito
depositatosi nei testi tragici, prova a rompere ‘la bolla impermeabile a
emozioni e sentimenti’ 54 della Trilogia del presente (1995-1996) e dei
successivi e, in qualche modo, transitori Canti Marini (1997-1998).
Luoghi, immagini, personaggi della fiaba costituiscono, infatti, la memoria
di una cultura condivisa con il pubblico e, nella fase creativa, con i
danzatori: se prima Sieni si era preoccupato di trasmettere le proprie
intenzioni coreografiche e il proprio linguaggio, ora li stimola con
suggestioni visive e immagini familiari, affinché provino, attraverso le
improvvisazioni, a definire le loro partiture fisiche in maniera personale,
seppur sotto la sua guida. In questo processo, racconta Sieni che ‘il
personaggio diviene una vera e propria icona vivificata dall’emozione’.55
Il coreografo sperimenta, innanzitutto, su di sé la creazione di un suo
Cappuccetto Rosso, di cui individua la postura, il modo di camminare, di
sedersi e muoversi e, ancora, la maniera di masticare o sorseggiare. La
fascinazione per questo personaggio non deriva, infatti, dalla trama
concepita da Charles Perrault, che, anzi, proprio in virtù della sua
notorietà, consente un allontanamento dall’intreccio e la trasformazione
della struttura narrativa ‘in una deriva di percorsi da intersecare secondo
logiche impreviste’ 56 . Tra queste, diverse sono ispirate proprio
dall’archetipo del personaggio: «Cappuccetto Rosso è allo stesso tempo il
folle, il fanciullo, il demiurgo, l’angelo, il viziato, il pauroso, il goloso,
l’intimamente basso; è un’icona mutevole che suscita sempre nuove
domande».57 Dalla storia, privata della sua trama, emerge dunque un’icona
che non ricalca un’immagine fissa e che rinvia, piuttosto, a un archetipo da
cui s’irradia un effetto di propagazione semantica che Sieni insegue, sia
attraverso associazioni tematiche e figurali, sia con la stratificazione
sincretica di rimandi culturali che svuotano il personaggio dei suoi tratti
individuali, rendendolo progressivamente più ‘anonimo’.
Oltre a Cappuccetto Rosso e al lupo, gli spettacoli della fiaba si popolano
presto di altre figure. Compaiono: Kay e Gerda da La Regina delle nevi e il
soldatino di stagno di Hans Christian Handersen, il coniglio dal romanzo
di Lewis Carroll Alice nel paese delle meraviglie, due gemelline anonime e
sinistre, e poi Pinocchio e il grillo parlante collodiani, fino a un Jolly, figura
Virgilio Sieni, Anatomia della fiaba, a cura di Andrea Nanni, Milano, Ubulibri, 2002, p. 31.
Ivi, p. 32.
55 Ivi, p. 31
56 Ivi, p. 43.
57 Ivi. Sull’impostazione di una partitura fisica legata al personaggio, particolarmente utili
sono, inoltre, gli appunti del laboratorio “Se il lupo mi darà retta” (Bologna, 1999), pubblicati
nel mio Virgilio Sieni. Archeologia di un pensiero coreografico, cit., pp. 181-186. Al rapporto tra
‘drammaturgia’ del movimento e coreografia, in merito alla costruzione del personaggio
fiabesco, è dedicato il paragrafo “Io e lui nello stesso corpo” dello stesso volume (pp. 186-198).
53
54
91
AAR Anno VI, numero 12 – Novembre 2016
metamorfica che, in ultimo, prende le sembianze di un folle Hamlet, con
mefistofeliche Meninas e malinconici clown vaganti e dispersi in Jolly
Round is Hamlet (2001), coreografia di mezzo della Trilogia del niente, che si
conclude con Il funambolo (2002) ispirato a Jean Genet.
Il percorso nei personaggi fiabeschi non prosegue, però, come potrebbe
sembrare, per accumulazione, bensì segue una storia interna: i danzatori
convivono con i loro personaggi, che progressivamente degenerano (da
uno spettacolo all’altro, in cui frammenti e immagini dei precedenti si
tramandano, alimentando ogni produzione successiva), fino, in alcuni casi,
ad estinguersi, come Cappuccetto Rosso, che scompare dopo essere stato il
motore d’avvio della ricerca. Il tempo eterno della fiaba è perciò
trasformato in un tempo esistenziale che ammette la stanchezza, la
malattia, l’afasia e la morte; contemporaneamente, la scena è invasa da
figure provenienti da un immaginario letterario e iconografico eterogeneo e
che accompagnano le presenze residuali del mondo fiabesco, ormai
profondamente segnate dalla svolta malinconica del ciclo stesso. Proprio
Pinocchio, che appare in questa seconda fase del periodo fiabesco, mostra
la deriva di un mondo fantastico infettato dal malessere esistenziale:
Viviamo nella paranoia, nella malinconia, nella solitudine, ma dall’infermità si
rinasce attraverso una metamorfosi catartica. […] La danza ha per me una
funzione terapeutica, è uno strumento per entrare nel labirinto della psiche e
per questo è importante la lentezza fino quasi all’inerzia.58
Nel 2000, un Pinocchio senza letizia appare, dunque, in Fulgor, per
diventare protagonista in Pinocchius Novus (2000) e in Babbino CaroPinocchiulus Sextet (2001). Vecchio e bisbetico, il Pinocchio di legno, per sua
natura incapace di crescere e cambiare, mostra i segni corrosivi di un
tempo che sembra averlo svuotato e tramutato in reliquia, ovvero in una
figura più vicina «al rifiuto motorio dell’ultimo Bene […] che all’irresistibile
sberleffo anni 60 del primo».59 Simile a una larva e ormai destinato a una
sterile attesa, in Babbino Caro - Pinocchiulus Sextet, Pinocchio dondola chiuso
in sé e si muove con un gesto autistico scandito da difficoltà respiratorie.
Tra i suoi avi, non c’è tanto l’allegro burattino collodiano, quanto il
Pinocchio di Manganelli, essere anch’esso parassitario che si è nutrito alla
linfa di Collodi per diventare altro e che ora abita un mondo alienante,
proiezione della sua stessa follia. Di questa rêverie slabbrata ben poco resta
nel Pinocchio di Comuniello, anche se il sincretismo del gesto, il suo
carattere iconico e l’astrazione della danza permangono, accompagnati da
nuovi elementi, similmente importanti.
58 Virgilio Sieni, citato in Gabriella Gori, Virgilio Sieni: “Ballando con Pinocchio nel cuore della
psiche umana”, «Il Corriere di Firenze», maggio 2001.
59 Franco Quadri, Ecco Pinocchio che sogna la sua storia mai vissuta, «la Repubblica», 9 maggio
2001.
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Rossella Mazzaglia, Metamorfosi di Pinocchio nella nuova scena italiana
Quando Sieni abbandona la fiaba, dopo la Trilogia del niente (2000-2002),
anche il personaggio di Pinocchio scompare. Il coreografo inizia, invece, ad
affiancare alla creazione coreografica un’importante attività pedagogica, di
trasmissione e di realizzazione di prodotti artistici con amatori, come
manifesti fotografici e rari video, che avrà una ricaduta nella creazione del
Pinocchio con Comuniello. Nel 2007, fonda l’Accademia sull’arte del gesto,
che sistematizza e amplia in maniera esponenziale l’apertura a fasce d’età e
ad abilità differenti, attraverso laboratori coreografici e performance.
All’interno delle attività dell’Accademia, nel 2009, trova spazio la
fondazione di una compagnia di non vedenti, denominata Damasco
Corner, che tra i componenti originari vede proprio Giuseppe Comuniello,
l’interprete di Pinocchio. Leggermente diverso. Pinocchio ritorna, pertanto, in
un momento in cui la poetica di Sieni è arricchita dalla progressiva
immissione della biografia individuale, impressa nei segni di corpi
‘trasparenti’, ovvero di corpi di cui tic, tensioni e imperfezioni raccontano
un vissuto che la tecnica del danzatore, di necessità, leviga. Tanto per le
capacità acquisite dal danzatore, quanto per le esperienze maturate negli
spettacoli che lo precedono, questa coreografia sembra, tuttavia,
estremamente distante dall’iniziale collaborazione che, con Dorina Meta,
aveva visto Comuniello interpretare Prima danza su ciò che ignoro (2009). Il
senso del titolo non alludeva allora, in realtà, al suo principiarsi nella
danza, quanto all’avvicinamento da parte di Sieni a un universo percettivo
diverso dal proprio, che ne interrogava il rapporto con il corpo e con lo
spazio.
Nel 2014 la relazione di trasmissione (e, implicitamente, di scambio) con
Comuniello è ormai scandita da prove che hanno attestato la crescita
dell’interprete fino al professionismo, riconosciuto con il Premio Positano
quale migliore danzatore dell’anno della scena contemporanea. Di questo
percorso di rinascita attraverso la danza Comuniello rivive le fasi in
Pinocchio. Leggermente diverso del 2013, suggerendo la scoperta delle
potenzialità di un corpo che, divenuto cieco in età adulta, ha imparato ad
affinare e allertare gli altri sensi fino a sviluppare una presenza scenica
pregnante.60 Sieni è perciò il catalizzatore, la guida e l’occhio esterno di uno
spettacolo biografico che usa Pinocchio per parlare, seppure in maniera
astratta, del percorso di Giuseppe.
Il riferimento alla fiaba è filtrato da altre fonti culturali e, soprattutto,
dall’iconografia del personaggio che, durante le prove, Sieni descrive a
Comuniello, perché rintracci dentro di sé le sensazioni necessarie a fare
60 Pinocchio. Leggermente diverso debutta al Festival Civitanova Danza, Civitanova Marche,
Teatro Annibal Caro, 20 luglio 2013, ed è prodotto dalla Compagnia Virgilio Sieni in
collaborazione con AMAT per Civitanova danza. Nelle prime versioni, Pinocchio danza su
una musica registrata, sostituita in seguito dalla presenza in scena del musicista Michele
Rabbia.
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AAR Anno VI, numero 12 – Novembre 2016
affiorare fisicamente, e visivamente, un proprio Pinocchio.61 La memoria
visiva del personaggio s’inscrive così nel corpo, stratificandosi nelle sue
pieghe, per essere riattivata attraverso l’esplorazione dei sensi; come un
pittore idealmente non copia, ma rielabora le impressioni che il mondo gli
trasmette, così il danzatore interpone la propria ricerca fisica tra
l’immagine iniziale e la figura finale.
Del racconto il coreografo segue invece le tappe, pur trasponendole in un
modo difficilmente riconducibile al testo collodiano, a partire dalla
rimozione del finto naso, a metà spettacolo, che non impedisce la
prosecuzione della danza di Comuniello e del cammino cui essa allude. Il
personaggio è ricordato anche dal disegno di un tronco con gli occhi aperti
che l’interprete traccia su un foglio in scena, come da un pezzo di legno con
un lungo naso che il danzatore porta con sé verso la fine, ma sono anche
questi indizi di una ‘scena cubica’ che non prevede, al proprio interno, né
un processo filologico e introspettivo di costruzione del personaggio, né
un’illustrazione delle caratteristiche del burattino.
All’entrata del pubblico, la scena è aperta e illuminata solo da alcune luci
puntiformi, che rivelano una zona perimetrata e pochi oggetti al suo
interno e all’esterno, mostrando un ambiente intimo, in penombra.
L’interprete lo abita dall’inizio, ma la sua posizione, che consente al
pubblico di scrutarlo, lo isola al margine del palco. Seduto a terra, con la
schiena poggiata ad una parete, è riconoscibile per il lungo naso e le
orecchie da somaro, mentre mangia un gelato. Non appena si alza,
schiaccia con una scopa un ipotetico grillo parlante. In sovrimpressione, si
legge subito dopo una frase scritta in prima persona: «Ho scoperto la danza
a 26 anni. / Ora vi racconto quello che sento. / 1. Legno e Nascita». La
metamorfosi che anticipa la storia è, cioè, associata al burattino di Collodi
attraverso segnalatori iconici, mentre la didascalia indica subito che lo
spettatore assisterà a una narrazione soggettiva di Giuseppe, relativa alla
sua rinascita, seguita alla comparsa della cecità e all’introduzione alla
danza. D’altro canto, proprio ciò che tutti conoscono di Pinocchio concede
una libertà creativa pressoché assoluta al coreografo: una volta stabilito
l’universo simbolico di riferimento attraverso qualche tratto riconoscibile,
Sieni può infatti innescare dentro questa memoria condivisa una propria
lettura o, altrimenti, l’apertura ad altri referenti, accostati per associazione e
analogia.
Raggiunti alcuni tamburelli, il danzatore vi batte e striscia ripetutamente
naso e testa; avanza e, in proscenio, si protende progressivamente con le
mani, il busto e i piedi in diverse direzioni, escogitando spirali e giri
attorno al proprio asse che si ampliano fino a fargli perdere il controllo del
centro mentre, sempre più veloce, scende a terra e rotola avanti e indietro:
61
Intervista inedita a Giuseppe Comuniello, 24 febbraio 2015.
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Rossella Mazzaglia, Metamorfosi di Pinocchio nella nuova scena italiana
Pinocchio/Giuseppe ci mostra ‘ciò che sente’, portandoci nel risveglio del
burattino che, a poco a poco, come un bimbo appena nato, scopre il proprio
corpo e il mondo intorno a sé attraverso sensi incontaminati sul piano visivo.62
Su una lavagna bianca amplificata, disegna un tronco con occhi,
sopracciglia e bocca. Quando se ne allontana, il suo passo appare legnoso e
a scatti. Di nuovo in proscenio, e vicino dunque al pubblico che può
osservarlo, ascolta i micro-impulsi del corpo, ondeggia, salta e con le mani
accostate alle orecchie cerca di sentire ciò che viene da fuori. Prova ad
andare oltre i propri limiti, chiedendo aiuto a quattro persone del pubblico
che, da lui istruite, lo trattengono mentre si inclina oltre il proprio asse,
mostrando così anche tre nastri di colore rosso, verde e rosa che pendono
dal colletto della sua semplice t-shirt arancione. Una volta condotti gli
‘assistenti’ di lato e tornato in proscenio, si toglie il naso di Pinocchio, che
depone tra sé e il pubblico. Resterà sempre lì, come memoria dell’origine e
cornice, mentre Comuniello riprenderà a cercare da solo le vie di fuga del
corpo, ancora indietreggiando, avanzando, girando e saltando con velocità
e ampiezza sempre maggiori, finché, aprendo le mani sui lati, come fossero
ali, in equilibrio su un piede, non simulerà un volo.
Secondo quadro. Una nuova didascalia recita: «2. Primi giorni».63 I quattro
assistenti, nel scomparsi frattempo con Giuseppe in fondo alla sala vuota,
ritornano trasportando una grande cassa nera. Dentro sobbalza una vita
che si mostra attraverso un braccio che regge un bastone di legno che tasta
il suolo e sbatte. Cade, e Comuniello-burattino scoperchia la cassa, braccia
ai lati: con movimenti articolari e slanci esplora impulsi contrastanti la
gravità e approfondisce la forza centrifuga del corpo, prima della sua
conversione verso il basso. Traspare una figura marionettistica, in seguito
trasformata, nuovamente, in un uccello dalle ali spiegate. Giuseppe cade
dentro la scatola da cui scalcia, mentre sul fondo un bambino deposita una
torta. Quando riemerge, il suo volto è annerito da una maschera. Lo
spettatore è così calato dentro un enigma, di cui non trova traccia nella
storia di Collodi, nonostante questa offra una macro-struttura di
riferimento, in cui prende forma il vissuto dell’artista. Come prima gli
assistenti consentivano uno smarginamento nell’oscillazione del peso che
Simona Cappellini, Il buio è uno spazio dove creare. Pinocchio secondo Virgilio Sieni, 14
dicembre 2013, www.klpteatro.it
63 Si noti come la didascalia funga, in queste scene, da voce portante e costituisca, in questa
prima parte dello spettacolo, lo «sfondo diegetico del racconto» in cui si inquadra poi il
presente della performance attoriale. Se nella scena contemporanea siamo abituati a questi
indizi, va rimarcata la loro distanza dal modello drammatico, cui fa, per esempio,
riferimento Maurizio Grande: «A teatro, l’attore (personaggio) agisce nel presente puntuale
della sua comparizione in scena, al cospetto del pubblico e degli altri attori; la sua azione
non è sorretta da alcuna voce portante, non è agganciata a un occhio testimoniale che enuncia
la situazione e il fatto in quanto eventi narrati (o ‘introdotti’ dalla voce narrante)» (Maurizio
Grande, Scena evento scrittura, cit., pp. 141-142).
62
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AAR Anno VI, numero 12 – Novembre 2016
anticipa la caduta, adesso, all’interno del baule nero, Comuniello può
scoprire le sospensioni concesse dalla dimensione orizzontale, evitando di
abbandonarsi alla gravità e, così, preservando ancora la possibilità di uscita
dai limiti del corpo e la capacità di volare.
Di nuovo in piedi, ritrova la lavagna, dove tenta di ricalcare il disegno del
tronco ad occhi aperti provando a rintracciare le linee che aveva prima
segnato: un doppio contorno – leggermente sfalsato e perciò, diverso – si
imprime sul primo. Tutt’attorno è buio. Raccolto un ciocco di legno dotato
di un lungo naso, lo porta con sé camminando; quando lo depone, esce di
scena e rientra in una posizione costretta, con gomiti e gambe incrociati in
un equilibrio instabile, che tuttavia prelude ancora a slanci e salti. Raccoglie
sul fondo un cappello a cono bianco che si pone sul capo, si raggomitola su
di sé dondolando e, aiutato da una persona del pubblico, incolla ai piedi,
con nastro adesivo, dei pezzi di legno come fossero coturni. Immagine e
gesti concernono ora la sua percezione e ricerca della verticalità: striscia a
terra, simile a un animale finché, raggiunto il proscenio, con le braccia
aperte, si alza per riprendere un nuovo equilibrio, così
sproporzionatamente condizionato dai coturni e dal cappello. Corre quindi
a piccoli passi, perimetrando lo spazio e attraversandolo, prima di
raccogliere un impermeabile di plastica rosso e una bacchetta. Tolti coturni
e cappello, recupera il suo ultimo aiutante, che ora indossa l’impermeabile;
lo prende in spalla e lo porta in giro, mentre si alternano il buio e brevi
attimi di luce. Termina, così, lo spettacolo con un atto di fiducia e la
trasmissione dell’esperienza del buio, citando anche il coinvolgimento del
pubblico che Sieni per primo aveva introdotto nell’assolo Variazioni
Goldberg del 2001 e, in seguito, esteso a Giuseppe, sin dalla coreografia
solistica di Atlante del bianco (2010).64
A nulla serve insistere sui rimandi iconografici, per esempio, dei cappelli a
cono bianchi, ispirati senz’altro ai flagellanti e agli infedeli di Goya, che
ricompariranno anche in Dolce vita, produzione per la compagnia del 2014.
Per Pinocchio, come in seguito per i danzatori di Dolce vita, il cono è
innanzitutto una protesi che allunga il corpo e che lo trasfigura,
consentendo un’ulteriore ricerca percettiva. Al tempo stesso, questo corpo
mostra la complessità semantica del gesto poetico di Sieni. Lo scavo nella
percezione come strumento, non verso lo spontaneismo, ma verso
l’approfondimento delle potenzialità cinestesiche insite nel corpo consente
l’acquisizione progressiva di un sapere da cui traspare la stratificazione
mnemonica e immaginifica del gesto: una mappatura dinamica delle
sensazioni fisiche si apre come paesaggio visivo e cinestesico allo sguardo
altrui, per cui la percezione del corpo diventa ora «la vera istanza
Cfr. Gaia Germanà, Atlante del bianco. Nuovi danzatori sulle scene dello spettacolo
contemporaneo, «Danza e Ricerca. Laboratorio di studi, scritture, visioni», nn. 1-2, dicembre
2011, pp. 91-120.
64
96
Rossella Mazzaglia, Metamorfosi di Pinocchio nella nuova scena italiana
finzionale», cui si associano gli indizi iconici posti sul corpo e sullo
sfondo.65
La scrittura scenica di Pinocchio. Leggermente diverso rivela, pertanto, il
pensiero di Sieni rispetto al corpo danzante come corpo metamorfico, da
cui traspaiono le tracce culturali e mnemoniche che il gesto poetico di
Giuseppe attiva. Rispetto alla costruzione del corpo del ciclo fiabesco, in cui
movimenti a scatti e spigolosi rendevano una fisicità legnosa e modulavano
la forma dei primi pinocchi in scena, il lavoro tecnico di Sieni ha, infatti,
enfatizzato maggiormente, negli ultimi anni, il bios e l’organicità interiore
della figura danzante: i principi di movimento, i canali energetici e la
trasmissione del gesto tra le pieghe e i piani del corpo, oltre alla precisione
articolare e alla sperimentazione dinamica. Da queste esplorazioni discende
anche un’apertura semantica che accresce la portata simbolica del gesto
rispetto alla rappresentazione dei personaggi e all’uso mimetico degli
oggetti, impiegati piuttosto come stimolo alla scoperta sensoria.
Di questa visione, nel suo Pinocchio Comuniello sembra mostrare il
percorso che porta alla nascita del gesto, esibendolo proprio negli
sbilanciamenti e nel recupero dell’equilibrio, come negli spostamenti nello
spazio, da cui traspare inevitabilmente anche il dato biografico della
disabilità, che perciò scardina anche l’autoreferenzialità della
sperimentazione linguistica del coreografo, immettendo ‘tracce di realtà’
sulla scena. La sua presenza si fa segno al pari delle scelte drammaturgiche,
per quanto la tecnica acquisita, gli indizi della storia disseminati nello
spazio e l’eco di pregresse coreografie sottraggano l’opera
dall’appiattimento sul reale e la trasportino in una dimensione poetica in
cui l’incontro con la vita dissotterra, ancora, le domande implicite nel
racconto collodiano.
In Pinocchio. Leggermente diverso tutta la danza allude, infatti, a una
trasformazione continua e senza fine, che riprende la letizia e la trama del
romanzo, pur distorcendole a propria immagine e somiglianza. Affiorato
per analogia e solo indirettamente per mimesis, il ‘personaggio’ ritratto
nello spettacolo appartiene, quindi, soprattutto al giovane Giuseppe, che
può in ultimo portarsi addosso un’improbabile fatina con impermeabile
rosso e bacchetta magica, e non più l’anziano padre, come nel romanzo
collodiano. Il percorso biografico del danzatore ha, cioè, dato nuova vita al
personaggio, insinuandosi nell’apertura indotta dalla progressiva fiducia
nella paideia dell’ultimo Sieni, oltre che nella scia della lunghissima ricerca
sulla costruzione simbolica del gesto. Pinocchio è, così, diventato metafora
di una crescita che si misura sui propri passi, senza l’ipotesi di un fine
ultimo ed esterno: il suo volto è quello di un ragazzo che chiede al pubblico
65 Cfr. Annie Suquet, Scènes. Le corps dansant: un laboratoire de la perception, in Histoire du corps.
3. Mutations du regard. Le XXe siècle, a cura di Jean-Jacques Courtine, Seuil, 2006, p. 415.
97
AAR Anno VI, numero 12 – Novembre 2016
di fidarsi e di lasciarsi condurre attraverso il buio, insistendo su un ascolto
tattile in cui si sbriciola, infine, l’icona stessa del personaggio.
L’altro Pinocchio: la persona ignota
Se il personaggio letterario fa da sfondo al personaggio teatrale, gli artisti
menzionati non ritraggono il burattino-bambino in scena, preferendo
muoversi ‘dentro Pinocchio’ con fresca e audace irriverenza. Non solo in
tutti gli esempi manca un copione, inteso come rielaborazione o riscrittura
creativa del romanzo, ma viene scombinato il «sistema di relazioni che si
annodano nel racconto». 66 Sono limitatissimi gli scambi dialogici (con
qualche eccezione nello spettacolo di Baliani) e, cosa ancora più importante,
la stratificazione temporale degli spettacoli non è riconducibile alla linea
diegetica del testo collodiano, in quanto attinge da una percezione mnestica
(particolarmente Baliani e Babilonia) o onirica (nel caso di Punzo) e
metaforica (in tutti i casi e in Sieni) che infrange la linearità narrativa e
sposta il senso complessivo dello spettacolo sul piano della realtà di chi lo
agisce in scena. Gli stessi elementi biografici degli interpreti non rafforzano,
infatti, la tessitura drammatica del racconto, né servono ad attualizzarla,
bensì aprono delle tangenti esterne all’universo semantico de Le avventure
di Pinocchio che concernono, soprattutto, il rapporto con la diversità e con la
costruzione dell’identità nella società contemporanea.
Anche il binomio fantastico-fiabesco viene, infatti, riconcettualizzato
rispetto al romanzo, dove è presente sin dall’incipit, attraverso la vocina
uscente dal pezzo di legno, che insinua un elemento di alterità e
straordinarietà all’interno di un mondo che appare ancora realistico e
‘comune’. Nelle opere teatrali considerate, non è però il fantastico a
penetrare il reale, bensì il reale ad irrompere nel racconto fiabesco,
riempiendolo di altri contenuti. Soprattutto, la presenza schiacciante dei
corpi e la loro autoreferenzialità biografica alimenta l’ambiguità tra la
verità (di quel che si vede e ascolta) e la finzione, in luogo di alimentarne la
dicotomia.
Cambiano le motivazioni, cambiano anche gli accenti e la dialettica tra
personaggio e attore, a seconda che a parlare con il naso di Pinocchio sia
Punzo dal carcere di Volterra, che invoca un’infanzia dell’umanità per
condannare l’indottrinamento e la prigionia sociale; un ragazzo di strada
che ritrova (per la prima volta) se stesso, scavando nella memoria negata
della propria infanzia; un giovane non vedente che scopre inedite
Luca Ronconi ne parla, indicando piuttosto il processo di teatralizzazione del romanzo,
nella sua Prefazione a Claudio Longhi, La drammaturgia del Novecento tra romanzo e montaggio,
Pisa, Pacini Editore, 1999, p. 7.
66
98
Rossella Mazzaglia, Metamorfosi di Pinocchio nella nuova scena italiana
possibilità di crescita; o che il burattino-bambino venga associato a persone
disabili, con il loro rifiuto del ruolo di eterni ‘ragazzi’. Cambia
completamente il senso dell’analogia con il personaggio di Pinocchio, come
archetipo e simbolo dell’infanzia e della diversità, e variano i metodi, ma
non sfuggono alcune costanti tra gli spettacoli ricordati: il riferimento al
personaggio come strumento drammaturgico che esula dalla
drammatizzazione del romanzo; la sua diversa declinazione per mostrare
un punto di vista sulle dinamiche relazionali della proiezione identitaria
(che si rispecchia nella percezione del corpo); l’enfasi sulla performatività,
in luogo della teatralizzazione, come strumento di rottura della continuità
diegetica con modalità facilmente riconducibili ad un’estetica postdrammatica che rimettono in gioco e tematizzano, anche, il ruolo
interpretativo dello spettatore.
Proprio lo spettatore diventa, in ultimo, l’epicentro da cui s’irradia il senso
dell’opera in scena, l’occhio in cui si amplificano le contraddizioni tra realtà
percepita e invisibile, e in cui si specchia, dunque, il tentativo degli artisti di
alterare i punti di vista consuetudinari sulla diversità, nonché sulla
dialettica tra libertà e condizionamento individuale. 67 Gli spettacoli di
Punzo, Baliani, Babilonia Teatri e Sieni creano, infatti, dei cortocircuiti che
progressivamente spostano l’asse semantico della performance dalla
diversità alla condivisione dell’alterità: anche il corpo specifico, ostentato
inizialmente nella sua ordinarietà (Punzo), reificazione e anonimia
(Baliani), imperfezione fisica (Babilonia) e disabilità (Comuniello) diventa il
tramite verso un’integrità che sfugge alla sua immagine immediata,
condizionata da dinamiche relazionali e da limitazioni di cui i margini sono
esibiti e ridiscussi in scena. Lo spettatore è perciò interrogato su ciò che è in
grado di discernere, sentire e percepire e, all’avanzare degli spettacoli,
idealmente condotto ad abdicare al ruolo di voyeur, per farsi voyant di
un’umanità remota che lo tocca in prima persona.68
Questi artisti non raccontano né attualizzano, in definitiva, Le avventure di
Pinocchio, ma impiegano le parole, le movenze, i simboli e l’immaginario
archetipico del suo personaggio cardine (e, limitatamente il racconto, per
quanto riguarda Baliani), per stimolare il riconoscimento di un’alterità
Ricordiamo, al riguardo, che il pubblico è chiamato in causa anche tramite la
sovrapposizione dei diversi piani del discorso: della phoné fisica e del personaggio, come del
quotidiano e dell’immaginario in Punzo; mostrando l’attore e la realtà di Nairobi fuori e
dentro Pinocchio in Baliani; con la frontalità e l’intervista in diretta dei performer, additando
la relazione che lo spettatore intrattiene con quelle stesse domande per i Babilonia Teatri;
investendolo di un ruolo partecipante e invitandolo a provare sulla propria pelle la
percezione del buio in Sieni-Comuniello.
68 La differenza trae spunto dallo studio sul «veggente del mondo visionario della scena»
menzionato da Nietzsche, rispetto alla potenzialità del teatro di andare oltre la
comprensione della realtà visibile e abbracciare la percezione del Reale che vi è sottesa (Cfr.
Camille Dumoulié, Nietzsche et Artaud, pour une éthique de la cruauté, Paris, Puf, 1992, pp. 4566).
67
99
AAR Anno VI, numero 12 – Novembre 2016
condivisa che mira a mostrare la persona «attraverso il corpo». La diversità
diventa, perciò, il punto di osservazione privilegiato (perché straniante
rispetto a chi non ne condivide la condizione), per rendere familiare ciò che
dapprincipio è estraneo, attraverso la sovrapposizione di finzione e realtà, e
tramite la dialettica tra rappresentazione e presentazione: di questo
processo il personaggio di Pinocchio è perciò il mezzo, poiché diverso, ma
da tutti noto. Anche l’ambivalenza semantica che lo caratterizza in scena,
incrinandone lo statuto denotativo, ne attesta, in maniera significativa, la
valenza discorsiva rispetto alla relazione teatrale.
Alla fine de Le avventure di Collodi un «grosso burattino» resta «poggiato a
una seggiola, col capo girato su una parte (e) con le braccia ciondoloni», ma
adesso non è più il Pinocchio-bambino della fiaba che gli sta di fronte,
osservandolo. Accasciato, Pinocchio ci interroga, piuttosto, ostentando
buchi neri in cui si attarda ora lo sguardo: siamo noi, infine, spettatori
contemporanei, quel Pinocchio perbene che si specchia nel burattino, come
tramite per un tempo umano e per una persona paradossalmente ignota.
100
Anno VI, numero 12 – Novembre 2016 Silvia Carandini
Su una nuova Storia della danza in Occidente
Il destino di qualsiasi manuale di storia è di fare i conti con una materia
complessa da ridurre in limiti di pagine e da organizzare secondo peculiari
e inevitabilmente parziali punti di vista. Significa in particolare dare senso a
un succedersi di fatti e di fenomeni, individuando delle origini, degli
sviluppi, delle crisi, dei rivolgimenti e delle acquisizioni. Non a caso ogni
epoca riscrive le sue storie, si appoggia alle precedenti ma spesso mette in
rilievo fatti diversi, modifica alcuni punti di vista. Una delle operazioni base
è quella di ritagliare nel continuum caotico dei fatti e dei fenomeni delle
scansioni grazie alle quali segnalare dinamiche temporali e significative
cesure, in modo da fornire un senso compiuto alle trasformazioni in atto,
individuare fasi significative, periodizzare lo sviluppo secondo criteri di
volta in volta da verificare e la consapevolezza dell’arbitraria e discutibile
natura di tali operazioni. Scriveva di recente Jacques Le Goff:
La scansione del tempo in periodi è necessaria per la storia, sia che la si
consideri, in senso generale, come studio dello sviluppo di una società, sia di
particolari tipologie di sapere e di insegnamenti […] La periodizzazione
costituisce ciò che rende la storia una scienza, certo non una scienza esatta ma
una scienza sociale che poggia su basi oggettive, cioè le fonti. Ma i dati che
queste forniscono sono mobili, mutevoli: è la storia delle società in cammino
nel tempo, osservava Marc Bloch. Lo storico ha il compito di dominare il tempo
nel mentre si trova lui stesso in suo potere, e nella misura in cui questo tempo
cambia, la periodizzazione diventa per lo storico uno strumento
indispensabile.1
Fare storia delle arti performative (teatro, danza in particolare) implica
complessità moltiplicate, qualsiasi percorso storico dovendo toccare
necessariamente fenomeni di natura diversa, apporti di altri linguaggi
artistici e letterari, mettere in campo differenziati approcci. Trattando per lo
più di eventi di natura squisitamente effimera, di pratiche sociali e nella
ovvia mancanza di ‘opere’ da analizzare, lo storico deve moltiplicare le sue
fonti e allargare la documentazione in modo da ricostruire un contesto
mobilitando saperi di diversa natura, dalla storia dell’arte, della musica,
dell’architettura, alla teoria letteraria, l’antropologia, la psicologia, la
pedagogia, le neuroscienze, per citarne solo alcune. Fondamentale anche,
come argomenta Le Goff, la periodizzazione entro cui si articola il percorso
J. Le Goff, Faut-il vraiment découper l’histoire en tranches?, Paris, Seuil, 2014, pp. 12, 13, 188
(traduzione mia).
1
101 © 2016 Acting Archives ISSN: 2039-­‐9766 www.actingarchives.it AAR Anno VI, numero 12 – Novembre 2016 e il senso che da questa deriva, un senso perennemente in mutazione più ci
si avvicina alla contemporaneità, una segmentazione che dall’Antichità ai
giorni nostri necessariamente si infittisce, partendo da una misura di secoli
per giungere, nel ’900 e fino ai nostri giorni a distinguere singoli decenni.
L’arbitrarietà del procedimento relativo ai tempi più recenti si tramuta nel
senso di un’operazione critica vera e propria.
Per la storia della danza, inoltre, la difficoltà messa in luce nell’introduzione
dell’opera, è la scarsità di studi teorici e storici lungo il percorso lento e
travagliato verso il riconoscimento di uno statuto artistico, la relativa
mancanza di coscienza critica che per tanto tempo ha accompagnato le
vicende di «una forma espressiva ritenuta minore». Si doveva prima ottenere
il riconoscimento e la valorizzazione della componente artistica del
fenomeno perché l’esigenza di storicizzare uno sviluppo, di precisare teorie
e statuti si facesse sentire, e questo processo inizia a partire dalla fine del
XVII secolo. Già nel XV secolo però, come noto, i primi trattati italiani, opera
di maestri di danza spesso di origine ebraica (a segnalare, parimenti
all’usura, un’attività e un mestiere disdicevoli), iniziavano a documentare in
forma scritta i principi regolatori e gli esempi di una pratica in via di
tumultuoso sviluppo presso le corti rinascimentali, e ad appellarsi a modelli
dell’Antichità greca e romana. Partono di qui le fonti così dette ‘dirette’,
mentre ad assai più ampio raggio gli studi hanno potuto raccogliere preziose
fonti ‘indirette’, testimonianze, cronache festive, dati biografici, documenti
figurativi, notazioni musicali, editti per lo più di condanna da parte di
moralisti e religiosi. Ancora più precaria e rara è ovviamente la
documentazione relativa alle forme popolari di danza, alle pratiche in
ambito contadino o presso la popolazione minuta nelle città, fenomeni che
risultano evidenti solo una volta acquisiti e accolti, come spesso accade, in
ambito colto e aristocratico.
Infine, condizione del tutto peculiare di quest’arte, dato il carattere
essenzialmente cinetico e visivo della materia su cui lavora, è l’indagine
intorno a quel corpo in movimento in uno spazio-tempo determinato che
costituisce il fulcro della questione estetica intorno all’arte della danza e
l’oggetto quindi di una storia del tutto particolare. Con il progressivo
imporsi in età moderna del corpo bene addestrato del danzatore
professionista e del maître de ballet, in grado di concepire un disegno
coreografico compiuto, la danza diventa l’arte in grado di narrare una storia
senza l’uso di parole, di dare forma a una interiorità priva di parole, di
parlare il ‘linguaggio’ peculiare delle emozioni tradotto nel vocabolario
gestuale della mimica, nel virtuosismo della tecnica, nella varietà dei ritmi e
delle posizioni, nelle dinamiche disciplinate delle figurazioni accademiche.
A quel punto allora si moltiplicano i trattati, le forme di notazione coreutica,
i libretti a stampa, le riflessioni di natura estetica. Nel primo Novecento,
l’aspirazione a un corpo liberato da regole e costrizioni anche negli abiti si
impone, per la danza il nuovo modello è un artista che aderisce agli impulsi
interiori, di volta in volta inventando un proprio codice cinetico e gestuale.
102 Silvia Carandini, Su una nuova Storia della danza in Occidente Nel corso del secolo si verifica allora il moltiplicarsi all’infinito dei linguaggi
possibili del corpo danzante, delle tecniche specifiche di addestramento,
ricomprese quelle della tradizione accademica e integrabili quelle di culture
‘altre’. Si incrementa quindi a dismisura la produzione teorica e storica, i
manuali di training, la documentazione scritta e figurativa degli eventi,
comprese le nuove tecnologie, la fotografia, il cinema, la televisione, il video,
i software interattivi e quelli come la motion capture che catturano il
movimento e lo restituiscono in forma di disegno dinamico.
Da quando gli insegnamenti di Storia del teatro prima e successivamente di
Storia della danza e del mimo si sono affermati nelle università italiane, e
questo è avvenuto come noto in tempi abbastanza recenti, gli studi dedicati
alle arti dello spettacolo si sono moltiplicati, sono state edite storie pregevoli
e concepiti agili manuali.2 Per quel che riguarda la danza, già disponibile era
inizialmente la traduzione della fondamentale Storia della danza di Curt
Sachs, - Il Saggiatore 1966, prefazione di Diego Carpitella, traduzione di
Tullio de Mauro - pubblicata a Berlino nel 1933 con il titolo Eine
Weltgeschichte des Tanzes. Si tratta di una storia ‘mondiale’ della danza,
organizzati i fenomeni in un percorso cronologico e secondo una scansione
geografica che consente di osservarli anche in quanto pratiche sociali,
esperienze universali di matrice antropologica, mentre dal punto di vista
estetico l’arte del corpo in movimento sarebbe alle origini dei linguaggi
dell’arte in tutte le civiltà e la sua storia quella di una ‘madre di tutte le arti’.
Adesso che nel 2010 sono stati istituiti i nuovi licei musicali e coreutici,
questa nuova Storia della danza in Occidente in tre volumi - Vol. I Ornella Di
Tondo, Dall’Antichità al Seicento, Vol. II Flavia Pappacena, Il Settecento e
l’Ottocento, Vol. III Alessandro Pontremoli, Tra Novecento e Nuovo Millennio,
Gremese, Roma 2016 - si presenta in forma di manuale per gli ultimi tre anni
dell’indirizzo coreutico, integrati i volumi con diversi contenuti digitali
disponibili online. Si tratta di un’operazione di grande prestigio, condotta da
studiosi affermati, destinata sembrerebbe piuttosto a ricercatori, dottorandi,
studenti di corsi triennali e magistrali delle facoltà e dipartimenti umanistici.
Offre uno strumento assai utile per un orientamento generale, una
periodizzazione agile e chiara, narrazioni essenziali e rigorose, arricchite di
Per quel che riguarda l’Italia e gli studi in danza, comprese le traduzioni da altre lingue ed
escluse le storie particolari, ricordo l’opera monumentale di G. Tani, Storia della danza dalle
origini ai giorni nostri, Firenze, Olschki, 1983, in tre volumi, circa 1500 pagine, con una sezione
divisa anche per nazioni; di G. Calendoli, Storia universale della danza, Milano, Mondadori,
1985; W. Sorell, Storia della danza. Arte, cultura, società, Bologna, Il Mulino, 1994, traduzione
dall’inglese (New York 1981); A. Testa, Storia della danza e del balletto, Roma, Gremese, 1988
(2012); A. Pontremoli, Storia della danza. Dal Medioevo ai giorni nostri, Firenze, Le Lettere, 2002;
Susan Au, Balletto e danza moderna, Milano, Skira-Rizzoli, 2003 traduzione dall’inglese
(London 1988); S. Sinisi, Storia della danza occidentale. Dai Greci a Pina Bausch, Roma, Carocci,
2005; E. Cervellati, La danza in scena. Storia di un’arte dal Medioevo a oggi, Milano, Bruno
Mondadori, 2009; J. Sasportes (a cura di), Storia della danza italiana dalle origini ai giorni nostri,
Torino, EDT, 2011,
2
103 AAR Anno VI, numero 12 – Novembre 2016 frequenti e significativi approfondimenti che aprono prospettive anche
inedite e spunti illuminanti: una bella sfida nel segno di un elevato progetto
pedagogico, un punto di partenza stimolante anche per ricerche e studi in
danza.
I percorsi proposti nei tre volumi di questa impresa editoriale,
dichiaratamente limitati come segnala il titolo al modello di danza che in
Occidente si sviluppa a partire dalle origini greco romane, si articola, come
dicevo sopra, per scansioni non sempre necessariamente cronologicamente
ordinate, inizialmente molto ampie, via via più mirate. Cercherò di darne un
veloce resoconto.
Il primo volume, opera di Ornella di Tondo comprende più di duemila anni
di storia, dall’Atene del V secolo a.C. al secolo XVII della nostra era.
Attraversa quindi con necessaria sinteticità il mondo antico greco e romano,
con approfondimenti significativi su questioni fondanti per le terminologie
ancora in uso, per i significati che il concetto di mimesi introduce nelle arti,
sia nell’accezione platonica che aristotelica, e per gli sviluppi del pensiero
occidentale intorno alla danza. Rende conto di quella fascinazione destinata
a fissarsi in epoca moderna per le radici rituali della danza negli antichi cortei
dionisiaci e il fissarsi dei residui di questi negli interventi del coro nelle
pratiche teatrali della tragedia e commedia ateniesi. Un modello questo che
continuerà ad alimentare, a partire dalle ricerche della fiorentina Camerata
de’ Bardi a fine Cinquecento e fino ai giorni nostri, l’utopia di un’opera d’arte
totale nella perfetta unione di poesia, musica e danza. Continuerà in
particolare, in mancanza di fonti precise, a sollecitare possibili soluzioni
intorno alla resa scenica del coro, la dizione da adottare, le evoluzioni e i
gesti, nelle moderne restituzioni della tragedia ateniese, a partire dalla messa
in scena di Edipo re di Sofocle nel Teatro Olimpico di Vicenza nel 1585, fino
alle novecentesche riprese dell’antico repertorio nelle suggestive rovine dei
teatri greco-romani. Del tutto idealizzate appaiono inoltre nella cultura greca
la bellezza armonica del corpo bene addestrato, la grazia delle danzatrici, la
forza virile degli atleti, la simbologia cosmica delle figure coreutiche, concetti
tutti in parte trasmessi alla civiltà romana che pregia in particolare la
destrezza espressiva dei mimi. Valori che, anche grazie al trattato di Luciano
di Samosata (360 d.C) trascritto in codici del X-XI secolo, si consegnano al
prossimo pensiero umanistico.
Successivamente l’epoca medievale e cristiana introduce il sospetto intorno
a pratiche che, come per il teatro, hanno il corpo dell’interprete quale veicolo
di senso e oggetto di fascinazione. Mentre minutamente e in modo
frammentario si perpetuano rituali di origine pagana, si trasmettono
tecniche acrobatiche e coreutiche da parte di saltatores girovaghi e balatrones.
Dopo l’anno mille primi documenti per lo più figurativi e musicali, presto
anche letterari - il volume riporta citazioni da Dante, da Petrarca e da
Boccaccio - testimoniano una presenza sempre più diffusa e prime forme
riconoscibili di modelli coreografici, di passi, ritmi e figure. Con lo sviluppo
104 Silvia Carandini, Su una nuova Storia della danza in Occidente delle società di corte e il recupero umanistico dell’Antico, con il moltiplicarsi
delle occasioni sociali di danza, a partire dal XV secolo primi trattati
consegnano classificazioni, nomi di danze e combinazioni di ritmi, dalla
solenne bassadanza al dinamico saltarello. La danza diventa oggetto anche
di teorica riflessione, i maestri la definiscono «arte spirituale», «licita
scienza», attività «onesta» e «virtuosa». A questo proposito la studiosa cita
dal Proemio del De pratica seu arte tripudii di Guglielmo Ebreo alcuni versi
emblematici del nuovo clima: «Il bel danzar che con virtù/ s’acquista/ per
dar piacer all’anima gentile/ conforta il cuore e fal più signorile/ e porge con
dolcezza allegra/ vista».
Il percorso del volume in questa parte si apre a dettagliare ed esemplificare
questo significativo passaggio che vede l’Italia in prima linea, maestra
ancora di cultura e comportamenti signorili, gettare anche i primi semi di
una danza di natura spettacolare e teatrale, come negli intermezzi fra gli atti
delle rappresentazioni plautine a Ferrara a fine Quattrocento e più tardi negli
spettacoli presso le principali corti. Con il XVI secolo lo sguardo si allarga
all’Europa, alle tradizioni popolari che si affermano in Inghilterra, Francia e
Spagna, al diffondersi di un linguaggio coreutico comune anche grazie alla
stampa e ai nuovi trattati trasmessi a più largo raggio. La documentazione si
fa sempre più ricca, le occasioni festive pubbliche e private offrono ampio
spazio per intermezzi coreutici e musicali e occasioni di esibizione per
cortigiani e per ‘baladini’ professionisti, i nomi dei quali iniziano a farsi
conoscere insieme a quelli dei maestri di ballo. L’ultima parte del volume è
dedicata al XVII secolo, epoca cruciale per il perfezionarsi del modello
aristocratico di ballo. Minutamente si definiscono e regolamentano le
posizioni e i movimenti del corpo, delle gambe e delle braccia del ballerino
secondo l’ideale di compostezza e armonia che nel corso degli ultimi due
secoli l’etichetta di corte aveva imposto e che la nascita in Francia nel 1669
dell’Académie royale de Musique et Danse fisserà in portamenti, movenze e
un vocabolario di passi destinato a perpetuarsi fino ai giorni nostri. Vitale
però, come bene si segnala nel volume, si mantiene anche un filone più
dinamico, burlesco e popolare che si sviluppa nelle danze sociali, che trova
spazio sulle scene del primo ballet de cour francese, nelle parti comiche e
buffonesche nei repertori dei comici professionisti, filone che continuerà ad
arricchire il codice aulico di umori espressivi e ritmi peculiari di tradizioni
autoctone di diverse nazioni. Il rapporto della danza con le scene teatrali e
musicali in questo secolo si articola in forme molteplici e con particolare
rilievo in Italia e in Francia, dagli intermezzi negli spettacoli di collegio ai
melodrammi veneziani, alle comédies-ballest presentate alla corte di Luigi XIV
da Molière, fino alle tragédies-lyriques di fine secolo create e dirette
dall’italiano Giovan Battista Lulli.
Il secondo volume a opera di Flavia Pappacena è dedicato al Settecento e
all’Ottocento, due secoli fondamentali per la storia della danza in Occidente.
Si avvia infatti nel XVIII secolo l’ampio dibattito teorico e filosofico intorno
105 AAR Anno VI, numero 12 – Novembre 2016 alle funzioni estetiche della danza accademica e alle sue regole, ai caratteri
dell’antica e moderna pantomima, intorno ai modi di fissare le partiture
coreografiche, di ampliare le potenzialità espressive e drammatiche dei
ballerini. Si offrono anche le prime sistematizzazioni storiche con l’opera di
Louis de Cahusac, La danse ancienne et moderne, ou traité historique de la danse,
pubblicata all’Aia nel 1754. L’imporsi in Europa del modello classico
francese è generalizzato, a questo però si affianca l’apporto, meno evidente
ma certo significativo come questo volume magistralmente dimostra, di
coreografi e danzatori italiani. Si tratta di una maniera meno sistematica in
cui si perpetua la tradizione peninsulare di uno stile dinamico, un
virtuosismo marcato, un impiego disinvolto della pantomima. Tempio di
questo stile è a Parigi la Comédie-Italienne, dove coreografi come Francesco
Riccoboni e E. J. B. de Hesse creano dei ballets-pantomimes che anticipano il
balletto d’azione, dato questo fino ad oggi poco rilevato. Pubblicato a Napoli
nel 1779 il Trattato teorico-prattico di ballo di Gennaro Magri registra con
efficacia la situazione napoletana, le commistioni con i generi e lo stile
francese, lo sviluppo dei caratteri propriamente italiani, come lo stile
grottesco. Nelle varie corti europee coreografi e danzatori italiani
partecipano poi al notevole movimento di riforma che a partire dalla seconda
metà del secolo intende forzare la griglia dogmatica dell’Académie parigina,
affermare le potenzialità narrative e teatrali della danza, arte che si vuole
autosufficiente, da liberare anche dalle servitù dell’opera lirica e del dialogo
drammatico. Vienna è il crocevia di questa riforma, i nomi ben noti sono
quelli di Franz Hilverding, del suo allievo Gasparo Angiolini, di JeanGeorges Noverre autore delle celebri Lettres sur la danse, pubblicate a Lione e
Stoccarda nel 1760 (non a Parigi!).
La periodizzazione è scandita in questo volume per ventenni e la narrazione
si apre ad ampi riquadri esemplificativi di balli nel corso del secolo, con
analisi dettagliate e sinossi dei balletti che bene rendono conto dei disparati
argomenti trattati, della spettacolarità degli allestimenti e della continua
sperimentazione di un genere non ancora codificato. Il volume presenta una
galleria di opere, alcune poco conosciute, che dalla grandiosità ancora Luigi
XIV dell’opéra-ballet L’Europe Galante, coreografia di Louis Pécour, musica
di André Campra, presentata al Palais Royal nel 1697, si conclude con il clima
campestre e la comicità sentimentale di La Fille mal gardée, coreografia di Jean
Dauberval, in scena a Bordeaux nel 1789, a pochi giorni di distanza dalla
presa della Bastiglia; soggetto questo fortunato e più volte in seguito ripreso.
Mentre il più antico balletto conservato e rimasto nel repertorio fino a oggi,
segnala la studiosa e il dato è interessante, è il divertissement I capricci di
Cupido, di Vincenzo Galeotti, in scena a Copenaghen nel 1786.
Con gli eventi che sconvolgono l’Europa a fine Settecento, la grande
Rivoluzione e il successivo impero napoleonico, lo spettacolo di danza
nell’Ottocento eredita i mille fermenti che le riforme prima, quindi le nuove
mode e tematiche impongono. Soggetti esotici, storici, romanzeschi, diversi
tratti anche da Shakespeare, sono esemplificati nel volume e segnalano il
106 Silvia Carandini, Su una nuova Storia della danza in Occidente mutamento di gusto. In Francia dopo il 1830 la breve avventura romantica
del balletto evidenzia la nuova centralità della ballerina e dei personaggi
femminili che interpreta, in un clima fiabesco esseri soprannaturali che la
recente tecnica delle punte solleva in aria, un virtuosismo che significa «non
prodezza tecnica - scrive l’autrice - ma levità poetica». Nell’elevazione e nello
slancio in disequilibrio delle arabesques si traduce anche l’inedito valore
letterario dei libretti, come quello di Théophile Gautier per Giselle ou les Wilis
(1841). L’Italia trova finalmente spazio in questa storia della danza anche per
l’Ottocento, con le invenzioni di coreografi come Francesco Clerico, Gaetano
Gioia, Onorato e Salvatore Viganò. I coreodrammi di quest’ultimo sono
rappresentati nelle principali corti europee così come il trattato di Carlo
Blasis, Traité élémentaire et pratique de l’Art de la danse pubblicato a Milano nel
1820, ma scritto in francese, è subito come noto tradotto in varie lingue e
costituisce una solida base per gli sviluppi tecnici in atto. Il romanticismo si
esprime in Italia con soggetti soprattutto storici, avventurosi o esotici. Gli
ultimi capolavori del genere sono a fine secolo in Russia opera del francese
Lucien Petipa con la musica per la prima volta davvero ispiratrice di
Čaikovskij. Balletti questi notissimi su cui giustamente poco si sofferma il
volume. I riquadri esemplificativi di balletti importanti del secolo vanno da
Paul et Virginie di Pierre Gardel, ballet-pantomime, come il romanzo di J. H.
Bernardin de St. Pierre ambientato nelle isole Mauritius, in scena all’Opéra
di Parigi nel 1806, a La bella addormentata di Petipa interpretata a San
Pietroburgo nel 1890 dall’italiana Carlotta Brianza.
L’impianto del terzo volume è opera di Alessandro Pontremoli con l’apporto
per alcuni capitoli di Emanuele Giannasca. Trattare del secolo che abbiamo
alle spalle e degli esordi del «nuovo millennio», come indica il titolo, avendo
a disposizione un numero esiguo di pagine, appare in qualche modo una
sfida. La complessità del quadro storico per il Novecento è frutto della vera
e propria esplosione di nuove estetiche, concezioni, generi, tecniche che a
partire dalla rivoluzione della danza libera con cui si apre il secolo,
sottopongono a critica radicale gli statuti della danza accademica,
promuovono la nuova cultura del corpo svincolato da convenzioni, per
un’arte della danza intesa quale espressione del singolo individuo. La spinta
eversiva e distruttiva, tipica delle avanguardie artistiche del primo
Novecento, pare annullare quasi tre secoli di storia della danse d’école, unica
tecnica performativa tanto a lungo sopravvissuta nella cultura occidentale (a
differenza dell’Oriente dove antiche tradizioni di recitazione e danza si
continuano a praticare). In realtà la scossa è stata salutare e l’antica tecnica,
già notevolmente ampliata l’estensione dei suo registri nel corso
dell’Ottocento, ha trovato modo di coniugare l’antico vocabolario con quello
della modern dance trovando ispirazione per inedite commistioni e nuove
flessibilità. Il volume è strutturato in cinque capitoli o ‘parti’, secondo un
ordine e una periodizzazione duttili, nel tentativo direi riuscito di indicare
107 AAR Anno VI, numero 12 – Novembre 2016 le principali direttrici della ricerca e delle pratiche novecentesche, le linee di
forza ancora attive e riconoscibili ai giorni nostri.
Il primo percorso parte dalla fortuna dell’insegnamento di François Delsarte
le cui teorie rivolte a cantanti, attori e oratori, una volta esportate negli Stati
Uniti hanno ispirato piuttosto una grande svolta per le concezioni di danza
che il primo Novecento si apprestava a coltivare. Seguono quindi le
esperienze dei primi protagonisti della danza libera, le americane Loie Fuller,
Ruth St Denis e Isadora Duncan che giungono sul far del secolo in Europa.
In Germania, poco dopo, si affermano l’importante apporto anche teorico
dell’ungherese Rudolph Laban, le originali declinazioni espressioniste dei
tedeschi Mary Wigman e Kurt Jooss. Un secondo percorso è dedicato agli
sviluppi più sistematici della modern dance negli Stati Uniti che attraversano
quasi tutto il secolo e fondano scuole, da Martha Graham con i suoi numerosi
allievi, fino a Carolyn Carlson attiva a partire dagli anni ’70, passando, fra
gli altri, per la black dance e Alvin Ailey, per le creazioni di Ann Halprin,
Alvin Nikolais e Merce Cunningham. Quest’ultimo, nel corso della sua
lunghissima vita, nel coniugare l’insegnamento della Graham con una
formazione anche accademica, nel collaborare con il musicista John Cage e
con il pittore Robert Rauschenberg, nello sperimentare forme di happening
e di composizione aleatoria, in ultimo anche di software sofisticati di
animazione 3D, rappresenta la punta più radicale di questo indirizzo. Un
interessante paragrafo riguarda gli echi di simili esperienze in Italia, dalle
esibizioni futuriste di Giannina Censi negli anni ’30, a Elsa Piperno che negli
anni ’70 ha introdotto la tecnica Graham in Italia.
Un terzo percorso è dedicato al balletto moderno, quel genere che non
rinnega la tecnica della danse d’école, pur forzandone regole e confini con
ibridazioni e prestiti. Riguarda soprattutto gli esiti in Italia, Francia,
Inghilterra, Germania, Olanda e Svezia delle felici e audaci stagioni dei
Ballets Russes di Djagilev, prima e dopo la prima guerra mondiale.
Estremamente ricco è il panorama che il volume restituisce fino ai nostri
giorni, mettendo in evidenza due poli riconoscibili di tensione: verso la
narratività o verso la purezza di un disegno coreografico ‘astratto’. Con la
rivoluzione sovietica e i tanti artisti russi che, come Mjasin e Balanchine,
espatriano negli USA, si hanno ulteriori esiti dell’avventura fondante di
Djagilev e conferme del prestigio che continua a godere la scuola russa di
danza. Anche per questo filone del balletto moderno una figura di danzatore
e coreografo rappresenta la punta più radicale e originale, si tratta dello
statunitense William Forsythe che opera dagli anni ’80 in Germania e
conduce ancora oggi una ricerca sul movimento di grande rigore.
La quarta sezione è dedicata alla «danza contemporanea», la corrente che
negli USA degli anni ’60 prosegue il verbo modernista alla luce delle
tendenze delle neoavanguardie, con iniziative presso la Judson Church
riunite per lo più sotto l’etichetta di post modern dance. In Germania è il
Tanztheater di Pina Bausch che raccoglie i semi dell’espressionismo e della
Ausdruckstanz di Laban e Jooss. In Francia è la nouvelle danse che grazie a una
108 Silvia Carandini, Su una nuova Storia della danza in Occidente attenta politica culturale conosce un forte rilancio, in Inghilterra la new dance.
In Italia è la danza d’autore che emerge a partire dalle esperienze della
compagnia di giovani creata da Carolyn Carlson nei primi anni ’80 presso la
Fenice di Venezia.
Infine un’ultima sezione di questo volume guarda «Oltre la danza» al
rapporto con i nuovi media, alle più recenti tecnologie digitali, per un corpo
posto al centro di un environment multimediale. Quindi il libro si inoltra
coraggiosamente nel nuovo millennio e tocca il fenomeno contemporaneo
della fusion, per cui la danza occidentale, al termine (provvisorio!) di questa
lunga storia, conosce ibridazioni davvero intriganti. Anche in questo volume
si aprono utili riquadri esplicativi di tecniche o resoconti di singole opere
miliari, come ad esempio nel 1913 Le Sacre du printemps, musica di Stravinskij
che tanta fortuna avrà presso numerosi coreografi fino ai nostri giorni (da
Béjart a Virgilio Sieni), mentre la coreografia originale di Nižinskij viene
ripresa solo nel 1986 dal Joffrey Ballet, grazie al lavoro certosino di
ricostruzione della coreografa Millicent Hodson e dello storico dell’arte
Kenneth Archer.
Questa stringatissima carrellata intende solo rendere conto dell’ampiezza
cronologica, della scansione e periodizzazione con cui la materia è stata
disposta nei tre volumi, anche delle metodologie di volta in volta adottate.
Restituire un contesto più ampio per segnalare le svolte significative, le
innovazioni e rivoluzioni nell’ambito di questa particolare storia, è uno degli
intenti riconoscibili del progetto, sono quadri di riferimento che rendono
questi ‘manuali’ uno strumento utile e forniscono una sottile griglia
sottostante questa particolare storia, tale da connetterla con la più generale
Storia.
È per questa ragione che credo possibile parlare di questi tre volumi nei
termini di una sfida e di una speranza. La sfida, che mi pare del tutto vinta,
è quella di mettere a disposizione di insegnanti e studenti (non solo dei licei
musicali e coreutici) la base fondamentale di un percorso storico che al centro
pone l’arte della danza, un deposito molto ricco di notizie, informazioni,
approfondimenti, dal quale attingere per ulteriori ricerche. La speranza
invece riguarda la materia che ho insegnato per tanti anni, la Storia del teatro
e dello spettacolo, materia nella quale ho voluto comprendere elementi di
storia della danza, così come dell’opera in musica, della storia dell’arte,
dell’architettura, della letteratura teatrale e delle tante discipline che offrono
strumenti euristici per una comprensione dei fenomeni. Questo nell’ottica
che il luogo teatrale, in senso anche di metafora spaziale e temporale, è il
contenitore essenziale di tutte le arti che oggi denominiamo ‘performative’ e
di quelle che partecipano alla creazione dell’opera; che l’azione drammatica,
pur ridotta ai minimi termini di un corpo umano che in quello spazio si
muove, fonda la rete dei significati che l’opera produce; che l’interprete e il
pubblico vivono in mille modi quello spazio e quel tempo, nella comune
109 AAR Anno VI, numero 12 – Novembre 2016 esperienza di una situazione d’eccezione che li coinvolge profondamente e
li mette alla prova.
Non si può quindi non segnalare il fatto che nelle scuole tutto questo
purtroppo non si insegna, che la storia del teatro e dello spettacolo (i testi,
l’architettura dei teatri, le scenografie, l’arte dell’attore) sia presente solo in
modo frammentario nell’ambito di alcune discipline letterarie e artistiche,
ma che invece paradossalmente possa capitare a uno studente di fare pratica
del teatro, per la buona volontà diciamo di un professore di inglese che pensi
a far recitare un’opera di Shakespeare. L’esperienza sarà senz’altro positiva,
ma a quello studente mancheranno le basi storiche, le informazioni di
contesto che facciano comprendere la grande novità che costituiscono a fine
Cinquecento i teatri pubblici a Londra, la conformazione peculiare di quello
spazio scenico, il rapporto con il pubblico, la vita delle compagnie di attori,
il rapporto anche con gli spettacoli di corte, etc…
È quindi un’ottima notizia che una Storia della danza in Occidente entri a far
parte di un percorso formativo scolastico, con la speranza che questo
spiraglio possa allargarsi e che nella didattica delle scuole le arti
performative siano finalmente accolte insieme con la loro Storia.
110 Charles
Gildon VITA DI THOMAS BETTERTON
I Libri di AAR
Charles Gildon
VITA DI THOMAS BETTERTON
Traduzione, introduzione e note di Loretta Innocenti
I Libri di AAR
Titolo originale: The Life of Mr. Thomas Betterton, the Late Eminent Tragedian. Wherein
the Action and Utterance of the Stage, Bar, and Pulpit, are distinctly considered. With the
Judgement of the Late Ingenious Monsieur de St. Evremond, upon the Italian and French
Music and Operas; in a Letter to the Duke of Buckingham
London, Printed for Robert Gosling, 1710
Traduzione, introduzione e note di Loretta Innocenti
Copyright © 2016 Acting Archives
Acting Archives Review, Napoli, Novembre 2016
ISSN: 2039-9766
ISBN: 978-88-940967-3-6
www.actingarchives.it
INDICE
INTRODUZIONE
7
Voci dietro la scena. Gildon e le teorie della recitazione
VITA DI THOMAS BETTERTON
18
20
21
23
Dedica
Prefazione
Epilogo
Introduzione
24
29
31
32
35
41
43
46
49
51
54
55
57
60
62
66
69
71
76
1. Vita di Betterton
2. Attuale decadenza della scena inglese
3. Necessità di regole per i giovani attori
4. Condotta morale richiesta all’attore
5. La parola e l’azione componenti essenziali della recitazione
6. Regole per l’azione
7. Rispetto del testo e resa delle passioni
8. I gesti e le espressioni
9. La capacità di comunicare della mimica
10. Arte del gesto e impiego di un modello
11. Regole particolari dell’azione
12. Contro l’uso della maschera
13. Il volto e la direzione dello sguardo
14. Tecniche di immedesimazione
15. Altre regole sul gesto e l’espressione
16. L’impiego della voce
17. Il rapporto tra voce e azione
18. Difetti e qualità della voce
19. Sonorità, piacevolezza e variazione della voce
5
81
82
92
97
100
106
20. Rapidità dell’elocuzione
21. Regole particolari per la voce
22. La voce nelle figure retoriche del discorso
23. Cultura e aspetto fisico dell’attore. Il danzatore folle di Luciano
24. Sulla danza
25. Il canto e l’opera lirica. Gli italiani, i francesi, gli inglesi
6
Charles Gildon, Vita di Thomas Betterton
Voci dietro la scena. Gildon e le teorie della recitazione
Se si potesse sapere come Betterton parlava,
con la stessa facilità con cui sappiamo di che
cosa parlava, allora si potrebbe vedere la
Musa di Shakespeare in trionfo, in tutto il
suo splendore e nella migliore veste tornare
in vita e affascinare chi la guarda. Ma
ahimè! Poiché tutto è così fuori dalla portata
della descrizione, come posso mostrarvi
Betterton?
(C. Cibber, An Apology for the Life of Mr.
Colley Cibber, London 1740, p. 84)
Se volessimo avere delle notizie su Thomas Betterton (1635-1710), il più
grande attore inglese del teatro della Restaurazione, non ne troveremmo
molte nel libro di Charles Gildon, The Life of Mr. Thomas Betterton,
pubblicato nel 1710. In realtà il titolo è fuorviante: non si tratta di una vera
biografia, come invece vorrebbe far intendere quel Vita di Thomas Betterton,
e Betterton è un pretesto per introdurre di fatto un trattato di recitazione.
Approfittando della notorietà e del prestigio dell’attore da poco scomparso,
Gildon racconta di essere andato con un amico, prima che Betterton
morisse, a trovarlo nella sua casa di campagna a Reading e che durante
questa visita il vecchio uomo di teatro si era dilungato a parlare della sua
professione, delle qualità e dei difetti nella recitazione, dando una serie di
consigli ai giovani attori.
Qualche informazione comunque, prima di cedere la parola a Betterton,
Gildon la dà, ma sono brevi cenni biografici, sulla famiglia, l’apprendistato,
le prime esperienze teatrali, l’incontro e il matrimonio con Mary
Saunderson, la carriera nelle varie compagnie e nei diversi teatri, fino alla
sua ultima beneficiata e alla morte. Il tutto in poche pagine, in una sorta di
sintetico compendio della storia teatrale di fine Seicento, oltre che di
un’intera vita di lavoro e di successi, sorvolando però proprio su quello che
sarebbe stato più interessante, cioè una descrizione dell’attore e della sua
recitazione.
D’altra parte, questo è ciò di cui più si sente la mancanza nelle descrizioni
degli attori del passato, quando i documenti indicano che cosa recitavano
ma non come. Se dobbiamo credere a Alfred Harbage non c’è un solo
esempio di analisi della recitazione elisabettiana in generale né di un attore
elisabettiano in un ruolo particolare. Il primo attore di cui si abbiano
descrizioni ‘sofisticate’, cioè fatte da testimoni che si mostrano consapevoli
7 AAR Anno VI, numero 12 – Novembre 2016
di alternative stilistiche, è proprio Betterton perché per la prima volta sono
disponibili resoconti testimoniali dettagliati della sua recitazione.1
In alcuni casi le descrizioni dicono poco, come le lodi di Samuel Pepys («il
migliore degli Amleti») o di Alexander Pope («il migliore attore che abbia
mai visto»), oppure come le linee ereditarie di cui parla John Downes in
Roscius Anglicanus, il quale in un paio di casi – nei ruoli di Amleto e Enrico
VIII – attribuisce alla recitazione di Betterton la discendenza diretta dalle
istruzioni dispensate da Shakespeare a un attore della sua compagnia
(rispettivamente Taylor e Lowen), poi ‘ricordate’ da Davenant che aveva
assistito alle rappresentazioni e da questi trasmesse a lui.2 Diverso e più
articolato l’articolo che Richard Steele gli dedica sul Tatler (n. 167) il 4
maggio 1710, in occasione del suo funerale, quando con rispettosa
ammirazione lo paragona a Roscio e agli attori del teatro antico, per dargli
comunque la palma della vittoria ripercorrendone la grandezza e citando
un po’ più in dettaglio la sua interpretazione di Otello.
Comunque, anche dai pochi testi in cui vengono descritte la sua figura e la
sua voce, non è facile sapere quale sia il ritratto più ‘vero’. In An Apology
l’autore Colley Cibber, un attore che aveva lavorato nella compagnia di
Betterton fino dagli anni ’90, lo descrive in termini positivi:
La persona di questo eccellente attore si accordava alla sua voce, virile più che
dolce; era di statura non molto sopra la media e tendeva a essere corpulento, di
aspetto serio e intenso, con delle membra più atletiche che non di proporzioni
delicate. Eppure, nonostante la sua forma, dall’armonia del tutto derivava un
portamento imponente e maestoso, che a quelli più belli di lui o, come li
chiama Shakespeare, “i riccioluti pupilli”3 della sua epoca, è sempre mancato
qualcosa per eguagliare.4
Ma un altro ‘testimone’, Anthony Aston, in un breve saggio scritto alla
maniera di Cibber, A Brief Supplement, ne dava un’immagine diversa, pur
dovendo riconoscerne la bravura:
Betterton (per quanto attore eccellente) aveva il difetto di una brutta figura,
essendo sgraziato, con la testa grossa, il collo corto e tozzo, le spalle curve.
Aveva le braccia corte e grasse e non le sollevava mai al di sopra dello
stomaco. Stava spesso con la mano sinistra sul petto, tra la giacca e il gilet,
mentre con la destra preparava il suo discorso. Le sue azioni erano poche ma
giuste. Aveva occhi piccoli e una faccia larga, leggermente butterata; era
corpulento, con le gambe robuste e i piedi grandi. […] Il suo aspetto era serio,
venerabile e maestoso, negli ultimi tempi un po’ invalido. La sua voce era
A. Harbage, “Elizabethan Acting”, in PMLA, 54, 3 (Sept. 1939), pp. 685-708, p. 693.
S. Pepys, Diary, 4 novembre 1661; A. Pope, Anecdotes, vol. 1, p. 23 (citato in P. Rogers, A
Political Biography of Alexander Pope, London, Routledge, 2010, p. 46); J. Downes, Roscius
Anglicanus, London, Printed for H. Playford, 1708, p. 21 e p. 24.
3 W. Shakespeare, Othello, I, 2.
4 C. Cibber, An Apology for the Life of Colley Cibber, London, Watts, 1740, p. 70.
1
2
8
Charles Gildon, Vita di Thomas Betterton
bassa e simile a un brontolio ma riusciva a regolarla portandola abilmente a
un’intensità che attirava l’attenzione di tutti, addirittura di damerini e
venditrici di arance. Era incapace di danzare, persino balli folkloristici […].
Betterton era un attore molto versatile e poteva recitare ruoli da Alessandro a
Sir John Falstaff .[…] Io ho spesso desiderato che Betterton avesse lasciato la
parte di Amleto a qualche giovane attore (che avrebbe potuto impersonarlo,
anche se non recitarlo, meglio) perché, quando si gettava ai piedi di Ofelia
sembrava troppo serio per essere un giovane studente appena arrivato
dall’Università di Wittenberg, e le sue battute sembravano più le sentenze di
un saggio filosofo che non le facezie argute di un giovane Amleto, ma nessun
altro avrebbe accontentato il pubblico, tanto lui era radicato nella
considerazione di tutti.5
Più che per quello che Aston dice di Betterton, il ritratto che ne fa è
interessante per un breve inciso che oppone l’idea dell’’impersonare’ con
quella del ‘recitare’ («who might have Personated, though not have Acted,
it better»). In qualche modo, e questo ci riporta a Gildon e al suo trattato, la
notazione riguarda l’annosa questione del naturalismo e del formalismo
sulla scena. Questo passaggio distingue a mio parere le due posizioni. Un
giovane attore avrebbe potuto avere la figura giusta per recitare il ruolo di
un principe della sua età, e quindi impersonarlo, identificandosi con lui.
Betterton, ormai in là con gli anni, doveva invece ricorrere alla ‘recitazione’,
alla sua bravura e alla sua esperienza, per poter sostenere il ruolo del
giovane studente. Ancora una volta, cioè, ricorrere alle convenzioni teatrali,
a quella «volontaria sospensione dell’incredulità» di cui Coleridge parlava
a proposito delle «ombre dell’immaginazione» poetica e che funziona più
che altrove a teatro, dove lo spettatore deve, come chiede il Coro di Henry
V, supplire con l’immaginazione a ciò che manca in una scena che per
misure, numero di uomini e, in epoca elisabettiana, per la quasi totale
assenza di oggetti sul palcoscenico, risulta non realistica né illusionistica.
Nel mondo anglosassone, soprattutto cercando di ricostruire le modalità
attoriali elisabettiane in assenza di trattati dell’epoca e, come abbiamo
visto, di descrizioni illuminanti, i critici si sono spesso divisi tra chi
pensava che le tecniche vocali e gestuali insegnate nelle scuole come parte
della retorica e dell’oratoria determinassero lo stile della recitazione e chi
invece, rifacendosi a Aristotele e a Cicerone, parlava di imitazione del vero,
del dramma come «imitatio vitae, speculum consuetudinis et imago veritatis».6
Il problema però non è limitato al teatro fra Cinque e Seicento, perché
anche in seguito, con la riapertura dei teatri dopo la parentesi della
rivoluzione puritana e per tutto il Settecento, si continuerà a opporre un
modo di recitare formale con uno detto ‘naturale’, cioè spontaneo,
A. Aston, A Brief Supplement to Colley Cibber, Esq., his Lives of the Famous Actors and Actresses
(1747?), Appendice a W. Nicholson, Anthony Aston, Stroller and Adventurer, Published by the
Author, South Haven, Michigan, 1920, pp. 75-98, pp. 75-77.
6 Cicerone, De Republica, IV. 11.
5
9
AAR Anno VI, numero 12 – Novembre 2016
verosimile, lontano dallo stile declamatorio. L’apparire di Garrick sulle
scene inglesi a metà del diciottesimo secolo per esempio fu salutato proprio
come una novità: un modo realistico, credibile, senza gesti stereotipati e
convenzionali.
Il ricorrere dei termini «natura» o «naturale» non significa però che il
significato sia chiaro. Gildon stesso puntualizza che usando questi termini
sorge la solita difficoltà: che tutti sono d’accordo a scrivere che la natura è
guida e dimensione sovrana, ma poi non sono così d’accordo su che cosa sia la
natura. Quelli che ne sono capaci forniscono i segni, gli indizi, i lineamenti
della natura in modo da sapere quando è rappresentata correttamente e
quando no; quelli non capaci, che sono la parte maggiore e più rumorosa, la
definiscono in modo così generale che risulta essere solo quello che ciascuno
immagina, e ciò fa sì che i contrari siano natura, perché uno chiama natura ciò
che gli piace e un altro chiama natura ciò che piace a lui.7
È sicuramente una questione spinosa e non facile da risolvere. Ma forse la
si può affrontare da un altro punto di vista. Più che parlare di recitazione
formale o naturale, per attori e scene ormai irrecuperabili e sulla base di
affermazioni di testimoni e di storici ben poco chiarificatrici, vale la pena di
confrontarsi con il problema del rapporto tra azione teatrale e oratoria, e fra
queste e le passioni.
E per farlo, torniamo indietro, al Cinque-Seicento e all’Inghilterra, dove si
era sviluppata la grande stagione del teatro elisabettiano e giacomiano,
apparentemente in assenza di teoria. Ciò che a fine Seicento sarebbe stato
rimproverato a Shakespeare e ai suoi contemporanei, persino a Jonson, che
era il più colto e accademico dei drammaturghi dell’epoca, era proprio il
non aver seguito le regole drammatiche, avere scritto opere irregolari,
rozze, improbabili, pur riconoscendo loro la maestosità di un’architettura
gotica al confronto con la raffinatezza di un edificio neoclassico.8
Alla fine del Cinquecento non si parlava per il teatro inglese di norme circa
la voce o i gesti in scena. Anche i consigli di Amleto agli attori non
derivano dalla trattatistica antica circa l’oratoria, ma dalla vita teatrale
stessa, da ciò che era osservato sul palcoscenico e tra le compagnie rivali.
Insomma, quello che risulta chiaramente da certi passaggi nei trattati di
retorica dell’epoca è che, contrariamente a quanto si può pensare, non è il
teatro a ricavare insegnamenti dall’oratoria, bensì questa a indicare negli
attori gli esempi da imitare.
Thomas Elyot in The Governour (1531), dedicato a Enrico VIII, tra gli
attributi del perfetto oratore aveva incluso «la voce e i gesti di chi sa
Infra, p. 47.
A. Pope, Preface a The Works of Shakespear, a cura di Alexander Pope, 6 voll. (London, 1725),
vol. 1, p. 35.
7
8
10
Charles Gildon, Vita di Thomas Betterton
recitare commedie».9 Thomas Heywood nella sua Apology indicava che la
recitazione era usata come mezzo per istruire il giovane oratore e dargli
audacia e fiducia in se stesso, anche se è probabile che i suoi riferimenti alla
retorica servissero ad accreditarsi come difensore del teatro, mostrando il
legame tra la pratica scenica e una disciplina rispettabile e tradizionale.10 A
fine secolo, la definizione che, nel suo trattato di retorica The Garden of
Eloquence (1593), Henry Peacham dà della figura detta «Mimesi» è:
«un’imitazione del discorso in cui l’oratore contraffà non solo ciò che uno
ha detto ma anche il suo modo di dirlo, la pronuncia e i gesti, imitando
tutto come è stato nella realtà: e questo è sempre ben realizzato e presentato
in modo naturale da un attore abile e capace». 11 In tutti questi casi la
retorica guarda al teatro come a un esempio vivo di quello che l’oratore
dovrebbe imparare, ma quando si osserva il processo inverso non si
trovano testi che chiedano all’attore di guardare all’actio o alle norme
dell’oratoria per trovarvi elementi da imitare. Piuttosto si conferma che le
due arti sono al tempo stesso simili ma anche distanti e differenti. Richard
Flecknoe in A Short Discourse of the English Stage dice di Richard Burbage:
Possedeva tutte la facoltà di un eccellente oratore (animava le sue parole con la
voce e il discorso con l’azione) […]; eppure nonostante ciò era sempre un
eccellente attore e non abbandonava mai il suo ruolo quando aveva finito di
parlare, ma con gli sguardi e i gesti lo manteneva fino alla fine…12
Per Thomas Wright, dato che sia l’oratore che l’attore imitano passioni
autentiche, la differenza sta nel concetto di passione, poiché il primo è
tenuto a provare lui stesso le passioni che vuole comunicare e suscitare nel
pubblico, mentre il secondo può fingerle, ad arte.13
Tutti questi esempi mostrano che le due discipline erano sentite come
diverse e che si poteva parlare bene come un oratore ma che sulla scena era
necessario avere un’altra abilità, quella di entrare in una parte e di rendere
un personaggio coerente. L’attore doveva possedere la capacità di giungere
alla «personation», all’interpretazione di un ruolo coeso e simile al vero, al
di là della parola, del gesto e dell’azione scenica, le cui regole erano
stabilite fino dall’antichità e che dovevano essere, e venivano, insegnate. In
altri termini, come scrive Beckermann, «sebbene la tradizione retorica fosse
essenzialmente continentale, la tradizione teatrale elisabettiana era in gran
Citato da B. Beckerman, Shakespeare at the Globe, 1599-1609, New York, Macmillan, 1962, p.
116.
10 T. Heywood, An Apology for Actors, London, Printed by Nicholas Okes, 1612, seg. C3v.
11 Henry Peacham, The Garden of Eloquence. Conteyning the Figures of Grammer and Rhetorick,
London, H. Iackson, 1577, 111r.
12 Citato da A. Harbage, “Elizabethan Acting”, cit., p. 694.
13 T. Wright, The Passions of the Minde (1604), citato in A. Gurr, “Elizabethan Action”, in
Studies in Philology, 63, 2 (Apr. 1966), pp. 144-166, p. 147. Si veda anche C. Vicentini, La teoria
della recitazione dall’antichità al Settecento, Venezia, Marsilio, 2012, p. 120 e nota.
9
11
AAR Anno VI, numero 12 – Novembre 2016
parte autoctona».14 Questo secondo me spiega le ragioni di una separazione
tra oratoria e recitazione nell’Inghilterra del Cinque-Seicento: il teatro era
nato in epoca elisabettiana come esperienza pratica, direttamente legata ai
nuovi spazi scenici e alle nuove condizioni delle compagnie, e i
drammaturghi, anche i più colti e consapevoli della tradizione antica,
scrivevano con lo sguardo specificamente rivolto al pubblico e al mondo
teatrale londinese, alle novità messe in scena dai rivali, al successo o
all’insuccesso di storie e di personaggi. Gli attori studiavano i loro colleghi,
osservavano e copiavano soluzioni recitative trovate da altri attori nei teatri
vicini, in rappresentazioni che attiravano più pubblico. L’actio, come una
delle parti della retorica, veniva insegnata a scuola, nelle università, ma
non risulta che fosse materia di studio per chi recitava nei playhouses. Ha
ragione quindi uno dei più importanti studiosi delle pratiche teatrali
elisabettiane, Andrew Gurr, quando afferma:
Si deve riconoscere che il criterio della recitazione sulla scena era […] molto
più il ritratto convincente del personaggio che non la qualità dell’Azione e
dell’Eloquio dell’attore, qualunque cosa richiedesse un drammaturgo
accademico come Jonson. Il criterio ultimo era l’ombra platonica, il mondo
della realtà visibile, non i precetti dei teorici.15
E allora perché Gildon, cento anni dopo quel genere di teatro, sembra
smentire questa affermazione e sentire la necessità di fissare per gli attori
della sua epoca le regole di una corretta recitazione, di un’efficace
intonazione della voce e di una convincente prossemica del corpo? Per
farlo, riunisce le indicazioni e le prescrizioni degli autori antichi, dedicate
agli oratori e successivamente ai predicatori, ribaltando il rapporto tra
oratoria e scena teatrale, mostrando come quello che vale per un buon
avvocato o per chi reciti sermoni valga anche per gli attori, con la
differenza che questi devono apprendere il potere dell’azione, molto più
necessaria sul palcoscenico che non in tribunale o sul pulpito per dare vita
e credibilità a quello che viene recitato.
Tra l’epoca degli autori elisabettiani e giacomiani e quella di Gildon molte
cose erano accadute. Intanto i teatri erano rimasti chiusi per quasi
vent’anni: quanto bastava a cancellare molto del sapere scenico acquisito
prima. Quando con la restaurazione della monarchia, un decreto autorizzò
il ripristino di una vita teatrale e la ricostituzione delle compagnie di attori,
gli edifici in cui avevano avuto luogo gli spettacoli non esistevano più;
erano andati distrutti con la guerra civile o resi inservibili da usi impropri.
C’erano attori – tra i più famosi Charles Hart e Michael Mahun – che
continuarono a recitare dopo la Restaurazione, ma era ormai
irrimediabilmente perduta la vivace vita teatrale che aveva caratterizzato i
14
15
B. Beckermann, Shakespeare at the Globe, 1599-1609, cit., p. 121.
A. Gurr, “Elizabethan Action”, cit., p. 156.
12
Charles Gildon, Vita di Thomas Betterton
primi quarant’anni del secolo. Tra i drammaturghi dell’epoca giacomiana
gli unici sopravvissuti che funzionarono da trait-d’union tra i due mondi
furono Thomas Killigrew e William Davenant, autore dell’ultimo masque
messo in scena prima dell’ordine puritano di chiusura. Non a caso, dopo il
1660, saranno loro gli impresari che si spartiranno le licenze reali per le
uniche due compagnie autorizzate a produrre spettacoli teatrali,
rispettivamente la King’s Company e la Duke’s Company.
La vita teatrale di Londra non sarà più tanto affidata a imprenditori privati
spinti dal profitto e costretti a difendersi dalle autorità cittadine e dal
rischio di essere censurati, bensì dipenderà dalle «patents» date dal re, e
ogni forma di competizione e di concorrenza sarà drasticamente ridotta.
Ma in questo panorama, la vera novità è una diversa concezione dell’opera
teatrale, basata sulle teorie neoclassiche di importazione francese e sulla
spettacolarità offerta dalle novità dei drammi italiani per musica. Pur
tenendo astrattamente le distanze dalle esperienze di questi due paesi, i
drammaturghi inglesi ne vennero praticamente influenzati. Dryden scrive
nel suo trattato An Essay of Dramatic Poesy (1668) che i drammi francesi
sono noiosi a confronto con quelli inglesi, dove vi è maggiore varietà,
doppie trame, mescolanza di comico e tragico, invece di tutta quella
regolarità e quelle rime. Però poi lui stesso scrive tragedie eroiche in distici
rimati. L’opera italiana, inverosimile e basata sullo splendore dello
spettacolo più che sulla coerenza della trama e dei personaggi, sembra
essere rifiutata a confronto con i drammi più densi di significato della
tradizione inglese. Eppure Dryden e Davenant adattano Shakespeare per
musica, facendo di The Tempest uno show dove personaggi e incantesimi
sono duplicati e di Macbeth una tragedia dove le streghe, le danze e le
magie sono occasioni di mettere in scena spettacoli attraenti e straordinari.
Ciò cui tendono l’enfasi sulle teorie drammatiche e le discussioni sulle
regole aristoteliche e sul concetto di decorum, è l’esaltazione della
verosimiglianza sulla scena. Queste norme, importate dalla Francia,
vengono dibattute in Inghilterra come elementi di probabilità nell’azione
scenica, dato che allo spettatore non dovrebbe più essere chiesto di
immaginare luoghi e tempi diversi a ogni cambio di scena, né di provare
sconcerto alla mescolanza di alto e basso, di comico e tragico.
Il richiamo alla recitazione ‘naturale’ che Gildon fa nel suo trattato va nella
stessa direzione: impedire gesti e toni di voce che non siano appropriati,
giusti, riconoscibili come veri; insomma, verosimili. Così, offre al lettore un
manuale in cui, perché la recitazione possa essere plausibile e non eccedere
l’imitazione realistica, deve essere il risultato dello studio dei movimenti e
delle espressioni collegati alle passioni, che qui vengono elencati e
catalogati: un modo ‘naturale’ che si può imparare rispettando certe norme,
intese sia come prescrizioni formali che come ‘misure’.
13
AAR Anno VI, numero 12 – Novembre 2016
La voce di Betterton che enuncia nel testo queste regole, sia pure sotto
forma di consigli, le fa sembrare frutto dell’esperienza, ma in realtà sono
riprese che Gildon fa da opere tradizionali di retorica e di oratoria, spesso
addirittura citate di seconda mano. Come dimostra Claudio Vicentini nel
suo libro sulla teoria della recitazione, alla base di tutta la trattatistica
sull’argomento a partire dal I secolo d.C. si trovano gli scritti di Cicerone
(Orator e De Oratore) e di Quintiliano (Institutio oratoria). Sono questi i testi
che sottolineano i punti di convergenza tra oratoria e recitazione teatrale e
che analizzano in dettaglio tutti gli elementi (intonazione, movimenti,
gesti) di una «espressività fisica necessaria per impressionare l’uditorio e
modellarne l’animo».16 Ai due retori latini si rifà anche Gildon, ovviamente,
citandoli in continuazione, ma quasi mai direttamente. Il testo del suo
trattato è un vero e proprio puzzle dove si susseguono e si intersecano voci
diverse: voci su voci, autori che citano a loro volta altri autori. Tutti
comunque rigorosamente indicati, talvolta con nome e cognome, altre volte
come «il nostro autore» oppure «un amico» o «un dotto gesuita» o altro
ancora. Gildon non finge che sia tutta farina del suo sacco, tanto più che i
riferimenti servono da autorevole sostegno al suo progetto che è quello di
scrivere il primo manuale inglese sull’acting trasferendo le norme per
l’oratore agli attori, adattandole alla scena e al pubblico teatrale.
A parte i rimandi a Plutarco, da cui trae aneddoti sulle vite di Demostene e
di Cicerone, le riprese più lunghe e più articolate sono dal trattato di
Michel Le Faucheur, nella versione inglese, da cui Gildon attinge a piene
mani, copiando o riassumendo prima una lunga sequenza sul gesto, che era
invece alla fine nel testo francese, e poi più di cento pagine sulla voce.17 Ma
vi sono altri brani intersecati a quelli tratti da Le Faucheur, e vengono da
Luciano sulla mimica, dalle Vacationes autumnales di Louis de Cressolles del
1620 sulle azioni delle varie parti del corpo, dall’Onomasticon di Giulio
Polluce sui difetti della voce. Il trattato verso la fine offre anche una
disamina della danza, che Gildon compila usando ancora una volta
estensivamente una fonte: il trattato del medico Gerolamo Mercuriale, De
arte gymnastica, dedicato alle varie forme di attività ginnica, ivi compreso il
ballo. In chiusura, viene copiata una lunga lettera – annunciata anche nel
frontespizio del trattato di Gildon – di Charles de St. Evremond al Duca di
Buckingham sull’opera musicale italiana e francese: il marchese, che aveva
vissuto da esule in Inghilterra gli ultimi quarant’anni della sua vita,
definisce l’opera come «una stupidaggine sfarzosa e magnifica», dove il
canto rende tutto assurdo. Più che per prendere parte nella controversia in
C. Vicentini, La teoria della recitazione dall’antichità al Settecento, cit., p. 39.
Michel Le Faucheur, Traitté de l’action de l’orateur (1657); traduzione inglese anonima An
essay upon the action of an orator, as to his pronunciation and gesture, London, Printed for Nich.
Cox at the Golden Bible without Temple-Bar, 1680(?).
16
17
14
Charles Gildon, Vita di Thomas Betterton
corso all’epoca tra l’opera italiana e quella francese, di cui Gildon afferma
esplicitamente di non interessarsi, la citazione di St. Evremond gli serve
ancora una volta per sottolineare come il melodramma abbia ben poco di
verosimile, con i personaggi che si mettono a cantare nel bel mezzo di
un’azione, anche di un’azione quotidiana come dare un ordine a un servo o
parlare con un amico. Soprattutto però gli serve per introdurre l’argomento
dell’opera, un’altra forma di teatro, e dare così una degna conclusione al
suo libro, completando la trattazione di tutti i problemi e i generi connessi
al palcoscenico. E magari anche per esaltare la musica inglese, con Purcell
contrapposto ai compositori continentali, come nel testo spesso aveva
sostituito gli esempi francesi delle sue fonti con brani della tradizione
drammatica inglese, soprattutto di Shakespeare.
Visto l’interseco di citazioni, riferimenti, testi diversi, dobbiamo forse
definirlo un plagiatore, come spesso è stato considerato, oppure un teorico
che, pur ripercorrendo vie già note – ma non in Inghilterra – della
trattatistica sull’azione e sulla voce, dice qualcosa di nuovo?
Interessante è la risposta positiva che a questa domanda dà Vicentini,
quando sottolinea, tra gli altri, almeno due punti particolarmente
rilevanti.18 Il primo è «l’esigenza di violare sulla scena le regole prescritte
dal codice dell’actio», inaccettabile per un oratore o per un predicatore ma
invece necessaria nella rappresentazione teatrale, dove prevalgono azione,
una gestualità più visibile e efficace, un ritmo vario dell’eloquio, al fine di
rendere la dinamica delle passioni. Il secondo è il richiamo alla cultura
dell’attore e in particolare alla conoscenza e allo studio della pittura, che
offre un repertorio di espressioni e di gesti e che può insegnare a chi recita
a immaginare la scena dal punto di vista del pubblico, imponendogli di
ricreare sul palcoscenico una situazione di relazioni e di sguardi tra i
personaggi che sia credibile: nessun attore deve permettersi di distrarsi
dopo la sua battuta, perché nei quadri di genere storico che raffigurano più
persone, «sulla tela non c’è mai nessuno che non abbia interesse per ciò che
accade».19
Anche a me sembra che queste siano le novità più rilevanti che Gildon
porta nella discussione sulla recitazione, ponendosi inoltre come il primo a
farlo in ambito inglese.
Un’ultima considerazione: se la pittura diventa per Gildon un oggetto di
studio suggerito agli attori, lo spettacolo diventerà poco dopo il modello
per pittori e scultori, come dimostrerà praticamente, a metà del secolo, la
figura di Garrick e i suoi molteplici ritratti di scena fatti da artisti famosi.20
C. Vicentini, La teoria della recitazione dall’antichità al Settecento, cit., pp. 148-160, cui si
rimanda per un’analisi più dettagliata del rapporto tra Gildon e la trattatistica sul problema
della recitazione.
19 Infra, p. 25.
20 Si veda, di chi scrive: Rappresentare l’invisibile: la scena di Macbeth in Picturing Drama.
Illustrazioni e riscritture dei grandi classici, dall’antichità ai nostri giorni, Atti del Convegno
18
15
AAR Anno VI, numero 12 – Novembre 2016
E, tra questi, Hogarth, che dichiarò apertamente di avere preso il teatro
come idea progettuale in tutta la sua opera e non solo nelle riproduzioni di
scene teatrali: «Ho tentato di trattare i miei soggetti come se fossi un
drammaturgo: il quadro è il mio palcoscenico, uomini e donne sono i miei
attori che attraverso certe azioni e certi gesti mostrano una pantomima».21
La relazione tra la scena teatrale e la pittura si intensificherà in Inghilterra
nel corso del diciottesimo secolo, con il moltiplicarsi di illustrazioni e di
opere visive di carattere scenico, fino a giungere a quella iniziativa
commerciale che fu la Boydell Shakespeare Gallery, determinante per la
mitizzazione di Shakespeare come «bardo nazionale», ma anche per la
diffusione a livello popolare dell’interesse e dell’amore per il teatro.
Loretta Innocenti
Internazionale di Studi (Trento, 20-22 marzo 2013), a cura di Sandra Pietrini, Allegato CDrom con apparato iconografico a cura di Valeria Tirabasso, Alessandria, Edizioni dell’Orso,
2013, pp. 183-193.
21 Citato in M. Merchant, Shakespeare and the Artist, Oxford, Oxford University Press, 1959, p.
44.
16
Charles Gildon, Vita di Thomas Betterton
CHARLES GILDON
Vita di Thomas Betterton, il famoso attore tragico recentemente scomparso,
dove si considerano l’azione e l’eloquio sulla scena, in tribunale e dal
pulpito. Con il giudizio del defunto Monsieur de St. Evremond, uomo di
genio, sulla musica e l’opera italiana e francese, in una lettera al Duca di
Buckingham
Quis nostrum tam animo agresti & duro fuit, ut Roscii morte nuper non
commoveretur? Qui cum esset Senex mortuus; tamen propter excellentem Artem
ac Venustatem videbatur omnino mori non debuisse.
Cic. In Orat. Pro Archia Poeta.
17 AAR Anno VI, numero 11 – Maggio 2016
All’egregio Richard Steele22
Signore,
questo testo era in uno stato embrionale quando ho deciso di completarlo
per affidarlo alla vostra protezione. Anche se generalmente sembra che a
noi autori piaccia ornare il frontespizio dei nostri libri con dei titoli
pomposi, quasi a ottenere per il nostro lavoro non solo sicurezza ma anche
fama, tuttavia non posso fare a meno di rammentare che tra gli antichi per
uno scrittore il nome di un amico cólto aveva più valore della dignità di un
uomo di potere, e che la grandezza di un qualsiasi politico non innalzava il
prestigio degli autori nella repubblica delle lettere al di sopra dei loro
meriti artistici e scientifici, a meno che non li nobilitasse con
l’incoraggiamento, cosa che raramente al giorno d’oggi arriva dai grandi.
Perciò, dovendo scrivere di un’arte che non è stata molto coltivata nel
nostro paese, in pratica o in teoria, ciò cui dovevo aspirare di più nel
pubblicare questo saggio era l’approvazione di uno cui quelli dotati di
spirito e di cultura assegnano un posto negli studi più raffinati e nelle belle
arti. Un discorso di questo genere non è privo della piacevole vanità di
voler raccomandare un uomo al mondo in quanto persona abile nella
materia di cui si tratta, e il merito di Mr. Steele nel regno delle Muse è
troppo noto ai beaux esprits per non mettermi al riparo dal timore di essere
preso in giro come fa Ascilto con Encolpio in Petronio Arbitro: «Ut foris
Cœnares Poetam laudasti»;23 oppure come Manley con Lord Plausible:
«Che piuttosto che non adulare, avrebbe adulato i poeti del tempo che
nessun altro avrebbe adulato».24
Ma io ho scelto di indirizzare a voi questo discorso perché l’arte di cui parla
vi è familiare, e la qualità dell’azione e dell’eloquio è naturalmente tenuta
in considerazione da un drammaturgo. Oso credere che, così come sono il
primo (a quanto ne so) a parlare di quest’argomento nel saggio che avete
davanti, penso anche di avere completamente esaurito il tema e steso regole
generali e particolari tali da sollevare il teatro dall’abbandono in cui giace al
momento e portarlo a raggiungere quella reputazione che ha attinto dalla
Richard Steele (1672-1729), scrittore e politico irlandese, diresse per qualche tempo il
Theatre Royal a Drury Lane per il quale scrisse commedie sentimentali di successo. Resta
famoso per aver fondato con Joseph Addison (1672-1719) il primo giornale inglese, The
Tatler, poi chiuso per motivi politici, e successivamente The Spectator e The Guardian. Steele
aveva difeso Gildon quando nel 1706 era stato accusato di eversione e lo aveva in seguito
aiutato nel suo lavoro.
23 «Per cenare fuori a ufo lodasti il padrone di casa come poeta» (Petronio Arbitro, Satyricon,
10, 2).
24 Plausible è un personaggio di The Plain Dealer (L’uomo onesto) di W. Wycherley. La
battuta citata è però detta da Olivia, che parla con Eliza di Mr. Novell.
22
18
Charles Gildon, Vita di Thomas Betterton
nazione più raffinata al mondo e quella stima che si guadagnerà sempre da
uomini di buon senso, quando sia retto da leggi giuste e arricchito, come
dovrebbe essere, da buoni attori e da buoni drammi.
Gli uni possono essere educati, spero, da ciò che ho scritto nel trattato che
segue e gli altri dal vostro esempio, che può ispirare i nostri autori con la
conoscenza della Natura e dell’arte di non perderla mai di vista, unita
all’armonia, al decoro e all’ordine, che dovrebbero risplendere sempre in
tali rappresentazioni pubbliche.
Il vostro amico sincero e umile servitore.
19
AAR Anno VI, numero 11 – Maggio 2016
Prefazione
Non avrei importunato il lettore con una prefazione a questo trattatello, se
non fosse per prevenire un’obiezione che mi si può fare e cioè che sono
stato un plagiatore, e che ho fatto passare per mie delle regole che ho preso
da altri autori. Ammetto di averne prese in prestito molte dai francesi, ma
molte di queste i francesi le hanno tratte da Quintiliano e da altri autori.
Essi comunque hanno migliorato gli antichi in un particolare, cioè nel
sostituire ciò che si era perso per la trasformazione dei costumi con
osservazioni più peculiari alla nostra epoca.
Le arti non sono mai state portate a perfezione da uno solo e, anche se io
stesso ho fatto diversi progressi rispetto a quelli che mi precedevano, so che
solo uno studio accurato e osservazioni giudiziose possono produrre
norme nuove e più giuste. Se poi avrò indicato la strada con un certo
successo, la soddisfazione sarà troppo grande per essere sminuita dal fatto
che chi viene dopo di me si cimenterà con più maestria.
Essendo obbligato a prendere in considerazione l’azione e la parola del
pulpito e del tribunale, così come del teatro, ho dovuto portare esempi
dall’oratoria più che dal dramma. Se questo incontrerà il favore degli
eruditi, forse potrei pubblicare un trattato per il solo teatro. Un attore,
comunque, che padroneggi le qualità che dovrebbe possedere, studiando
questo trattato con attenzione, può raggiungere una perfezione che
quest’epoca non ha ancora visto.
20
Charles Gildon, Vita di Thomas Betterton
Epilogo
detto da Mrs. Barry al Theatre Royal in Drury Lane, il 7 aprile 1709
quando ha recitato in Love for Love25 con Mrs. Bracegirdle a beneficio di Mr.
Betterton,
scritto da Nicholas Rowe, Esq.26
Come un cavaliere in cotta e maglia
La fama ha vinto in più d’una battaglia
E poi dal sacro fuoco abbandonato
S’è a vita privata ritirato,
Se lì gli giunge la tragica novella
Ch’è in pericolo una gentil donzella
Sente pena nel cuore generoso
E ritrova uno spirto bellicoso,
Torna sul campo con la sua armatura
E combatte ancor senza paura,
Così noi, fedeli all’amicizia,
Abbiamo rinunciato alla pigrizia
Per Thomas e per darvi ancor letizia.
Per sostenere l’indifesa scena
Damigelle erranti siamo diventate.
Love for Love di William Congreve (1670-1729), drammaturgo e difensore del teatro contro
le accuse di immoralità mosse da Jeremy Collier e da altri critici. La prima rappresentazione
aveva avuto luogo nel 1695 inaugurando Lincoln's Inn Fields, sede della compagnia di
Betterton. Nella sua beneficiata nel 1709, pur non essendo più in perfette condizioni fisiche,
Betterton recitò ancora una volta la parte di Valentine, affiancato da Anna Bracegirdle e da
Mrs. Barry. Si dice che il ricavato fosse di oltre cinquecento sterline.
26 L’epilogo fu scritto apposta per la rappresentazione del 7 aprile 1709, dapprima
pubblicato anonimo, poi attribuito a Nicholas Rowe (1674-1718), poeta e drammaturgo,
primo curatore delle opere shakespeariane che stampò in un’edizione in sei volumi nel 1709.
Elizabeth Barry (1658?-1713) fu la prima grande attrice inglese alla riapertura dei teatri nel
periodo della Restaurazione. Sembra che John Wilmot, conte di Rochester, si sia occupato
della sua istruzione teatrale. Ne fu l’amante e gli dette due figlie. Recitò in tutte le tragedie
di Otway e dal 1680-81 in poi nella Duke’s Company, con Betterton come partner. Ebbe
relazioni con Otway e con Etherege. Aveva debuttato nel 1673 e nel 1682 era ancora la più
importante delle attrici della compagnia, risultato dell’unione di King’s e Duke’s. Famosa
per la sua abilità nei ruoli patetici. Si ritirò nel 1710.
Anne Bracegirdle (1673/4-1748) fu allieva e pupilla di Betterton. Fu considerata una delle
attrici più importanti della United Company, nata nel 1682 dalla fusione delle due
compagnie esistenti. Con Betterton e Elizabeth Barry, nel 1695, si ribellò alla gestione
tirannica del direttore Christopher Rich ed ebbe il permesso dal re di fondare una nuova
compagnia. Nel 1707 si ritirò dalle scene e tornò a recitare solo per una volta, due anni dopo,
nella rappresentazione di Love for Love di Congreve, a beneficio di Betterton.
25
21
AAR Anno VI, numero 11 – Maggio 2016
Quest’uomo un tempo era davvero un vate,
Senza aiuto teneva su la schiena,
Ma ora reso fragile dagli anni
Deve essere aiutato da due zanni.
Ecco a cosa conduce la Natura.
Non insultatela però perché ho paura
Che con voi potrebbe essere più dura.
È anziano ma vedrete la sua forza:
Un nocciol duro in un’antica scorza.
Nel passato sapeva meglio recitare
Ma ancora quel che può vi vuole dare.
Chi tra i giovani qui lo può sfidare?
Ciò che è stato io ve l’assicuro
Sarà un tema nel prossimo futuro
Come Roscio, attore imperituro.
Se non foste venuti qui stasera
Sarebbe apparso in una furia nera
Lo spettro di Shakespeare, ne son certa,
Contro questa viltà in lotta aperta.
L’avreste udito lamentarsi forte
Che le Muse subiscan questa sorte
E i drammi suoi sian destinati a morte.
Ma tutti voi che ora vi accalcate,
Del genio amici, l’impegno completate:
E al merito fedeli, siate umani,
Date qualcosa in più d’un battimani.
Se un tempo vi è piaciuto quanto credo
Dategli ora onorevole un congedo.
Vivere in pace, questo gli sia reso
Dopo avere il coturno sacro appeso.
22
Charles Gildon, Vita di Thomas Betterton
Introduzione
Si è detto che Bruto e Cassio erano stati gli ultimi romani; così si potrebbe
dire che Betterton sia stato l’ultimo dei nostri attori tragici. Perciò, tanto
devono alla sua memoria tutti gli amanti del teatro che non ho potuto
rinunciare al progetto di dare al suo nome, con questo trattato, una durata
un po’ più lunga di quella che la natura ha accordato al suo corpo. Non oso
pensare che possa ritenersi offensivo per la nostra reputazione di uomini
onesti, o che hanno una posizione e del buon senso, esprimere rammarico
per la perdita di un uomo così eccellente in un’arte che ora è in decadenza,
ma alla quale gli antichi davano un valore speciale, poiché è chiaro dal
motto di questo libro che Cicerone, difendendo la causa del poeta Archia,
disse al giudice, uomo di prima qualità, che erano tutti addolorati per la
morte dell’attore comico Roscio; o, in modo più magniloquente: «Chi di noi
aveva un carattere così volgare e aspro da non commuoversi alla recente
morte di Roscio? Sebbene sia morto vecchio, pure, per l’eccellenza della sua
arte e la bellezza dell’interpretazione, sembrava totalmente immune dalla
morte».27
Difficile a dirsi se Betterton o Roscio fossero o no simili nelle loro qualità di
attori ma finora è certo che se anche l’eccellenza del romano non fosse stata
grande, quella dell’inglese è stata la più grande che abbiamo mai avuto, e
pur dovendo riconoscere che al tempo di Cicerone il decoro del teatro era
tenuto in maggiore considerazione di adesso, possiamo immaginare che
Betterton nel suo modo particolare di recitare stesse alla pari con Roscio,
specialmente quando consideriamo che il nostro attore eccelleva sia nella
commedia che nella tragedia, mentre quello romano solo nella prima, a
quanto ne sappiamo.
Per riconoscere il primato all’attore inglese, scrivendo la sua vita, farò in
modo di fargli dare ad altri istruzioni tali che, se verranno comprese
perfettamente e messe in pratica in modo corretto, renderanno così belle le
loro interpretazioni da far sembrare la perdita di Betterton meno grave per
il teatro. Platone e Senofonte introducono Socrate nei loro discorsi per dare
più autorità a quello che dicono nei punti che vogliono sottolineare con
maggiore forza ai lettori. Perciò io farò un uso simile di Betterton, su un
argomento di cui ben a ragione poteva essere considerato giudice molto
competente.
So che si potrebbe obiettare che le qualità che gli faccio richiedere e i
precetti che dà sembrano rendere impossibile a chiunque altro raggiungere
27 Il poeta Aulo Licinio Archia fu maestro di retorica di Cicerone: questi lo difese quando
venne accusato di usurpare la cittadinanza romana e riuscì a farlo assolvere. La citazione su
Roscio è parte della difesa della cultura fatta da Cicerone nell’orazione Pro Archia poeta (62
a.C.).
23
AAR Anno VI, numero 11 – Maggio 2016
la sua arte, come si dice Cicerone abbia fatto con l’arte oratoria nel suo De
oratore. È vero che gli faccio richiedere delle qualità che forse lui stesso non
aveva, ma penso che non vi possano essere obiezioni al fatto che siano
necessarie o almeno che favoriscano la formazione di un attore rifinito; ogni
giorno sentiamo molti pittori o anche amanti dell’arte elencare qualità
necessarie a un grande maestro della pittura storica che neppure
pretendono di possedere loro stessi. E lo stesso si può dire di molte altre
arti.
Se davvero venissero enunciati dei precetti o richieste delle qualità per cui
l’eccellenza fosse impossibile da ottenere, l’obiezione sarebbe più solida e
degna di attenzione, ma oso affermare che, ora che i teatri sono gestiti dagli
attori, non c’è una sola delle qualità scritte qui che non sia assolutamente
necessaria per rendere giustizia a quest’arte, in teoria come in pratica.
Non mi sembra che Cicerone, nel suo libro De oratore, abbia richiesto cose
impossibili a chi aspirava a imparare l’eloquenza; è evidente che non ha
finora scoraggiato altri dal tentare quella nobile scienza e che ogni epoca ha
prodotto qualcuno eccellente in essa, anche se pochi o forse nessuno è
arrivato a uguagliare lui nella pratica, per mancanza di quelle stesse qualità
che egli richiedeva per formare un perfetto oratore. Così, anche se per
essere un maestro perfetto sono necessarie tutte le qualità indicate,
chiunque non sia capace di raggiungerle tutte può ugualmente trovare lode
e anche lavoro. Perciò chi non ha un genio così ampio da apprendere il
tutto, dovrebbe applicarsi semplicemente alla recitazione, e contentarsene,
lasciando il compito di giudicare a quelli più qualificati a fare i giudici per
la loro maggiore abilità e conoscenza.
[1. Vita di Betterton]
Avendo premesso tutto questo a mo’ di introduzione, procederò ora con la
vita di Betterton.
Thomas Betterton era nato in Tuttlestreet, a Westminster. Suo padre era
uno dei cuochi di re Carlo I e quando il ragazzo ebbe l’età giusta fu
mandato a fare l’apprendista da un certo Mr. Rhodes, un libraio all’insegna
della Bibbia in Charing Cross, che aveva come sotto-apprendista
Kynaston.28
Ma ciò che preparò Betterton e il suo compagno al teatro fu il fatto che il
padrone Rhodes, essendo stato in passato custode del guardaroba della
compagnia reale dei comici a Blackfriars, nel 1659, quando il Generale
Edward Kynaston (1640-1712) è famoso per essere stato uno degli ultimi attori a
interpretare parti femminili dopo la Restaurazione e fino al momento in cui fu permesso alle
donne, con un decreto del re, di recitare nei teatri pubblici.
28
24
Charles Gildon, Vita di Thomas Betterton
Monck29 entrò a Londra con il suo esercito, ottenne una licenza dall’autorità
allora al potere per formare una compagnia al teatro Cockpit in Drury
Lane, e vi mise a capo i suoi apprendisti, Betterton per le parti maschili e
Kynaston per quelle femminili.
Betterton aveva circa ventidue anni quando ottenne un gran successo
recitando in The Loyal Subject, The Wildgoose Chase, The Spanish Curate30 e
molte altre commedie. Ma mentre il nostro giovane attore cresceva così
sotto il suo padrone Rhodes, Sir William Davenant,31 avendo ottenuto una
patente da re Carlo II per creare una compagnia con il nome di Duke of
York’s Servants, assunse Betterton con tutti quelli che recitavano per Mr.
Rhodes e nell’anno 1662 aprì il suo teatro in Lincoln’s Inn Fields, con la
prima e la seconda parte di The Siege of Rhodes,32 con nuove scene e
decorazioni del palcoscenico che furono per la prima volta introdotte in
Inghilterra.33 Questo sostengono alcuni, mentre altri hanno accusato
Betterton di essere stato il primo ad innovare le pratiche del nostro rozzo
teatro come se fosse un crimine; anzi, come se questo distruggesse la buona
recitazione, ma io credo lo dicano con poco buon senso e pochissima
conoscenza dei teatri di Atene e Roma dove sono portato a credere ci
fossero all’epoca della loro fioritura attori grandi quanto quelli che hanno
recitato qui, davanti a una scena dipinta. Infatti non riesco proprio a capire
29 George Monck, primo duca di Albemarle, soldato e uomo politico, ebbe un ruolo
fondamentale nella restaurazione della monarchia nel 1660.
30 Sono tutte commedie di John Fletcher: The Loyal Subject (Il suddito leale) rappresentata nel
1618; The Wildgoose Chase (La caccia all’oca selvatica) rappresentata nel 1621; The Spanish
Curate (Il curato spagnolo) scritta in collaborazione con Philip Massinger e rappresentata nel
1622.
31 William Davenant (o D’Avenant) (1606-1668) fu poeta, drammaturgo e impresario. Prima
della guerra civile fu incoronato poeta laureato e durante il Commonwealth, essendo un
sostenitore della causa monarchica, andò in esilio ma fu successivamente catturato e
imprigionato. Lo salvò l’intervento di John Milton e una volta libero allestì un piccolo teatro
privato a casa sua, Rutland House, dove rappresentare le sue opere. Dopo la Restaurazione
ebbe una delle due licenze concesse dal re per le attività teatrali. Davenant fu a capo della
Duke’s Company e fece costruire per i suoi attori un teatro a Dorset Gardens. L’altro ad
avere una «patent» fu Thomas Killigrew, a capo della King’s Company per la quale fu
costruito il Theatre Royal in Drury Lane.
32 The Siege of Rhodes (L’assedio di Rodi), su testo di W. Davenant con la musica di H. Lawes,
M. Locke e altri; narra della vittoria di Solimano e della sua flotta ottomana nel 1522 dopo la
quale i Cavalieri Ospitalieri furono scacciati dall’isola. Rappresentata per la prima volta a
Rutland House durante il regime puritano, nel 1656, quando i teatri erano chiusi per legge,
l’opera per essere prodotta ottenne una speciale licenza grazie all’espediente usato da
Davenant di chiamarla «recitative music» per ovviare alla censura che si applicava contro
qualsiasi forma di dramma.
33 Alla riapertura dei teatri nel 1660 molte furono le novità nella struttura dei teatri e nelle
rappresentazioni, non ultime le scene prospettiche e i cambi di scena, tecniche teatrali
derivate dalla tradizione del masque, spettacolo allegorico e illusionistico allestito
privatamente per nobili e sovrani nel periodo giacomiano e poi carolino.
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AAR Anno VI, numero 11 – Maggio 2016
come possa rovinare l’azione ciò che aiuta la rappresentazione e serve a
illudere piacevolmente per quanto riguarda lo spazio.
Il teatro di Atene era così impreziosito che decorazioni o abbellimenti
costavano allo stato più delle guerre contro i persiani, e i romani, sebbene i
loro drammaturghi fossero molto inferiori a quelli greci (se da quelli che ci
restano possiamo farci un’idea di quelli che sono perduti), non erano
comunque indietro quanto a magnificenza del teatro per aumentare il
piacere della rappresentazione. Se questo era ciò che Betterton pensava di
fare, era nel giusto, perché spesso gli spettatori sono confusi circa il luogo e
la situazione rappresentati da una scena che dovrebbe dare risalto al
dramma e servire a ingannarci piacevolmente, quando davanti a sé non
vedono altro che delle tende di cotonaccio o, nel migliore dei casi, un pezzo
di un vecchio arazzo pieno di strane figure che quasi spaventano il
pubblico.
Insisto perciò nel dire che va a suo merito aver cercato di rendere eccellente
la rappresentazione che prima era solo imperfetta.
Betterton, diventato ora la figura principale tra gli uomini della compagnia
di Sir William, mise gli occhi su Mrs. Saunderson,34 che era non meno
eccellente tra le attrici e che, essendo cresciuta nel teatro di Davenant, ogni
giorno migliorava nella sua arte e, avendo per natura quei pregi richiesti a
una perfetta attrice, vi aggiungeva la bellezza di una vita virtuosa, per cui
fino alla vecchiaia mantenne le qualità di una donna perbene. Perciò
Betterton scelse questa signora per farne sua moglie e questa scelta, dato
che derivava dalla stima che egli aveva per i meriti tanto della mente
quanto della persona di lei, produsse una felicità coniugale che nient’altro
avrebbe potuto dare.
Ma nonostante Davenant e gli impresari si dessero da fare, sembra che il
teatro di moda in città fosse allora il Theatre Royal a Drury Lane e, poiché il
teatro in Lincoln’s Inn Fields non era così comodo, gli attori e altri
imprenditori costruirono un teatro molto più splendido in Dorset Gardens
e lo attrezzarono con tutti i macchinari e le decorazioni che le possibilità
dell’epoca fornivano. Anche questo però si dimostrò meno efficace di
quanto speravano, e altri mezzi furono impiegati e si mise in pratica la
massima politica del divide et impera, il che aumentò così tanto le faide e gli
odi nella King’s Company da spingere ad unire le due licenze.35 Per
realizzare questo progetto, fu firmato da entrambe le parti il documento
qui sotto riportato.
Mary Saunderson (1637-1712), attrice e cantante, sposò Betterton nel 1662. Fu una delle
prime donne a calcare il palcoscenico in Inghilterra e la prima a recitare nelle opere
shakespeariane ruoli femminili come Giulietta, Lady Macbeth o Ofelia.
35 La United Company, nata nel 1682 dall’unione delle due compagnie attive a Londra, stabilì
un monopolio e mise fine a una sana concorrenza tra i due teatri. Così furono messi in scena
sempre meno nuovi drammi.
34
26
Charles Gildon, Vita di Thomas Betterton
Memorandum, 14 ottobre 1681.
È stato stabilito tra Charles Davenant, Thomas Betterton e William Smith36 da una
parte e Charles Hart37 e Edward Kynaston dall’altra – che i suddetti Charles
Davenant, Thomas Betterton e William Smith paghino o facciano in modo che venga
pagata dai profitti degli attori a Charles Hart e Edward Kynaston la somma di cinque
scellini per ogni giorno in cui siano recitate tragedie o commedie o altre
rappresentazioni al Duke’s Theatre a Salisbury Court o dovunque la compagnia
reciterà finché siano in vita Charles Hart e Edward Kynaston, eccetto nei giorni in cui
attori e attrici giovani recitino solo a loro beneficio. Quest’accordo cesserà di essere in
vigore qualora i suddetti Charles Hart e Edward Kynaston in qualsiasi momento
recitino nella King’s Company o siano di effettivo ausilio agli attori di tale
compagnia, e finché la suddetta somma verrà pagata essi accettano e promettono di
non recitare al King’s Theatre. Se d’ora in poi Mr. Kynaston si prenderà la libertà di
recitare al Duke’s Theatre, quest’accordo parimenti sarà revocato per quanto
riguarda il suo vitalizio. In considerazione di tale vitalizio, Mr. Hart e Mr. Kynaston
promettono di cedere, entro un mese dalla firma del presente accordo, a Charles
Davenant, Thomas Betterton e William Smith tutti i diritti e i titoli che,
separatamente o insieme, possano avere su drammi, libri, costumi e scene del teatro
del Re.
Mr. Hart e Mr. Kynaston promettono anche di cedere, entro un mese dalla firma del
presente accordo, il diritto che, separatamente o insieme, hanno di sei scellini e tre
pence per ogni giorno in cui si reciti nel King’s Theatre. Mr. Hart e Mr. Kynaston
promettono anche di promuovere, per quanto in loro potere e interesse, un accordo
tra i due teatri; e Mr. Kynaston in particolare promette di cercare per quanto può di
liberarsi per poter recitare al Duke’s Theatre, ma non sarà obbligato a recitare a meno
che non riceva dieci scellini al giorno per le sue interpretazioni e al quel punto il suo
vitalizio cesserà. Mr. Hart e Mr. Kynaston si ripromettono di ricorrere alla legge con
Mr. Killigrew per far rispettare questi articoli e pagheranno le spese della causa.
A riprova di quest’intesa, tutte le parti hanno sottoscritto, il 14 ottobre 1681.
Sono consapevole che quest’accordo privato è stato ritenuto ingannevole e
fazioso, ma sicuramente da quelli che non hanno considerato la faccenda
con attenzione, poiché an dolus, an Virtus quis in Hoste requiris?38 Ogni
espediente è permesso tra nemici; i due teatri erano in guerra e la vittoria si
sarebbe decisa con la condotta e l’azione, e se gli uomini della Duke’s
Company possono aver fallito nell’azione, è chiaro che vinsero per la loro
condotta. Hart e Kynaston mantennero così bene le loro promesse che
l’Unione fu fatta nel 1682 e andò avanti fino al 1695 quando gli attori che
Charles Davenant (1656-1714) era il figlio di William, famoso soprattutto come scrittore e
economista. Di William Smith si conosce solo la data di morte, il 1695. Secondo The History of
the English Stage del 1741, Smith era avvocato a Gray’s Inn prima di unirsi alla compagnia di
Davenant subito dopo la Restaurazione. Il suo nome ricompare spesso nelle cronache
teatrali della United Company e viene sempre citato come uno degli attori più rinomati del
periodo.
37 Charles Hart (ca. 1625-1683) fu un attore importante del teatro della Restaurazione. A
causa di gravi problemi di salute, si ritirò quando le due compagnie si unirono.
38 «Inganno o coraggio, chi ricercherà nel nemico?»: frase che nell’Eneide di Virgilio (II, 390)
pronuncia il giovane guerriero Corebo per indicare ai compagni che non è da traditori agire
con l’inganno in guerra perché quello che conta è la vittoria.
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AAR Anno VI, numero 11 – Maggio 2016
recitavano nella compagnia unita, ritenendosi danneggiati, sotto la guida di
Betterton ottennero una nuova licenza per metter su un altro teatro, ancora
una volta a Lincoln’s Inn Fields. Quando però il successo di quella
compagnia cominciò a declinare davanti all’attività dell’altra e Vanbrugh39
ebbe costruito un nuovo teatro a Haymarket, Betterton, stanco del peso e
delle fatiche della gestione, cedette la sua compagnia a quelli che avevano
la nuova licenza. Essi però avevano intanto accolto la nuova moda
dell’opera in musica e le compagnie furono di nuovo unite nel teatro di
Drury Lane e le opere vennero relegate a Haymarket. Poiché le
trasformazioni erano molto frequenti in questo mondo teatrale, Mr Swiny40
ottenne per sé e per il teatro d’opera gli attori migliori tra i quali Betterton.
Questi, essendo ormai molto vecchio e afflitto dalla gotta, recitava solo
raramente e l’anno prima che morisse la città gli tributò un particolare
segno di rispetto facendogli guadagnare cinquecento sterline nella sua
beneficiata.
Betterton era così attento all’amicizia che sebbene avesse perduto quasi
ottomila sterline a causa di un amico, si prese cura di sua figlia finché
questa si maritò secondo la propria inclinazione.41 Scrisse o tradusse tre
opere che portò con successo sulle scene: The Woman made a Justice (La
donna che diventò giudice); The Amorous Widow, or the Wanton Wife (La
vedova galante, o la moglie libertina), e The Unjust Judge, or Appius and
Virginia (Il giudice iniquo, o Appio e Virginia).42 Non volle mai che
venissero pubblicate, anche se The Amorous Widow, sulla base di una copia
pirata, è stata rappresentata per almeno vent’anni.
Quando aveva ormai settantacinque anni, dopo avere sofferto a lungo per i
calcoli e la gotta, la malattia alla fine si estese allo stomaco a causa di
medicamenti repellenti e gli fu fatale al punto che in pochi giorni mise fine
alla sua vita. Fu sepolto con grande onore a Westminster Abbey.
John Vanbrugh (1664-1726) era drammaturgo e architetto. Progettò e costruì il teatro di
Haymarket che poi gestì con Thomas Betterton e William Congreve. Lo vendette nel 1708
perché il mantenimento di un teatro e di una compagnia si era rivelato troppo oneroso.
40 Si tratta dell’impresario irlandese Owen Swiny (1676-1754) che lavorò con Christopher
Rich al Drury Lane e poi prese in affitto il teatro di Haymarket da Vanbrugh per
rappresentarvi drammi e opere. Nel 1713, alla seconda rappresentazione del Teseo di Händel
nel suo stesso teatro, rubò l’incasso lasciando i cantanti senza paga. Dopo il suo fallimento
nello stesso anno, viaggiò sul continente e si stabilì poi a Venezia, dove reclutava cantanti
d’opera per i teatri inglesi e commissionava dipinti e opere d’arte di artisti italiani per
collezionisti inglesi.
41 Nel 1692 Betterton aveva affidato l’ingente somma all’amico Sir Francis Watson per una
speculazione finanziaria nelle Indie. La spedizione aveva avuto successo ma la nave al
ritorno fu catturata dai francesi nel canale della Manica. Watson morì e Betterton ne adottò
la figlia quindicenne, che in seguitò sposò l’attore Bowman.
42 Le prime due sono opere di Betterton, la terza è la tragedia Appius and Virginia di John
Webster adattata da Betterton e recitata a Lincoln’s Inn Fields nel 1670.
39
28
Charles Gildon, Vita di Thomas Betterton
[2. Attuale decadenza della scena inglese]
L’anno prima che morisse, mentre era nella sua casa di campagna a
Reading, trovandomi a passare di lì con un mio amico gli feci visita come
gli avevo promesso. Fui accolto in modo molto ospitale e un giorno, dopo
pranzo, ci ritirammo in giardino e, fatta una breve passeggiata, iniziammo
a parlare di recitazione. Il mio amico parlò a lungo contro gli attori del
momento e a favore di quelli della sua gioventù, poiché ormai era vecchio.
E, poiché si era molto stancato sia per la discussione che per la camminata,
ci sedemmo piacevolmente all’ombra e io mi rivolsi in questo modo a Mr.
Betterton.
So bene che il mio amico quando era giovane apprezzava questi svaghi
molto più di adesso, perché la cupezza dell’età smussa i nostri desideri in
più di un piacere. Altrimenti egli ammetterebbe che nessuna donna ai suoi
tempi era superiore a Mrs. Barry43 e nessun uomo a voi stesso. Non intendo
adularvi (dissi, quando mostrò di essere un po’ a disagio per il mio
complimento), perché è davvero ciò che penso. Ma devo confessare che ho
ben poca speranza che il teatro sopravviva a voi due, almeno nella sua
parte più preziosa, la tragedia, dato che questo genere sublime perde
terreno ogni giorno di più nella considerazione della gente; e ciò non si può
in alcun modo attribuire alla mancanza di genio nei poeti di adesso perché
dobbiamo ammettere che, sebbene nella tragedia siano ancora lontani dalla
perfezione, negli ultimi anni abbiamo visto delle rappresentazioni di quel
tipo molto migliori che non nella lodata età di Carlo II, quando la gaiezza
dell’epoca faceva digerire sotto quell’etichetta strane cose in cui non c’era
né la Natura né l’Arte, che è sua ancella. Comunque io attribuisco questo
sprezzo della tragedia principalmente a una pecca nell’Azione, cui
possiamo aggiungere il nostro carattere, inacidito per la pressione di una
guerra così lunga e pesante, e infine anche tutti quegli spettatori cui gli esiti
del conflitto hanno dato la possibilità di riempire la platea e i palchi e di
avere troppa influenza con la loro censura sconsiderata e arbitraria pro o
contro autori e attori.
La guerra elimina una gran quantità di umori negativi che provengono
dalla corruzione generata da una pace lunga e agiata, ma introduce anche
nei nostri intrattenimenti una sorta di libertinismo contrario al decoro e
all’ordine, senza i quali nessun piacere può essere veramente nobile. Un
altro effetto negativo dei tempi di guerra è l’abbandono delle più raffinate
43 Elizabeth Barry (1658-1713) fu la prima grande attrice inglese nel periodo della
Restaurazione. Recitò nella Duke’s Company, con Betterton come partner. Ebbe relazioni
amorose con Otway e con Etherege. Aveva debuttato nel 1673 e nel 1682 era ancora la più
importante delle attrici della United Company, famosa per la sua abilità nei ruoli patetici. Si
ritirò nel 1710.
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AAR Anno VI, numero 11 – Maggio 2016
scienze della pace e una specie di barbarie nel gusto verso tutte le belle arti.
A questi si aggiunga il moltiplicarsi delle vie per raggiungere il benessere;
e, crescendo il loro numero, cresce altresì il numero di coloro che sono
attirati a ricercare la ricchezza; ciò diffonde uno spirito individualistico e
gretto e di conseguenza indebolisce e fa languire l’amore per ciò che è
pubblico.
Non vi è prova più valida della virtù, o della corruzione, delle persone che i
loro piaceri. Così, al tempo in cui la virtù romana era forte, la tragedia era
molto stimata, se ne teneva alta la dignità e si osservava così attentamente il
decoro del teatro che era sufficiente per un attore essere fuori tempo o
sbagliare la quantità delle sillabe nei versi per essere scacciato dal
palcoscenico a forza di fischi, come ci dice Cicerone nel suo terzo
Paradosso.*
Quando gli attori ci hanno fornito i più nobili esempi di virtù nella vita
reale, sono anche piaciuti nella rappresentazione di nobili esempi sulla
scena, perché le persone amano ciò che più somiglia all’umore e al
temperamento della loro mente. Così, quando decadde la virtù romana, o
fu perduta insieme alla libertà, e i romani sopravvissero e ampliarono il
loro impero più per i meriti degli antenati e per il nome «romano», che
quelli avevano reso terribile, che non per il loro coraggio, allora
l’effeminatezza e la follia che si diffusero tra la gente apparvero subito nei
divertimenti e negli spettacoli: la tragedia fu vituperata, e da un lato la
farsa, con mimi e pantomime, e dall’altro l’Opera con i suoi suoni
rammolliti invasero le scene, attirando l’attenzione delle persone che ora
volevano solo ridere o vedere cose stravaganti e mostruose.
Vorrei che questo non fosse il nostro caso ma, non volendo azzardare
ipotesi su cause nascoste quando ce n’è una ben visibile, preferisco
attribuire questa decadenza della tragedia alla mancanza di attori tragici e
persino di poeti tragici piuttosto che alla degradazione della gente che, per
quanto grande, spero non sia così disperata come quella che ho mostrato
nello stato romano.
Pur pensando - rispose Mr. Betterton - che la decadenza del teatro dipenda
in gran misura dal lungo protrarsi della guerra, temo, devo confessarlo, che
essa derivi fin troppo dai difetti del teatro stesso. Quando ero un attore
giovane sotto la guida di Sir William Davenant, dovevamo sottostare a una
migliore disciplina, eravamo obbligati a considerare lo studio come lavoro,
cosa che ora i nostri giovani non pensano sia un dovere, perché a malapena
e solo alle prove prestano attenzione anche a una sola parola della loro
parte, e troppo spesso vi arrivano senza essersi ancora ripresi dagli eccessi
Histrio si paulo movit extra Numerum, aut si Versus pronunciatus est Syllabâ una brevior aut
longior exsibilatur et exploditur. [Nota di Gildon. La citazione è dai Paradoxa ad M. Brutum, III,
26.]
*
30
Charles Gildon, Vita di Thomas Betterton
della notte precedente, quando la mente non è in grado di considerare con
calma e con giudizio quello che devono studiare in modo da entrare nella
natura della parte né di considerare le variazioni della voce, degli sguardi,
dei gesti che dovrebbero rendere la vera bellezza, mentre molti di loro
pensano che far rumore li renda gradevoli al pubblico perché qualcuno nel
loggione applaude gli sforzi sonori dei loro polmoni cui l’intelligenza non
contribuisce. Pensano che studiare la vera perfezione sia fatica sprecata che
potrebbe privarli di ciò che più desiderano, cioè degli eccessi della
mezzanotte, o addirittura di tutta la notte, e di una pigra trascuratezza nel
loro lavoro.
Un altro ostacolo al perfezionamento dei nostri giovani attori è che quando
sono in una compagnia da appena un mese o due, sebbene prima fossero
totalmente estranei alla recitazione, per istruzione o per il lavoro che
facevano, si credono maestri in quell’arte che occorre un’intera vita di
studio e di impegno a raggiungere perfettamente. Perciò ritengono
sbagliato che l’autore dia loro delle istruzioni e, anche se non sanno niente
dell’arte poetica, saranno critici e dimenticheranno o impareranno una
parte a seconda di quanto, secondo loro, l’autore e la sua opera meritano. In
questo sono guidati dal capriccio, cieco e ignorante, e agendo senza alcuna
regola razionale generalmente scelgono le cose cattive e rifuggono dalle
buone. Mrs. Barry e io invece abbiamo sempre avuto l’abitudine di
consultare anche i poeti meno importanti per i ruoli che avevamo accettato
di rappresentare, e posso dire che lei ha spesso dato così tanto in parti non
esaltanti che la sua recitazione ha determinato il successo di opere che
farebbero venire il voltastomaco a leggerle. Io non posso affermare di aver
reso un tale servigio come lei, però mi sono sempre sforzato di farlo. Ma
fino a che i giovani si riterranno maestri prima di capire anche un solo
punto della loro arte e non troveranno il tempo e l’agio di studiare i pregi
della recitazione e della parola, è impossibile che il teatro fiorisca e
progredisca verso la perfezione.
[3. Necessità di regole per i giovani attori]
Sono consapevole - dissi, quando mi accorsi che aveva concluso - che ciò
che avete detto è giusto, ma tendo a credere che molti di quegli errori di cui
parlate derivino dalla mancanza di giudizio degli impresari, che assumono
persone senza qualità naturali e non forniscono loro chi possa istruirli e che
capisca l’arte nella quale dovrebbero essere perfezionati. Le persone
vengono istruite in tutte le altre arti da maestri che le professano con
abilità, ma qui l’ignoranza insegna o, meglio, si accredita come sicura di
conoscere, e va avanti senza censure. Spesso perciò ho desiderato che
qualcuno dotato di buon senso e conoscitore delle bellezze dell’azione e
dell’eloquio stendesse delle regole con cui i giovani principianti potessero
31
AAR Anno VI, numero 11 – Maggio 2016
indirizzarsi a quella perfezione di cui tutti si rendono conto che è (e forse è
sempre stata) assente sulle nostre scene. E anche se voi non avete
beneficiato di un’istruzione nelle lingue erudite come altri hanno avuto, ma
avete letto molto in francese e nel nostro idioma materno, con l’aiuto di
queste lingue si può oggi ottenere tutto il sapere; in più avete un chiaro
genio e una lunga pratica nell’arte teatrale. Perciò vorrei potervi convincere
a enunciare le vostre opinioni su questo argomento, in modo da poter dar
forma a un sistema di recitazione che diventi una regola per i futuri attori e
insegni loro a superare non solo se stessi ma anche quelli che li hanno
preceduti.
Se io, signore - rispose con cortese modestia - ne fossi capace come voi
volete farmi credere, mi si convincerebbe facilmente a comunicare le mie
idee in proposito; ma sono consapevole della mia incapacità proprio per le
ragioni che avete menzionato, cioè la mia ignoranza delle lingue colte, e
quindi dovrete scusarmi. Però, per non deludervi completamente, andrò a
prendere un manoscritto su questo argomento, scritto da un mio amico ma
al quale confesso di aver contribuito per quanto potevo, e se lo si legge
bene e lo si considera attentamente, sono sicuro che la reputazione del
nostro teatro ne guadagnerà e non ne perderà.
Detto questo, entrò in casa e dopo un po’ ritornò da noi con dei fogli sparsi
che vidi essere di suo pugno e, dopo essersi seduto e aver bevuto un
bicchiere di vino, cominciò così.
[4. Condotta morale richiesta all’attore]
Dovendo trattare dell’arte della recitazione e dell’impegno e dei requisiti
degli attori, penso non sia un cattivo metodo cominciare a vedere che
riguardo debba avere un attore per la sua condotta fuori dal teatro, prima
di parlare di ciò che deve fare sulla scena.
In tutte le accuse contro il teatro non ho mai trovato nessuno che ne
negasse l’utilità se gestito in modo giusto. Mr. Collier,44 il nemico più
spietato di questo intrattenimento (sebbene il suo Protomartire,
l’arcivescovo Laud, avesse combattuto strenuamente per il Book of Sports45
44 Jeremy Collier aveva tuonato contro l’immoralità del teatro nel suo A Short View of the
Immorality and Profaneness of the English Stage del 1698, innescando un accanito dibattito che
vide anche Gildon tra i difensori delle scene.
45 Si tratta di un decreto che elencava i giochi permessi nelle domeniche e nei giorni di festa.
Promulgato dal re Giacomo I Stuart nel 1618 per tenere a freno i puritani, contrari a ogni
genere di divertimento, fu poi ripreso dal figlio Carlo I (il re martire di cui parla Betterton)
nel 1633. William Prynne, l’autore di Histriomastix in cui denunciava le attrici come
prostitute, attribuì The Book of Sports all’arcivescovo di Canterbury, William Laud, suo
acerrimo nemico. La sua crociata contro il teatro sembrò oltraggiosa verso la regina che
32
Charles Gildon, Vita di Thomas Betterton
e nonostante il fatto che i drammi venissero recitati a corte, al tempo del re
martire, anche di domenica), riconosce che lo spirito umano non poteva
inventare mezzo più efficace per incoraggiare la virtù e reprimere il vizio.
Perciò mi pare evidente che gli accusatori suppongano che le lezioni morali
presentate sulla scena possano fare grandissima impressione sulla mente
del pubblico, perché l’istruzione viene impartita con piacere e con l’aiuto
delle passioni che si ricordano molto di più dei calmi precetti della ragione.
Penso però che non vi sia dubbio che la vita e il carattere delle persone che
sono i veicoli, se così posso dire, di quegli insegnamenti debbano
contribuire molto all’impressione suscitata dalla storia e dalla morale.
Udire che una prostituta, un ateo o un libertino raccomandano la virtù, la
religione e l’onore, ne fa oggetto di ridicolo per molte persone che invece
ascolterebbero con rispetto le stesse cose dette da chi è conosciuto per la
sua reputazione in questi campi. Guardate per esempio la religione, quanto
poco le parole e i sermoni di un noto ubriacone o di un libertino
emozionino i parrocchiani, e che influenza ha invece sulla sua
congregazione un prete dalla vita pia e regolare, poiché le sue virtù
predispongono i fedeli ad ascoltarlo con rispetto e a credergli, in quanto
uomo le cui azioni non ne mettono in dubbio la fede. Il pulpito deve essere
considerato il luogo più sacro, perché dispensa i misteri più sacri della
religione cristiana, ma dal momento che il vangelo è fatto di agenda così
come di credenda, cioè di pratica e di fede, e dal momento che la pratica è
fortemente raccomandata dal teatro, con la purificazione delle nostre
passioni e la trasmissione del piacere, il palcoscenico può a ragione essere
considerato al servizio del pulpito.
Per questa ragione io raccomando ai nostri attori, sia uomini che donne, la
cura più attenta possibile della loro reputazione, perché la loro
autorevolezza con il pubblico dipende da quella e dalla loro autorità
dipende in grande misura la loro influenza. Dovrebbero considerare che
l’infamia attribuita alla professione di attore non deriva dal loro lavoro che
è prezioso e nobile; che gli attori ad Atene erano onorati e talmente stimati
che talvolta venivano fatti ambasciatori e furono maestri di due dei più
nobili e gloriosi oratori che la Grecia o Roma abbiano prodotto (intendo
Demostene e Cicerone, come vedremo subito); che persino a Roma, dove il
teatro ebbe uno sviluppo meno favorevole che non ad Atene, Cicerone
considera il non lamentare la morte di Roscio un tale esempio di barbarie e
di maleducazione da pensare che nessun nobile e nessun comune cittadino
romano se ne potrebbe macchiare. Chiama il lavoro dell’attore «un’arte
eccellente». E questa è una prova sufficiente che questa professione in sé
amava partecipare ai masques, e costò a Prynne gravi punizioni, quali il taglio delle orecchie
e la prigione. Nel 1640 Laud fu accusato di tradimento e imprigionato alla Torre di Londra e
vi passò cinque anni prima di essere giustiziato e nel 1643 il Parlamento, dove i puritani
avevano sempre più potere, ordinò che The Book of Sports venisse bruciato.
33
AAR Anno VI, numero 11 – Maggio 2016
non fu mai ignobile in nessuna delle due città; e non lo sarebbe neanche qui
se non fosse per coloro che la esercitano, con la loro vita dissoluta, con un
evidente disprezzo della religione, facendo della bestemmia e della
volgarità i segni distintivi del loro spirito e della loro educazione; quando
con una palese dissolutezza e ubriachi vengono sul palcoscenico, in spregio
del pubblico, quando non riescono neanche a pronunciare una parola;
senza riguardo per i vincoli dell’onore e della semplice onestà; per non dire
delle sconvenienze delle signore, che le privano di quel rispetto e di quella
deferenza che altrimenti le loro qualità personali imporrebbero in chi le
osserva, soprattutto quando occupano una posizione privilegiata come
quella offerta dal palcoscenico per migliorare la mente e la persona.
Questa depravazione è sulla bocca di tutti eppure, quando se ne parla a
coloro che sanno di esserne colpevoli, diventa un affronto imperdonabile,
tanto più sono pronti a difendere i loro peccati che non a emendarli, anche
se a loro svantaggio; e sembrano innamorati dell’infamia più che del
rispetto della gente e della reputazione. Mr. Harrington nel suo Oceana46 tra
le proposte per un teatro più disciplinato voleva che si impedisse a tutte le
donne, la cui reputazione fosse stata macchiata, di vedere un’opera teatrale,
scoraggiandole in tal modo dal commettere oscenità, poiché per questo
motivo avevano perduto il beneficio di assistere ai divertimenti pubblici. Se
questo fosse stato portato avanti e tutte le donne a teatro fossero subito
scacciate quando venissero scoperte le loro colpe di questa natura, penso
che troverebbero più facilmente marito e il teatro non subirebbe lo scandalo
che ora lo opprime. Non è un compito troppo difficile, ma anche i nostri
tempi, pur così corrotti, ci hanno offerto esempi di virtù tra le signore del
teatro. Non ne dirò i nomi, perché non voglio attirare critiche su quelle che
non cito.
Da ciò che ho detto credo sia chiaro che vorrei una riforma della gente di
teatro, in modo da renderlo più rispettabile di quanto sia ora. Vorrei che
nessun teatrante fosse un ubriacone comune, o un libertino pubblico, né
che fosse così affezionato alla propria opinione da immaginare che mettere
noiosamente in ridicolo le cose sacre possa passare per arguzia con uomini
probi o di buon senso. E vorrei che nessuno di loro tuonasse una raffica di
bestemmie e maledizioni per riempire il vuoto dei suoi discorsi, con un
rumore offensivo per gli orecchi di chiunque non sia a contatto giornaliero
con la feccia dell’umanità, ma conosca le buone maniere e la buona
educazione; e che nessuno si vantasse di avere molti debiti, perché
ricorrendo a inganni e sotterfugi un uomo può rimandare di saldarli ma
alla lunga finisce per pagare il doppio. In breve, vorrei che gli attori
46 The Commonwealth of Oceana (La Repubblica di Oceana) è un trattato di filosofia politica di
James Harrington (1611-1677), che esalta il sistema repubblicano di uno stato utopico e
ideale. Pubblicato nel 1656, ebbe però una difficile storia editoriale fino al 1700 quando il
filosofo John Toland ne curò una nuova edizione.
34
Charles Gildon, Vita di Thomas Betterton
facessero una bella figura nel mondo; fossero davvero virtuosi se possono
e, se no, almeno non si abbandonassero pubblicamente a follie e vizi che li
fanno disprezzare da tutti; che vivessero con quello che possono
permettersi con il loro mestiere, e così avrebbero più agio di studiare la loro
parte, far crescere più in fretta reputazione e salario, e ottenere rispetto da
tutti gli uomini onesti e assennati.
Allo stesso modo le signore dovrebbero stare particolarmente in guardia
circa le loro azioni e ricordare che anche se allontanarsi dall’onore e
diventare preda di tutti coloro che le avvicinano può portar loro dei
vantaggi mercenari, mantenendo la propria reputazione intatta accrescono
la loro bellezza e sicuramente raggiungono una maggiore felicità (se non
ricchezza) nel matrimonio di quella che non potrebbero mai trovare nel
farsi oggetto degli insulti dei libertini, delle malattie dei dissoluti e di altre
schiavitù e mali che non è decente rammentare, da cui i virtuosi sono liberi,
ammirati e adorati da tutti.
Questo è quanto pensavo fosse opportuno dire sulla condotta dei nostri
attori, maschi e femmine, fuori dal teatro, e questa è una lezione che vale la
pena di imparare quanto quelle che ora impartirò.
Questi doveri sono assolutamente necessari per far sì che i nostri attori
siano brillanti e ottengano il rispetto della gente che ora non hanno, ma non
sono sufficienti a farne dei buoni attori, e ci sono altre lezioni da
apprendere per essere idonei alla scena.47
[5. La parola e l’azione componenti essenziali della recitazione]
Quale sia il compito di un attore lo capiamo dal nome stesso: si chiama
«attore» e i suoi meriti risiedono nell’azione e nella parola. Mimi e
pantomimi facevano tutti i gesti e i movimenti delle mani, gambe, piedi,
senza l’aiuto della voce per esprimere sentimenti o suoni; così talvolta
erano simili ai nostri dumb shows, con la differenza che un solo pantomimo
interpreta diverse persone, al suono di strumenti musicali, mentre i dumb
shows usano diverse persone per esprimere il senso del dramma in quanto
azione silenziosa. La natura di tutto ciò è benissimo indicata in Hamlet,
prima dell’ingresso degli attori nel terzo atto.
Entrano un re e una regina con fare affettuoso; la regina lo abbraccia,
s’inginocchia e gli dichiara il suo amore; lui la fa alzare e mette la testa sulla
spalla di lei. Poi si sdraia su un letto di fiori e lei, vedendo che si è
addormentato, lo lascia. Subito arriva uno che prende la sua corona, la bacia,
versa del veleno nell’orecchio del re e se ne va. La regina ritorna, trova il re
47 Da questo punto fino alla citazione di An Essay upon Poetry del duca di Buckingham (qui
più avanti al titolo 7), il testo della Life of Betterton si ritrova nella History of the English Stage
from Restoration to the Present Time (cap. IV, On the Duty of the Player, pp. 36-54), pubblicata
nel 1741 e compilata da Wlliam Oldys ed Edmund Curll.
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AAR Anno VI, numero 11 – Maggio 2016
morto e si dispera. L’avvelenatore rientra con due o tre mimi e finge di
partecipare al suo dolore. Il corpo morto viene portato via. L’assassino
corteggia la regina con dei doni; lei per un po’ sembra restia e recalcitrante,
ma alla fine accetta il suo amore.48
Ripeto tutto questo solo per far capire come funzionava ai vecchi tempi e
che cosa intendevano con dumb shows; Shakespeare stesso li condanna
proprio in quella stessa tragedia, quando Amleto dice agli attori: «Oh, mi
offende nell’animo vedere un energumeno imparruccato fare a pezzi una
passione, ridurla a brandelli, per rompere i timpani al pubblico peggiore,
che per la maggior parte non è capace di godere d’altro che di inspiegabili
dumb shows e di fracasso».49
Ma i pantomimi, o danzatori romani, esprimevano tutto questo in una sola
persona, come vediamo nel Luciano di Mayne,50 in cui il filosofo cinico
Demetrio, che si scagliava contro la danza, fu invitato da un ballerino al
tempo di Nerone a vedere una sua esecuzione senza la musica dei flauti e
accettò, «e quello, avendo messo a tacere gli strumenti, danzò da solo
l’adulterio di Venere e Marte, il Sole che li tradisce e Vulcano che progetta
la vendetta e li imprigiona in una rete; poi tutti gli dei che guardano, uno a
uno, poi Venere che si vergogna e Marte che supplica. In una parola, recitò
tutta la storia così bene che Demetrio, molto divertito dallo spettacolo,
come sommo elogio che potesse fargli, disse a voce alta: ‘Amico mio, odo
ciò che stai recitando; non solo vedo le tue mani, ma mi sembra che tu parli
attraverso di loro’».51
Questo esempio non solo mostra la differenza tra queste pantomime e i
nostri vecchi dumb shows, ma mette in risalto il potere dell’azione, che un
attore dovrebbe studiare con il massimo impegno. L’oratore in tribunale e
nel pulpito dovrebbe capire perfettamente l’arte della parola, ma l’azione
può essere perfetta solo sulla scena,52 e ai giorni nostri il pulpito e l’aula di
tribunale hanno abbandonato anche quella gradevole azione che era
necessaria all’attività di quei luoghi e dava il giusto peso e la giusta
eleganza alle parole pronunciate. Mi stupisce che i nostri preti non diano
un po’ più di considerazione a questo punto e non riflettano sul fatto che
Hamlet, III.2. didascalia (edizioni di riferimento della collana «The Arden Shakespeare»).
Hamlet, III. 2.
50 Jasper Mayne, che nel 1638 aveva tradotto alcuni dialoghi di Luciano, pubblicati nel 1663
con una dedica a Lord Cavendish, suo protettore.
51 Luciano, Sulla danza, 63 e 64. Il testo inglese cui fa riferimento Gildon è Part of Lucian made
English from the originall, in the yeare 1638 by Jasper Mayne, Oxford, R. Davis, 1663.
52 Fondamentale riferimento per lo studio della storia e della teoria della recitazione è il
volume di C. Vicentini, La teoria della recitazione. Dall’antichità al Settecento (Marsilio, Venezia
2012), nel quale è delineato il progressivo distanziarsi della figura dell’attore dalle
caratteristiche più generali dell’oratore e il consolidarsi della riflessione critica, dalle nozioni
antiche e poi rinascimentali sull’espressione e sull’immedesimazione fino alle teorie
settecentesche.
48
49
36
Charles Gildon, Vita di Thomas Betterton
parlano alla gente come facevano gli oratori in Grecia e a Roma. Quale
fosse l’influenza dell’azione sul pubblico risulterà chiaro dagli esempi che
daremo al momento opportuno.
L’azione in realtà ha un merito naturale superiore a tutte le altre qualità:
l’azione è movimento e il movimento è il sostegno della natura, senza il
quale sprofonderebbe di nuovo nella massa inerte del caos. Il moto nella
danza varia e regolare dei pianeti sorprende e fa piacere. La vita è moto e
quando esso cessa il corpo umano, che è così bello, anzi divino, quando è
ravvivato dal movimento, diventa un cadavere spento e putrido da cui tutti
distolgono lo sguardo. L’occhio viene colpito da tutto ciò che si muove, ma
sorvola sulle cose inerti e senza moto come oggetti non gradevoli alla vista.
Questo potere naturale del movimento o dell’azione è il motivo per cui
l’attenzione del pubblico è catturata da qualsiasi gesto insolito o bizzarro
fatto sul palcoscenico dal più cane degli attori e invece è appiattita o
sonnecchia quando un bravissimo attore parla senza l’aggiunta dei gesti.
Questa era l’abilità che avevano gli attori dell’antica Grecia o di Roma e che
li rese non solo ammirati dai grandi di quei tempi o di quei luoghi ma li
innalzò anche alla reputazione di maestri di due dei più grandi oratori che
ci siano mai stati a Atene o a Roma; i quali, se non fosse stato per gli
insegnamenti di Satiro, Roscio e Esopo, non avrebbero mai saputo offrire al
mondo le loro ammirevoli interpretazioni.53
Demostene,54 dopo molti tentativi fallimentari, una volta fu mandato via a
fischi dall’assemblea e se ne andò a casa coprendosi la testa con il mantello,
molto turbato dal disonore; l’attore Satiro, che lo conosceva molto bene, lo
seguì e attaccò discorso con lui. Demostene si lamentò della sua sfortuna
per cui, pur essendo stato il più attivo degli avvocati difensori e avendo
dedicato forza e energia con tutto se stesso a tale scopo, non era riuscito a
rendersi accettabile alla gente, e ubriaconi, marinai, avvinazzati e ignoranti
venivano ascoltati con più favore, tanto da tener banco, mentre lui era
disprezzato. «Quello che dici, rispose Satiro, è verissimo, ma rimuoverò
subito la causa di tutto questo se mi ripeterai dei versi di Sofocle o
Euripide». Quando Demostene li ebbe recitati secondo il suo modo, subito
Satiro ripeté gli stessi versi con il suo tono, il suo portamento e i suoi gesti,
e dette loro una forma tale che Demostene stesso si accorse che avevano
tutto un altro aspetto. Perciò, convinto di quanta grazia e ricchezza venga a
53 Satiro è un attore dell’antica Grecia, citato da Plutarco a proposito dell’aneddoto riportato
poco sotto; Quinto Gallo Roscio era un colto attore romano del I secolo a.C., fondatore di
una scuola di recitazione e autore di un manuale di arte drammatica; Claudio Esopo era il
più rinomato attore tragico a Roma ai tempi di Cicerone. Per Orazio la sua bravura
eguagliava quella di Roscio; nell'epistola a Cesare Augusto (libro II, epistola 1), li cita
insieme: «quae gravis Aesopus, quae doctus Roscius egit» (i drammi che recitò Esopo il
grave e Roscio il dotto).
54 Per tutto il brano seguente su Demostene e Satiro fino al rifugio costruito sotto terra
dall’oratore per esercitarsi è vedi Plutarco, Vita di Demostene, 7.1-6.
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AAR Anno VI, numero 11 – Maggio 2016
un discorso da un’azione giusta e appropriata, cominciò a pensare che
serviva a poco esercitarsi a declamare se si trascurava la giusta pronuncia o
il decoro dell’enunciazione. Per questo si costruì un posto sotto terra
(ancora agibile al tempo di Plutarco) dove si ritirava ogni giorno a dar
forma ai suoi gesti e a esercitare la voce. Per mostrare quanta pena si desse
quest’uomo, come esempio per i nostri giovani attori che non ritengono di
doversene dare alcuna, continuerò a citare Plutarco. Nella sua casa
Demostene aveva un grande specchio davanti al quale stava in piedi e
ripeteva le sue orazioni, per poter osservare quanto l’azione e il gesto
fossero eleganti oppure inappropriati.55
Quando un cliente venne da lui perché era stato assalito e percosso e gli
fece un resoconto dei colpi che aveva ricevuto dal suo avversario, ma in
modo calmo e sereno, Demostene gli disse: «Di certo mio caro amico lei
non ha subito nessuna delle cose di cui si lamenta». A questo il cliente si
irritò e gridò: «Come, Demostene, non ho subito niente?» «Ah, sì, rispose
lui, ora sento la voce di un uomo che è stato ferito e percosso». Tale era
l’importanza che egli attribuiva al tono e all’azione di chi parla per poter
essere creduti.56
Questo era il caso di Demostene, come ci assicura Plutarco (se posso
fidarmi della traduzione,57 e posso senz’altro), e il caso di Cicerone non era
molto diverso. All’inizio, dice Plutarco, era imperfetto nell’azione e perciò
aveva diligentemente fatto ricorso qualche volta all’attore comico Roscio e
altre volte all’attore tragico Esopo.58 Dopo, l’actio di Cicerone contribuì non
poco a rendere persuasiva la sua eloquenza; derideva i retori della sua
epoca, perché recitavano le loro orazioni con tanto strepito e tante grida,
dicendo che era la loro mancanza di abilità nel parlare che li faceva
ricorrere agli urli, come gli zoppi che non possono camminare e vanno a
cavallo.59
Lo stesso si può dire di molti dei nostri attori che strillano; Esopo non era
tra questi, ma era così posseduto dalla sua parte da prendere la recitazione
per verità e non per una rappresentazione, a tal punto che quando stava
rappresentando in teatro Atreo che delibera sulla vendetta di Tieste, era
così preso dalla passione che colpì un servo che stava attraversando di
corsa il palcoscenico, e lo uccise sul posto60.
Ivi, 11.1.
Ivi, 11.2.
57 Gildon si riferisce alla traduzione di Thomas North delle Vite di Plutarco, pubblicata nel
1579, che aveva influenzato anche Shakespeare nella stesura dei suoi drammi romani.
58 Plutarco, Vita di Cicerone, V. 4.
59 Ivi, V. 6.
60 La tragedia è Thyestes di Seneca, che narra dell’orribile vendetta di Atreo sul fratello Tieste
e sui suoi figli, e l’aneddoto è riportato da Plutarco, Op. cit., V. 5.
55
56
38
Charles Gildon, Vita di Thomas Betterton
Ma Lord Bacon, nel suo Advancement of Learning,61 ci racconta la storia presa
dagli Annali di Tacito di un certo Vibuleno, che era stato un tempo attore di
teatro ma era in quel momento soldato semplice nella guarnigione della
Pannonia: un meraviglioso esempio del potere dell’azione e di quanta forza
essa aggiunga alle parole. Il racconto è questo.
Questo tizio alla morte di Cesare Augusto aveva sollevato una rivolta e il
capitano Bleso aveva fatto imprigionare alcuni dei rivoltosi, ma i soldati
scardinarono le porte della prigione e rimisero in libertà i loro compagni;
Vibuleno, facendo un discorso da tribuno ai soldati, disse: «Voi avete dato
la vita e la luce a questi poveri disgraziati innocenti, ma chi mi restituisce
mio fratello o chi gli ridà la vita? Fu mandato qui con un messaggio dalle
legioni della Germania per trattare la causa comune; e proprio stanotte
costui lo ha fatto assassinare da qualcuno dei suoi gladiatori, dei suoi bravi,
che tiene con sé perché uccidano i soldati. Rispondi, Bleso, dove hai gettato
il suo corpo? Neanche i peggiori nemici mortali negano la sepoltura ai loro
avversari morti; quando gli avrò reso gli ultimi onori con baci e lacrime,
ordina che io sia ucciso al suo fianco, così questi nostri commilitoni
potranno seppellirci». Mise l’esercito in una tale agitazione e rabbia con
questo discorso che se non fosse stato subito chiarito che non era successo
niente di simile e che non aveva mai avuto un fratello, i soldati non
avrebbero risparmiato la vita del capitano, perché Vibuleno aveva recitato
come se si fosse trattato di un interludio a teatro.
Non c’è tanto pathos nelle parole dette dal soldato e, per mettere l’esercito
in una così grande agitazione, esse devono ricevere perciò quasi tutta la
loro forza da un’azione commovente e patetica, in cui gli occhi, le mani, la
voce si uniscano a esprimere in modo vivido il dolore e la perdita. È vero
che quando un esercito è già in rivolta non è difficile condurlo alla follia,
ma questo deve esser fatto o da qualcuno che abbia già ottenuto la
considerazione dei soldati per un fatto precedente o da chi con l’abilità del
suo discorso tocchi la loro anima e così gli faccia fare quello che vuole.
Credo che questo sia il caso di Vibuleno che, approfittando del suo talento
nell’actio, aveva difeso con i soldati se stesso e la sua causa fittizia al punto
che il generale aveva rischiato la vita per un delitto immaginario.
Questo ha fatto sì che alcuni oratori antichi dessero nel discorso tutto il
potere e il comando supremo all’azione, come ho letto in alcuni di quegli
eruditi che hanno trattato quest’argomento in inglese e in francese. Sono
persuaso che i nostri predicatori commuoverebbero molto di più il loro
uditorio se aggiungessero un’azione appropriata al loro parlare ad alta
voce. Spesso questo smuove un argomento piatto e fa sì che un uomo di
poca abilità in altri aspetti dell’oratoria passi per eloquentissimo. Ho letto
61 Francis Bacon, The Advancement of Learning (Sulla dignità e sul progresso delle scienze)
(1623), libro II, XIX, sezione 2. L’aneddoto è narrato da Tacito, Annales, I, 22 e 23.
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AAR Anno VI, numero 11 – Maggio 2016
che questo era il caso di Tracallo62 che, sebbene non fosse tra i migliori
oratori della sua epoca per la composizione e la scrittura, era però superiore
a tutti i difensori del tempo, tanto il suo aspetto e la sua capacità di recitare
il discorso erano plausibili e piacevoli. La maestosità della sua persona e
del suo portamento, la brillantezza dello sguardo, la maestà delle fattezze e
la bellezza del suo aspetto, e anche la sua voce, per gravità e compostezza
non solo raggiungevano le qualità di un attore tragico ma superavano
persino qualsiasi attore che fino ad allora avesse mai calcato la scena, come
ci assicura il nostro autore citando Quintiliano.63 Filisto invece, non avendo
queste doti di declamazione, perdeva tutta la bellezza e la forza delle sue
arringhe, sebbene per linguaggio e per arte della composizione fosse
superiore a tutti i greci del suo tempo64.
La stessa qualità avevano Pericle e Ortensio65 con questa differenza:
Ortensio attribuiva tutto il successo delle sue orazioni ai meriti della
scrittura e quando le pubblicò la gente si convinse che era in errore; Pericle,
anche se si diceva che avesse la dea Persuasione sulle labbra, tuonava e
saettava in un’assemblea e faceva tremare la Grecia intera quando parlava,
e non volle mai pubblicare nessuna delle sue orazioni, perché la loro
eccellenza risiedeva nell’azione.
Ciò che qui ho detto dell’azione in generale e gli esempi particolari che ne
ho dato credo bastino a soddisfare chiunque sia interessato a quella
perfezione sulla scena che dovrebbe essere il suo scopo primario e il suo
impegno. Ma accanto ad essa c’è l’arte dell’eloquio e anche in questa
l’attore dovrebbe essere perfettamente capace; poiché, come osserva un
nostro dotto connazionale:
Il discorso opera in modo forte, non solo attraverso il senso o il concetto in esso
espressi, ma anche attraverso il suo suono. Perché in ogni buon discorso c’è una
specie di musica, per quanto riguarda il ritmo, il tempo e il suono. Ogni frase che
abbia un buon ritmo è proporzionata in tre modi: in tutte le sue parti alle frasi; a
quello che vuole esprimere; e a tutte le parole che danno alle loro sillabe il giusto
62 Publius Galerius Trachalus, senatore e oratore romano del primo secolo d. C., lodato da
Quintiliano nella sua Institutio oratoria, X, 1, 119.
63 Il riferimento al «nostro autore» è al Traité de l’action de l’orateur ou de la prononciation et du
geste di Michel Le Faucher (Paris, chez Augustin Courbé, 1657, p. 5), che Gildon legge
probabilmente nella traduzione anonima An Essay upon the Action of an Orator (London,
Printed for Nich. Cox at the Golden Bible without Temple-Bar, 1680?, p. 4.
64 Ibidem. Gildon scive «Philistus» che era uno storico greco nato a Siracusa nel IV secolo a.
C., autore di una storia della Sicilia. Ma si tratta di un errore. Il testo di Le Faucheur scrive
invece «Philiscus» riferendosi a Filisco di Mileto, oratore allievo di Isocrate.
65 Pericle fu politico e oratore ateniese del V sec. a.C.: Tucidide nelle Storie riportò tre suoi
discorsi ma non si sa quanto fossero vicini all’originale che non fu mai fatto circolare.
Quinto Ortensio Ortalo è oratore romano del I sec. A.C., cui Cicerone aveva dedicato un
dialogo, Hortensius, che non ci è pervenuto. Il giudizio su Pericle e Ortensio è nel Traité
di Le Faucheur, trad. cit., pp. 6-7.
40
Charles Gildon, Vita di Thomas Betterton
tempo, come si confà alle lettere da cui sono formate e all’ordine in cui stanno in una
frase.
Le parole non sono senza timbro o tono neanche nel parlare comune e insieme
compongono il tono che è proprio di ogni frase e può essere accordato come qualsiasi
altro suono musicale, solo che nei toni del discorso le note hanno molta meno varietà
e hanno tutte un tempo breve. Anche circa il tempo e il ritmo quello poetico è meno
vario e perciò meno potente di quello dell’oratoria; è come quello di un ritornello
popolare ripetuto alla fine della poesia, ma quello dell’oratoria è interamente variato,
come i tasti che un abile musicista suona su un liuto.
Poi torna alla nostra precedente considerazione, dicendo:
Anche il comportamento e il gesto hanno forza, nell’oratoria come nella
conversazione: una forza data da tanti movimenti quante sono le parti mobili del
corpo, fatti tutti con una certa gradevole proporzione tra l’uno e l’altro e al tempo
stesso corrispondenti alle parti del discorso quando sia appropriata la semplicità e la
spontaneità.
Ciò che rende perfetto un attore è la maestria in queste due parti e spero
che le regole che darò per entrambe siano utili a chi abbia un vero talento:
regole che, come quelle della poesia, sono solo per chi ha talento e non
possono essere comprese perfettamente da chi non ce l’ha.
[6. Regole per l’azione]
Perciò, cominciando con l’azione, l’attore deve considerare che il suo
mestiere non è fatto di gesti rudi e immotivati, perché questi l’ignorante
può farli quanto la persona abile, e di certo non gli mancano. Ma l’azione di
un attore è quella che si armonizza con l’interpretazione o il soggetto che
egli rappresenta. Ora, ciò che rappresenta è l’uomo nei suoi vari caratteri,
maniere e passioni e a questi deve adattare ogni azione; deve esprimere
perfettamente la qualità e i modi dell’uomo di cui assume l’identità, cioè
deve sapere in che consistano le sue maniere e da lì conoscere le diverse
caratteristiche, se così posso chiamarle, delle sue passioni. Un patriota, un
principe, un mendicante, un contadino, ecc. devono avere ciascuno il suo
decoro e una particolarità nell’azione così come nelle parole e nel
linguaggio. Perciò un attore deve mutare con la storia che rappresenta, cioè
portarsi dietro il personaggio in ogni azione e passione con tutti i suoi modi
e le sue qualità. Talvolta deve essere un innamorato e conoscere non solo i
toni dolci e teneri di chi lo sia, ma anche ciò che è tipico del carattere di chi
è innamorato, che sia principe o pezzente, uomo ardente e impetuoso o uno
di costituzione più moderata e flemmatica, e conoscere anche i gradi della
passione che lo domina. Talvolta deve rappresentare un uomo collerico,
passionale e geloso, e allora deve conoscere alla perfezione tutti i moti e i
sentimenti che causano i movimenti dei piedi, delle mani e degli sguardi di
una persona in quelle condizioni. Talvolta è una persona depressa e
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AAR Anno VI, numero 11 – Maggio 2016
schiacciata dalla gravità del dolore e del dispiacere, e questo cambia tutto il
suo aspetto e la sua forma nella rappresentazione così come fa davvero in
natura. Talvolta è sconvolto e qui la natura gli insegnerà che la sua azione
ha sempre qualcosa di matto e irregolare, anche se in modo costante, che gli
occhi, gli sguardi o il suo aspetto, i moti del corpo, di mani e piedi, devono
essere coerenti e che non deve mai cadere in uno stato apatico, di calma e di
noncuranza. Dato che deve rappresentare Achille, poi Enea, un’altra volta
Amleto, poi Alessandro Magno e Edipo, dovrebbe conoscere perfettamente
il carattere di tutti questi eroi, le passioni stesse che sono diverse in eroi
differenti come lo sono i loro caratteri: il coraggio di Enea, per esempio, era
in sé calmo e temperato e unito sempre a una buona natura; quello di
Turno si accompagnava alla furia, ma anche alla generosità e alla
grandezza d’animo. L’eroismo di Mezenzio66 era crudele e selvaggio; non
provava furore ma ferocia, che non è una passione ma un’inclinazione e
nient’altro che l’effetto della furia raffreddata e trasformata in odio acuto e
in malvagità inveterata. Turno sembra combattere per calmare l’ira,
Mezenzio per vendicarsi e soddisfare la sua cattiveria e la barbara sete di
sangue. Turno scende in campo con il dolore, che accompagna sempre l’ira,
laddove Mezenzio distrugge con una gioia selvaggia: è così lontano dalla
furia che difficilmente viene provocato dall’ira comune. Uccide in modo
calmo Orodes, e si arrabbia alle sue minacce solo a metà:
A ciò Mezenzio con un sorriso misto a ira67.
Così, è evidente, non ha la rabbia di Turno, ma una barbarie che gli è
caratteristica, e una ferocia selvaggia, secondo il carattere descritto nel
decimo libro di Virgilio.
L’attore, per conoscere questi diversi caratteri di famosi eroi, deve leggere i
poeti che ne hanno scritto, se il drammaturgo che li ha introdotti nel suo
dramma non li ha sufficientemente definiti. Ma per sapere come i
temperamenti siano costituiti in modo diverso e per conoscere le passioni
che ne derivano dovrebbe comprendere la filosofia morale, perché queste
maniere prendono forme differenti negli sguardi e nelle azioni, a seconda
delle loro varie mescolanze. Che la stessa passione appaia in modo vario è
evidente nei pittori di storia che hanno seguito la natura. Così in un dipinto
di Jordaens di Anversa, che rappresenta nostro Signore deposto dalla croce
e che si trova ora in possesso del duca di Marlborough68 l’emozione del
dolore è espressa con meravigliosa varietà: il dolore della Vergine madre è
66 Re etrusco di Caese, personaggio dell’Eneide di Virgilio, dove combatte al fianco di Turno
contro Troia e quindi contro Enea che lo uccide in battaglia.
67 «Ad quem subridens mixta Mezensius ira» (Virgilio, Eneide, X, 742; trad. it. L. Canali,
Mondadori, Milano 1985).
68 La Lamentazione del pittore fiammingo Jacob Jordaens (1593-1678) che si trova ora al
Hamburger Kunsthalle ad Amburgo.
42
Charles Gildon, Vita di Thomas Betterton
al massimo dell’agonia, conformemente a quanto accade nella vita e che
indica quanto sia morta dentro; quello di Maria Maddalena è estremo, ma
unito all’amore e alla tenerezza che lei ha sempre espresso dopo la
conversione a Dio; il dolore di S. Giovanni evangelista è forte e virile, ma
unito alla dolcezza di una perfetta amicizia; e quello di Giuseppe di
Arimatea è consono ai suoi anni e all’amore per Cristo, più solenne, più
interiore eppure visibile nel suo sguardo. Il sacrificio della figlia di Jefte
dipinto da Coypels fortunatamente non esprime una grande varietà della
stessa passione.69 I pittori di storia in verità hanno osservato nelle loro
opere un decoro che non è stato introdotto sulle nostre scene: sulla tela non
c’è mai nessuno che non abbia interesse per ciò che accade. Persino gli
schiavi ne La tenda di Dario di Le Brun70 prendono parte alla grande
angoscia di Sisigambide, di Statira e degli altri. Questo vuole rendere la
rappresentazione estremamente solenne e bella ma sul palcoscenico non
solo le comparse o gli addetti non sono minimamente interessati al grande
evento messo in scena ma persino gli stessi attori presenti che non siano
impegnati nelle parti principali bisbigliano l’uno con l’altro, salutano i loro
amici in platea, o guardano in giro. Se avessero studiato la recitazione (o
avessero un talento per quest’arte), dato che è la loro occupazione, non solo
non commetterebbero queste assurdità ma avrebbero, come Le Brun,
osservato la natura dovunque trovassero che essa offre un qualche
contributo alla loro perfezione. Spesso il pittore fu visto seguire una lite per
strada tra diverse persone e non solo osservare i vari gradi cui nel diverbio
l’ira cresceva e i momenti in cui tornava indietro, ma anche le differenti
espressioni della rabbia sui volti di coloro che erano coinvolti.
[7. Rispetto del testo e resa delle passioni]
Il nostro teatro al suo meglio non è che una fredda rappresentazione,
sostenuta da suggeritori che parlano ad alta voce, irritando eternamente il
pubblico e rovinando la verosimiglianza della rappresentazione, poiché un
attore imperfetto offende gli spettatori e rivela i propri difetti. Devo dire, a
onore di Mr. Wilks,71 che egli cerca sempre di dare pochi problemi al
Si tratta di un dipinto del pittore francese Antoine Coypel (1661-1722), che si trova al
Musée du Louvre.
70 Il dipinto di Charles Le Brun, del 1661, era famoso e spesso associato al teatro nei discorsi
sulle passioni. Rappresentava la famiglia di Dario che s’inginocchia davanti ad Alessandro,
vincitore della battaglia di Isso.
71 Robert Wilks (1665-1732) fu attore molto attivo ed era considerato una star attorno al 1710.
Subito dopo divenne impresario e insieme a Colley Cibber e a Thomas Doggett gestì il
Drury Lane; il «triumvirato» fu oggetto di satira, accusato di aver contribuito alla decadenza
del teatro e alla sua volgarizzazione, dando la precedenza a pièce più spettacolari che
drammaturgiche. Alexander Pope ne fece personaggi del suo poema satirico The Dunciad e
William Hogarth rappresentò Wilks, Cibber e Barton Booth in una stampa dal titolo A Just
View of the English Stage (1734).
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AAR Anno VI, numero 11 – Maggio 2016
suggeritore e non reca mai danno all’autore inserendo qualcosa di suo, un
difetto di cui alcuni si vantano mentre invece meriterebbero una severa
punizione per la loro impudenza e stupidità. Dimenticano i consigli di
Amleto agli attori: «E fate in modo che quelli che recitano parti comiche
non dicano di più di quello che è stato scritto per loro; perché ce ne sono
alcuni che ridono loro stessi per far ridere un certo numero di spettatori
ignoranti, nel momento in cui si dovrebbe invece considerare qualche
importante questione del dramma. È offensivo e mostra un’ambizione
ridicola nello sciocco che lo fa».72 Fin troppo spesso si comportano così
alcuni dei nostri attori comici più noti, ma che sono comici solo a metà.
Comunque è, credo, una colpa ancora più grande in un attore tragico che,
conoscendo male la sua parte, dica qualsiasi cosa gli passi per la testa: il che
compromette infallibilmente la giusta rappresentazione degli eventi
drammatici, sia di passione, descrizione o narrazione. Nonostante questa
indolenza generale di troppi attori moderni, ne abbiamo anche di seri
perché ricordo di aver visto una volta Benjamin Jonson (il nostro Roscio)
recitare Numphs73 con un tale coinvolgimento nella parte che stentavo a
credere che non stesse recitando fatti veri; questo però spesso dipende dal
poeta che dà ai suoi personaggi sostanza sufficiente a impegnare l’attore a
immedesimarvisi completamente. Un buon attore dà comunque una mano
a un poeta mediocre.
Questa bravura nella rappresentazione non potrà mai essere raggiunta se
non all’ultimo grado di perfezione perché senza di essa l’attore non può
mai essere libero dalla preoccupazione di sbagliare. Tra gli attori che
sembrano sempre fare sul serio, non devo dimenticare la più grande,
l’incomparabile Mrs. Barry: la sua azione è sempre giusta e prodotta in
modo naturale dai sentimenti del personaggio che recita, e lei osserva
ovunque le regole che Orazio prescrive ai poeti e che vanno bene anche per
gli attori.
Ridiamo e piangiamo quando vediamo altri farlo;
Mi rattrista solo chi mi mostra la via
Ed è triste per primo. Allora, Teleso,
Sento il peso delle tue disgrazie,
E immagino che esse siano mie,
Ma se tu non le reciti bene, mi addormento o rido.
Il tuo aspetto deve cambiare come cambia il tuo argomento
Da dolce a feroce, da volubile a sereno.
La natura ci plasma e ammorbidisce dentro
E scrive i mutamenti della fortuna sui nostri volti.
Il piacere ammalia, la rabbia impetuosa ci trasporta,
Il dolore abbatte e angoscia l’anima torturata;
Hamlet, III. 2.
Humphrey Wasp, personaggio della commedia Bartholomew Fair (La fiera di S.
Bartolomeo) di Ben Jonson stesso.
72
73
44
Charles Gildon, Vita di Thomas Betterton
E tutto questo è espresso dal discorso.
Ma quando parole e fortuna son discordi,
Uno diventa assurdo e senza pietà il pubblico ne ride.74
Mrs. Barry entra sempre nella parte ed è la persona che rappresenta. L’ho
sentita dire che non ha mai pronunciato «Ah, povero Castalio!» ne
L’orfana,75 senza piangere. E spesso l’ho vista cambiare espressione molte
volte quando i discorsi di altri sul palcoscenico la emozionavano nel
personaggio che lei stava recitando. Questo significa essere totalmente
coinvolto, conoscere la propria parte ed esprimere le passioni nel sembiante
e nei gesti.
Il palcoscenico dovrebbe essere il luogo delle passioni in tutte le loro forme,
perciò l’attore dovrebbe conoscere perfettamente la natura degli affetti e
delle abitudini mentali, o non sarà mai capace di esprimerli nel modo
giusto con lo sguardo e i gesti né con il tono della voce e la maniera di
parlare. Deve conoscerli nelle loro varie mescolanze e come si miscelano nei
diversi personaggi che rappresenta, e allora la regola enunciata dall’attuale
duca di Buckingham servirà all’attore così come al poeta:
Devono guardare dentro per scoprire
I modi segreti della natura nella mente;
Se non c’è questa parte non c’è il tutto,
ed è solo un corpo senza l’anima.76
Dunque il comportamento dell’altra speranza del teatro inglese, Mrs.
Bradshaw77 (della quale potremmo dire per la recitazione quello che si è
detto del Tasso per la poesia, che se anche non era il poeta migliore, aveva
impedito a Virgilio di essere il solo poeta; così se anche lei non è la migliore
attrice che il teatro abbia avuto, ha impedito a Mrs. Barry di essere l’unica
attrice) sarebbe sicuramente giusto, poiché a un mio amico che parlava con
lei della recitazione teatrale, disse che prima cercava di impadronirsi della
parte e poi lasciava che la natura suggerisse l’atteggiamento e l’azione.
Orazio, Ars poetica, vv. 101-113. Gildon cita la traduzione inglese di Lord Roscommon
(1680).
75 È Monimia, la protagonista de The Orphan (1680) di Thomas Otway, a pronunciare questa
battuta. La tragedia fu scritta per Mrs. Barry della quale il drammaturgo era innamorato.
76 J. Sheffield, Duke of Buckingham, An Essay Upon Poetry, London, 1682.
77 Lucretia Bradshaw, attrice. Se ne conosce la data di morte (1755) e se ne hanno notizie dal
1714 al 1741. Nel 1714 si sposò con Martin Folkes, antiquario e matematico, per il quale
abbandonò il palcoscenico. Nel 1735, al ritorno da un viaggio sul continente, mostrò segni di
squilibrio mentale e passò il resto della sua vita chiusa in manicomio.
74
45
AAR Anno VI, numero 11 – Maggio 2016
[8. I gesti e le espressioni]
Un grande genio può farlo, ma per capire quest’arte si devono studiare
molti di coloro che la esercitano; così vediamo che Demostene si esercitava
osservando l’eleganza della figura nello specchio.78 Per esprimere la natura
in modo giusto, uno deve esserne padrone in tutti gli aspetti e questo può
derivare solo dall’osservazione che ci dirà che le passioni e le abitudini
della mente si rivelano nei nostri sguardi, nelle azioni e nei gesti. Uno
sguardo mobile, vivace e in costante movimento indica uno spirito pronto e
leggero, un aspetto ardente e collerico unito a una mente incostante e
impaziente, e in una donna è segno di volubilità e immodestia. Uno
sguardo lento e triste indica una mente ottusa e una difficile comprensione.
Per questa ragione si osserva che tutti o quasi i vecchi, i malati e le persone
con una costituzione flemmatica sono lenti nel muovere gli occhi.
L’estrema propensione che alcuni hanno ad ammiccare viene da un animo
soggetto alla paura, e indica spirito debole e palpebre molli.
Uno sguardo fisso e sfrontato, puntato su qualcuno, deriva o da un’ottusa
stupidità come nella gente rozza o da impudenza come nei malvagi, da
prudenza come nei potenti o da incontinenza come nelle donnacce.
Sguardi fiammeggianti e feroci sono l’effetto vero della collera e della
rabbia; quelli calmi e quieti, con una specie di intima grazia e piacevolezza,
derivano dall’amore e dall’amicizia.
Così la voce, quando è alta, rivela ira e indignazione nell’animo e un lieve
tremore deriva dalla paura.
Non usare azioni o gesti mentre si parla è segno di carattere flemmatico e
lento, mentre un eccessivo gesticolare viene dalla vivacità, e una via di
mezzo tra i due è effetto della saggezza e della serietà e, se non è troppo
veloce, denota magnanimità. Alcuni armeggiano continuamente con i loro
abiti tanto che si spogliano ancora prima di andare a letto, e questo è il
segno di una mente vuota e infantile.
Alcuni muovono la testa da una parte all’altra in modo insensato, effetto di
follia e di incostanza. Altri credono sia essenziale alla preghiera girare e
torcere il collo e questa è una prova di ipocrisia, di superstizione o di
stupidità. Alcuni sono totalmente impegnati a mostrare se stessi, la
proporzione delle proprie membra, gli atteggiamenti del viso e la
gradevolezza del portamento, il che viene dall’orgoglio e da una vana
compiacenza di sé, e le donne civette appartengono a questo tipo.
In questo modo potrei passare in rassegna tutte le azioni naturali che si
vedono in uomini di diversi temperamenti. Ma per non chiudere questo
punto senza una più profonda riflessione, aggiungerò qui il significato dei
vari gesti naturali preso dal manoscritto di un amico che mi ha assicurato
di averlo ricavato da un dotto gesuita che aveva scritto di
78
Quintiliano, Institutio oratoria, XI, 3, 68.
46
Charles Gildon, Vita di Thomas Betterton
quest’argomento.79 Qualsiasi passione o emozione dell’animo riceve dalla
natura un particolare aspetto, suono o gesto, e tutto il corpo dell’uomo, i
suoi sguardi e ogni suono della sua voce, come fosse la corda di uno
strumento, prendono vita dall’impulso diverso delle passioni.
Abbassare o chinare la testa è conseguenza del dolore e dell’afflizione.
Perciò questa è la posizione che si può osservare nei rimproveri dell’ira
divina e in occasioni del genere dovrebbe essere imitata.
Sollevare o buttare indietro la testa è gesto di orgoglio e arroganza. Tenere
la testa alta è segno di gioia, di vittoria e di trionfo.
Una fronte grintosa può essere vista come un marchio di ostinazione,
insubordinazione, perfidia e impudenza.
È negli occhi che l’anima è più visibile, poiché essi sono le perfette
immagini della mente e, come dice Plinio,80 bruciano ma anche si sciolgono
in fiumi di lacrime; saettano sguardi sugli oggetti e sembrano non vederli; e
quando baciamo gli occhi ci sembra di toccare davvero l’anima.
Gli occhi rivolti verso l’alto mostrano arroganza e orgoglio, ma abbassati
esprimono umiltà, però solleviamo gli occhi quando ci rivolgiamo a Dio in
preghiera e gli chiediamo qualcosa.
Alzando invano al cielo gli occhi ardenti.81
Diniego, avversione, nausea, dissimulazione e disinteresse sono espressi
distogliendo lo sguardo.
Un frequente ammiccare o un movimento tremulo degli occhi indica modi
malvagi, pensieri e inclinazioni perversi e odiosi.
Gli occhi pieni di lacrime mostrano un dolore fortissimo e atroce, che non
può trovare sollievo nemmeno nel pianto.
Alzare lo sguardo verso qualcosa o qualcuno è segno della nostra
volontaria attenzione nei loro confronti.
La mano davanti alla bocca è segno di voler tacere per convinzione ed è
una delle cerimonie dell’adorazione pagana.
Contrarre le labbra e quasi non guardare esprimono il gesto di una persona
maligna e beffarda. Mostrare i denti con le labbra tirate mostra
indignazione e rabbia.
79 Il manoscritto cui Gildon allude è quasi certamente un espediente narrativo, ma il gesuita
da cui deriva la sintetica descrizione dell’actio nelle varie parti del corpo è Louis de
Cressolles, Vacationes autumnales, sive de perfecta oratoris actione et pronunciatione (Officina
Nivelliana, Lutetia Parisiorum, 1620).
80 Naturalis historia (Storia naturale), libro XI, cap. 36.
81 «ad caelum tendens ardentia lumina frustra» (Virgilio, Eneide, II, 405; trad. cit.). Il testo
parla di Cassandra presa prigioniera dai Greci; Gildon scrive invece per errore «his eyes» (i
suoi, di lui, occhi). Il testo inglese più vicino alla citazione di Gildon non è la traduzione di
John Dryden, bensì quella di Henry Howard, Earl of Surrey (1517-1547): «Lifting in vain her
flaming eyen to heaven».
47
AAR Anno VI, numero 11 – Maggio 2016
Girare tutto il viso verso qualcosa è il gesto di uno che partecipa e ha
un’attenzione particolare per quella cosa. Abbassare il volto indica
consapevolezza e colpa; al contrario, sollevarlo è segno di buona coscienza
o di innocenza, speranza e fiducia.
L’espressione del viso in realtà assume molte forme e comunemente è
considerata l’indice più sicuro delle passioni dell’animo. Il pallore tradisce
dolore, afflizione e paura e, quando è molto forte, invidia. Un viso scuro e
tetro è indice di infelicità, di travaglio e di forte inquietudine.
In breve, come osserva Quintiliano,82 l’espressione del volto ha grande
potere e forza in tutto quello che facciamo. In essa si scopre quando siamo
supplichevoli, minacciosi, gentili, addolorati, allegri; in essa siamo sollevati
o depressi; da essa gli uomini dipendono, la osservano, la guardano prima
che noi parliamo; per essa amiamo alcuni e odiamo altri, e attraverso di
essa capiamo una gran quantità di cose.
Il braccio steso e alzato significa potere di fare e realizzare qualcosa, ed è il
gesto dell’autorità, della forza e della vittoria. Al contrario, tenere il braccio
vicino al corpo è segno di timidezza, modestia e insicurezza.
Poiché le mani sono le parti più abili del corpo e quelle che più facilmente
si muovono da una parte all’altra, sono anche indizi di molte abitudini.
Ma abbiamo due mani, la destra e la sinistra, e talvolta facciamo uso
dell’una, talvolta dell’altra e talvolta di entrambe per esprimere le passioni
e le abitudini. Indicherò le forme principali di questi gesti.
Alzare una mano in alto o stenderla in avanti esprimono forza, vigore e
potere. La destra si stende verso l’alto anche in segno di giuramento o
quando si fa una promessa solenne, e questa apertura della mano talvolta
significa pacificazione e desiderio di silenzio.
Mettere una mano sulla bocca è abitudine di chi è taciturno e modesto,
segno di ammirazione e considerazione. Dare la mano è il gesto di chi fa un
patto, conferma un’alleanza o si rimette nelle mani di un altro. Prendere la
mano di qualcuno esprime ammonizione, esortazione e incoraggiamento.
Stendere la mano significa aiuto e assistenza. Alzare tutte e due le mani è il
gesto di chi implora e esprime la sua desolazione. Talvolta però significa
congratularsi con il cielo per una liberazione, come in Virgilio:
sollevò liberate dai lacci le mani alle stelle.83
Tenere le mani sul petto è abitudine dei pigri e dei negligenti. Batterle per
gli ebrei significava derisione, insulto, offesa, ma tra i greci e i romani al
Quintiliano, Institutio oratoria, XI, 3. 72 e sgg.
Eneide, II, 153. Il gesto è il compimento dell’inganno perpetrato dall’astuto e abile
persuasore Sinone nei confronti dei Troiani che, convinti dalle sue parole e dall’invocazione
agli dei, accetteranno di fare entrare il cavallo di legno dentro le mura di Ilio.
82
83
48
Charles Gildon, Vita di Thomas Betterton
contrario era espressione di plauso. L’imposizione delle mani significa
trasmettere un potere o consacrare le vittime.
In breve, Quintiliano dice delle mani:
Difficile dire quanti movimenti fanno le mani, senza i quali l’azione sarebbe mutila e
zoppa, dato che questi moti sono vari almeno quanto le parole che pronunciamo. Le
altre parti del corpo si può dire aiutino un uomo quando parla, ma le mani parlano
da sole. Non desideriamo qualcosa attraverso le mani? Non promettiamo?
Chiamiamo? Mandiamo via? Minacciamo? Supplichiamo? Non esprimiamo
abominio o orrore? Paura? Non mostriamo gioia, dolore, dubbio, confessione,
penitenza, moderazione, quantità, numero e tempo? E le mani forse non provocano,
proibiscono, supplicano, approvano, ammirano, ed esprimono vergogna? E
nell’indicare luoghi o persone non prendono il posto di avverbi e pronomi? Tanto
che in una tale varietà e differenza di lingue nazionali, questo sembra essere l’unico
linguaggio comune a tutti.84
Si dovrebbe desiderare che l’arte dei cenni tornasse in uso in quest’epoca,
ora che queste importanti parti del corpo, che prima contribuivano così
tanto all’espressione di ciò che si diceva, sembrano imbarazzare i nostri
attori che non sanno cosa farne e raramente o addirittura mai aggiungono
eleganza all’azione del corpo o qualcosa alla spiegazione o alla piena
espressione delle parole e delle passioni. Ma proseguiamo con il mio testo
ancora un po’.
Battere i piedi per gli ebrei significava derisione o sbeffeggio. Per i greci
ecc. un modo imperioso. Un piede fermo è indice di fermezza, sicurezza e
costanza nel cercare e perseguire i nostri piani. Al contrario, muovere
sempre i piedi è l’abitudine di chi è incostante e oscillante nelle proprie idee
e nelle decisioni. I greci pensavano che in una donna fosse segno di
temperamento malvagio.
[9. La capacità di comunicare della mimica]
Ho così scorso tutte le osservazioni del Gesuita sui diversi gesti e le
posizioni delle varie parti del corpo. Anche se a uno sguardo veloce alcune
possono sembrare sciocchezze e altre senza importanza, pure io sono
persuaso che una persona di vero buon senso possa trovarvi dei meriti
segreti che possano fornirgli grande aiuto per rendere i suoi gesti belli e
espressivi.
Non c’è prova migliore di questo dell’esempio che ho già fornito circa il
pantomimo e il filosofo cinico Demetrio che gli gridò: «Amico mio, odo ciò
che stai recitando; non solo vedo le tue mani, ma mi sembra che tu parli
attraverso di loro».85 Mi sembra che questo parlare con le mani (come qui
viene chiamato) contenga buona parte della rappresentazione dei dumb
84
85
Quintiliano, Institutio oratoria, XI, 3. 85-87.
Luciano, Sulla danza, 63 e 64.
49
AAR Anno VI, numero 11 – Maggio 2016
shows danzati dei mimi e dei pantomimi. Forse mi si potrà obiettare che
questi movimenti delle mani erano così noti ai frequentatori dei teatri che,
come il nostro parlare con le dita a coloro che capiscono questo linguaggio,
non ci doveva essere difficoltà nella rappresentazione; ma se fossero stati
presenti degli stranieri per loro sarebbe stato solo un incomprensibile
gesticolare (quello che Shakespeare chiama «inspiegabili dumb shows»),
mentre se queste azioni e questi gesti fossero stati presi da quello che
significano in natura, secondo i segni di cui ho già parlato o quelli che ho
citato da Quintiliano, sarebbero stati sicuramente comprensibili a tutti, a
prima vista ai barbari che non li avevano mai osservati prima così come a
greci e romani che ne avevano familiarità quotidiana.
Concedo l’obiezione ma la confuterò raccontando un altro aneddoto dello
stesso pantomimo che viveva al tempo di Nerone. La storia è questa: «Un
principe barbaro, che venne a Roma dal Ponto per qualche faccenda da
sbrigare con Nerone, tra gli altri divertimenti vide un danzatore
interpretare in modo così vivace che, anche se non sapeva niente di ciò che
veniva cantato essendo mezzo greco, capì tutto. Dovendo tornare in patria
dopo questo intrattenimento offerto da Nerone, gli fu chiesto che cosa
desiderava perché gli sarebbe stato concesso, e lui rispose: ‘Datemi il
danzatore e mi farete infinitamente piacere’. Nerone gli chiese a che cosa gli
sarebbe servito. E lui disse: ‘I miei vicini barbari parlano lingue diverse e
per me non è facile trovare degli interpreti per loro, perciò costui ogni volta
che ne avrò bisogno mi darà spiegazioni a gesti’».86 Le sue azioni e i suoi
gesti erano chiari e intellegibili e derivavano dalla natura di ciò che
rappresentava; e questa è una prova che ci sono dei significati naturali nel
movimento delle mani e delle altre membra che risultano ovvi alla
comprensione di tutti gli uomini sensati di ogni paese. Se quelli che vi ho
enunciato prendendoli dal gesuita non lo sono, certamente molti di quelli
spiegati da lui saranno chiari a chiunque li consideri con attenzione.
Il gesto87 ha perciò questo vantaggio sulla semplice parola, che attraverso
quest’ultima ci comprendono solo quelli che parlano la nostra lingua, ma
attraverso il gesto e l’azione (intendo l’azione regolare e giusta) facciamo
conoscere pensieri e passioni a tutti i paesi e a tutti gli idiomi. È, come ho
detto citando Quintiliano, il linguaggio comune all’umanità, che colpisce la
ragione attraverso gli occhi in modo efficace come la parola fa con gli
Luciano, Sulla danza, 64.
Da questo punto Gildon riprende ampiamente da Le Faucheur (Trad. cit., pp. 171-203) la
trattazione sul gesto (comprendendo qui titoli 9-15). Introduce tuttavia alcune sue
considerazioni che occupano una parte rilevante: il suo atteggiamento negativo nei confronti
dell’imitazione dei modelli; le pagine in cui critica l’uso delle maschere nel teatro antico e si
sofferma sulle possibilità dell’espressione del volto, citando sia da Luciano che da Gaffarel;
gli esempi della pittura; la citazione da Amleto. Per il resto il testo riprende in successione
gli argomenti di Le Faucheur, sia pure riducendoli, inserendo integrazioni da parti diverse
del testo, e sostituendo spesso gli esempi con altri tratti da drammi inglesi.
86
87
50
Charles Gildon, Vita di Thomas Betterton
orecchi; anzi, forse fa un’impressione ancora più efficace, poiché quel senso
è il più vivo e toccante, secondo Orazio, come leggiamo nella versione di
Lord Roscommon:
Meno ci commuove ciò che udiamo di quello che vediamo,
Gli spettatori devono credere solo agli occhi … 88
[10. Arte del gesto e impiego di un modello]
Credo di aver già indicato dei validi motivi per cui il movimento e l’azione
ci danno istruzioni avvedute; persino la loro rappresentazione in pittura
spesso ci emoziona e impressiona la nostra mente in modo più forte e vivo
che non tutta l’energia delle parole. Di sicuro l’eloquio è molto più efficace
in altre modalità del discorso pubblico, in tribunale o nel pulpito, dove il
peso del ragionamento e delle prove deve essere considerato prima di tutto
e più di ogni altra cosa; ma a teatro, dove soprattutto le passioni sono
evidenti, i migliori discorsi senza azioni o gesti (che sono la vita di qualsiasi
discorso) si rivelano modi di parlare pesanti, noiosi e spenti.
In qualche modo questo si estende a tutto ciò che viene detto in pubblico,
dato che Plinio il giovane parla di persone che ai suoi tempi recitavano dei
discorsi o delle poesie leggendoli loro stessi o facendoli leggere ad altri e
dice che la lettura penalizzava la perfezione della loro esibizione in
entrambi i casi, perché diminuiva l’eloquenza e il carattere, dato che gli
ausili principali della elocuzione, occhi e mani, non potevano adempiere al
loro compito essendo altrimenti impegnati a leggere e non arricchivano la
parola con dei movimenti appropriati; cosicché non c’era da stupirsi se
l’attenzione del pubblico si ammosciava, in uno spettacolo così spento.89 Al
contrario, quando un discorso acquista forza e vitalità non solo dalla
correttezza e dall’eleganza del ragionamento che si confanno al soggetto,
ma anche da azioni e gesti appropriati, è veramente toccante, acuto ed
emozionante; ha vita, anima, un vigore e un’energia cui non si può
resistere. Allora l’attore, il predicatore o l’avvocato fanno presa sul
pubblico attraverso gli occhi oltre che le orecchie e conquistano l’attenzione
con un’energia doppia.
Questo sembra ben indicato nelle parole di Cicerone a Cecilio, un giovane
oratore alla sua prima causa che avrebbe dovuto assumere l’azione
giudiziaria contro Verre, opponendosi a Ortensio.
«Segnius inritant animos demissa per aurem/ quam quae sunt oculis subiecta fidelibus et
quae/
ipse sibi tradit spectator» (Orazio, Ars poetica, vv. 180-182). La traduzione che Gildon
dà del testo è quella pubblicata nel 1680, non corretta ma in blank verse, di Wentworth Dillon,
Earl of Roscommon (ca. 1633-1685).
89 Plinio il Giovane, Epistole, II, 19 (a Nonio Celere).
88
51
AAR Anno VI, numero 11 – Maggio 2016
Dopo che Cicerone ha mostrato al giovane in molti punti la sua incapacità
di accusare Verre quanto a bravura e perché non è esente dal sospetto di
avere partecipato al crimine, alla fine passa a parlare del potere e dell’arte
del suo avversario Ortensio. «Rifletti, dice, considera più volte cosa stai per
fare! Perché mi pare ci sia il pericolo non solo che ti schiacci con le sue
parole, ma anche che ti confonda e accechi la tua ragione con i suoi gesti e i
movimenti del corpo e così ti distolga completamente dalla tua intenzione e
dai tuoi pensieri» 90. Lo stesso Cicerone, nei suoi libri di oratoria ci dice che
Crasso, parlando contro Bruto, pronunciò il suo discorso con tali accenti e
gesti da confonderlo del tutto e lo sconcertò tenendo gli occhi fissi su di lui
e rivolgendogli tutta la sua invettiva come se volesse divorarlo con lo
sguardo e la parola.91
Ma perché questi movimenti del volto e delle mani siano facilmente
comprensibili, cioè perché servano a smuovere le passioni degli ascoltatori
o degli spettatori, devono essere appropriati a ciò di cui si parla, ai pensieri
e alle intenzioni, e somigliare sempre alla passione che si vuole esprimere o
suscitare. Così, non si dovrà parlare di cose tristi con un aspetto gaio e
allegro, né affermare qualcosa mostrando di negarla perché questo
toglierebbe autorità e valore a ciò che si dice e non se ne ricaverebbe
credibilità o ammirazione. Si deve anche far attenzione a evitare qualsiasi
forma di affettazione nell’azione e nel gesto poiché questo è in genere
ridicolo o detestabile a meno che l’attore non debba esprimere affettazione
nel personaggio che interpreta, come Melantha in Marriage à-la-mode o
Millamant in The Way of the World.92 Ma anche quell’affettazione non deve
essere affettata, e così Mrs. Montfort e Mrs. Bracegirdle recitavano quelle
due parti. L’azione deve sembrare semplicemente naturale, come nascesse
spontaneamente dalle cose dette e dalla passione che spinge a parlare in
quel modo.
Infine, il nostro attore, avvocato o predicatore, deve avere un modo
elegante di fare i gesti cosicché non ci sia niente nei vari movimenti e nelle
disposizioni del suo corpo che possa offendere lo sguardo dello spettatore,
né niente di sgradevole e repellente nel suo modo di parlare per chi ascolta,
altrimenti la sua persona sarebbe meno piacevole e il suo discorso meno
Cicerone, Divinatio in Caecilium (Dibattito contro Cecilio), XIV, in cui spiega che i Siciliani
non avrebbero dovuto scegliere Quinto Cecilio Nigro come accusatore nella causa contro
Verre, perché era in conflitto di interesse per i suoi rapporti con l’imputato.
91 De Oratore, II, 55 (225-226); Le Faucheur, trad. cit., p. 173.
92 La prima è una commedia di John Dryden, rappresentata nel 1673 dalla King’s Company,
con Kynaston nella parte di Leonidas e Elizabeth Boutell in quella di Melantha. Alla fine del
secolo il dramma fu ripreso e recitato da Robert Wilks con Mrs. Montfort (che poi sarebbe
diventata Mrs. Verbruggen) nel ruolo di Melantha. Il secondo testo (Così va il mondo) cui si
fa riferimento è una commedia di William Congreve, rappresentata nel 1700 al teatro di
Lincoln’s Inn Fields con John Verbruggen e Anne Bracegirdle nelle parti principali.
90
52
Charles Gildon, Vita di Thomas Betterton
efficace essendo privo di quella grazia, virtù e forza che invece vorrebbe
avere.
Si deve ammettere che in verità l’arte del gesto sembra più difficile da
acquisire dell’arte del parlare, perché un uomo può giudicare la sua voce
con le sue stesse orecchie e può sentirne le diverse variazioni, ma non può
vedere affatto il suo volto e neanche i movimenti delle altre parti del corpo
se non in modo imperfetto. Demostene, come ho già detto, per rendersi
conto esattamente dei movimenti del suo volto e delle sue membra e tenersi
alle regole dell’azione corretta e del gesto giusto, si mise davanti un grande
specchio, che potesse riflettere interamente la sua figura per poter
distinguere tra azioni giuste e sbagliate, decenti o indecenti. Però, anche se
questo può essere utile, ha lo svantaggio di mostrare a destra quello che è a
sinistra e viceversa, a sinistra quello che è a destra,93 così quando si fa un
gesto con la destra, la riflessione lo fa sembrare fatto con la sinistra, il che
confonde il gesto e gli dà un aspetto strano; aggiustare ciò che si vede nello
specchio, facendo i movimenti dalla parte contraria, potrebbe far acquisire
delle cattive abitudini, che andrebbero evitate con la massima cura.
Uno specchio può essere molto utile per tutti gli altri aspetti dell’azione,
visto che dà una fedele rappresentazione non solo del volto in tutte le
variazioni dell’espressione, ma anche del corpo intero in tutte le posizioni e
nei movimenti, mostrando la piacevolezza e l’armonia di un gesto con
l’altro, della parti con il tutto, e del tutto con le singole parti. In tal modo si
possono facilmente scoprire modi o gesti che mancano di eleganza o di
piacevolezza e capire con quali azioni si possano acquisire queste qualità e
come con esse si possa dare forza e influenza a ciò che si dice.
In mancanza di uno specchio non c’è che un’altra cosa più difficile di cui
fare uso, e cioè un amico che sia perfettamente padrone delle bellezze del
gesto e del movimento, che possa correggere gli errori mentre si recita
davanti a lui e mettere in evidenza quelle raffinatezze che renderebbero
l’azione davvero avvincente. È vero che alcuni hanno consigliato ai
discepoli di avere sempre un modello eccellente davanti agli occhi e
indicano che Ortensio lo era per Roscio ed Esopo, che questi si
preoccupavano di essere sempre presenti alle sue arringhe che seguivano
con grande attenzione per migliorare attraverso ciò che vedevano, al punto
di copiare le sue azioni e i gesti, e riprodurre dopo sul palcoscenico quello
che avevano visto in tribunale. Pure, non mi sento di approvare questa
imitazione nel recitare perché quando un giovane attore stima moltissimo
chiunque sia un’autorità sulle scene, tutt’al più diventa una buona copia e
di necessità resterà sempre lontano dall’originale. Inoltre, l’esempio dei due
attori romani non riguarda il nostro caso, poiché essi erano attori provetti,
avevano consolidato i loro personaggi e il modo di recitare e facevano con
Ortensio soltanto quello che un attore dovrebbe fare oggi con le belle opere
93
Quintiliano, Institutio oratoria, XI, 3, 68 (Le Faucheur, trad.cit., p. 175).
53
AAR Anno VI, numero 11 – Maggio 2016
di pittura storica: copiare le passioni e le posizioni riuscite delle figure o
l’aspetto particolare di una singola passione. Dopo tutto però non saprei, e
non sono tanto esperto degli antichi, come conciliare il fatto che Roscio e
Esopo imparassero i gesti da Ortensio con l’idea che poi li insegnassero a
Cicerone. So che in realtà Ortensio era più anziano di Cicerone, e forse si
può pensare che essi avessero dato a Cicerone quello che avevano preso da
Ortensio. Ma lasciamo perdere, poiché la controversia non è di tale
importanza da trattenerci un momento di più.
[11. Regole particolari dell’azione]
Si può obiettare che ciò che ho detto fin qui sembri trattare più gli aspetti
generali che non i particolari. Confesso che di quest’arte è molto più facile
parlare in modo generale che non dare regole particolari per istruire
sull’azione. Credo però che per quanto il mio discorso possa sembrare
generale ad alcuni, chi ha un vero talento per la recitazione vi troverà delle
indicazioni particolari che gli saranno di grande aiuto: quest’arte, come
molte altre, e specialmente la poesia, ha tali regole che non sono facilmente
comprensibili senza talento.
Tuttavia, per soddisfare quelli che richiedono maggiori particolari,
aggiungerò alcune regole specifiche per l’azione; soppesate in modo giusto,
risulteranno utili in tribunale e nel pulpito quanto sulle scene, purché il
discepolo faccia gesti più forti, vivi e violenti nelle opere teatrali che non
negli altri due luoghi.
Perciò comincerò con il portamento, l’ordine e l’equilibrio, per così dire, di
tutto il corpo, e poi proseguirò con la postura e i movimenti propri della
testa, degli occhi, delle ciglia e di tutto il volto, e concluderò con le azioni
delle mani, che sono in quantità maggiore e più varie di quelle delle altre
parti del corpo.
La posizione e la postura del corpo non andrebbero cambiate a ogni
momento perché un’agitazione ballerina è insensata e futile; d’altra parte
non si dovrebbe sempre tenere lo stesso assetto, e stare immobili come
colonne o statue di marmo. Questo, in primo luogo, è innaturale e perciò
sgradevole, visto che Dio ha dato forma al corpo dotandolo di membra e
l’ha reso atto al movimento dietro l’impulso di ciò che detta la mente
oppure come richiedono al corpo stesso certe necessità. L’immobilità
pesante o la fissità senza il pensiero, quando si perda la varietà che è così
appropriata e gradevole nel cambiamento e nella diversità del discorso e
che fa ammirare ogni cosa che arricchisce, fanno perdere anche l’eleganza e
la raffinatezza che, piacendo all’occhio, attirano l’attenzione. Imparare a
danzare in generale contribuirà moltissimo a dare al corpo dei movimenti
aggraziati, specialmente laddove non siano direttamente collegati alla
passione.
54
Charles Gildon, Vita di Thomas Betterton
Che la testa possa fare vari gesti e segni, cenni e indizi con i quali è capace
di esprimere assenso, rifiuto, conferma, ammirazione, rabbia, ecc., è ciò che
sanno tutti coloro che ci abbiano pensato. Perciò si può ritenere superfluo
trattarne in dettaglio. Per la testa tuttavia posso dare questa regola
generale, che prima di tutto non deve essere troppo sollevata in alto e tirata
su in modo eccessivo, che è segno di arroganza e altezzosità; un’eccezione
comunque a questa regola tornerà utile all’attore che deve recitare una
persona con quel carattere. D’altra parte non deve neanche essere tenuta
giù sul petto, il che è sgradevole alla vista perché rende l’espressione del
viso sgraziata e spenta e inoltre potrebbe danneggiare molto la voce,
togliendole chiarezza, distinzione e quella intelligibilità che dovrebbe
avere. La testa non dovrebbe neanche essere inclinata verso la spalla, in un
gesto altrettanto rozzo e affettato o grande segno di indifferenza, languore
o di una disposizione debole. Dovrebbe invece, almeno nei discorsi più
calmi, essere tenuta nella sua posizione naturale e eretta. Certo,
nell’agitazione di una passione, la sua posizione seguirà i diversi
andirivieni della passione, che si tratti di dolore, rabbia, o altro.
Bisogna anche osservare che non si deve tenere la testa sempre immobile
come quella di una statua, né al contrario muoverla continuamente o
agitarla sempre di qua e di là ogni volta che si dice una cosa differente.
Perciò bisogna, per pilotare tra Scilla e Cariddi ed evitare questi estremi
ridicoli, girarla dolcemente sul collo quando l’occasione richieda un
movimento, secondo la natura della cosa, ora da un lato ora dall’altro, e poi
tornare a una posizione conveniente perché la voce sia udita da tutto il
pubblico. Posso aggiungere che si dovrebbe sempre girare la testa dalla
stessa parte in cui è diretta l’azione del resto del corpo, tranne che quando
si deve esprimere avversione alle cose che si rifiutano o a quelle che
detestiamo o disprezziamo, poiché queste le respingiamo con la mano
destra girando al contempo la testa verso sinistra.94
[12. Contro l’uso della maschera]
Più di tutto però la vitalità e la grazia dell’azione derivano dal volto. Per
questo motivo Crasso, nel De oratore di Cicerone, afferma che Roscio, pur
essendo un attore così eccellente, sulle scene aveva perduto l’ammirazione
dei romani perché la maschera che portava sul volto impediva al pubblico
di vedere i movimenti, il fascino e l’attrazione che si dovevano scoprire
attraverso l’espressione del volto.95 Confesso di essere estremamente
sorpreso dall’uso che gli antichi facevano sul palcoscenico di queste
maschere che chiamavano personæ, e non riesco a immaginare come fossero
fatte per non rovinare la bellezza e la grazia della recitazione per quanto
94
95
Quintiliano, XI, 3, 69-70 (Le Faucheur, trad.cit., p. 181).
Cicerone, De oratore, III, 59 (221) (Le Faucheur, trad.cit., p. 182).
55
AAR Anno VI, numero 11 – Maggio 2016
riguarda il controllo dei lineamenti del volto, interamente coperti a
giudicare da tutte le maschere che abbiamo; eppure, quello che dice
Plutarco di Demostene e di Cicerone è una prova che gli attori di Atene
erano maestri assoluti della parola e dell’azione. È vero che la passione può
essere espressa dalla voce con grande finezza, ma di sicuro le varie
espressioni del viso, di occhi, ciglia, bocca, e simili, vi aggiungono una
bellezza molto emozionante e toccante. Sono comunque convinto di ciò che
ho detto prima, cioè che questa bellezza era completamente perduta
usando le personæ, e questa è una prova che in tutto ciò in cui gli attori
antichi erano superiori ai nostri noi abbiamo il vantaggio di rendere la
rappresentazione perfetta poiché possiamo mostrare tutti i movimenti del
volto.
La descrizione che fa Luciano di queste personæ (come si trova nella
traduzione del Dr. Jasper Mayne) le rende estremamente ridicole e con
tutto quello che racconta del resto dell’armamentario tragico ci fa davvero
dubitare che fossero attori eccellenti negli altri aspetti della recitazione.
«Che visione orribile e spaventosa (dice) vedere un uomo sollevarsi fino a
un’altezza prodigiosa, camminare altero su stivaletti con i tacchi, il volto
coperto da una maschera feroce, la bocca spalancata, come se volesse
divorare gli spettatori; e non voglio parlare dell’imbottitura sul petto e la
pancia per renderlo artificialmente corpulento in modo che l’altezza
innaturale non sia sproporzionata alla sua corporatura sottile».96
Di sicuro un’immagine come questa che Luciano attribuisce al nostro attore
tragico non solo deve renderlo incapace di dare al corpo movimenti giusti e
gesti aggraziati – quelli di cui stiamo parlando e che i grandi scrittori, mi si
dice, lodano così tanto – ma anche renderlo ridicolo fino al livello della
farsa. Anche se quello che Luciano descrive può essere attribuito al periodo
della decadenza del teatro romano, i coturni e le personæ erano già usati dai
greci e dovevano essere assolutamente negativi per la bellezza della
rappresentazione. Il motivo che ho sentito dare per i primi era l’opinione
comune che gli eroi dei tempi passati fossero più alti e più grossi dei nostri
contemporanei, e credo che l’uso della maschera, che venne dopo
l’abitudine di sporcarsi il viso con la feccia dell’uva ai tempi di Tespi,
avesse principalmente lo scopo di esprimere l’aspetto e la fisionomia dei
diversi eroi rappresentati, secondo le statue e i ritratti, in modo da rendere
l’attore sempre nuovo per gli spettatori, mentre noi stiamo sulla scena con
la stessa faccia e costringiamo la fantasia del pubblico a immaginarci come
persone diverse.
Credo di aver trovato un modo che studiato a fondo procurerebbe questa
varietà di espressioni in maniera più ingegnosa e al tempo stesso potrebbe
meglio ispirare l’attore sulla natura e il carattere del suo ruolo. Ricordo che
qualche anno fa lessi un libro francese scritto da un certo monaco Gaffarel
96
Luciano, Sulla danza, 27.
56
Charles Gildon, Vita di Thomas Betterton
che racconta che quando era a Roma andò a vedere Campanella al
tribunale dell’Inquisizione e vide che faceva moltissime smorfie; all’inizio
pensò fossero dovute alle torture che aveva subito in quel mattatoio
ecclesiastico, ma subito si ricredette, vedendo che tipo di espressione aveva
il cardinale davanti al quale egli era stato chiamato: l’accusato stava
adattando la sua espressione per quanto poteva a quella che vedeva
nell’altro in modo da poter sapere quale sarebbe stata la sua risposta.97
Se un attore perciò conoscesse il carattere del suo eroe al punto da sapere
quali sono le sue fattezze e i suoi sguardi, o quelli di qualche persona reale
con lo stesso carattere, potrebbe in quel modo cambiare il suo volto fino a
farlo sembrare un altro, sollevando o abbassando le sopracciglia,
aggrottandole o distendendole, girando gli occhi in modo vivace o lento,
allegro o triste, stringendo o dilatando le narici e le varie posizioni della
bocca: tutto questo diventerebbe familiare con la pratica e potrebbe
migliorare di molto l’arte della recitazione e portare a più alta
considerazione questo nobile intrattenimento. In questo senso sarebbe
molto utile studiare la pittura storica, perché conoscere la figura e i
lineamenti delle persone rappresentate (e nella pittura storica vi si trovano
quasi tutte) insegnerà all’attore a variare e trasformare la sua figura e, come
ho detto, a non essere sempre lo stesso in tutte le parti, ma fare in modo che
la sua espressione sia così diversa che non solo i suoi personaggi abbiano
pensieri differenti, ma ne suscitino di differenti anche nel pubblico. Alcuni
tengono la testa alta in modo solenne, altri corrugano la fronte, hanno uno
sguardo acuto ecc., come ho già detto, e tutto questo, se l’attore lo terrà
attentamente in considerazione, farà di lui un uomo nuovo in ogni ruolo e
sostituirà le personæ degli antichi con qualcosa di più bello. Così il nostro
teatro potrà acquisire merito maggiore di quello cui aspirava il loro, che
privava il pubblico della parte più vivace e più nobile della
rappresentazione, mancando i movimenti del volto ai quali dovremmo fare
particolare attenzione, dato che è su quelli che il pubblico o gli spettatori
fissano lo sguardo per tutto il tempo dell’azione.
[13. Il volto e la direzione dello sguardo]
L’esercizio e la pratica frequente devono correggere anche i minimi errori,
perché nella rappresentazione tutti li scoprono subito, anche se noi stessi
non li vediamo. Il modo più certo per correggersi è uno specchio o un
amico che sappia giudicare e che possa e voglia dire quali espressioni sono
97 Jacques Gaffarel (1601-1681), dotto monaco orientalista e studioso di cabala, fu vicino a
Campanella durante la sua prigionia nelle carceri del Sant’Uffizio. L’episodio ricordato da
Gildon è in Curiositez inouyes sur la sculpture
talismanique des Persanes, pubblicato da Gaffarel nel 1629 (Paris, Hervé du Mesnil, pp. 266270).
57
AAR Anno VI, numero 11 – Maggio 2016
gradevoli e quali no. Ma c’è una regola generale senza eccezioni: che si
devono adattare lineamenti e movimenti del volto all’argomento del
discorso, alla passione che si sente, o che si dovrebbe sentire a seconda del
ruolo, o ancora che si vorrebbe suscitare in coloro che ci vedono e ci
ascoltano. Ugualmente si deve considerare il rango del personaggio che si
rappresenta così come quello di coloro cui si parla perché anche nelle
grandi passioni l’effetto maggiore o minore quando queste si manifestano
dipenderà dalla differenza e dalla distanza sociale. Le fattezze si devono
illuminare di piacevole gaiezza su cose gradevoli e a seconda di quanto lo
siano; lo stesso per la gioia che deve essere ancora più accentuata nella
passione amorosa, anche se la fisionomia nell’esprimere questa passione è
estremamente varia, ché talvolta aderisce agli slanci della felicità, talaltra
alle agonie del dolore; altre volte è mescolata all’ardore della rabbia e altre
ancora sorride con tutta l’amabile tranquillità di un piacere sereno.
Tristezza o serietà devono prevalere sul volto quando il tema è grave,
melanconico o doloroso, e anche la pena deve essere espressa in vari gradi
di intensità. L’odio ha la sua speciale espressione fatta di dolore, invidia e
rabbia, e la loro mescolanza dovrebbe essere visibile. Quando si porta o si
offre conforto, la dolcezza e l’affabilità dovrebbero stendersi sul volto,
come la severità quando si censura o si rimprovera. Quando si parla con
degli inferiori o a gente bassa, e il rango di chi parla è alto, devono apparire
sul volto autorità e serietà, e quando ci si riferisce a qualcuno più in alto
socialmente ci devono essere sottomissione, umiltà e rispetto o
venerazione.
La maniera di usare lo sguardo per un oratore in tribunale o nel pulpito
sembra differente da come deve essere per un attore, ma se consideriamo
gli altri attori che si trovano contemporaneamente a lui sul palcoscenico
come suoi spettatori, le regole valide per l’uno varranno anche per l’altro;
di fatto sono spettatori, e l’attenzione che si deve avere per il pubblico è che
veda e senta distintamente quello che facciamo e che diciamo, che possa
giudicare correttamente le nostre posizioni, i gesti e l’enunciazione, in
relazione tra di loro.
L’oratore perciò deve sempre puntare lo sguardo su uno o l’altro dei suoi
ascoltatori e spostarlo garbatamente da una parte all’altra con l’aria di fare
attenzione una volta a una persona e una volta a un’altra, senza fissare una
sola parte degli ascoltatori, che risulta noioso e non emozionante, e molto
meno toccante di quando li guardiamo onestamente in faccia come in un
comune discorso. Questo funzionerà nella recitazione se sarà fatto secondo
la regola che ho enunciato prima, mentre ho spesso osservato attori, che
passano anche per essere grandi, tenere gli occhi in su verso il loggione o in
cima al teatro, quando sono impegnati in un discorso animato, come se
stessero imparando una lezione e non recitando una parte. Teofrasto stesso
(come ho letto) condannò Taurisco, un attore della sua epoca, che ogni
58
Charles Gildon, Vita di Thomas Betterton
volta che parlava sulla scena distoglieva lo sguardo da quelli che dovevano
ascoltarlo e teneva gli occhi fissi tutto il tempo su un solo oggetto
inanimato.98 La natura agisce in modo contrario, e dovrebbe essere la
compagna dell’attore come del poeta. Nessuno s’impegna in una
discussione o in un discorso importante senza tenere gli occhi e lo sguardo
fissi sulla persona con cui parla, anche se vi sono momenti in cui la
passione è all’apice e gli occhi possono molto appropriatamente essere
distolti dall’oggetto cui ci rivolgiamo in modi diversi, come nell’appellarsi
al cielo, nel chiedere aiuto, nel cercare di coinvolgere altri nel proprio
discorso, e così via.
Quando si è liberi dalla passione, e in un discorso che non richieda grande
movimento, come troppo spesso le tragedie moderne tollerano nei loro
ruoli principali, l’atteggiamento dovrebbe essere piacevole, lo sguardo
diretto, né severo né obliquo, a meno che non si sia presi da una passione
che richiede il contrario. E allora la natura, se si obbedisce ai suoi richiami,
trasformerà sguardi e gesti. Così quando un uomo parla preso dall’ira la
sua immaginazione è infiammata e accende nei suoi occhi una specie di
fuoco, che vi brilla in modo tale che uno straniero che non capisse una sola
parola di quella lingua o un sordo che non potesse sentire il volume pur
alto della sua voce non potrebbero non percepire la sua furia e
l’indignazione. Questo fuoco dai suoi occhi colpirà molto facilmente quelli
del pubblico, che sono sempre fissi su di lui, e per una strana trasmissione
di simpatia accenderà anche quelli con la stessa identica passione.
Non vorrei essere frainteso quando dico che si deve puntare lo sguardo
sulla persona o le persone con cui si conversa sul palcoscenico; intendo che
entrambi i personaggi allo stesso tempo tengano nei confronti degli
spettatori una posizione tale che la bellezza non sfugga all’osservazione
anche se non ci si rivolge mai direttamente a loro. Come in un’opera di
pittura storica, anche se i personaggi non si guardano mai l’un l’altro
direttamente, chi guarda il quadro, sulla base delle loro posizioni, vede
interamente l’espressione dell’anima nei loro occhi. Così accade in Amore e
Psiche di Coypel:99 gli occhi di lei sono rivolti a lui mentre questi discende
volando, e lui guarda lei con amore e desiderio, e tutto questo è evidente a
chi osserva il quadro. Tiziano ha dipinto la stessa storia, cioè l’amore di
Cupido e Psiche, ma lei è stesa sul letto, nuda, e la vediamo solo da dietro,
mentre Cupido avanza con la gamba verso il letto e con gli occhi fissi sul
volto di lei, distogliendoli dallo spettatore.100 Non so cosa intendesse fare il
98 Cicerone, De oratore, 3. 59 (221), cita Teofrasto a proposito di Taurisco (e non Tamarisco
come scrive Gildon), un attore o forse un oratore, che recitando fissava sempre un solo
punto ed era come se voltasse le spalle al pubblico. Gildon riprende comunque anche qui
dal Traité di Le Faucheur, trad. cit., p. 126.
99 Il dipinto di Antoine Coypel si trova all’Ermitage di San Pietroburgo.
100 Gildon allude probabilmente alla Venere e Adone (non Cupido e Psiche) di Tiziano, di
cui esistono diverse
59
AAR Anno VI, numero 11 – Maggio 2016
pittore italiano, immaginando che la schiena della dea dell’amore fosse più
gradevole del suo volto. Ma sia detto en passant …Torniamo invece al
nostro argomento.
[14.Tecniche di immedesimazione]
Lo sguardo e la giusta espressione di tutte le altre passioni hanno lo stesso
effetto di quelli che ho indicato a proposito dell’ira. Se il dolore altrui vi
tocca con vera compassione spargerete lacrime, che lo vogliate o no. Ho
letto che quest’arte del pianto era studiata con grande attenzione dagli
attori del passato, e che erano così progrediti in essa e che atteggiavano il
volto in modo così vicino alla realtà che quando uscivano dal palcoscenico
avevano la faccia inondata di lacrime.101
Usavano vari mezzi per portare a perfezione la tenerezza appassionata, ma
sembra che questo fosse quello ritenuto più efficace: tenevano a mente le
proprie afflizioni e pensavano continuamente a oggetti reali, non alla storia
o alla passione fittizia del dramma che recitavano. Lo stesso autore102 ce ne
dà due esempi notevoli. Il primo è di un certo Polo, un attore famoso; era
stato lontano dalle scene per qualche tempo, dopo la morte di un figlio
amato, poiché il dolore di quella perdita lo aveva turbato così
profondamente e gettato in una tale depressione che non pensava di
tornare più alla sua attività teatrale ma, essendo ancora una volta sul
palcoscenico, obbligato a recitare Elettra103 che porta in scena l’urna che
crede di suo fratello Oreste, andò alla tomba del figlio amato e tenne con sé
la sua urna invece di quella di Oreste. Questo lo commosse e sciolse il suo
cuore nella tenerezza e nella compassione alla vista del vero oggetto della
sua afflizione, tanto che scoppiò in lacrime e in grida non finte, tali da
riempire tutto il teatro di dolore, pianto e lamenti.
L’altro esempio è quello dell’attore Esopo, ricco e famoso; particolarmente
dotato in questo genere di recitazione, fece un gran servigio allo stato di
Roma, utilizzando la sua arte straordinaria per richiamare Cicerone
dall’esilio. Comprendendo che la folla era in agitazione per questo motivo,
recitò un dramma di Accio, in cui c’erano dei meravigliosi versi sull’esilio
di Telamone e sulle orribili sventure di Priamo e della sua famiglia.104 Nel
recitarli, le sofferenze reali dell’amico lo turbarono al punto da rendere
commoventi le pene immaginarie del personaggio drammatico, far
piangere quelli che erano indifferenti e far arrossire i nemici, con le lacrime
versioni dipinte tra il 1555 e il 1560.
101 Quintiliano, Institutio oratoria, VI,2, 35. Vedi il Traité di Le Faucheur, trad. cit, p. 185.
102 L’aneddoto di Polo è in Aulo Gellio, Notti attiche, VI, 5, 1-8), l‘aneddoto di Esopo in
Cicerone, Pro Sestio , 57
(Le Faucheur, trad. cit., pp. 186-188).
103 Nella tragedia di Sofocle.
104 Il dramma recitato nel 57 a.C. da Esopo era l’Eurysaces di Accio.
60
Charles Gildon, Vita di Thomas Betterton
agli occhi nel vedere il suo sconforto. Questo addolcì l’opinione pubblica
verso Cicerone e mise la gente nella disposizione d’animo di richiamarlo e
di restituirgli le cariche che aveva, tanto che subito dopo fu riportato a casa
in trionfo e, come assicura l’autore, lo stesso Cicerone ci dice con la
massima gratitudine cosa aveva fatto per lui in quell’occasione il grande
attore, suo caro amico.
Perciò l’attore, ma anche l’oratore, dovrebbe formarsi nella mente un’idea
molto forte del motivo della sua passione e allora la passione stessa non
tarderà ad arrivare, salire agli occhi e influenzare sia i sensi che la ragione
degli spettatori con la stessa tenerezza.105 L’interpretazione di tutto questo è
espressa mirabilmente in Hamlet di Shakespeare, e i nostri giovani attori
dovrebbero considerarla spesso.
Amleto. Non è mostruoso che quest’attore qui,
Solo per finta, in un sogno di passione,
Possa forzare la sua anima all’intera idea così
Che questa agisca e gli infiammi il volto,106
Metta lacrime nei suoi occhi e follia nel suo aspetto,
La voce rotta e ogni sua funzione si adatti
Nella forma alla sua idea? E tutto ciò per niente!
Per Ecuba!
Cos’è Ecuba per lui o lui per Ecuba
Che debba piangere per lei? E che farebbe
Se avesse il motivo e il segnale per la passione
Che ho io? Inonderebbe il palcoscenico di lacrime
E spaccherebbe i timpani con un discorso orribile,
Farebbe impazzire i colpevoli e turbare gli innocenti,
Confonderebbe gli ignoranti e sorprenderebbe invero
Le facoltà stesse di occhi e orecchi.107
Questo mostra che Shakespeare conosceva bene i principi della recitazione,
comunque fosse la sua stessa interpretazione, poiché in queste poche righe
è contenuto tutto ciò che si può dire dell’azione, dello sguardo e del gesto.
Qui si trova «l’anima forzata all’intera idea, ecc.». La prima cosa è fissare
quest’idea nell’anima perché questa sia coinvolta interamente nella
passione e poi è dal suo agire che il volto si infiammerà, gli occhi
verseranno lacrime e la follia si diffonderà su tutto il viso, poi la voce si
spezzerà e ogni facoltà del corpo si adatterà a questa forte emozione. Anche
se nei primi sette versi sembra avere espresso tutto ciò che un attore deve
Vedi Le Faucheur, trad. cit., p. 209.
Gildon qui segue il testo del Folio e la lezione «warm’d» (infiammato), mentre nel
secondo In Quarto, e successivamente nell’edizione di W. Warburton delle opere di
Shakespeare, il termine usato è «wand» o «wanned», cioè «impallidito, esangue»; la
differenza è stata oggetto di discussioni e ha avuto notevoli ripercussioni sul piano
dell’interpretazione.
107 Hamlet, II, 2.
105
106
61
AAR Anno VI, numero 11 – Maggio 2016
fare quando recita una grande passione, nei successivi sette indica
un’azione ancora più forte quando l’oggetto del dolore è reale, il che
giustifica che gli antichi si esercitassero ad accrescere il dolore teatrale
fissando il pensiero sopra un oggetto reale; bisogna sennò immaginare, con
una fantasia accesa, di essere proprio quella persona in quella circostanza,
rendendo il caso così personale che non ci sarà bisogno di fuoco per l’ira né
di lacrime per il dolore. Non c’è da temere di non emozionare il pubblico,
poiché le passioni vengono trasferite in modo straordinario dagli occhi di
una persona a quelli di un’altra, le lacrime di uno sciolgono il cuore
dell’altro con una visibile simpatia tra l’immaginazione e l’aspetto fisico.
[15. Altre regole sul gesto e l’espressione]
Si deve sollevare o abbassare lo sguardo a seconda della natura di ciò di cui
si sta parlando: così, se si parla del cielo, gli occhi sono naturalmente
sollevati, se della terra o dell’inferno o di qualsiasi cosa terrena, sono
naturalmente abbassati.
Anche gli occhi devono essere mossi secondo le passioni, perciò si
abbassano su cose disprezzabili e di cui ci si vergogna, e si alzano su cose
onorevoli, di cui gloriarsi con sicurezza e dignità. Nel giurare, o nel fare
una promessa solenne, o nell’attestare la verità di ciò che si dice, si girano
gli occhi e contemporaneamente si solleva la mano sulla cosa su cui si giura
o che si afferma.
Le sopracciglia non devono essere immobili, né sempre in movimento; e
non devono essere entrambe sollevate con entusiasmo e soddisfazione a
tutto ciò che si dice, e tantomeno una deve essere sollevata e l’altra
abbassata; devono invece restare tutte e due nella stessa posizione che
hanno in natura e potersi muovere nel modo giusto quando lo richiedano le
passioni, cioè devono contrarsi e aggrottarsi per il dolore, allentarsi e
spianarsi per la gioia, abbassarsi per umiltà, ecc.
La bocca non deve mai essere contorta e non ci si deve far vedere mordersi
o leccarsi le labbra, tutte azioni maleducate e ineleganti che però qualcuno
fa spesso; comunque in alcuni sforzi o accessi di passione, le labbra hanno
la loro parte dell’azione e questo più sul palcoscenico che in ogni altro
discorso pubblico, sul pulpito o in tribunale, poiché il teatro è o dovrebbe
essere un’imitazione della natura in quelle azioni o in quei discorsi che si
producono tra uomo e uomo per una qualche passione o in qualche
faccenda che sia all’origine dell’azione; nessun’altra di fatto ha a che vedere
con la scena.
Anche se alzare le spalle non è un gesto consentito nell’oratoria, sul
palcoscenico il carattere del personaggio e l’oggetto del discorso possono
renderlo appropriato anche se, secondo me, sembra più adatto alla
commedia che non alla tragedia dove tutto dovrebbe essere grande e
62
Charles Gildon, Vita di Thomas Betterton
solenne e alla quale si adattano le azioni più serie dell’oratore. Ho letto di
un metodo divertente che Demostene usava per curarsi di questo gesto
sbagliato, poiché all’inizio era molto propenso a farlo. Era abituato a
esercitarsi nella declamazione in un luogo stretto e diritto, con una spada
appesa proprio sopra le spalle, cosicché ogni volta che le tirava su la punta
gliele pungeva, facendogli ricordare il suo errore, e questo con il tempo
cancellò il difetto.
Altri mandano in fuori la pancia e tirano indietro la testa, gesti entrambi
sconvenienti e disdicevoli.
Passiamo adesso alle mani. Sono gli strumenti principali dell’azione e
variano in tanti modi quante sono le cose che esprimono, e così è molto
difficile dare regole che siano senza eccezioni. I significati naturali di gesti
particolari e ciò che io qui aggiungerò potranno, spero, illuminare il
giovane attore su questo punto. Per prima cosa dovrebbe tornare a quello
che ho detto dell’azione delle mani, circa l’esprimere accusa, deprecazione,
minacce, desiderio, ecc., e soppesare bene cosa siano queste azioni e come
vengano espresse; poi, considerando quanta parte hanno in qualsiasi tipo
di discorso, troverà che non c’è bisogno che le sue mani siano oziose o usate
in un gesto insignificante o non bello.
All’inizio di un discorso o di un’orazione solenne come quella di Antonio
sulla morte di Cesare o quella di Bruto nella stessa occasione non c’è
nessun gesto di una qualche importanza, a meno che non cominci
all’improvviso con «Oh, Giove, oh, cielo! Si deve sopportare tutto questo?
Proprio le navi che allora vedevamo, e che io ho salvato, ecc.»:108 qui chi
parla stenda le mani prima al cielo e poi verso le navi. In tutti i gesti
normali delle mani esse devono corrispondere l’una all’altra come se
fossimo confusi, spaventati di colpo, come Amleto nella scena tra lui e sua
madre, quando appare il fantasma del padre:
Salvatemi, e copritemi con le vostre ali
O guardie celesti!109
Questo viene detto con le braccia e le mani stese a esprimere la sua
preoccupazione, come fanno i suoi occhi e tutto il viso. Se un’azione deve
essere fatta con una sola mano, questa deve essere la destra, perché non è
decente fare un gesto solo con la sinistra110 a meno si debba dire qualcosa
come
108 Ovidio, Metamorfosi, libro XIII, 5-6 («agimus, pro Iuppiter!» inquit/ «ante rates causam, et
mecum confertur Ulixes!»; trad. it. di P. Bernardini Marzolla: «Per Giove! Si dibatte la causa
davanti alle navi, e proprio Ulisse mi si vuole paragonare!»). La citazione è da una
traduzione non corretta o fatta a memoria. Più avanti il testo viene citato nuovamente (ultra,
nota 163) (Le Faucheur, trad.cit., p. 195).
109 Hamlet, III. 4.
110 Quintiliano, XI, 3, 114 (Le Faucheur, trad.cit., pp. 196-7).
63
AAR Anno VI, numero 11 – Maggio 2016
Piuttosto che macchiarmi di questa orrenda azione
Mi taglierei la mano destra, ecc.111
Qui l’azione deve essere espressa con la sinistra perché la destra è l’arto che
deve subire l’azione. Quando si parla di sé si deve portare al petto la destra
e non la sinistra, dichiarando le proprie capacità e le passioni, il cuore,
l’anima, o la coscienza, ma questa azione in senso generale deve essere fatta
o espressa appoggiando dolcemente la mano sul seno e non battendola
come fanno alcuni. Il gesto deve passare dalla sinistra alla destra112 e
concludersi lì con delicatezza e moderazione o almeno non deve arrivare
all’estremo della violenza. Quando si comincia un’azione bisogna essere
sicuri di ciò che si dice e così si deve terminarla quando si è finito di
parlare, perché l’azione prima o dopo il discorso è fortemente ridicola.113
Movimenti o gesti della mano devono essere sempre accordati alla natura
delle parole che vengono dette; quando si dice «Vien» o «avvicinati» non si
deve stendere la mano con un gesto che respinge, e al contrario quando si
dice «Stai indietro» il gesto non deve essere invitante, né si devono unire le
mani quando si parla di separazione o aprirle quando si ordina di chiudere,
né abbassarle quando si comanda di tirare su qualcosa o qualcuno, né
sollevarle quando si dice di buttarli giù. Tutti questi gesti sarebbero così
chiaramente contro natura che verreste derisi da tutti coloro che vi hanno
visto o udito. Da questi esempi di azioni malfatte si può facilmente capire
cosa sia giusto e ricavarne questa regola: che fin dove sia possibile ogni
gesto che si usa dovrebbe esprimere la natura delle parole dette e ciò
sarebbe sufficiente a usare le mani in modo perfetto.
È impossibile avere una forte emozione o un gesto intenso del corpo senza
l’azione delle mani in risposta alle figure del discorso di cui si fa uso in ogni
dizione poetica così come retorica, poiché la poesia deriva la sua bellezza in
tutto ciò dalla retorica, come ricava l’ordine e la correttezza dalla
grammatica e mi sorprende che alcuni dei nostri affascinanti poeti moderni
si vantino di ciò che non è propriamente poesia ma che viene solo usato
come ornamento e ricavato da altre arti o scienze.
Così, quando Medea dice,
Queste immagini di Giasone
Le strangolerò con le mie mani, ecc.
Le Faucheur scrive: «quando Gesù Cristo ordina al servo fedele di tagliarsi la mano
destra se questa fa del male, io rappresenterei l’azione se fosse compito mio con un gesto
della sinistra perché non ce n’è un’altra che può farlo, dato che la destra non può tagliarsi da
sola» (trad. cit., p. 197).
112 Quintiliano, XI, 3, 109 (Le Faucheur, trad.cit., p. 198).
113 Quintiliano, XI, 3, 106 (Le Faucheur, trad.cit., p. 199).
111
64
Charles Gildon, Vita di Thomas Betterton
è sicuro che l’azione dovrebbe essere espressa dalle mani per darle la
massima forza.
Per mantenere l’eleganza quando si sollevano le mani non si dovrebbero
alzare al di sopra degli occhi, ché oltrepassandoli si potrebbe storcere e
scombinare il corpo, ma non devono essere neanche troppo al di sotto,
perché una corretta posizione rende bella la figura. Inoltre, poiché questa
postura è naturale davanti alla sorpresa, all’ammirazione o alla ripugnanza,
ecc. che derivano dall’oggetto che colpisce lo sguardo, la natura in queste
occasioni con un movimento meccanico spinge le mani in avanti a
proteggere gli occhi.114
Non si deve mai lasciar penzolare una delle mani come se fosse deforme o
morta, perché è sgradevole alla vista e implica che non si immagini alcuna
passione. In breve, le mani devono essere sempre visibili e corrispondere ai
movimenti della testa, degli occhi e del corpo così che lo spettatore possa
vedere come questi arti, ciascuno a suo modo, concorrano a esprimere la
stessa cosa: ciò farà un’impressione più gradevole e di conseguenza più
profonda sui suoi sensi e sul suo intelletto.
Le braccia non devono mai essere stese in fuori di lato, oltre venti
centimetri dal tronco, ché altrimenti si perde di vista il proprio gesto a
meno di girare anche la testa di lato per seguirlo, in modo davvero ridicolo.
Nel giurare, affermare o fare solenni voti e promesse, si deve alzare la
mano; un’esclamazione richiede un’identica azione, ma in modo che il
gesto non solo corrisponda alla enunciazione e al discorso, ma anche alla
natura della cosa e al significato delle parole. Nei discorsi pubblici, nelle
orazioni e nei sermoni, è vero che le mani non dovrebbero essere sempre in
movimento, un vizio che una volta è stato detto «armeggiare con le mani»,
e forse può andar bene per qualche personaggio o per alcuni discorsi nel
dramma ma, secondo me, recitando le mani solo raramente dovrebbero
essere totalmente immobili e, se avessimo la capacità dei pantomimi di
esprimere chiaramente le cose con le mani cosicché i gesti surroghino le
parole, unire queste azioni significative alle parole e alle passioni ben
disegnate dal poeta non sarebbe una qualità disprezzabile nell’attore e
renderebbe lo spettacolo molto più divertente di quanto lo sia attualmente.
L’azione è davvero il compito principale del teatro e un errore è più
perdonabile per eccesso che non per difetto.
Ci sono certe azioni o certi gesti che non si devono mai usare nella tragedia,
tanto meno nelle orazioni o nei sermoni, poiché sono volgari e più adatti
alla commedia o agli spettacoli burleschi. Non ci si deve mai mettere nella
posizione di chi tende un arco, o punta un moschetto o suona uno
strumento come se avessimo questi oggetti in mano.
114
Quintiliano, XI, 3, 112 (Le Faucheur, trad.cit., p. 200).
65
AAR Anno VI, numero 11 – Maggio 2016
Non si devono mai imitare posizioni oscene, volgari o indecenti, anche se il
discorso fosse sulla dissolutezza dell’epoca o su qualsiasi cosa del tipo che
si dovrebbe considerare nella descrizione di un Antonio o di un Verre.
Quando si parla in una prosopopea, una figura con la quale s’introducono
a parlare oggetti o persone, si deve essere sicuri di usare solo quelle azioni
che sono appropriate per il personaggio al posto del quale si parla. In
questo momento non mi ricordo di nessun caso nella tragedia, ma nella
commedia può darvene un’idea Melantha,115 quando parla al posto di un
uomo e gli risponde come se stessa. Questo comunque accade raramente
dei drammi e non molto di frequente nelle orazioni.
[16. L’impiego della voce]
Ho così concluso circa l’arte dell’azione o del gesto e, sebbene il mio
discorso fosse rivolto soprattutto al teatro e in modo particolare alla
tragedia, da ciò che ho detto anche il tribunale e il pulpito possono
imparare qualcosa che potrebbe essere utile a dare alle arringhe e ai
sermoni più forza e più eleganza. Penso che soprattutto il pulpito abbia
bisogno di questa dottrina, perché lì più che in tribunale si ha a che fare con
le passioni e vi si trattano argomenti più sublimi che meritano tutta la
bellezza e la solennità dell’azione. Sono sicuro che se il nostro clero si
applicasse di più a quest’arte, ciò che predica sarebbe più efficace e gli
stessi sacerdoti sarebbero più rispettati; susciterebbero cioè più timore
reverenziale negli ascoltatori. Bisogna però ammettere che è quasi
impossibile per loro arrivare a questa perfezione, finché prevale l’abitudine
di leggere i sermoni, cosa che nessun clero al mondo fa tranne quello della
Chiesa d’Inghilterra. Mentre leggono non sono abbastanza perfetti in ciò
che dicono da dare al discorso l’azione e l’enfasi giuste, nella enunciazione
come nel gesto. Il Tatler116 ha trattato molto bene questo aspetto, e se quello
che ha detto non riesce a influenzarli, è inutile che tenti io.
Temo che gli attori comici possano aversene a male che io abbia avuto poca
o nessuna considerazione per loro in questo discorso. Ma devo confessare
che, sebbene abbia tentato di recitare due o tre parti comiche, cui
l’indulgenza del pubblico verso un uomo anziano ha decretato un certo
successo, la mia passione è sempre stata la tragedia. Inoltre, come alcuni
hanno osservato, la commedia è meno difficile da scrivere, così tendo a
credere che sia anche più facile da recitare; non che chiunque ci provi possa
diventare un buon attore comico, ma abbiamo, almeno da quando io
conosco il teatro, più e migliori attori comici che non attori tragici, così
come abbiamo migliori commedie che non tragedie scritte nella nostra
lingua, come ci dicono i critici e i giudici avveduti. Volendo risollevare le
115
116
Personaggio di Marriage à-la-mode di John Dryden.
The Tatler, n. 66 (10 settembre 1709) e n. 70 (20 settembre 1709).
66
Charles Gildon, Vita di Thomas Betterton
tragedie dal presente stato di abbandono fino alla considerazione che
avevano nelle nazioni più eleganti che l’Europa abbia conosciuto, ho
tentato di dare il mio contributo al miglioramento della rappresentazione,
che ha una forte influenza sul successo e sul valore di qualunque cosa di
questo genere.
Potrei qui aggiungere alcune osservazioni sugli errori nell’azione dei nostri
attori di oggi, ma dato che sarebbe un discorso odioso, i difetti si potranno
facilmente scoprire dalle regole che ho indicato per un’interpretazione
corretta. Perciò ora andrò avanti con l’altro dovere di un attore, vale a dire
l’arte dell’eloquio che, anche se meno significativa, è molto utile nelle
tragedie moderne, cioè quelle che hanno avuto un buon successo. Quei
poeti infatti hanno teso, in modo molto sbagliato, a scrivere più ciò che
richiede una corretta capacità oratoria che non un’azione corretta. E i nostri
attori, parlando in senso generale, sono molto inferiori in quell’abilità
rispetto al fine cui dovrebbero tendere o che dovrebbero raggiungere. Anzi,
sono la prova palese di ciò che descrive Rosencrantz: «una nidiata di
bambini, dei falchetti che gridano le loro battute e sono offensivamente
applauditi; questi sono ora di moda e hanno talmente spadroneggiato nei
teatri pubblici (come li chiamano) che molti di quelli che hanno il pugnale
temono le penne e non hanno il coraggio di andarci».117 E anche se in quello
che ho citato prima da Amleto (nel resoconto dell’azione e del
comportamento dell’attore) sono felicemente espresse l’anima e l’arte della
recitazione e Shakespeare in quel discorso ha tratteggiato l’intera arte del
gesto in miniatura, purtuttavia le indicazioni che dà si riferiscono tutte,
tranne che in un verso, interamente al parlare.
Amleto. Ti prego, pronuncia il discorso come ho fatto io, in modo fluido. Ma
se lo urli, come fanno tanti dei nostri attori, tanto varrebbe chiamare uno
strillone a dire i miei versi. E non tagliare l’aria con la mano esageratamente
in questo modo, ma fa’ tutto in modo misurato, perché anche nella
tempesta, nel diluvio, direi quasi nel turbine della passione devi acquisire e
concepire una temperanza, che possa darle morbidezza. Oh, mi offende
nell’animo vedere un energumeno imparruccato fare a pezzi una passione,
ridurla a brandelli, per rompere i timpani al pubblico peggiore, che per la
maggior parte non è capace di godere d’altro che di inspiegabili dumb shows
e di rumore. Potrei far frustare quel tizio perché esagera persino
Termagante: è più Erode di Erode. Per favore, evita tutto questo […] ma non
essere nemmeno troppo mite e lascia che ti guidi la discrezione. Adatta
l’azione alla parola e la parola all’azione, facendo attenzione in particolare a
questo, di non superare la modestia della natura. Qualsiasi cosa così
esagerata è lontana dallo scopo del recitare, il cui fine è ed è stato fin
dall’inizio reggere, per così dire, lo specchio alla natura; mostrare alla virtù
il suo volto, al disprezzo la sua immagine, e all’età e al corpo del tempo la
sua forma e la sua forza. Ora, se questo è esagerato o reso troppo
lentamente, anche se fa ridere gli ignoranti, non può che rattristare i saggi, e
117
II. 2.
67
AAR Anno VI, numero 11 – Maggio 2016
la censura di uno solo di questi devi riconoscere che vincerà un intero teatro
pieno degli altri. Oh! Ci sono attori che ho visto recitare, e ho udito altri
lodarli e anche molto, e che (senza essere profani) non avevano l’accento di
cristiani né l’andatura di un cristiano, di un pagano o di un normanno e si
pavoneggiavano e urlavano al punto che ho pensato che qualche manovale
della natura avesse fatto degli uomini, senza farli bene, dato che imitavano
l’umanità in modo ripugnante.
Attore. Spero che noi siamo riusciti a correggerci abbastanza, signore.
Amleto. Oh! Correggetevi completamente. E fate in modo che chi recita le
parti comiche non dica più di quanto è stato scritto per lui, perché ci sono
alcuni che ridono loro stessi per far ridere un po’ di spettatori stupidi
mentre nel frattempo si dovrebbe invece fare attenzione a qualche
importante questione del dramma: tutto ciò è malvagio e indica una
penosissima ambizione nel comico che lo fa.118
Se considerassimo e soppesassimo attentamente queste istruzioni, sono
sicuro che le troveremmo sufficienti a insegnare a un giovane attore tutte le
bellezze dell’eloquio e a correggere tutti gli errori nei quali potrebbe esser
incorso non conoscendo l’arte della parola. Per pronunciare il discorso «in
modo fluido», il poeta intende un eloquio chiaro e non impacciato che si
accordi alla natura e al tema di cui si parla. Dire all’attore che tanto
varrebbe chiamare uno strillone a dire i suoi versi, come uno che li urla, è
molto giusto, perché se il rumore fosse un merito non so chi vincerebbe tra i
due, se lo strillone o l’attore; so però che lo strillone sarebbe meno in errore,
perché il suo mestiere richiede il rumore. «E non tagliare l’aria con la mano
esageratamente in questo modo, ma fa’ tutto in modo misurato»: questo è il
solo precetto relativo all’azione ed è davvero giusto, e concorda con l’idea
di tutti coloro che ho incontrato nel fare la mia indagine tra gli amici
eruditi, che hanno letto tutto ciò che è stato scritto sull’azione e che contano
i gesti volgari e violenti tra quelli sbagliati. L’arte richiede sempre
movimenti moderati e delicati, e Shakespeare lo esprime dicendo «fa’ tutto
in modo misurato». Inoltre questo «tagliare l’aria» indica uno che non ha
proprio idea di dove mettere le mani ma sapendo che deve pur muoverle in
qualche modo, lo fa con una violenza sgraziata. L’osservazione successiva è
davvero magistrale: «perché anche nella tempesta, nel diluvio, direi quasi
nel turbine della passione devi acquisire e concepire una temperanza, che
possa darle morbidezza». Tra i tanti esempi mi ricordo quello della follia di
Alessandro Magno nella tragedia di Lee: Mr. Goodman119 la interpretava
sempre con tutta la forza richiesta dalla parte, eppure non faceva neanche
la metà del rumore di alcuni che sono venuti dopo di lui, sicuri di gridarla
in modo da restare senza voce prima della fine e di arrivare ad avere una
languida e estenuata raucedine totalmente priva di quella gradevole
III. 2.
Cardell Goodman (ca. 1649-1699), attore di carattere violento, che recitò la tragedia di
Nathaniel Lee, The Rival Queens; or, The Death of Alexander the Great (1677) nella stagione
1685-1686.
118
119
68
Charles Gildon, Vita di Thomas Betterton
morbidezza che Shakespeare richiede e che è la perfezione del bell’eloquio,
perché avere il giusto ardore e il giusto tono di voce e anche la morbidezza
è tutto ciò che si può desiderare. «Oh, mi offende nell’animo», continua …
Forse qualcuno dei nostri giovani signori, che si considerano grandi attori,
anzi, anche giudici del teatro, si spacciano per critici e recensiscono i
drammi positivamente o negativamente, dovrebbero vergognarsi quando
leggono queste parole di Shakespeare, della cui autorità sono così
appassionati in altre occasioni; accade loro qui quello che succede in altri
casi a dei nemici della ragione, che sono contro la razionalità quando la
ragione è contro di loro, sebbene nessuno strepiti per essa in altri momenti;
cioè, sono più attaccati all’errore che alla verità quando sono più apprezzati
e applauditi da milioni perseverando nel loro errore piuttosto che se
l’abbandonassero. Questa è davvero un’ambizione patetica e indegna di chi
padroneggi un’arte qualunque. Cicerone paragona questi urlatori a degli
storpi che ricorrono al rumore per coprire la loro ignoranza, come uno
zoppo ricorre a un cavallo, e con questo rumore hanno successo con gli
ignoranti, ma Omero non ha mai contato Stentore tra i fini dicitori.120
Perciò, se anche una voce forte e ferma è un ottimo elemento in un oratore,
questi dovrebbe comunque fare attenzione a non ferire un orecchio
sensibile mettendolo troppo sotto sforzo. Per questa ragione, una volta che
Carneade (che non aveva ancora grande autorità tra i filosofi) declamava
nel Ginnasio, il maestro gli mandò a dire che moderasse un po’ la voce; e,
quando quello gli chiese di dirgli fino a quale intensità, gli rispose: «la
misura te la dia la persona con cui parli».121 L’intensità della voce deve
perciò modularsi a seconda del luogo in cui si parla e del pubblico, in modo
da non essere né troppo bassa né troppo alta.
[17. Il rapporto tra voce e azione]
Un’attenzione analoga si dovrebbe avere per l’azione, che non sia né troppo
rozza e disarticolata, né vivace oltre misura. Quinto Aterio aveva un servo
che stava sempre dietro di lui quando parlava in pubblico e, toccandogli la
veste quando l’ardore del discorso lo faceva strafare, lo riportava al giusto
mezzo nell’azione. Gli antichi (se il mio autore non mi inganna) erano
totalmente contrari al movimento disinvolto del corpo quando non ve ne
fosse ragione. Sesto Titio era uomo loquace e acuto ma così sregolato e
fiacco nell’azione e nei movimenti che dal suo gesticolare venne fuori una
specie di danza che prese il suo nome.122 Domizio Afro, quando vide
Manlio Sura che recitava e parlava, correndo su e giù, danzando,
L’araldo dei Greci nell’Iliade, che aveva una voce così possente da uguagliare quella di
cinquanta uomini.
121 Plutarco, Moralia, «De garruli tate», 21.
122 Quintiliano, Institutio oratoria, XI, 3, 128. L’aneddoto è raccontato in Cicerone, Brutus, 225.
120
69
AAR Anno VI, numero 11 – Maggio 2016
muovendo le mani di qua di là, ora tirando giù il mantello e poi
ributtandoselo addosso, disse: «Quest’uomo non recita né usa gesti ma
vuole miseramente dire qualcosa che non capisce».123 Alcuni degli antichi,
non contenti di questa agitazione del corpo, come l’antisofista di
Virginio,124 viaggiavano per molte miglia mentre declamavano, il che fece sì
che Cassio Severo richiedesse un limite o un confine da indicare loro, come
nelle corse, oltre il quale non potessero spingersi.125 Alcuni si toccano il
mento, altri la coscia o la fronte mentre dicono sciocchezze e altri di
continuo colpiscono il pulpito o il luogo dell’azione; altri arrivano al punto
di strapparsi i capelli. Questi vizi nell’azione non vanno bene per nessuno,
tanto meno per le persone serie e in occasioni serie. Anche se le passioni
sono molto belle quando espresse con i gesti appropriati, non dovrebbero
però essere smodate in modo stravagante, al punto che l’oratore sembri
fuori di sé. Ciò ha un’importanza particolare in tribunale e nel pulpito, ma
ha uguale potere in teatro, tenendo in conto solo la maggiore ampiezza
propria di quel luogo, che sarebbe impressionante nell’altro. Ma
Shakespeare non vorrebbe neanche che il suo attore fosse troppo mite,
poiché questo è l’errore opposto e fiacca il discorso, illanguidisce la
passione che invece dovrebbe riscaldare con un calore giusto e rassicurante
e con un fuoco che ravviva. Per quanto l’azione sia molto utile e dia forza
all’eloquio, in alcuni casi si deve esprimere calma e in altri severità e
veemenza, ma mai in alcun caso pazzia, che è ciò che accade a coloro che
eccedono in una specie di voce tragica e urlata, qualsiasi sciocchezza
dicano. Alcuni agiscono proprio all’opposto, e recitano in modo così
monotono e freddo che quando dovrebbero essere arrabbiati, tuonare e
fulminare, per così dire, sono pieni di calore quanto una chioccia bagnata,
come dice il proverbio, e trasformano una scena alla Tieste nel tono calmo
di un semplice lettore. Questo ha fatto dire a Cicerone a proposito di
Callidio, quando questi rivelò in modo tranquillo che sarebbe morto
avvelenato, «se tu non fingessi tutta questa storia, potresti parlare in questa
maniera?», poiché aveva dalla sua azione desunto che nelle sue parole non
c’era abbastanza emozione perché fossero vere.126 Persone così sono più
adatte a consolare i malati che non a parlare in pubblico. In questo molto è
Ivi, VI, 3, 54 e XI, 3, 126). L’aneddoto si ritrova nel trattato di Andrea Perrucci, Dell’arte
rappresentativa (1699), regola 11 (Domizio Afro disse di Manlio Sura «non agit, sed patagi»,
cioè «non fa, strafà»).
124 Virginio Flavo, retore dell’età di Nerone, avrebbe chiesto a un suo antagonista quante
miglia aveva declamato
(Quintiliano, Institutio oratoria, XI, 3, 126; Le Faucheur, trad.cit., p. 206).
125 Quintiliano, Institutio oratoria, XI, 3,133.
126 Si tratta dell’orazione, perduta, che Cicerone recitò in difesa di Q. Gallio, accusato dal
retore Marco Callidio di averlo voluto avvelenare. Cicerone gli contestò la verità dell’accusa,
smentita dal tono freddo usato dall’oratore nel raccontare il fatto (Quintiliano, Institutio
oratoria, XI, 3, 155; Le Faucheur, trad. cit., pp. 116-117)..
123
70
Charles Gildon, Vita di Thomas Betterton
lasciato alla natura del soggetto e perciò Shakespeare parla di discrezione.
Pure, anche se lascia che sia la discrezione a fare da guida, subito dà
indicazioni a questa guida, ordinando di «adattare l’azione alla parola e la
parola all’azione» e «di non superare la modestia della natura», cioè di non
oltrepassare la natura, che deve essere la regola della buona recitazione.
Qui, a questo punto, sorge la solita difficoltà: che tutti sono d’accordo a
scrivere che la natura è guida e dimensione sovrana, ma poi non sono così
d’accordo su che cosa sia la natura. Quelli che ne sono capaci forniscono i
segni, gli indizi, i lineamenti della natura in modo da sapere quando è
rappresentata correttamente e quando no; quelli non capaci, che sono la
parte maggiore e più rumorosa, la definiscono in modo così generale che
risulta essere solo quello che ciascuno immagina, e ciò fa sì che i contrari
siano natura, perché uno chiama natura ciò che gli piace e un altro chiama
natura ciò che piace a lui. Una volta ho udito un teatrante, di gran successo
per qualcosa della sua vita fuori dalle scene, dire che l’assurdità è naturale,
quando si prenda la natura a regola dello scrivere bene: se intendesse fare
dello spirito o no, non mi sono mai dato la pena di scoprirlo, ben sapendo
che l’assurdità è molto naturale per alcuni, nonostante vengano lodati e
persino ammirati da certe persone per il loro spirito.
Porto questi esempi per dimostrare che sembra necessario avere segni o
regole per fissare la misura di ciò che è naturale e ciò che non lo è,
altrimenti questa è una parola vaga senza utilità o autorità alcuna.
Shakespeare comunque ritiene che un attore debba saperlo e perciò va
avanti dicendogli qual era ed è lo scopo «del recitare, il cui fine è ed è stato
fin dall’inizio reggere, per così dire, lo specchio alla natura; mostrare alla
virtù il suo volto, al disprezzo la sua immagine, e all’età e al corpo del
tempo la sua forma e la sua forza». Per ottenere una giusta lode, oltre a
sapere tutte queste cose, un attore non deve recitare la sua parte né sopra
né sotto le righe.
[18. Difetti e qualità della voce]
Dato che ho già scritto delle osservazioni che possano servire all’attore
nell’azione e nel gesto, ora ne indicherò alcune che daranno un’idea
dell’arte della parola, di come regolare e modulare la voce in modo da
rendere l’eloquio piacevole all’ascolto.
Prima di dare indicazioni per un bell’eloquio, credo non sia sbagliato
inserire qui il testo datomi da un amico, sui diversi difetti e vizi della voce,
presi dal capitolo 26 dell’Onomasticon di Giulio Polluce,127 che egli fissa in
circa venti di numero.
L’Onomasticon di Giulio Polluce, professore di eloquenza nell’Atene del secondo secolo
d.C., tra le più importanti fonti di informazioni sulla cultura, la scienza e la società e i diversi
aspetti della vita del tempo, contiene preziose indicazioniformazioni riguardanti il teatro e
127
71
AAR Anno VI, numero 11 – Maggio 2016
Il primo tipo di voce la definisce nera, spostando la metafora dagli occhi alle
orecchie, poiché come il nero agli occhi appare fosco così questo tipo di
voce penetra l’udito con più difficoltà, è meno piacevole e ha invece
qualcosa di tetro e di orrido.
Poi viene quella scura o bruna, che è diversa dalla nera solo per il fatto di
essere meno oscura, ma è ancora molto lontano dalla brillantezza di un
tono di voce puro.
Poi quella ruvida o sgradevole, come spesso sono le voci molto forti, con cui
raramente si mescola una piacevole dolcezza; Seneca cita come un miracolo
il fatto che Cassio Severo avesse una certa dolcezza nella voce per quanto
essa fosse estremamente forte e robusta, perché accade di rado che la stessa
voce sia dolce e contemporaneamente solida.
Il contrario lo chiama voce piccola o debole, come quella di chi sembra
pigolare come un pulcino invece di parlare come un essere umano.
Poi viene la voce sottile o esile, che passa debolmente nello stretto canale
della gola e non arriva agli orecchi degli ascoltatori.
Poi, a seguire:
quella senza linfa, che non si sente se non con difficoltà o che dà
insistentemente fastidio all’udito;
quella che Fabio128 chiama sorda, dove l’emissione vocale non c’è e il suono
resta dentro, come l’arpista Aspendio129 che toccava l’arpa in modo che
nessuno al di fuori di se stesso potesse sentirne il suono;
quella confusa, nella quale non si distinguono suoni articolati;
quella stonata, dissonante e non armoniosa;
quella non melodica, trascurata, senza bellezza o grazia;
quella rozza, sguaiata, intrattabile come un puledro selvaggio;
quella non persuasiva, che non è adatta alla persuasione come in coloro che
hanno continuamente nel discorso un tono di voce identico, monotono;
quella rigida, che ammette variazioni solo con difficoltà;
quella dura o aspra, che dà fastidio agli orecchi con un suono saltellante o
scricchiolante;
quella discontinua o frammentaria, quando il discorso salta o va a balzi con
distanze e suoni diseguali, mescolando confusamente breve e lungo, piatto
e acuto, alto e basso, così che procede zoppicando per la disuguaglianza di
tutte queste cose insieme; questa voce è detta anche volubile o incostante;
la recitazione, tra cui il celebre elenco dei difetti della voce.
128 Quintiliano (Marco Fabio), Institutio oratoria, XI, 3, 32.
129 Aspendio, musico citarista, citato da Cicerone che accusando Verre di averne asportato la
statua dalla città di
Aspendo, ricorda come presso i greci fosse diventato proverbiale il modo proprio di
Aspendio di suonare
«all’interno» (In Verrem, II, 53). Sembra che questo significasse suonare con la sola mano
sinistra e Gildon pare aver frainteso l’espressione.
72
Charles Gildon, Vita di Thomas Betterton
quella austera, aspra o pesante, che colpisce l’udito con un suono sgradevole,
qualcosa come il rumore di ruote che cigolano;
quella incerta o flebile, per cui il respiro rotto e fiacco si disperde e finisce in
modo rauco e debole;
quella metallica, che attacca le orecchie come un violento tintinnio di ottone;
quella acuta o tagliente, che colpisce e penetra nell’orecchio con un suono
più stridente di quanto dovrebbe. I suoni molto acuti non sono i più adatti
per parlare in pubblico, dato che rendono il discorso troppo sottile,
tagliente e nitido.
Le virtù contrarie che lo stesso autore enumera sono le seguenti:
la voce alta che, emessa da buoni polmoni e da un buon petto, funziona
perfettamente all’udito;
elevata, che non solo è udita in modo più pieno, ma è anche più salda e
quindi più durevole;
chiara, che risuona vivace e non è macchiata da difetti;
morbida, estesa, limpida;
grave, bassa e piena, come è generalmente la voce dei cantanti più maschi e
robusti e, se unita alla dolcezza, è la voce più preziosa ma, quando manchi
di questa dolcezza, si disperde e si estende fino a una selvaggia e desolata
immensità;
candida e pura, che colpisce gli orecchi come il bianco colpisce gli occhi, e
perciò è il contrario del difetto della voce cosiddetta nera;
pura e semplice, per così dire esente da vizi e difetti;
dolce, che diletta con quello che chiamerei il fiore della vera eleganza;
seducente, che abbonda in gorgheggi armoniosi e in modulazioni;
ricercata, ricca e raffinata;
rotonda e semplice, la più adatta alla persuasione;
docile, o voce a comando, che sale facilmente dalla nota più bassa alla più alta
e altrettanto facilmente scende dalla più alta alla più bassa e passa per tutte
le piacevoli varietà di note;
flessibile, totalmente priva di ruvidezza e durezza, e che obbedisce alla
modulazione come cera tra le dita;
volubile o veloce, come quella dei migliori oratori nel momento più serrato e
ardente del discorso;
deliziosa, bella per una sorta di gradevole morbidezza;
sonora o canora, adatta a cantare con strumenti musicali;
piena, chiara e facile da sentire;
splendida e brillante con una piacevole morbidezza.
Questi sono i vari tipi o generi di voce con i loro meriti, che derivano
semplicemente dalla natura ma che dall’arte ricevono chiarezza,
miglioramento e perfezione.
73
AAR Anno VI, numero 11 – Maggio 2016
Detti i vizi e virtù della voce, ora procederemo a parlare delle bellezze e dei
difetti dell’elocuzione. Le principali eccellenze sono secondo tutti i maestri
dell’arte la correttezza, la chiarezza, l’eleganza e l’appropriatezza.
La correttezza è la caratteristica di una voce che potremmo dire sana, senza
difetti; può essere impedita dalla voce che abbiamo chiamato sorda, rozza,
dura, rigida, incostante o incerta, spessa o grossolana, oppure da una
sottile, piccola, vuota, insicura, tenue o effeminata. Al contrario, un modo
di parlare tranquillo, aperto, piacevole ed elegante, in cui niente sia
grossolano o alieno, è di grande aiuto all’elocuzione come osserva
giustamente Quintiliano.130 In modo altrettanto giusto e per la stessa
ragione Cicerone, nel libro De oratore, condanna una voce debole,
femminea, stonata, assurda, inelegante o rozza, e indica all’oratore un
eloquio che non sia aspro, né disordinato, grossolano, o fuori misura, ma
piuttosto serrato, uniforme, cioè della stessa intensità, e armonioso.131 A
queste caratteristiche dobbiamo aggiungere il timbro e il tono da cui si
riconoscono gli uomini. Queste qualità vengono dalla natura e dall’uso che
sono di enorme importanza in queste cose, e per questa ragione i ragazzi
dovrebbero abituarsi fin dall’inizio a una pronuncia giusta, poiché vediamo
che nell’apprendere le lingue straniere coloro che vi si dedicano da grandi
raramente raggiungono la perfezione.
La chiarezza, che è la vita dell’elocuzione, consiste in una certa espressione
articolata di tutte le sillabe, degli accenti e delle pause, e questi sono i
precetti di Quintiliano:132
L’elocuzione sarà perspicua e chiara prima di tutto se le parole saranno
pronunciate tutte intere, mentre la maggior parte degli oratori se ne
mangiano o se ne dimenticano una parte, perché indugiando o
trattenendosi troppo a lungo sul suono delle sillabe precedenti non
pronunciano bene l’ultima. Ma, come un’elocuzione semplice è necessaria
per formare le parole, così è seccante e detestabile contare e soffermarsi su
ogni lettera; dobbiamo osservare bene dove il discorso debba essere
sostenuto e dove sospeso. E questo, è chiaro, lo si ottiene con l’arte.
L’eleganza è la limpidezza e l’educazione della voce: naturalmente un
grande aiuto viene da una voce sicura, forte, vivace, flessibile, salda, dolce,
durevole, chiara, pura, penetrante, alta e che possieda tutte quelle virtù che
abbiamo già enumerato traendole da Giulio Polluce. A queste dobbiamo
aggiungere una bella composizione del corpo tutto intero, come torace e
polmoni saldi, un buon fiato che non ceda o venga meno sotto sforzo.
L’appropriatezza è una bella varietà di enunciazione, a seconda della
diversità dell’argomento e con una costante uniformità. Lo stile migliore
La trattazione sulla voce è in XI, 3, da 30 a 65.
De Oratore, III, 11 (41).
132 Institutio oratoria, XI, 3, 33.
130
131
74
Charles Gildon, Vita di Thomas Betterton
infatti è sempre uguale e coerente ma, a seconda del tema, è ora serio, ora
esuberante, ora dolcemente placato; così una modalità oratoria è preziosa
quando è sempre uguale e non devia mai dalla propria perfezione, ma
ricava la sua bellezza e il suo splendore da quelle varietà gradevoli che essa
ammette, secondo la natura delle cose di cui parla. È impossibile dire
quanto sia eccezionale e affascinante l’arte di variare la voce, quanto tenga
vivo l’uditorio e rinfreschi lo stesso oratore con un gradevole cambiamento
del suo sforzo. Al contrario la monotonia, cioè parlare sempre con lo stesso
tono immutabile, distrugge l’oratore, annoia gli ascoltatori e li strema in
una continua sonnolenza. Non possiamo stare sempre in piedi, o seduti, o
camminare, ma troviamo sollievo facendo tutte e tre le cose
alternativamente; così nell’elocuzione troviamo gradevole una variazione
della voce guidata da una giusta costanza.
Perciò, secondo Quintiliano, la voce nella gioia dovrebbe essere piena,
semplice, piacevole e fluida; nei conflitti tesa con tutta la giusta forza e i
giusti nervi; nell’ira veemente e tagliente, o acuta, serrata, compatta,
abbinata a respiri frequenti; ma più lenta nel far montare l’invidia, poiché
pochi se non gli inferiori vi fanno ricorso.133
In insinuazioni, confessioni, espiazioni e simili, la voce deve essere dolce e
misurata; quando si persuade, si ammonisce, si promette o si conforta
dovrebbe essere seria, e invece contratta nella paura, nella timidezza e nella
modestia; forte nelle esortazioni; rotonda, elegante e tranquilla nelle
dispute; nella pietà e nella compassione più triste e per così dire
volutamente più oscura. Nelle descrizioni e nei discorsi dovrebbe essere
diretta e con un suono che sia a metà tra l’acuto e il grave. Va su e giù ed è
più alta o più bassa a seconda delle passioni. Chiunque sappia fare tutto
questo, ha raggiunto la perfezione più alta nell’eloquio.
Cicerone, nel terzo libro del De oratore, divide l’enunciazione in molti
generi: dolce o feroce, contratta o distesa, con un respiro continuo o
interrotto, spezzata oppure tagliata; con un suono variato o identico; esile o
grandiosa. Questi, dice Cicerone, sono colori offerti all’attore per disegnare
le sue variazioni come fosse un pittore.134
L’ira ama i suoni acuti, veementi e una respirazione frequente; la
commiserazione e la pietà quelli flessibili, pieni, interrotti e dolenti; la
paura quelli bassi, non senza esitazione, e miseri; la forza e il potere quelli
veementi, seri, incalzanti, ma sostenuti con una certa gravità; il piacere
quelli calorosi, dolci, teneri, gioiosi e moderati; il dolore e la pena quelli
gravi e oppressi dalla fatica.
Fin qui il mio trattato contiene, penso ben spiegata, l’arte della parola per
tutte le occasioni, poiché non c’è niente che un attore possa dire sulla scena,
l’avvocato in tribunale o l’ecclesiastico dal pulpito, che non ricada in uno di
133
134
Ivi, XI, 3 (63).
Ivi, III, 57 (217).
75
AAR Anno VI, numero 11 – Maggio 2016
questi casi. Perciò raccomando al mio oratore di studiare e di applicarsi con
attenzione a quello che vi è scritto. Però, siccome questo può non apparire
ovvio a molti che forse desiderano apprendere quest’arte, e magari
potrebbero arrivare a una qualche perfezione, procederò a dare al mio
studente delle spiegazioni più chiare e che gli possano servire da parafrasi
completa di quello di cui ho già parlato.
[19. Sonorità, piacevolezza e variazione della voce]
La prima considerazione nell’arte dell’elocuzione è soddisfare l’udito che ci
trasmette tutte le arti e le scienze ed è il giudice naturale della voce. Perciò
chi parla deve essere sentito e capito con agio e piacere, e una voce chiara,
dolce e forte, è necessaria per essere uditi da tutto il pubblico. Servirebbe
una voce come quella che Quintiliano attribuiva a Tracalo135 il quale,
difendendo una causa in uno dei quattro tribunali del Foro di Giulio, non
solo era udito lì, ma anche in tutti gli altri, tanto da essere capito e da
meritare il successo; comunque, se anche non tutti possono avere una voce
come questa, chi non riesce a farsi sentire in tutto l’uditorio non è adatto a
parlare.
Alcuni hanno naturalmente questo tipo di voce, altri la ottengono
migliorandola con l’arte e l’esercizio. Si è detto ad esempio di Demostene136
che aveva difetti nell’eloquio oltre che nell’azione e nei gesti: di natura
aveva una voce flebile, degli impedimenti nel parlare e il fiato corto, e
provando un paio di volte nonostante queste invalidità a parlare in
pubblico fu fischiato in entrambi i casi. Ma cancellò questi svantaggi con la
diligenza e l’applicazione. Nel suo appartamento, che si trovava sotto terra,
ogni giorno si esercitava a dire a voce alta quello che aveva letto e così
gradualmente i suoi organi si aprirono, la voce schiarendosi sensibilmente
diventò ogni giorno più forte. La sua lingua era così grossa e impacciata
che biascicava le parole e non riusciva ad articolarle in modo semplice e
chiaro; anzi, non riusciva a pronunciare per niente la «r». Aveva il respiro
così corto che non poteva dire molte parole di seguito senza riprendere
fiato in una specie di eloquio frammentato. Queste difficoltà gli rendevano
straordinariamente arduo superare il forte rumore di un’assemblea
pubblica.
Per prima cosa curò l’impaccio della lingua mettendosi in bocca dei
sassolini, mentre parlava per un po’ di tempo; poi curò il suo respiro corto
correndo in salita e ripetendo mentre andava dei versi o delle frasi o
discorsi che sapeva a memoria e questo gli rinforzò i polmoni e allungò il
suo fiato. Vinse il rumore delle assemblee pubbliche recitando le sue
135
136
Ivi, XII, 5, 5-6 (Le Faucheur, trad. cit., p. 50).
Plutarco, Vita di Demostene, 7 (Le Faucheur, trad. cit., pp. 54-57).
76
Charles Gildon, Vita di Thomas Betterton
orazioni con il massimo sforzo della voce davanti al fragore del mare,
quando era fortissimo, e così diventò l’oratore più perfetto della sua epoca.
È vero che Demostene vinse queste difficoltà, o almeno gli storici ce lo
fanno credere, ma questa non è una ragione sufficiente per ammettere sulla
scena uno con dei difetti come quelli che questo grande oratore cancellò
con un impegno inenarrabile. E questo perché, se la voce di un uomo non è
buona a nulla, a causa di un difetto degli organi come la lingua, la gola, il
torace o i polmoni, se costui ha la lisca, balbetta o tartaglia, non va bene per
il teatro, il pulpito o l’aula di tribunale.
Ho fornito l’esempio di Demostene a vantaggio di alcuni che possono salire
sul palcoscenico e hanno una genialità ammirevole, ma che per mancanza
di fiato o per la debolezza della loro voce non possono impiegare le loro
altre belle qualità. Che parlino sempre liberamente nel loro studio privato o
alle prove: è un esercizio ritenuto benefico alla salute, purché non si sforzi
la voce. Così Plutarco (io leggo tutti gli antichi che trovo in francese o in
inglese), mentre consiglia altri esercizi del corpo per la salute di tutti, a
coloro che parlano in pubblico, che sia sulla scena o altro, prescrive il
parlare o fare spesso discorsi, o leggere a voce alta per quanto sia
naturalmente possibile; e dice che secondo lui questo esercizio fa meglio di
tutti gli altri ed è più utile allo scopo, poiché mentre gli altri movimenti
mettono in azione solo gli arti e risvegliano solo le membra, la voce utilizza
la parte più nobile del corpo e rafforza i polmoni da cui riceve il fiato,
aumenta il calore naturale, assottiglia il sangue, pulisce le vene, apre tutte
le arterie, ostacola le ostruzioni e impedisce agli umori più densi di
coagularsi e produrre malattie.137
Quando si fa questo esercizio ogni sillaba deve avere suono e proporzione
pieni e distinti e non si deve temere di soffocare le parole o di balbettare.
Ma oltre a questo vizio nell’elocuzione si deve evitare un modo sguaiato di
parlare con la bocca spalancata e di tuonare suoni potenti ma confusi e
inarticolati al punto che, anche se lo si sente a grande distanza, il suono non
sarà inteso altro che come il muggito di un bue o di un’altra bestia.
Quest’idea deriva da un vezzo e da una falsa opinione che un’enorme
sonorità dia maestosità e forza a quello che si dice, mentre invece lo priva
di articolazione, che è l’essenza del discorso, e ne impedisce la
comprensione, che è il fine del parlare.
In breve,138 per far sì che l’oratore sia udito e capito senza difficoltà, ci sono
due cose: una è una voce distinta e articolata e l’altra una dizione forte e
Moralia, «De tuenda sanitate praecepta», 16. Gildon si riferisce forse alla traduzione in
francese di Jacques Amyot (1572) piuttosto che a quella in inglese di Philemon Holland,
pubblicata nel 1603 e dedicata a Re Giacomo I, ma di minore impatto sulla cultura europea.
Gildon però riprende il brano da Le Faucheur, trad. cit., p. 59.
138 Da questo punto fino al termine del titolo 22 Gildon segue Le Faucheur, trad. cit., da p. 64
a p. 168, comprimendo talvolta in modo radicale la trattazione dell’elocuzione nel libro
francese ed inserendo proprie considerazioni ed esempi.
137
77
AAR Anno VI, numero 11 – Maggio 2016
vigorosa. La prima è la più importante, dato che una voce neutra con una
dizione distinta sarà compresa molto più facilmente di una voce più forte e
più udibile ma che non articola le parole altrettanto bene.
Non è però sufficiente essere uditi senza difficoltà, e dovrebbe essere
oggetto di tutti gli sforzi essere udito con piacere e con soddisfazione. A
questo scopo si deve considerare se la voce ha uno dei suddetti vizi o
difetti, se sia aspra, rauca o servile, e cercare se la causa derivi dalla natura
o da una cattiva abitudine; perché è affar vostro rendere la voce più dolce,
morbida e gradevole che sia possibile all’orecchio. Se il difetto deriva solo
da una cattiva abitudine, ci si dovrebbe esercitare in modo contrario, se si
vuole diventare adatti per quest’attività, ma se deriva dalla natura, perché
il difetto è in uno o in tutti gli organi del corpo che vi sono impiegati, anche
se abbiamo gli esempi di Cicerone e di Demostene che ci sono riusciti, in
quest’epoca e in quest’occupazione penso che non valga la pena di tentare
con molta fatica incerta di correggere la natura, quando ci sono altri
impieghi che vanno meglio.
Accanto all’eleganza del suono, ciò che delizia e fa piacere a chi ascolta è la
sua variazione; perciò si dovrebbe impiegare attenzione e tempo per
imparare l’arte di variare la voce a seconda dei diversi argomenti o delle
passioni che si vogliono esprimere o suscitare, più forti o più deboli, più
alte o più basse, come più si adattano a ciò che si dice.
Sebbene abbia spesso toccato questo punto, sia nelle mie osservazioni su
quello che avevo citato da Shakespeare sull’eloquio sia nel testo che ho
inserito sulle virtù dell’elocuzione, non posso tuttavia chiudere questo
argomento senza alcune altre riflessioni perché ci sono degli attori
importanti con un bellissimo tono di voce, che ne hanno stravolto la
bellezza tenendo sempre lo stesso identico suono, nella stessa chiave, anzi
sulla stessa nota, e come in musica anche nel parlare è la varietà a fare
l’armonia, e per un violinista o un suonatore di liuto o qualsiasi altro
interprete di musica suonare sempre la stessa corda e la stessa nota sarebbe
lontanissimo dal fare musica tollerabile, e sarebbe ridicolmente
insopportabile e noioso, così niente può risultare più sgradevole
all’orecchio o disgustare altrettanto chi ascolta che non una voce sempre
sullo stesso suono, senza differenze o variazioni.
Questo difetto è troppo diffuso tra gli oratori, ma non a livello estremo.
Pochi arrivano alla vera arte di variare la voce con quella bellezza e
armonia che si trova in natura perché non studiano cosa richiedano
effettivamente le parole, il tema e la passione, per essere espressi. In verità
una buona voce, anche se usata male, può essere gradevole all’orecchio ma
sarebbe molto più piacevole se si sapesse come indirizzarla nel modo
giusto, farla salire o scendere e variarla in ogni altra maniera adatta al
soggetto e alla passione. Comunque voci belle che piacciano nonostante
78
Charles Gildon, Vita di Thomas Betterton
siano mal gestite sono molto rare. Questo difetto invece rende le voci più
comuni sgradevoli all’eccesso.
La rigida uniformità della voce non è solo spiacevole all’udito, ma
distrugge anche l’effetto del discorso sugli ascoltatori, in primo luogo
perché con un modo uniforme di parlare, quando l’elocuzione ha ovunque,
in ogni parola e in ogni sillaba, lo stesso suono, inevitabilmente tutte le
parti del discorso diventano uguali e vengono appiattite in modo scorretto.
E così la forza del ragionamento, la brillantezza e la ricchezza delle figure, il
cuore, il calore e il vigore di ciò che è appassionato, essendo espresso tutto
nello stesso tono, diventa piatto e insipido, e perduto in una pronuncia
incolore o, almeno, non musicale. Allora, in breve, ciò che dovrebbe colpire
e suscitare affetti, detto invece tutto nello stesso modo, senza distinzioni o
variazioni, non li smuove affatto. Inoltre, nel parlare non c’è un sonnifero
più potente, niente di così noioso e pesante, adatto a farci addormentare, di
un intero discorso tutto sulla stessa nota e lo stesso tono: questa è la
cantilena che prima si trovava nei discorsi di alcuni Dissenters,139 e che ora
è stata molto corretta nei giovani predicatori.
Credo che lo si debba in buona parte al nostro sistema di istruzione
sbagliato, in cui prima le maestre e poi i maestri insegnano ai ragazzi, o
tollerano che questo avvenga, a cantilenare le lezioni per molti anni con un
unico tono invariato, che cresce con noi e lo si può vincere solo alla fine con
l’esercizio, anche se la natura e la ragione, se le consultassimo, ci
guiderebbero per una strada più piacevole e eccellente.
La natura ci dice che nel lutto, nella melanconia e nel dolore dobbiamo
esprimerci, e lo facciamo, con un differente tono e con una diversa voce che
non nell’allegria, nella gioia e nella felicità; in modo diverso quando
biasimiamo i peccati di quando confortiamo gli afflitti; quando
rimproveriamo qualcuno per i suoi difetti che non quando chiediamo
perdono per i nostri; quando minacciamo che non quando promettiamo,
preghiamo o chiediamo un favore; quando siamo di buon umore con le
emozioni tranquille e la mente in perfetta calma che non quando siamo
eccitati dall’ira o provocati da un cattivo carattere.
Questa differenza è così radicata nella natura che se si dovessero sentire
due persone parlare tra di loro in una lingua incomprensibile con calore,
uno con ira, l’altro con paura, uno con gioia, l’altro con dolore, si
potrebbero facilmente distinguere le passioni una dall’altra dal tono
differente e dalla cadenza della voce, e anche dall’espressione del viso e dai
gesti; anzi, un cieco che non potesse vederli riconoscerebbe indubbiamente
la diversità.
Da questo risulta chiaro che poiché questa variazione della voce è radicata
nella natura, più ci si avvicina alla natura più si arriva a un passo dalla
Sette cristiane protestanti che si sono separate dalla Chiesa d’Inghilterra nel corso dei
secoli a partire dalla Riforma.
139
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AAR Anno VI, numero 11 – Maggio 2016
perfezione, e più se ne è lontani peggiore è l’elocuzione. Meno si è affettati
meglio è, perché la cosa migliore è una variazione naturale e il modo più
semplice per arrivarci è la giusta osservazione di un normale discorso e il
far attenzione a come parliamo noi stessi nella conversazione, come una
donna esprime la sua passione per un’offesa ricevuta, il suo dolore per la
perdita del marito, o di qualsiasi cosa le sia cara, e da queste osservazioni
tentare di dar forma al proprio eloquio in pubblico, con quest’unica
differenza, cioè considerare quanto più alta debba essere la voce per essere
udita in tutti questi aspetti alla distanza del palcoscenico, della sbarra in un
tribunale o del pulpito. Gli attori migliori cambiano la loro voce a seconda
della qualità dei personaggi che rappresentano e della condizione in cui si
trovano, o ancora dell’oggetto del discorso, parlando sempre sul
palcoscenico con lo stesso tono che userebbero in una stanza, tenendo però
conto della distanza.
Perciò si deve variare la voce ogni volta che si può ma la sola difficoltà è
sapere come farlo ad arte e in modo armonioso; per riuscirci, darò le
seguenti istruzioni.
Le tre differenze principali140 riguardano registro alto e basso, veemenza e
dolcezza, velocità e lentezza. Perciò chi parla deve osservare una giusta
misura in questi aspetti in tutto quello che ha da dire. Deve essere certo di
tenere un giusto mezzo della voce, perché gli estremi sono sgradevoli e
barbari. Prima di tutto, per quanto riguarda l’altezza, si deve fare
attenzione a non salire sempre alla nota più alta cui si può arrivare né a
scendere alla più bassa. Sforzare la voce verso l’alto diventa uno strillìo o
una noia, una cantilena, o identità di suono. Lo strepito e il rumore, oltre a
essere rozzi e inappropriati per il pubblico, stancano la gola di chi parla
fino alla raucedine e gli orecchi di chi ascolta fino alla repulsione. Allo
stesso modo, abbassare la voce fino alla nota più bassa e tenere sempre lo
stesso tono significherebbe borbottare, non parlare, e pochi nel pubblico
sarebbero in grado di sentire una parola di ciò che è stato detto.
Uno non deve continuamente forzare la voce fino all’estremo perché non
essendo capace di mantenerla a lungo in quella chiave, gli verrebbe a
mancare tutt’a un tratto, come la corda di uno strumento musicale che si
rompe quando è troppo tirata. Se non si osservano queste indicazioni, come
Adriano il fenicio, citato da Filostrato, si perde la voce nel bel mezzo di un
discorso e si mormora tutto il resto in un tono così basso che nessuno lo
sente, oppure come Zosimo il liberto di Plinio il giovane, per il troppo
sforzo, si vomita sangue e si mette in pericolo la propria vita. Un uomo di
costituzione debole e in là con gli anni dovrebbe fare molta attenzione a
questo stile smodato di parlare, per non incorrere nel destino di re Attalo.
Come ho letto, questi una volta fece un discorso a Tebe, in una pubblica
140 Insieme di considerazioni tratte dal sesto capitolo del testo di Le Faucheur, trad. cit., pp.
80-91.
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Charles Gildon, Vita di Thomas Betterton
assemblea, ed essendosi appassionato in modo eccessivo, per la debolezza
della sua età senile di colpo restò muto e immobile senza il minimo segno
di vita; allora dovette essere portato al suo alloggio e, subito dopo essere
stato trasportato da lì a Pergamo nel suo palazzo, morì.141
D’altra parte non si deve neanche essere troppo piatti o flemmatici
nell’azione o nell’eloquio perché l’affievolirsi effeminato e dolce della voce
tradisce debolezza, distrugge l’energia di ciò che viene detto e non suscita
passioni in nessuno degli ascoltatori, non più di un discorso banale e senza
emozione.
[20. Rapidità dell’elocuzione]
Inoltre, quanto alla velocità e alla loquacità, non si dovrebbe essere
precipitosi. Questo era il difetto di un certo Serapione di cui Lucilio parla a
Seneca142 e dice che la sua immaginazione andava così veloce che
accalcando una parola sull’altra una sola lingua non sembrava sufficiente
alla fretta del suo eloquio. Secondo diversi autori questo è un modo
sbagliato di parlare: non solo è inadatto a tutti i soggetti seri, ma è anche un
ostacolo al fine che essi si prefiggono, cioè la persuasione. Se non si concede
il tempo per considerare quello che si è detto, come si può convincere?
Sulla scena comunque il caso è un po’ diverso, poiché vi sono dei ruoli o
dei discorsi particolari dove tale stravagante loquacità è bella, come ad
esempio in molti momenti della parte di True-Wit in The Silent Woman143 e
in alcuni altri ruoli: li vedremo tra poco, quando scenderemo ai particolari.
Questo correre senza pausa è dannoso anche per chi parla, perché niente
rovina di più i polmoni di questa irruenza e della fretta nel discorso che
non lascia prendere regolarmente fiato e può condurre qualcuno a delle
forme di consunzione e costargli la vita.
Lucio Flavio Filostrato, scrittore greco del secondo secolo d. C. Scrisse la vita di Adriano
di Tiro, retore sofista
vissuto sotto Marco Aurelio e Commodo. L’aneddoto di Zosimo è narrato in una lettera di
Plinio il Giovane a Valerio
Paolino (Epistole, V, 19) in cui gli chiede di ospitare il liberto Zosimo nella sua villa in
campagna, in modo che il
servo possa rimettersi da una brutta tosse che gli è venuta dal declamare con veemenza. La
storia di Attalo deriva da
Livio, Ab urbe condita, 33, 1-2. Gli esempi sono comunque tratti da Le Faucheur, trad.cit.,
pp. 82-84.
142 Lucilio aveva scritto a Seneca di aver udito parlare il filosofo Serapione in modo talmente
rapido che le parole si accavallavano e risultavano storpiate; nella sua risposta Seneca
(Lettere a Lucilio, libro IV, lettera 40) disapprova questo genere di oratoria e indica che la
concitazione e la rapidità nel parlare sono più adatte a un ciarlatano che a un filosofo.
143 Epicoene, or the Silent Woman, commedia di Ben Jonson, rappresentata nel 1609 dai
Blackfriars Children, una compagnia di ragazzi.
141
81
AAR Anno VI, numero 11 – Maggio 2016
Però, quando metto in guardia contro questo difetto, non vorrei spingervi
verso l’estremo opposto e quando dico che non vorrei che correste troppo
con la lingua non vorrei pensaste che consiglio una lentezza di eloquio
come l’andatura di un malato che non riesca a trascinare una gamba dietro
l’altra, mentre quello che intendo è che la lingua dell’oratore dovrebbe
andare al passo con l’orecchio di chi ascolta e non essere né troppo veloce
perché possano seguirla né troppo lenta perché stiano attenti. A questo
proposito un autore scrive che Vinicio144 era noto perché parlava così
lentamente che non diceva neanche tre parole senza una pausa o un
intervallo. Però non ci può essere alcun piacere a udire uno strascinare le
parole a questo ritmo; il discorso, per avere un valore,
deve essere più esuberante, ma dovrebbe scivolare come un fiume
tranquillo e non precipitarsi come un torrente rapido.
C’è una certa ampiezza per la variazione della voce che si estende a cinque
o sei altezze; così chi parla ha abbastanza spazio per modulare la sua voce
senza toccare i due estremi ma creando da queste cinque o sei note una
giusta e piacevole armonia.
Inoltre, chi parla deve controllare la voce per quanto riguarda forza e
dolcezza, moderandola in modo che anche se non la spinge all’estremo, il
che danneggerebbe la sua stessa natura oltre che squassare gli orecchi degli
ascoltatori, né d’altra parte la rende languida al punto di scendere ai gradi
più bassi di delicatezza e di effeminatezza, possa dare al suo eloquio più o
meno veemenza o mitezza a seconda del differente stato del soggetto e
della qualità del discorso. Ma in questo, così come per la velocità e la
lentezza, dovrà lasciare che il soggetto e le passioni del suo discorso
facciano da guida al giudizio. Neanche deve, quando voglia variare la voce,
passare da una nota all’altra con una differenza troppo marcata tra le due;
deve invece scivolare dall’una all’altra con tutta la moderazione, la
delicatezza e l’abilità possibili; altrimenti a coloro che non lo vedono
sembrerà che sia qualche altra persona a parlare.
[21. Regole particolari per la voce]
Se fossi sicuro che i miei lettori fossero capaci di riportare queste regole
generali a casi particolari non avrei bisogno di darmi la briga di scendere
nei dettagli ma, affinché non manchi alcun aiuto che io sia in grado di dare,
esaminerò le regole per tutte le singole variazioni della voce, anche se
possono in qualche misura essere estratte da ciò su cui ho insistito in questa
sezione, sia per quanto riguarda la qualità dei soggetti, la natura delle
Seneca, Lettere a Lucilio, IV, 40, dove si riportano le opinioni del retore Asellio Fusco e del
proconsole Gemino Vario sulla lentezza dell’eloquio di Publio Vinicio, giunto al consolato
nel 2 d. C..
144
82
Charles Gildon, Vita di Thomas Betterton
passioni, le diverse parti del discorso e le figure di cui si fa uso, sia per la
varietà di parole e frasi.
Comincerò con i soggetti, di cui vi sono diversi tipi, come le cose naturali,
le azioni buone o malvagie degli uomini, gli eventi lieti o sfortunati della
vita, ecc. Poiché sono di generi molto diversi, se ne dovrebbe parlare con
sembianze e espressioni vocali differenti. Nel parlare di cose naturali, se
s’intende solo far capire agli ascoltatori, non c’è bisogno di calore e di
movimento e basta una voce chiara e distinta; siccome qui si tratta solo di
informare, suscitare volontà o passioni non c’entra. Ma se da questo ci si
innalza a impressionare gli ascoltatori con l’ammirazione per le meraviglie
della provvidenza, in quanto a bellezza, saggezza e potere, va fatto con una
voce seria e un tono pieno di ammirazione.
Se il discorso è sulle azioni degli uomini, giuste e onorevoli, e lodandole si
vorrebbe raccomandare stima o imitazione a chi ascolta, oppure ingiuste e
infami, da cui si vorrebbe dissuadere con l’invettiva, la voce si deve
adattare alla qualità dell’uno o dell’altro caso, esprimendo il giusto e
l’onesto con un timbro pieno, alto e nobile, e con un tono di soddisfazione,
onore e stima, ma l’ingiusto, l’infame o il disonorevole con una voce forte,
violenta e appassionata e un tono di ira, sdegno e avversione.
Se il discorso è sugli eventi della vita umana, alcuni fortunati e felici, altri
sfortunati e infelici, allo stesso modo si dovrà variare la voce in base alla
differenza. Quando ci si congratula con chi è fortunato, si deve usare un
tono vivace e allegro, quando ci si duole con gli sfortunati, uno triste e
afflitto.
Così come i soggetti delle cose naturali non sono tutti uguali per
magnificenza, bellezza o gloria – ad esempio i cieli e la terra, i pianeti, le
piante e gli insetti – per cui non devono essere detti con la stessa voce e la
stessa maestosità di eloquio, anche le azioni e gli eventi della vita umana,
felici o infelici, buoni o cattivi, non hanno la stessa importanza: un crimine
tremendo e dissoluto oppure una crudeltà barbara e straordinaria hanno
un peso più grande di un banale peccatuccio. Il bene e l’onore della vita
umana valgono più del bene di molti; le azioni coraggiose di un famoso
conquistatore, di un Mordaunt o di un Eugenio, più di quelle di un Wat
Tyler o di un Jack Straw;145 la distruzione o la salvezza di un intero regno
più della perdita o del profitto di una persona privata. Perciò richiedono un
modo e un’elocuzione diversa, a volte più intensa, di altri perché un tono e
un eloquio grandioso per casi banali e comuni sarebbe ridicolo e assurdo
Charles Mordaunt, duca di Peterborough (1658-1735), potente comandante dell’esercito
inglese nel corso della guerra di successione spagnola; Eugenio di Savoia (1663 -1736),
celebre per le vittorie al comando dell’esercito imperiale degli Asburgo nelle guerre contro
l’impero turco e la Francia di Luigi XIV. Wat Tyler e Jack Straw erano capi della rivolta dei
contadini del 1381.
145
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AAR Anno VI, numero 11 – Maggio 2016
quanto parlare in modo semplice, basso, sereno e familiare di fatti
nobilissimi e illustri.
Anche se può sembrare a prima vista che tutte queste cose abbiano una
relazione più stretta con i discorsi pubblici, le orazioni o i sermoni, se
l’attore le considera attentamente, non lo riguardano di meno poiché
qualsiasi cosa di cui parli sul palcoscenico rientrerà in uno di questi casi o
almeno egli si ritroverà spesso a parlare di soggetti come questi nella
tragedia. Senza dubbio però ciò che dirò di seguito sarà di uso immediato
per lui, poiché dà indicazioni circa le espressioni da usare a seconda delle
passioni, e le passioni sono o dovrebbero essere sempre presenti in ogni
parte della scena tragica e più vi sono inserite dai poeti più gli porteranno
fama, oltre che denaro.
Se l’oratore (o l’attore) considererà attentamente questi argomenti che ho
appena menzionato e se li imprimerà bene nella mente senza dubbio gli
daranno delle idee così brillanti da suscitare in lui le passioni di gioia o
dolore, paura o coraggio, ira o compassione, stima o disprezzo, e se queste
saranno rappresentate pienamente e con enfasi, e dette con l’opportuna
varietà di espressione vocale, non mancheranno di suscitare le stesse
emozioni negli ascoltatori.
Perciò quando dovete parlare dovreste prima di tutto considerare la natura
di ciò che dovete dire e fissarne una profonda impressione nella mente,
prima di esserne colpiti voi stessi o di poter trasmettere ad altri la stessa
passione attraverso un’appropriata simpatia. La corda di uno strumento
musicale suona a seconda della forza e dell’impulso datole dal musicista: se
il tocco è delicato e gentile anche il suono lo sarà, se è forte il suono sarà
forte e vivo. Nel parlare è la stessa cosa che in musica: se una passione
violenta produce il discorso, produrrà anche un eloquio violento, ma se
nasce solo da un pensiero tranquillo e delicato, la forza e il modo
dell’elocuzione saranno delicati e calmi. Perciò chi parla dovrebbe prima di
tutto collegare l’espressione della sua voce a ogni passione che lo colpisce,
sia di gioia che di dolore, in modo da poterla poi trasmettere ad altri con la
forza della simpatia.
Così esprimerò al meglio l’amore con una voce lieta, dolce e piacevole;
l’odio con una voce tagliente, tetra e severa; la gioia con una voce vivace,
piena e fluida; il dolore con un tono triste, tenue e languido, non senza
interrompermi a tratti con un sospiro o un lamento, che provenga dalla
parte più riposta del cuore. Una voce tremula e balbettante esprimerà
benissimo la paura, tendendo all’incertezza e all’apprensione. Al contrario,
una voce alta e forte mostrerà in modo naturale la sicurezza, sempre
sostenuta da un’audacia discreta e da una costanza ardita. Gli ascoltatori
potranno essere giustamente colpiti dal senso dell’ira di chi parla se questi
avrà un tono tagliente, violento e impetuoso, interrotto da un frequente
84
Charles Gildon, Vita di Thomas Betterton
riprendere fiato, e se userà frasi brevi. È quello che fa Hotspur in Henry IV
di Shakespeare.
Hotspur. Ha detto che non riscatterà Mortimer.
Mi impedisce di parlare di Mortimer,
Ma io lo troverò quando dorme,
e gli griderò nell’orecchio «Mortimer».
Anzi, farò insegnare a uno stornello a non dire
Nient’altro che «Mortimer» e glielo donerò
Per tener viva la sua rabbia.
[…]
Vedete, sono come frustato e bastonato,
Tormentato e punto dalle formiche quando sento parlare
di questo vile politico, Bullingbrook, ecc. 146
e così parla anche Re Lear:
Lear. Disgustoso avvoltoio, tu menti!
Il mio seguito è fatto di uomini scelti e onesti,
Che conoscono bene il loro dovere
E tengono alta con grande riguardo
La loro reputazione! O, minuscola colpa!
Perché sembrasti così grave in Cordelia?
Come una macchina hai stravolto
La mia forma naturale, estratto tutto l’amore dal mio cuore
Cambiandolo in fiele. Oh, Lear! Lear! Lear!
Bussa a questa porta per far entrare la follia,
e far uscire la ragione. –147
e poi, immediatamente dopo:
Ascolta! Natura, ascolta! Cara dea, ascolta!
Abbandona il tuo scopo se intendi
Rendere fertile questa creatura,
Porta la sterilità nel suo grembo,
Dissecca i suoi organi riproduttivi,
E fa’ che dal suo corpo disonorato non nasca
Mai un bambino a onorarla. E se deve partorire
Che faccia un bambino che sia una rovina
E possa darle un tormento snaturato, come lei,
Che le scavi rughe sulla fronte giovane,
E canali sulle guance con le lacrime che scendono,
Che cambi dolori e beni di una madre
In risate e scorno, che lei possa sentire
Quanto più acuto del morso di un serpente
Sia avere un figlio ingrato.148
Henry IV, part 1, I, 3.
King Lear, I. 4.
148 Ivi, I. 4.
146
147
85
AAR Anno VI, numero 11 – Maggio 2016
Tutti e due questi brani, come quello di Hotspur, devono essere detti con
un tono elevato e una voce arrabbiata, con i modi di un uomo irritato e
preso da una furia vicina alla pazzia. Lo stesso si può dire di Otello nel
discorso seguente:
Otello. Infame! Sii certo di poter provare che il mio amore è una puttana,
Siine certo, dammi una prova visibile,
O, per quanto vale la mia anima eterna,
Sarebbe meglio per te che tu fossi nato cane
Che rispondere per aver sollevato la mia ira –
Se tu calunni lei, o torturi me,
Non pregare più; lascia ogni rimorso.
Orrori si accumulano in capo agli orrori,
Fanno cose da far piangere il cielo, e da sbalordire la terra,
Perché non potresti aggiungere niente alla dannazione
Più grande di questo.149
Il vecchio Capuleti in Romeo and Juliet:
Cosa! Cosa! Logica sconclusionata? Che cos’è?
Orgogliosa! E vi ringrazio! E non vi ringrazio!
Non ringraziare ringraziamenti, e non inorgoglire orgogli,
Ma vedi di sistemare la tua aggraziata figura per giovedì prossimo
Per andare alla chiesa di S. Pietro con Paride,
O ti ci trascinerò in una carretta.
Fuori, carogna malaticcia, fuori, sgualdrina,
fuori faccia di corno.150
E prima, nello stesso dramma:
Vecchio Capuleti. Deve essere tollerato.
Come, ragazzino – ti dico che deve. Che cosa –
Chi è il padrone qui: io o tu? Che cosa –
Non lo sopporterai? Che Dio salvi la mia anima,
Farai scoppiare una rivolta tra gli ospiti?
Darai tu il via? Sarai proprio tu a farlo?151
È chiaro dalle espressioni in mezzo a frasi brevi in tutti e due questi
discorsi che l’attore dovrebbe parlare sbuffando e soffiando e riprendere
fiato in ogni punto come se la passione avesse soffocato il suo eloquio e non
potesse dire più parole insieme per la rabbia e la collera. La stessa cosa vale
anche per il primo discorso di Hotspur.
Othello, III. 3.
Romeo and Juliet, III. 5.
151 Ivi.
149
150
86
Charles Gildon, Vita di Thomas Betterton
Non posso fare a meno di riportare qui la descrizione di un’ira valorosa, o
dell’ardore di un nobile guerriero in combattimento, da Henry V di
Shakespeare, perché dà un’idea vivace di tutti gli sguardi e le azioni
proprie di questa passione.
Enrico. Ma quando il fragore della battaglia ci colpisce l’orecchio
Allora imitate l’azione della tigre.
Irrigidite i nervi, richiamate il sangue,
Nascondete la bella natura con la dura rabbia,
E date allo sguardo un aspetto terribile,
Che occhieggi dal portello della testa,
Come il cannone, che la fronte lo sovrasti
Terribile come una spaventosa roccia
Sovrasta e si sporge sulla base
Rigonfia dell’oceano selvaggio e desolato.
Ora stringete i denti, e dilatate le narici,
tenete forte il respiro e piegate l’animo
all’estremo.152
Se un attore studiasse questo discorso, troverebbe sguardi e movimenti per
ispirarsi a rendere questo personaggio in modo più vero di quanto
potrebbe fare altrimenti.
Per suscitare compassione l’oratore deve esprimersi con una voce delicata,
sottomessa e pietosa, come Arthur in King John, quando Hubert gli mostra
l’ordine del re di bruciargli gli occhi con un ferro rovente.
Arthur. Hai cuore? Quando ti doleva la testa
Ho stretto il mio fazzoletto sulla tua fronte,
(Il migliore che avessi, fatto da una principessa)
E non te l’ho più richiesto,
E a mezzanotte ti ho tenuto la testa con la mano
E come i minuti che fan la guardia all’ora
Di tanto in tanto rallegravo il tempo greve,
Dicendo: che ti manca? E dove hai dolore?
Oh, che gesto d’amore posso far per te?
Molti sarebbero rimasti lì fermi
Senza dirti una parola affettuosa
Ma tu avevi al tuo servizio un principe, ecc. 153
E Antonio, in Julius Caesar, all’inizio del suo discorso sulla morte di Cesare:
Antonio. Amici, romani, cittadini, prestatemi ascolto,
Vengo a seppellire Cesare, non a lodarlo,
Il male che fanno gli uomini vive dopo di loro,
il bene spesso vene sepolto con le ossa.
Sia così anche per Cesare. Il nobile Bruto
152
153
Henry V, V. 3.
King John, IV. 1.
87
AAR Anno VI, numero 11 – Maggio 2016
Vi ha detto che Cesare era ambizioso.
Se è vero, era una grave colpa
E gravemente Cesare ha pagato per essa.
Qui, col permesso di Bruto e degli altri
(Perché Bruto è un uomo d’onore,
E così gli altri, tutti uomini d’onore)
Vengo a parlare al funerale di Cesare.
Era mio amico, fedele e giusto con me;
Ma Bruto dice che era ambizioso,
E Bruto è un uomo d’onore, ecc.154
È chiaro che Arthur parla (se è ben recitato) con un tono basso, una voce
esile e umile, e implora per la sua vita; modellando la voce su quei timbri
che sono più adatti a suscitare affetti. Lo stesso quasi può essere detto del
discorso di Antonio, dove implora la folla prima per muoverla a pietà e poi
per accendere una passione più forte, fino alla rabbia; prima tenta di
commuovere con una voce bassa e conciliante, ma non senza passione,
perché questa passione è unita a una grande tenerezza, e mostra un animo
sensibilmente toccato e afflitto per il crudele omicidio del suo amico.
Ho letto in un autore francese155 che Cicerone, nelle Tusculanae disputationes
ci dice che il teatro si riempì di melanconia e di dolore quando l’attore
pronunciò queste parole, dette dallo spettro di un corpo insepolto:
Svegliati, madre! Interrompi il tuo sonno incurante, pensa al tuo misero figlio non
ancora sepolto,
copri, oh copri presto il suo povero corpo indifeso dalle selvatiche bestie da preda
divoratrici, che tra poco possono portar via le mie sparse membra e il mio cadavere
maciullato, ecc.156
Anche se questo va detto con un tono triste, per farlo bene ci sono diversi
modi di attenuare la voce per esprimere le diverse qualità delle parole dette
e il carattere delle cose di cui si parla; modi che si potrebbero meglio
comunicare al discepolo viva voce anziché con dei precetti.
Ma andiamo avanti con le altre passioni, e con le variazioni e le inflessioni
della voce che sono loro adatte. Se si deve impersonare un grande eroe
coraggioso, di cui si ha chiara considerazione, lo si deve rendere con un
tono elevato e eccezionale e una voce nobile come il tema – come se si
dovesse parlare del duca di Peterborough.157
Julius Caesar, III. 2.
Le Faucheur, trad. cit., pp. 106-107, dove la citazione è introdotta dalle parole. «In questi
versi di uno degli antichi tragedi», senza altra specificazione.
156 Cicerone, Tusculanae Disputationes I, XLIV, 106. I versi citati da Cicerone derivano dal
testo mutilo della tragedia Iliona di Marco Pacubio (II sec. a. C.) e riproducono le parole di
Deipilo alla madre Iliona. Queste frasi sono riprese più volte da Cicerone sempre per
ribadirne il senso patetico.
157 Charles Mordaunt, terzo Duca di Peterborough.
154
155
88
Charles Gildon, Vita di Thomas Betterton
I suoi meriti sono troppo noti perché sia necessario ripeterli, li ammettono con gioia i
suoi amici e con rammarico i suoi nemici, e tutta l’Europa ne è testimone con stupore;
non si può dire niente del suo coraggio o del suo comportamento e non si sa di altri
che ne abbiano dato prova. La presa e la liberazione di Barcellona, le rocce di
Albocaçar, la resa di Nules e Molviedro, la liberazione di Valencia, la riduzione di
quel regno e la promessa di tutta la Spagna, per la forza particolare del suo genio e
molte altre meraviglie, sono testimoniate dalla mano regale nella quale solo il suo
valore e la sua condotta hanno messo uno scettro.158 Che dovrei dire della sua
generosità, qualità divina, che dovrebbe vedersi in tutte le azioni di un eroe davvero
grande? Che cosa posso dire che sia all’altezza di quelle nobili prove che restano
documentate per i posteri? Fu sempre liberale con i propri beni ma giustamente
parsimonioso con quelli pubblici, quando prese intere nazioni quasi senza uomini e
mantenne eserciti senza denaro. E cosa potrebbe esprimere l’arte del più grande
oratore per rendere quell’impareggiabile atto di generosità verso la cosa pubblica,
quando sua Signoria rifiutò un risarcimento per la perdita del suo equipaggiamento
a Huete,159 dove, con una generosità tipica di sua Signoria, trasferì l’indennizzo che
gli era dovuto a vantaggio della comunità, obbligando gli abitanti a fornire
all’esercito confederato dei magazzini di grano (in sovrappiù rispetto al loro
fabbisogno) sufficiente per un corpo di ventimila uomini per due mesi.
Questa è un’azione così fuori moda, così nobile, che verosimilmente suscita invidia
oltre che ammirazione, ora che la gente è vittima dell’interesse privato e gli eroi
hanno la capacità di fare profitto con il bene pubblico.
Se questo venisse detto con una voce sommessa e languida sarebbe piatto,
freddo e insipido, e non all’altezza dell’onore dell’eroe, ma se lo si dirà con
una nobile inflessione e animato da un tono di voce elevato, che si confà al
suo spirito e alla sua grandezza, allora queste parole non sembreranno
affatto indegne del soggetto.
Se si dovesse parlare con disprezzo di qualcuno, si dovrebbe esprimere
questa passione con un tono sprezzante ma senza ansia, impeto o violenza
nella voce poiché questi indicano ira, e dove c’è ira, giustamente, non c’è
disprezzo, perché in esso si ritiene che oggetto sia al di sotto della nostra
collera e incapace di darci dolore. Perciò cose di questa natura devono
essere dette in modo calmo e senza grande emozione poiché se parlate in
occasioni del genere con una voce appassionata, che mostra inquietudine o
indignazione, semplicemente contraddite il vostro scopo, e il vostro
disprezzo sarà espresso solo nelle parole e non nei fatti; perciò dovete
sempre evitare questo errore quando trattate qualcuno con sdegno e
derisione o mettete in luce la follia di un argomento ridicolo o di una cosa
ridicola, perché essere troppo furioso per una sciocchezza sarebbe come
usare un bastone contro un verme che si potrebbe invece schiacciare con un
piede.
Riferimenti alle imprese compiute da Mordaunt nel corso della guerra di successione
spagnola.
159 Il «baggage» caduto nelle mani del nemico a Huete, durante la campagna di Spagna, era
particolarmente consistente, formato da 16 carri, 50 muli, munizioni, ecc.
158
89
AAR Anno VI, numero 11 – Maggio 2016
Ma se siete stati vittime di crudeltà o di barbara ingiustizia, di cui vi
lamentate, allora dovete parlare in tutt’altra maniera: dovete esprimere la
vostra protesta e la sofferenza con un tono più elevato e forte, adattando la
passione e l’impeto della voce all’entità dell’ingiustizia che vi è stata fatta,
perché in un caso come questo parlare senza emozione convincerebbe
l’ascoltatore che non sentite l’offesa perché se la sentiste parlereste con un
eloquio molto più intenso. Un cliente che si era rivolto a Demostene160 per
un caso di aggressione e percosse, raccontò la sua storia con così poco
fervore che quello gli disse chiaramente che non credeva fosse
minimamente vero ciò che aveva detto; il cliente rispose alzando la voce
con un tono irritato: «Come! Non mi credete?» «Ah (disse lui), ora vi credo,
questa è la voce di un uomo che ha preso delle randellate». Quest’arte del
parlare era così nota agli antichi che trovo citato Cicerone a questo
proposito, quando confutò ala calma e l’indifferenza della sua arringa,
laddove ci sarebbero voluti calore e sollecitudine, come una prova contro la
verità di quello che aveva perorato per il suo cliente.161
Non posso chiudere questa parte sulla variazione della voce a seconda
della passione da esprimere, senza questa regola (che di fatto sarà più utile
ad avvocati e a predicatori, per la lunghezza del loro discorso, piuttosto che
al teatro, ma non sarà inutile neanche ad esso): quando si arriva a calmare
una violenta passione e a riprendersi da una furia, si dovrebbe abbassare il
tono della voce in modo da poter esprimere il languore delle facoltà e della
parola prodotto dalla tensione e dalla grandezza della passione. Suggerirei
a chi vuole parlare in maniera bella e armoniosa con tutte queste diverse
inflessioni vocali di leggere spesso a voce alta con cura e attenzione le
migliori e più appassionate tragedie e quelle commedie che ne possano
fornire la più grande varietà e quei dialoghi che più si avvicinano allo stile
dei poeti drammatici. Come osserva un certo autore, niente può servire di
più a migliorare azione e eloquenza.162
Tra l’altro devo aggiungere una o due parole su qualcosa con cui il teatro
non ha molto a che fare, se non in quei discorsi che imitano orazioni o
interventi solenni e pubblici che non hanno di diritto molto spazio nei
drammi, e cioè l’arte di variare la voce a seconda delle diverse parti
dell’orazione, dell’arringa, del sermone o del discorso che recitate.
Dovete perciò cominciare con una voce bassa e modesta, sia per il rispetto
dovuto al pubblico sia per fare un uso migliore della voce, assumendo la
condizione calma degli ascoltatori quando cominciate a parlare e facendola
salire per gradi fino all’altezza della passione e dell’intensità necessarie al
vostro scopo e alla forza del soggetto; altrimenti rimarreste subito senza
fiato per non essere stati prudenti al principio e non riuscireste a tornare a
Cfr. nota 55.
Cfr. nota 126.
162 Le Faucheur, trad. cit., pp. 117-118.
160
161
90
Charles Gildon, Vita di Thomas Betterton
quella misura che permette di innalzare le altre parti più importanti del
discorso a un grado di intensità maggiore dell’inizio.
D’altra parte però non sto proponendo che cominciate con una voce così
bassa da non essere uditi che da quei pochi che sono vicini, ma dico che
dovete parlare anche all’inizio con voce chiara e distinta in modo che
ciascuno tra i presenti possa sentirvi senza difficoltà o problema, anche se
non ci deve essere niente di quella forza e energia proprie della passione.
Sono perciò in favore di un inizio che solo suggerisca, semplice e calmo,
detto in un tono più basso e in un modo più umile delle altre parti del
discorso.
Questa regola, in realtà, ammette un’eccezione, poiché ci sono inizi che non
la rispettano: quelli che chiamiamo improvvisi, come quello di Aiace in
Ovidio:163
O dei, devo difendere la causa davanti alle navi?
E Ulisse deve confrontarsi con me?
Non c’è motivo per cui chi parla debba alzare la voce tendendola fino
all’apice della passione nella Esposizione o narrazione del suo discorso,
poiché questo è il luogo in cui si informano gli ascoltatori delle questioni,
cosicché basta che la voce qui sia un grado più alta dell’inizio; ma l’oratore
deve stare attento a essere distinto e articolato perché questa è la base di
tutto e la forza e il vigore dei ragionamenti e degli argomenti seguenti
prendono da qui tutta la loro vitalità. Perciò dovrebbe essere perfettamente
udito e compreso oppure, se le fondamenta risulteranno fallaci, cadrà tutto
l’edificio. Nella Narrazione il modo di parlare varierà in base alla differenza
di azioni e di fatti, ma questa non è la parte del discorso giusta per
dispiegare l’abilità vocale che deve soprattutto essere affinata per le altre
parti.
L’enfasi maggiore del discorso sta nel sostenere i propri argomenti e nel
ricusare quelli dell’avversario. Quando l’oratore arriva a riassumere il tutto
dopo la confutazione, dovrebbe fare una piccola pausa e poi ricominciare in
un tono più basso e un accento differente dall’ultima cadenza della sua
voce; poi, sollevandosi, dovrebbe esplodere in una voce più alta e arrivare
fino alla fine con maggiore vivacità, maestosità, e tale trionfo dell’eloquio,
che sembrino nati dalla sua certezza che la causa sia giusta, come è stato
provato a sufficienza, e dal fatto che gli ascoltatori siano convinti
pienamente della verità e della sua integrità. Poi dovrebbe concludere con
gioia e soddisfazione.
163
Metamorfosi, libro XIII, 5-6 (Cfr. nota 108).
91
AAR Anno VI, numero 11 – Maggio 2016
[22. La voce nelle figure retoriche del discorso]
Per non trascurare nessuno di quei consigli che sono di ausilio a quest’arte
e che sono riuscito a trovare nelle mie limitate letture, devo aggiungere
qualche parola che serva alla variazione della voce, cosa necessaria a
chiunque parli in pubblico, cioè passerò in rassegna quelle modalità di
eloquio o maniere di esprimere i pensieri, che si dicono figure del discorso
o retorica; alcuni le chiamano le luci del discorso, perché gli danno grazia e
varietà, avendo ognuna un’aria particolare, un tipo di ornamento e una
novità che fa sì che vengano dette con un tono differente dal resto del
discorso. Cominciamo da quella che si chiama esclamazione. — Sarebbe
assurdo, piatto e incolore pronunciarla senza una voce più alta e un tono
più appassionato che non nel resto del discorso, e la natura stessa della cosa
ne fornisce il motivo, come in: «Oh, orrore! Oh crudeltà inaudita! Oh,
empietà senza pari! Non aver paura dell’uomo né di Dio! Che festa ha fatto
Tieste! Oh, mostruosa barbarie! Il padre che si nutre della carne del figlio!
Ridurre le budella dei genitori a tomba dei figli! L’ardente cocchio del sole
poteva pure tornare indietro e non far luce su un misfatto così
insopportabile, ecc.».164 Dire queste parole senza alzare la voce
significherebbe farle diventare piatte e scialbe, privarle della loro forza e
energia.
Questo stesso modo di parlare esclamativo deve essere usato nei
giuramenti, nelle denunce solenni, nelle promesse o nei voti, come quelli
che trovo in Demostene, nella sua orazione per Ctesifonte che sembra fosse
molto ammirata dagli antichi:165 «In questo non avete sbagliato, no — Lo
giuro per i nostri grandi antenati, che vinsero la battaglia di Maratona con
tanto pericolo e coraggio! Per coloro che vinsero a Platea con generosità e
gloria! Per coloro che combatterono con tanto valore nella battaglia navale
a Salamina! Per coloro che caddero coraggiosamente a Artemisio!166 E per
tutti quegli audaci guerrieri le cui azioni meritarono monumenti pubblici
con tutti i simboli di onore, fortuna e fama!».
Non si può dubitare che Demostene, che aveva studiato azione e dizione
applicandovisi così tanto, dicesse queste parole con quell’altezza di tono e
quella forza nella voce che erano necessarie per scaldare gli ascoltatori e
non raffreddarli con la calma indifferenza dell’eloquio.
C’è una figura che ricorre, o può ricorrere spesso, nei discorsi dal pulpito,
cioè l’introduzione di qualcuno che parla, detta prosopopœia; è stata spesso
usata sulla scena, specialmente nelle commedie, come nel primo esempio
che ho dato di Melantha, se in quel caso non si deve piuttosto parlare di
dialogismo. È evidente che chi la introduce deve cambiare voce e farlo
Seneca, Tieste. È il messaggero che parla e invoca Febo (776 sgg).
Si tratta della Arringa contro Eschine e in difesa di Ctesifonte e della libertà, analizzata
anche da Longino (Sulla corona).
166 Promontorio dell’Eubea dove gli ateniesi riportarono una vittoria sulla flotta di Serse.
164
165
92
Charles Gildon, Vita di Thomas Betterton
attraverso il personaggio che fa parlare in modo da mostrare che non è lui
che parla ma la persona introdotta. Per esempio: se si dovesse presentare
così un vecchio venerabile, la forza della voce e il modo di parlare devono
essere gravi e severi e così corrispondere alla persona; allo stesso modo se
si presenta un giovane libertino e licenzioso, questi dovrà parlare in modo
dissoluto ed effeminato.
Quando si indirizza un discorso a qualcuno o a qualcosa come un’apostrofe,
bisognerebbe considerare lo scopo e le circostanze di colui cui ci si rivolge.
Se il discorso è diretto a qualcosa di inanimato, si deve alzare la voce al di
sopra del tono comune come se si parlasse a un sordo o a chi non ha un
udito perfetto, come «Oh! Sacra sete d’oro, quanto stringi i nostri petti
mortali, ecc. Voi, mura, voi letti! Voi guanciali che sapete dite ecc.».167 Così,
se ci si rivolge al cielo, lo si deve fare con una tensione e in un tono di voce
più elevato che non se si parlasse a degli uomini che sono allo stesso nostro
livello: «A te, o Giove, faccio il mio ultimo appello. Voi stelle, voi vaganti
pianeti della notte e tu luminoso sole, fonte e principe della luce, vi chiamo
tutti a testimoni del mio vero fuoco, ecc.».168
Quando si introducono due persone che dialogano tra di loro, con
domande e risposte, si deve certamente cambiare voce a ogni scambio come
se due uomini, o un uomo e una donna, stessero parlando insieme; ciò che
ho già menzionato due volte ne sarà un buon esempio.
In tutte queste conversazioni e nei dialoghi si deve sempre far attenzione a
pronunciare la risposta con un timbro differente dalla cadenza della
domanda o dell’obiezione precedente.
Quando l’oratore incalza da vicino il suo avversario e insiste sempre sullo
stesso argomento, pressandolo in tutti i modi, ripetutamente, finché costui
sembri vergognarsene e turbarsi a sentirselo ripetere, la voce deve essere
brusca, incalzante e ingiuriosa, laddove l’oratore sottolinea il punto
essenziale. Il mio autore me ne fornisce un buon esempio tratto da
Cicerone, nella causa in cui difendeva Ligario contro Tuberone che l’aveva
denunciato a Cesare con l’accusa di avere militato nell’esercito di Pompeo a
Farsalo. Scelgo questo esempio piuttosto che qualsiasi altro da un dramma,
perché questo discorso è famoso: Cesare abbandonò la causa e si dichiarò
vinto dall’eloquenza affermando che prima di aver sentito Cicerone non
avrebbe perdonato Ligario. — «Cosa ci facevi, Tuberone, nella battaglia di
Farsalo con la spada sguainata? Su quale petto la puntavi? Che senso, che
intenzione aveva la tua arma? Che ci facevi lì? Quali erano i tuoi pensieri, i
desideri, gli auspici, le aspettative? Che significavano quegli sguardi, quel
furore, la passione, la mano, l’arma? Ma lo sto incalzando troppo
167
168
Virgilio, Eneide 3.56 (Auri sacra fames).
N. Lee e J. Dryden, Oedipus (1679), ultimi versi del III atto.
93
AAR Anno VI, numero 11 – Maggio 2016
violentemente. Questo giovane si vergogna ed è turbato nelle sue opinioni.
Non dirò altro».169
Quando affermate di essere liberi di parlare senza paura, qualunque sia il
pericolo – un’affermazione che i retori chiamano parresìa – la voce deve
essere piena e alta, esaltata per la sicurezza del successo o audace, tale da
non essere scoraggiata dall’apprensione. Non posso omettere un esempio,
anch’esso dallo stesso autore, perché è eccellente e patetico: «Oh,
ammirevole clemenza! Degna di lode eterna, d’onore e di memoria!
Cicerone ha l’audacia di confessarsi davanti a Cesare colpevole di un
delitto di cui non può tollerare che un altro sia accusato ingiustamente, né
teme in alcun modo il risentimento del suo giudice per questo. Guardate,
signore, come sono impassibile nella certezza della vostra bontà, guardate
come la grande luce di generosità e di saggezza che emanano dal vostro
aspetto mi confortano in ciò che dico; se ci riesco, alzerò la voce al punto
che tutto il popolo di Roma senta quello che dico! La guerra era non solo
cominciata ma anche quasi finita, e io andai nel campo del vostro nemico
liberamente, volontariamente, per mia scelta, prima che il colpo finale la
terminasse a Farsalo».170
In una gradatio o climax la voce insieme alla frase deve salire di vari gradi in
tutto il periodo, come in «L’opulenza nasce in città e senza opulenza
necessariamente emerge l’avidità, dall’avidità scaturisce la sfrontatezza
audace, che deve generare tutti i tipi di malvagità e di iniquità».
Marte vide la ninfa, e vedendola la desiderò,
E, avendola desiderata, spense il suo amoroso fuoco.
L’occhio lasciò subito entrare il pericoloso veleno,
E attraverso l’occhio il cuore iniziò a peccare,
Finché il corpo intero completò il crimine, ecc.
La soppressione o aposiopesi è la cancellazione di ciò che potrebbe ancora
essere detto; in questo il parlante deve abbassare la voce di uno o due toni e
pronunciare le parole precedenti, che la introducono, con il più alto
accento, come Eolo in Virgilio:
Che io —
Ma prima è bene che io calmi le onde tempestose.171
Nella subjectio, dove si fanno diverse domande e si danno risposte per
ciascuna di esse, chi parla deve variare la voce dando alla domanda un
tono e alla risposta un altro, o facendo la domanda con la voce più alta e
Cicerone, Pro Quinto Ligario, 9.
Le Faucheur, trad. cit., pp. 140-141.
171 Virgilio, Eneide, I, 135.
169
170
94
Charles Gildon, Vita di Thomas Betterton
dando la risposta con una più bassa o viceversa, secondo il punto che vuole
enfatizzare.
Nella opposizione o antitesi, i contrari devono essere differenziati dando un
tono più alto all’uno piuttosto che all’altro, come in «La verità ci procura
nemici, l’adulazione amici. I romani odiano la ricchezza del singolo, ma
amano la magnificenza pubblica».172
Nella ripetizione o anadiplosi, che è una ripetizione della stessa parola, chi
parla deve dare un suono più forte e più alto alla parola quando è detta per
la prima volta che non quando viene ripetuta.
Voi muse armoniose, accordate il mio canto a Gallo,
A Gallo, il cui amore, ecc.
Eppure vive. Non solo vive, ma viene proprio dentro il Senato, ecc.173
C’è anche un’altra ripetizione, in cui la parola è detta più di una volta, o
all’inizio di diverse frasi, o nelle diverse parti della stessa frase, dove la
parola deve sempre essere pronunciata con lo stesso tono ma in modo
diverso dalle altre parti del discorso. «Non ti interessano per niente le
guardie di notte del palazzo? Per niente le ronde nella città? Per niente la
paura della gente? Per niente che gli uomini d’onore siano in accordo? Per
niente questo luogo fortificato delle riunioni del Senato, ecc.»174
«Lamenti la perdita di tre legioni romane, le ha distrutte Marco Antonio; ce
l’hai con la morte di tanti nobili cittadini, li ha fatti morire Marco Antonio;
l’autorità del Senato è violata, la viola Marco Antonio».175
Per quanto riguarda le frasi, alcune sono molto brevi e sarebbero rovinate
se non dette in un solo fiato; ce ne sono altre che sono un po’ più lunghe,
tuttavia non tanto da non poterle dire facilmente in un solo respiro se vi
riesce, perché un periodo pronunciato così ha un suono più rotondo e più
piacevole e ha più bellezza e forza che non se venisse detto prendendo fiato
più volte. Per farlo, si deve tentare con l’esercizio di raggiungere una
capacità di respiro lungo, come fece Demostene seguendo le istruzioni
dell’attore Neottolemo.176 Ma quando il periodo è lungo, bisogna prendere
fiato alle diverse sezioni, cioè dopo due punti, o un punto e virgola, o
almeno dopo una virgola, perché farlo in un altro modo o più spesso
sarebbe estremamente sgradevole. Niente è più intollerabile o ridicolo
dell’interrompersi in mezzo a una parola o a un’espressione. È giusto fare
Cicerone, Pro Murena, 76.
Virgilio, Bucoliche, egloga 10, 72-73; Cicerone, Catilinarie 1, 2.
174 Cicerone, Catilinarie, I, 1.
175 Cicerone, Filippiche, II, 55.
176 L’aneddoto secondo cui Demostene si sarebbe affidato all’attore Neottolemo per
migliorare la sua respirazione si deve a Pseudo-Plutarco, Vite dei dieci oratori.
172
173
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AAR Anno VI, numero 11 – Maggio 2016
una pausa alla fine di ogni periodo, ma deve essere breve per quelli brevi e
più lunga per quelli che hanno una maggiore estensione.
Quando c’è un periodo che richiede grande enfasi e altezza della voce,
bisogna controllarla con molta moderazione in quelli che vengono prima;
altrimenti, impiegando su quelli tutta la forza si è poi obbligati a dire in
modo più debole quello che è più importante e che richiede più vigore e
veemenza. Questa è una finezza sempre osservata dai due famosi attori
romani, Roscio e Esopo. Nel recitare questi versi,
La generosa scelta e lo scudo del nobile guerriero
È l’onore, non la razzia del campo di battaglia,
Roscio non li diceva con tutta l’energia di azione e di eloquio come ora
alcuni farebbero, ma semplicemente e con moderazione, in modo da potersi
poi sforzare nella seguente esclamazione, che naturalmente richiedeva più
forza ed emozione di ammirazione e stupore:
Che vedo! Tutto armato, tutto armato arriva!
Fin dentro i tuoi sacri templi! Ecc.
E anche Esopo non diceva con il massimo dell’energia nella voce — «Dove
troverò sollievo, e dove fuggirò?»,177 bensì in modo più dolce e debole, e
senza azioni smodate, riservando tutta la forza per l’esclamazione seguente
— «Oh, padre mio! O, paese mio! Oh, casa di Priamo!»178 — che la sua voce
non avrebbe potuto realizzare senza quell’attenzione. Così i pittori
rappresentano alcune parti di un dipinto con ombre e prospettive, per
evidenziare il resto con una maggiore luce.
Pur avendo detto qualcosa delle frasi e dei diversi generi, devo comunque
aggiungere uno o due accenni anche alle parole.179 — Per queste si deve
considerare la normale dizione secondo l’uso e la conversazione di chi
parla bene, evitando l’accento sbagliato e la pronuncia dei vari dialetti dei
diversi paesi, sia nella quantità di sillabe che nel suono delle vocali, lunghe
o brevi, aperte o chiuse; e si devono evitare questi difetti non solo nelle
persone di campagna ma anche in quelle di città e persino della corte, dove
l’affettazione spesso rovina la dizione giusta e genuina. Poi si deve
ricordare di pronunciare le parole enfatiche con intensità, forza e
distinzione, come «certamente, sicuramente, infallibilmente, senza dubbio,
necessariamente, assolutamente, espressamente, manifestamente» che
necessitano di una dizione molto forte e positiva. Le parole di lode e di
esaltazione, come «ammirevole, incredibile, incomparabile, ineffabile,
Dalla Medea Exul di Ennio.
Dall’Andromaca Aechmalotis di Ennio.
179 Le Faucheur, trad. cit., pp. 163-168.
177
178
96
Charles Gildon, Vita di Thomas Betterton
inestimabile, glorioso, brillante, pomposo, trionfante, illustre, eroico,
augusto, maestoso, adorabile», che sono termini di onore, devono essere
pronunciate in un tono eccezionale. Oppure parole che esprimono il nostro
biasimo o la nostra avversione, come «crudele, odioso, malvagio,
detestabile, abominevole, esecrabile, mostruoso» e simili, devono tutte
essere dette con una voce appassionata e alta. Le parole che lamentano e si
dolgono, come «sfortunato, misero, fatale, afflitto, pietoso, deplorevole,
patetico, doloroso», richiedono un tono e un accento melanconico. Ci deve
essere un tono più che normale sulle parole che esprimono quantità, come
«grande, alto, sublime, profondo, lungo, largo, innumerevole, eterno» così
come sulle parole di universalità, come «tutto il mondo, generalmente,
ovunque, sempre, mai». Qui la dizione deve essere grave e più intensa. Per
quanto riguarda i termini di riduzione, o di disprezzo e di disdegno, come
«pietoso, insignificante, piccolo, basso, meschino, indegno, debole», ecc.,
essi devono essere pronunciati con una voce molto bassa, sminuente,
povera, e un tono di grande disprezzo e sdegno.
Parlare in tutti questi casi in modo diverso da quello che ho indicato qui
sarebbe ridicolo mentre parlare in questo modo farà raggiungere quella
variazione della voce che è tanto necessaria per rifinire un perfetto oratore.
Infine, ricordate di pronunciare tutte le parole con una voce udibile,
specialmente quelle che concludono un periodo; di questo si dovrà tenere
particolarmente conto quando il periodo finisce con sillabe che hanno di
per sé un suono debole e sordo.
[23. Cultura e aspetto fisico dell’attore. Il danzatore folle di Luciano]
Così ho passato in rassegna tutta l’arte della recitazione e della dizione o,
come dice Shakespeare, dell’azione e della parola, in cui ho dato la giusta
attenzione al pulpito e al tribunale, e anche al teatro, e per farlo ho scelto di
offrire esempi più spesso dall’oratoria che non dal dramma, poiché l’attore
può imparare la lezione da quella quanto da questo. In breve, ho fornito
regole tali che, se considerate attentamente e messe saggiamente in pratica,
daranno al gesto quella grazia che colpirà l’occhio con meraviglia e piacere,
e insegnerà alla lingua a pronunciare con eleganza e armonia, così che
l’orecchio sarà ugualmente incantato, ed entrambi porteranno un diletto
così grande alla mente da ottenere un successo molto più splendido sul
pulpito e sulla scena di quanto se ne trovi ora nell’attività di entrambi.
Confesso di non sapere se l’oratoria sia totalmente utile nelle cause in
tribunale, dove generalmente prevalgono le prove, le testimonianze e i
metodi della legge o dove dovrebbero vincere la giustizia e l’equità. Inoltre
gli argomenti che vengono sottoposti alla corte sono in sé bassi e meschini e
non forniscono niente di grande e impressionante, come invece fanno, o
dovrebbero fare, sia il pulpito che il palcoscenico.
97
AAR Anno VI, numero 11 – Maggio 2016
Ho fornito una raccolta dei significati naturali dei diversi gesti, e ho
mostrato come la natura si esprima nelle differenti emozioni che prova; ho
mostrato come l’arte migliori questi gesti, in quali occasioni essi siano
appropriati e come renderli aggraziati; ho anche mostrato come si debba
modellare la voce per rendere armonioso l’eloquio, ho mostrato i difetti
dell’emissione e del timbro della voce, e le sue bellezze e varietà, e ho steso
le regole di come si debba evitare il vizio intollerabile della monotonia, cioè
di fare sempre lo stesso suono in ogni occasione, senza variazione o con
una variazione minima. In questo modo ho passato in rassegna le passioni,
le figure della dizione, delle frasi, e persino delle parole, ognuna delle quali
permette alla voce di variare all’infinito se il discepolo si preoccuperà di
capirle e di metterle in pratica.
Concluderò quindi con le qualità e i requisiti di un perfetto attore che, per
quanto sembrino difficili da raggiungere, sono però necessarie, come è
stato dimostrato a sufficienza da quello che ho detto.
Un attore perfetto dovrebbe capire la storia, la filosofia morale e la retorica,
non solo per quanto riguarda le maniere e le passioni, ma anche in ogni
altra parte, almeno laddove si insegnino le regole dell’eloquenza. Non
dovrebbe essere ignaro di pittura e scultura, e dovrebbe imitarne l’eleganza
in modo così sopraffino da non essere inferiore a Raffaello, a Michelangelo,
ecc. Ma la qualità più necessaria che ogni attore dovrebbe coltivare, libera e
sempre a sua disposizione, e la lode che dovrebbe tentare di ottenere –
quella che Tucidide fece a Pericle – è sapere che cosa sia adatto e saperlo
esprimere. Deve sapere come attribuire la giusta finezza a ogni personaggio
che rappresenta, quella di un principe a un principe, quella di un mercante
a un mercante, e così via per tutti gli altri; perché, parlando in senso
generale, qualunque sia la parte, la figura, l’aspetto, l’azione, lo sguardo,
sono gli stessi, cioè quelli dell’attore, non della persona rappresentata.
Inoltre dovrebbe avere uno spirito acuto e una chiara intelligenza; ed essere
anche un buon critico nell’arte della scena, intendo dire nell’interpretazione
poetica, in modo da poter scegliere il bene e rifiutare il male.
Oltre a questi requisiti intellettuali, anche il suo corpo dovrebbe averne
diversi, che oggi non sono molto comuni. Non dovrebbe essere troppo alto
né troppo basso e minuscolo, ma di taglia media, né troppo grasso come un
colosso né troppo magro come uno scheletro. Questo è un aspetto poco
stimato dagli impresari o dal pubblico, ma io credo che fosse importante
nelle più raffinate nazioni antiche, come possono indicare quegli esempi, di
cui parla Luciano, di persone che non erano osservatori distratti. «I cittadini
di Antiochia (dice) sono molto estrosi e fanatici del teatro e talmente attenti
da rimarcare ciò che viene detto e fatto e da non perdersi neanche un
passaggio. Vedendo perciò una volta un tipo piccolo e basso entrare in
scena e recitare Ettore, gridarono a una voce: ‘Questo è Astianatte, ma
Ettore dov’è?’. Un’altra volta un tizio grande e grosso recitava Capaneo e
98
Charles Gildon, Vita di Thomas Betterton
cercava di scalare le mura di Tebe, e quelli gli dissero che poteva salire sulle
mura senza scala; e un’altra volta ancora un danzatore corpulento cercava
di saltare in alto e loro gridarono: ‘Bisogna rinforzare il palcoscenico’,
ecc.».180
Un attore perciò dovrebbe avere un corpo vivace, duttile e solido, che può
essere migliorato imparando a danzare, tirare di scherma e fare ginnastica:
con queste qualità e questi requisiti e con una completa conoscenza di ciò
che ho scritto, può a ragione essere considerato perfetto.
Ma prima di chiudere questo discorso, darò uno o due esempi di
affettazione e di esagerazione nel recitare, tratti da Luciano. Egli dice: «Una
volta ho visto un danzatore (o attore, perché per lui sono la stessa cosa) che,
sebbene prima avesse una buona reputazione per la sua bravura, non so
per quale disgrazia si screditò per aver esagerato nell’azione. — Perché,
dovendo rappresentare Aiace impazzito dopo essere stato vinto da Ulisse,
non recitava la follia ma divenne lui stesso folle. Lacerò le vesti di uno di
quelli che ballavano con le scarpe di ferro e strappando di mano un flauto a
uno dei musicisti, colpì Ulisse, che stava lì vicino e esultava per la sua
vittoria, con una tale botta sulla testa che, se non l’avesse salvato l’elmetto
attutendo la violenza del colpo, sarebbe morto e caduto stecchito ai suoi
piedi. Tutti gli spettatori nel teatro, pazzi come Aiace, battevano i piedi,
gridavano e agitavano le vesti; la folla e gli ignoranti, che non conoscevano
il decoro e non erano in grado di distinguere la finzione dalla verità, la
presero come una grande espressione di furia, e quelli più colti e più
intelligenti, pur vergognandosi di ciò che era stato fatto, non mostrarono di
non gradire, almeno con il silenzio, ma sottolinearono invece la follia
dell’attore con i loro applausi, sebbene vedessero non la pazzia di Aiace ma
quella di chi lo rappresentava. Così, non ancora contento, quel gentiluomo
ne fece un’altra ancora più ridicola: scendendo in platea si sedette tra due
senatori, impauritissimi all’idea che questo attore folle non prendesse uno
di loro per una pecora. Alcuni lodarono questo episodio, altri ne risero, altri
sospettarono che questa esagerazione lo avesse fatto diventare pazzo
davvero. Altri raccontano che dopo che fu tornato in sé si vergognò così
tanto di quello che aveva fatto che, avendo saputo cosa era successo, si
sentì male per il dolore e lo mostrò chiaramente. Quando i suoi amici
vollero che recitasse di nuovo Aiace per loro, disse: ‘Quando tornerò sul
palcoscenico; nel frattempo, mi basta di avere recitato una volta il pazzo’. Il
suo principale scontento derivò dal fatto che un rivale o sostituto
rappresentò Aiace pazzo con tale dignità e discrezione da ottenere grande
plauso».181
180
181
Luciano, Sulla danza, 76.
Ivi, 83-84.
99
AAR Anno VI, numero 11 – Maggio 2016
[24. Sulla danza]
Anche se temo di avervi stancato con tutte queste regole e osservazioni che
si riferiscono direttamente agli attori, non posso però concludere senza dire
qualcosa della danza e della musica a teatro, che Aristotele stesso riconosce
essere una parte o un’appendice della scena. In quest’ultima sezione sulla
musica vorrei dire qualcosa delle opere che di recente sono state pericolose
rivali dei drammi, sebbene anch’essi siano pieni di coincidenze assurde,
ancora più di quante ne contenga l’opera se considerata in sé, dove sono
talmente tante e così visibili da escluderla dal novero dei divertimenti
razionali.
So benissimo che ciò che sto per dire potrà sembrare una condanna di
quello che ho fatto io stesso quando ho avuto la direzione del teatro,182
riguardo alla buona danza. Considerando però che fui obbligato, per
autodifesa, a prendere quelle misure, spero che quello che dico qui non sia
visto come deviazione dai miei principi o, se lo fosse, che mi si permetta di
cambiare idea su cose di questa natura, quando vediamo che grandi
ecclesiastici lo fanno tutti i giorni in faccende di ben maggiore rilievo.
So che in questo vado contro corrente, almeno rispetto a coloro che
costituiscono il pubblico, ma penso che sono vecchio e ho attribuito un tale
valore al dramma, dopo una così lunga frequentazione, che vorrei lasciare
in eredità ai miei successori un palcoscenico libero da quei pesi intollerabili
sotto i quali in questo momento soffre per il gusto depravato del pubblico
che, se è salito in dignità, è però sceso (temo) in purezza e in giudizio.
All’incirca cent’anni fa c’erano cinque o sei teatri in questa città, sebbene a
quel tempo fosse molto meno estesa e popolata, ed erano tutti frequentati e
pieni; gli attori avevano una posizione, anche se il teatro era allora agli
esordi, rozzo e incolto, senza arte nel poeta o nelle decorazioni, ed era
sostenuto dalla gente più bassa, eppure questa gente più bassa scoprì una
semplicità e un buon gusto naturali, quando si divertiva e si ricreava con
un dramma così spoglio e senza influenze dall’estero.
Ma ai nostri tempi (perdonate una verità così esplicita) le persone
importanti, che a ragione ci si poteva aspettare fossero i guardiani e i
sostenitori del divertimento più nobile e più razionale che il genio umano
possa inventare, quello che al tempo stesso istruisce e entusiasma l’animo,
sono invece state le prime, anzi, potrei dire le sole persone che hanno
cospirato per rovinarlo, finanziando con liberalità italiani che squittiscono e
messieurs che fanno capriole; e per distinguere in modo ancora più infame i
loro divertimenti poveri e meschini da quelli più nobili del pubblico, non
vogliono avere niente a che fare con nessun dramma, ché non si pensi che
hanno mostrato rispetto per la poesia, lo spirito e il buon senso, o che la
Betterton fu impresario prima della Duke’s Company, alla morte di Davenant, poi della
United Company. Per risollevare le sorti del teatro cedette all’uso di macchinari e alla
creazione di spettacoli elaborati nei quali introdusse cantanti e ballerini.
182
100
Charles Gildon, Vita di Thomas Betterton
soddisfazione e il piacere siano arrivati più in là degli occhi e degli orecchi.
Ma ciò che è ancora peggiore è che il loro gusto si è così deteriorato che a
loro piace ciò che scandalizzerebbe un orecchio fine e che non potrebbe
divertire un occhio attento. Prima di tutto i migliori tra i ballerini francesi
sono senza varietà; i loro passi, le loro posture, i loro salti sono
ininterrottamente gli stessi movimenti senza senso; un danzatore francese
al massimo non è che uno che si muove in modo grazioso, pieno di vivacità
insensata, indegna di essere guardata da un uomo di buon senso che non
può trovare un valido piacere laddove la mente non partecipi in modo
significativo.
Se i nostri danzatori moderni fossero come i mimi o i pantomimi dei
romani (anche se costoro furono sempre più valorizzati nella decadenza di
quell’impero) la nostra infatuazione per loro potrebbe essere ritenuta più
scusabile; uno di loro, come ho mostrato da Luciano, con la varietà dei suoi
movimenti e delle sue gesticolazioni, poteva rappresentare un’intera storia
con tutte le differenti persone coinvolte in modo così chiaro e evidente che
chiunque lo vedesse capiva perfettamente cosa voleva dire. In questo
almeno si può immaginare che ci fosse qualcosa che colpiva la mente e la
divertiva razionalmente, poiché ogni azione dipendeva dall’altra e tutte
erano rivolte a un unico fine. Ma appassionarsi alla danza moderna
significa essere ancora bambini, e amare un sonaglio che fa sempre lo stesso
rumore. Tutto ciò che si può dire di Balon183 (o di qualunque altro ballerino
di maggiore fama) è che il suo movimento era sciolto e elegante, le figure
che faceva con il suo corpo erano belle e che saltava con libertà e forza: in
breve, che era un uomo energico. Ma questo, o persino i pantomimi
romani, potrebbero compensare la perdita del dramma per qualunque
uomo di buon senso?
Prima della corruzione dello stato romano, persino in Grecia, la danza era
stimata e sempre eseguita nei drammi, tragedie o commedie, poiché
c’erano danze appropriate e peculiari a ciascun genere, e non da usare in
modo promiscuo in entrambi; persino l’arte della pantomima era davvero
perfetta e il ballerino Telesis184 era un artista così grande che quando danzò
i sette capitani che assediavano Tebe mostrò agli occhi degli spettatori con
il suo gesticolare e muoversi tutto quello che essi avevano fatto all’assedio.
La danza era in tale considerazione che Socrate, biasimato per il fatto di
frequentare troppo le rappresentazioni egizie di quel genere, rispose che la
danza conteneva tutti gli esercizi musicali e che i poeti antichi, Tespi,
Cratino, Frinico, ecc. erano detti danzatori, non solo perché aggiungevano
Jean Balon o Ballon (1676-1710 o 1712), ballerino francese famoso per l’agilità nel saltare.
È però probabile che Betterton faccia riferimento al ballerino Claude Balon (1671-1744)
spesso confuso con l’altro.
184 Telesis o Teleste di Selinunte, poeta ditirambico vissuto tra il V e il IV secolo a. C.; Ateneo
di Naucrati in I Deipnosofisti, o Sofisti a banchetto, riprendendo l’aneddoto da Aristocle, scrive
che era anche un abile ballerino.
183
101
AAR Anno VI, numero 11 – Maggio 2016
le danze alle loro favole o ai loro drammi ma anche perché insegnavano a
danzare. È certo che l’arte della danza era così stimata in Grecia che
Pindaro chiama Apollo stesso il danzatore. Ma bisogna però ricordare che
tutte queste danze contenevano non solo uno straordinario esercizio per il
corpo, ma anche l’istruzione della mente, entrambi rappresentati dalle
figure nell’arte della guerra che era insegnata dalla pirrica e dalle altre
danze.
Per questa ragione, credo, il poeta faceva danzare i bambini (tranne nelle
rappresentazioni più vigorose di danze di guerra) e le figure delle danze
esprimevano sempre quello che veniva cantato con la voce, conservando
qualcosa di maschio e di grande, ed erano dette Hyporchemata,185 cioè a dire
danze legate alla voce; perciò disapprovavano sempre quelle le cui figure e
i cui passi non corrispondevano alla voce. È altrettanto chiaro in Luciano
che i mimi e i pantomimi della sua epoca esprimevano in figure quello che
cantavano, il ratto di Proserpina, gli amori di Marte e Venere o qualunque
altra favola poetica, perché nell’enumerare i difetti dei danzatori dice:
«Molti, per ignoranza (perché è impossibile che tutti siano colti)
commettono gravi scorrettezze nel danzare, come quelli che si muovono in
modo irregolare e non a tempo, quando il piede dice una cosa e lo
strumento un’altra; altri vanno a tempo con la musica ma la loro
esposizione (come ho spesso visto) non è commisurata all’epoca giusta.
Così c’è uno che volendo rappresentare la nascita di Giove e Saturno che
divora i suoi figli, danza le sofferenze di Tieste, a causa dell’affinità tra le
due storie. Un altro che deve recitare Semele colpito dal fulmine le accosta
Glauco, nato molto tempo dopo, senza troppa attenzione al testo che viene
cantato».186
Chiamerò in aiuto su questo tema un manoscritto che mi ha lasciato di
recente un amico che conosce queste cose meglio di quanto io possa
pretendere di fare nonostante i miei aiuti moderni.
Queste danze, dice un certo autore, imitavano ciò che le parole del canto
esprimevano. Senofonte ne descrive una nella sua Anabasi, e dice come fu
rappresentata davanti a loro a una festa con Seute il tracio:
Dopo che avevamo fatto le nostre libagioni agli dei e cantato il Peana (cioè, nella
nostra lingua, dopo che avevamo reso grazie) prima si alzarono alcuni traci e
danzarono armati al suono del flauto, saltando agili e in alto, facendo ondeggiare e
mulinare le spade, fino a che due di loro menarono colpi l’un l’altro al suono della
musica e quando uno di loro cadde per finta tutti immaginarono che fosse ferito e
gridarono forte. Subito quello che sembrava averlo ferito gli tolse le armi mentre era
a terra e, cantando le lodi di Sitalce, uscì. Il resto dei traci raccolsero quello creduto
morto (che in realtà non si era fatto niente) e lo portarono via. Dopo entrarono i
Magneti e gli Eniani e danzarono armati la cosiddetta semlutes (carpaia) che è così.
Hyporchema era una vivace danza mimica legata ai canti dedicati a Apollo. Con lo stesso
nome veniva designato anche il poema o il canto che accompagnava il ballo.
186 Luciano, Sulla danza, 80.
185
102
Charles Gildon, Vita di Thomas Betterton
Un aratore con le armi al fianco conduce i buoi e ara e semina il grano voltandosi
ogni minuto indietro, come se avesse paura o temesse un qualche pericolo. Ecco si
avvicina un brigante e il contadino mette mano alle armi e lo combatte (mettendosi
tra lui e l’aratro) adattando ogni movenza del corpo alle note del flauto, ma alla fine
il brigante vince il contadino, lo lega e lo conduce via. Altre volte è il contadino a
vincere il brigante.187
Gli antichi avevano in realtà molti tipi di danza che alcuni riducono a tre.188
La prima era detta cubistica e Senofonte e Suida dicono che era l’arte di
danzare sulla testa, mentre si facevano movimenti e gesti con le mani e le
gambe. La seconda era detta sferica, o gioco con la palla, perché ballavano
giocando con una palla mentre tenevano il ritmo della musica. Il terzo
genere era chiamato semplicemente orchestica o danza. Platone nel suo libro
delle leggi divide la danza in militare, pacifica o adatta alla pace, e un
genere a metà tra i due. Quella che chiama militare imitava, saltando in alto
o ricadendo indietro, o inclinandosi da una parte, gli assalti contro i nemici,
i loro attacchi, le fughe e le difese, e con varie figure somigliava al
movimento di chi lancia frecce o di chi combatte con armi da vicino;
Platone era così appassionato di questo tipo di danza che ordinava che
nella sua repubblica ci fossero persone pagate con denaro pubblico per
insegnarla a uomini e donne, pensando che solo da questa sarebbe derivato
gran giovamento alla perfezione della disciplina militare. A conferma di ciò
sappiamo che i lacedemoni studiavano la danza tra gli esercizi utili alla
guerra.
Questo discorso si allargherebbe troppo se prendessimo tutto quello che
autori ancora vivi potrebbero dirci sui tanti aspetti di queste due divisioni
della danza, cioè quelle di Omero e di Platone; perciò mi atterrò solo
all’ultima, cioè alla orchestica o semplice danza, rimandando di parlare
della cubistica e della sferica a una prossima occasione.
Aristotele, all’inizio della sua Poetica, avendo detto che tutti i generi di
poesia coincidono in quanto imitazioni, li divide in diversi tipi secondo i
modi dell’imitazione, come l’armonia, il ritmo, ecc., oppure secondo i gradi,
come migliore, uguale o peggiore, o ancora in diverse modalità o forme o
maniere, come azione, introduzione, narrazione, o a seconda che si reciti
con le maschere o no e, continuando, dice dei danzatori che imitano solo
attraverso il ritmo senza l’armonia, poiché imitano i modi, le passioni e le
azioni attraverso la varietà dei gesti. Da qui risulta che la danza non è altro
che una certa facoltà di imitare maniere, azioni e passioni umane con il
movimento e i gesti del corpo, fatti con un certo artificio, ritmo e ragione.
187 Anabasi, libro VI, 5-8. La carpaia (che Gildon chiama semlutes) qui descritta era una
danza mimica maschile in uso nel V secolo a. C.
188 Da qui (fino al punto indicato più avanti nella nota 192) il testo è la traduzione dell’opera
di Girolamo Mercuriale, De arte gymnastica, libro II, cap. III (De saltatoria) e VI (De
Orchestica, sive tertia saltatoriae parte).
103
AAR Anno VI, numero 11 – Maggio 2016
Poiché quando ci dice nel settimo libro della Politica che non c’è niente in
natura che esprima meglio la somiglianza delle cose del ritmo e del canto,
poi aggiunge giustamente che i danzatori nell’imitare l’azione fanno uso
del ritmo. Plutarco, nel suo quindicesimo problema189 indica, più
chiaramente di tutti coloro che hanno scritto dopo Aristotele, come questa
imitazione possa essere ottenuta con numerosi movimenti, e ci dice che la
danza ha tre parti: il portamento, la figura e l’espressione. Tutta la danza
infatti consiste di movimenti, atteggiamenti o stati del corpo, e di pause,
come l’abbinamento di suoni e di intervalli o cesure; secondo lui il
portamento o spostamento del corpo era soltanto il movimento che
rappresentava passioni o azioni, ma la figura era l’atteggiamento o stato del
corpo e la disposizione in cui il movimento o il portamento si concludevano,
poiché i danzatori si fermavano accanto all’immagine di Apollo, Pan o
Bacco, cercando di somigliarvi con il proprio corpo, e restando in quella
posizione per un po’, con grazia. L’espressione però non era propriamente
un’imitazione, bensì la descrizione di qualcosa che apparteneva alla terra o
al cielo, oppure che si riferiva a uno dei due, espressa da movimenti
armonici e regolari. Come i poeti, che quando imitano talvolta fanno uso di
parole fittizie o metaforiche, ma quando informano o istruiscono usano
solo quelle appropriate, così i danzatori quando imitano fanno uso di figure
o atteggiamenti o stati del corpo, ma quando dichiarano o informano,
usano le cose stesse con le suddette descrizioni. L’arte o facoltà della danza
quindi, secondo Platone, Aristotele e Plutarco, consiste in imitazione, fatta
solo con il movimento, e i danzatori stessi non fanno altro che imitare i
modi e gli affetti, muovendosi ritmicamente e usando i gesti con ordine,
attraverso portamenti o spostamenti, o figure; oppure descrivono con
espressioni o informazioni; oppure ancora rappresentano a tutti allo stesso
tempo modi, passioni e azioni umane. Per questo Simonide, molto
giustamente, definiva la danza una poesia silenziosa e la poesia una danza
parlante.190
Ma Plutarco, persino ai suoi tempi, lamentava che la vera danza fosse
molto corrotta per via della musica alla quale era associata e che fosse
caduta da quello stato di arte celestiale che aveva prima fino a dominare in
modo assoluto e tirannico in teatri rumorosi e ignoranti. Non c’è uomo
colto che non si accorga di quanto più ancora si sia corrotta da quell’epoca
ai giorni nostri.
Non si sa molto su chi per primo insegnò agli uomini questo tipo di danza
a meno che non si voglia credere a ciò che dice Teofrasto secondo Ateneo,
Plutarco, Questioni conviviali, IX, 15.
Simonide in realtà parlava di pittura e non di danza: «la pittura è una poesia muta e la
poesia è una pittura parlante»; il suo detto è riportato e commentato da Plutarco, Sulla gloria
degli ateniesi, 3, 346f-347c. In seguito ha costituito il topos oraziano dell’ut pictura poesis,
ripreso da scrittori e retori.
189
190
104
Charles Gildon, Vita di Thomas Betterton
cioè che Androne,191 suonatore di tibia di Catania, aveva per primo
aggiunto alla sua musica dei movimenti appropriati e eleganti; per questo
gli antichi chiamavano il danzare sicilissare dato che Catania è una città
della Sicilia. Dopo di lui Cleofanto di Tebe e Eschilo inventarono molte
figure di danza che furono chiamate con un nome siciliano balliomous, come
riferisce Ateneo seguendo l’autorità di Epicarmo, e da questo nome
Gerolamo Mercuriale fa derivare il termine italiano di «balli», e sembra
venga da questo anche l’inglese «balls».
Le danze erano eseguite al suono di strumenti a fiato o del liuto o di altra
musica strumentale o vocale. Ma Omero, Platone, Senofonte, Aristotele,
Strabone, Plutarco, Gallia, Polluce e Luciano raccontano di un numero
infinito di tipi diversi di danze. Quelle più pregiate prendevano il nome dal
paese in cui erano state inventate o dove erano molto richieste, oppure
dall’inventore o dal modo dell’esecuzione. Quelle che prendevano il nome
dal paese erano la laconica, la trezenica, la epirefiria, la cretese, la ionica, la
mantinese, ecc. Tra quelle il cui nome veniva dall’inventore e dal modo di
esecuzione c’era la pirrica, da un certo lacedemone chiamato Pirro o,
secondo altri, da Pirro figlio di Achille; in questa danza si ballava armati,
accompagnati o meno da un canto, come troviamo in un antico
bassorilievo.
Queste danze pirriche erano divise in molti generi o avevano nomi diversi:
tra i cretesi le orfidie e le epichidie, tra gli emanensi e i magneti le carpee,
che Senofonte menziona nel libro quinto della sua Anabasi. Ce n’erano altre
dette apocini o matrismi, danzate da donne e per questo motivo chiamate
martirie. Altre erano molto diverse e più solenni, come le dattile,
giambiche, emmelie, molossiche, cordace, sicine, persiane, frigie, tracie e
telesie; quest’ultime derivavano il loro nome da un certo Telesio che per
primo aveva danzato in armi, e danzando così Tolomeo uccise Alessandro,
fratello di Filippo. Altre danze erano chiamate tornatili o volteggianti,
perché i danzatori giravano in tondo.
Ce n’erano altre dette danza folle o cernoforo, monga, termaustri, o
l’antema popolare e plebea in cui i danzatori si muovevano dicendosi
mentre danzavano: «dove sono le mie rose? Dove sono le mie violette?
Dove sono i miei gigli? Dove sono i miei begli sciami di api?». Alcune erano
ridicole, come i sodis matrismos, l’apodima, soba, morfasmo, glauco e il
leone. C’erano inoltre le danze sceniche, come quella tragica, la comica, la
satirica e la lirica, come la porrichia, la gimnopedica e la iporchematica, ma
il modo di danzarle non è l’oggetto del presente discorso; sia sufficiente
sapere che in questa terza parte sulla danza ci sono non solo questi generi
che abbiamo citato, ma molti altri cui Luciano dedicò un intero libro, e che
anche questi facevano uso di molti movimenti diversi delle mani e dei
piedi. Dal momento che, secondo Aristotele, il movimento è fatto di
191
Androne, danzatore e musico del V secolo a. C., di cui parla Ateneo ne I Deipnosofisti.
105
AAR Anno VI, numero 11 – Maggio 2016
spingere e ritrarre, i danzatori o mandano in avanti il corpo o lo tirano
indietro, in su o in giù, da destra a sinistra e viceversa, e da questi semplici
movimenti derivarono in seguito il camminare, il girarsi, il correre e lo
scattare avanti, balzare o saltare in alto, la divaricazione o lo stendere le
gambe, zoppicare o fermarsi, inginocchiarsi o piegare le ginocchia,
inchinarsi, elevarsi o avere una postura altezzosa, dimenare i piedi,
cambiare posto o alterare il movimento, ecc.: da tutto questo fu
perfezionata l’arte della danza.192
Questo non è che un abbozzo imperfetto dell’eccellenza della danza degli
antichi ed è preso da quei frammenti che le ferite del tempo ci hanno
lasciato. Eppure è chiaro che queste danze erano tutte tese a esprimere o a
imitare qualcosa, il che era un vantaggio che poche o nessuna delle danze
moderne hanno (specialmente quelle francesi).
Tutti coloro che considerano con cura i vari tipi di danza in uso tra gli
antichi trovano che esse non mancavano di ordine per quanto riguarda il
tempo, la ragione, la proporzione e l’armonia musicale e perciò potrebbero
considerarle simili alle danze di oggi, che uomini e donne fanno per
incoraggiare la lussuria, ma non c’è nessuno che non veda la differenza tra
le loro e le nostre, cioè che quelle erano fatte spesso come esercizi, che
favorivano la salute, le nostre dopo cena, alle feste e di notte. Le loro erano
sempre dirette a esprimere qualche passione o azione o una storia di dei e
di uomini, le nostre soltanto a saltellare qua e là per mostrare un’attività
inutile. Eppure quanto più rispetto è stato tributato a L’Abbé, a Balon, alla
Subligny193 e agli altri che non a Otway, Shakespeare o Jonson? E mentre i
nostri poeti cadevano nell’oblio, i ballerini francesi sono diventati ricchi
grazie all’influenza di coloro che con lo stesso prezzo avrebbero potuto far
diventare i loro nomi e i loro paesi famosi per l’incoraggiamento delle arti e
delle scienze più raffinate, che ora invece sono abbandonate in un grado di
barbarie più grande di quello di molte nazioni nordiche.
[25. Il canto e l’opera lirica. Gli italiani, i francesi, gli inglesi]
Devo riconoscere che nel sostenere i cantanti italiani, i nostri grandi uomini
sembrano giustificarsi con la debolezza che mostrano verso la musica;
anche se un uomo sensato come il signor St. Evremond dà chiaramente la
palma del canto alla sua nazione:
Qui si conclude il brano tratto dal Mercuriale.
Si tratta di famosi danzatori francesi: Anthony L’Abbé (1666/1667- morto dopo il 1738)
danzatore e coreografo, già famoso a Parigi quando Betterton lo ingaggiò al teatro di
Lincoln’s Inn Fields nel 1698, decretandone il successo in Inghilterra; Claude Balon (16711744), maestro di ballo del re Louis XV, che si era esibito a Londra presentando al re
Guglielmo III la nuova «danza accademica»; Marie-Thérèse de Subligny (1666-1736) che
Betterton fece esibire a Londra nel 1701-1702. Tutti e tre quindi erano conosciuti al pubblico
inglese.
192
193
106
Charles Gildon, Vita di Thomas Betterton
«Solus gallus cantat» – dice – «solo i francesi cantano». Non voglio offendere le altre
nazioni sostenendo quello che un autore ha pubblicato, che lo spagnolo piange,
l’italiano si lamenta, il tedesco grida, il fiammingo ulula e solo il francese canta.
Lascio a lui tutte queste belle differenze e sosterrò la mia opinione solo con l’autorità
di Luigi, che non sopportava di sentire un italiano cantare delle arie dopo che aveva
udito cantare Nyert, Hilaire e la piccola Varenne. Tornando in Italia si fece nemici
tutti i musicisti di quella nazione dicendo apertamente a Roma come aveva fatto a
Parigi che per fare della musica piacevole le arie italiane dovevano essere messe in
bocca a un francese. — Di certo era disgustato dalla durezza e dalla rozzezza dei più
grandi maestri italiani, da quando aveva provato la dolcezza, la chiarezza e il modo
dei francesi. — Gli italiani con tutta la loro profondità avvicinano la loro arte ai nostri
orecchi senza alcuna dolcezza, ecc.194
Se quest’uomo di riconosciuto buon gusto abbia ragione o no lo lascio
decidere ai giudici di tale arte, ma sono sicuro che anche se avesse provato
di essere solo un insignificante critico di musica, si è invece dimostrato
buon patriota, nel preferire i suoi conterranei a una compagnia di stranieri
girovaghi che secondo il mio modesto parere non hanno altro vantaggio su
di noi se non quello di venire da lontano chiedendo un bel po’ di soldi e la
magia di essere stranieri, quando quasi nessuna nazione ci ha dato per
tutto il nostro denaro cantanti migliori di Mrs. Tofts e di Mr. Leveridge195 i
quali, per il fatto di essere cresciuti qui, hanno solo il secondo o terzo posto
tra voci peggiori delle loro.
Ma anche se questi stranieri fossero eccellenti come loro stessi vorrebbero
essere stimati, in ogni caso essere attirati solo dal suono, per quanto il più
armonioso che l’arte e la natura possano fornire, non è il merito più grande
né il più giusto.
Tuttavia si deve ammettere che la musica rivela un meraviglioso potere, un
potere cui non si può resistere, ma temo che esso agisca più sul corpo che
sulla mente, o sulla mente attraverso il corpo: i suoni melodiosi danno una
sensazione piacevole all’orecchio e questo gratifica la mente che
naturalmente non può essere a disagio quando il corpo è deliziato da
sensazioni gradevoli. Ciò però prova che la musica è appassionante in
Charles de Marguetel de Saint-Denis signore di St. Evremond (1616-1703), scrittore
francese esiliato per motivi politici rimase in Inghilterra fino alla morte. Il brano qui
riprodotto con qualche taglio viene dalla lettera all’amico George Villiers duca di
Buckingham sulla natura dell’opera, all’epoca una novità in Inghilterra ma all’apice del
successo in Francia. Il riferimento a Luigi è a Luigi Rossi (ca. 1597-1653), compositore e
maestro di canto italiano, che secondo St. Evremond non tollerava più i cantanti italiani,
dopo un periodo passato in Francia a Fontainebleau dove aveva sentito cantare Pierre de
Nyert, Mademoiselle Hilaire e la giovanissima de Varennes.
195 Catherine (o Katherine) Tofts (1685?-morta nel 1756) fu la prima inglese a cantare opere
italiane in Inghilterra. Resta famosa la sua rivalità con Margherita de l’Epine. Lasciò il
palcoscenico nel 1709 e più tardi sposò il console britannico a Venezia e si trasferì in Italia.
Richard Leveridge (1670-1758), cantante basso e compositore di arie, fu famoso per le sue
interpretazioni della musica di Purcell.
194
107
AAR Anno VI, numero 11 – Maggio 2016
quanto piacere sensuale, senza derivare diletto dalla ragione e senza
condurre alla gratificazione dell’anima razionale. Questo potere poi e
questa forza della musica sono aumentati dall’aggiunta della poesia, che tra
gli antichi era solo raramente esclusa persino dalla danza (come abbiamo
visto), poiché le parole appassionate raddoppiano il vigore dell’armonia e
le aprono una strada più sicura verso il cuore che non quando l’animo non
è interessato davanti a note nude e sole. La musica vocale è a detta di tutti
la più nobile e la più toccante e il suono che si avvicina a quelli vocali è
ritenuto il più perfetto.
Perciò la musica dovrebbe ancora essere, com’era in origine, unita al
dramma, dove è ancillare alla poesia e porta sollievo alla mente quando
questa sia stata a lungo concentrata su qualche nobile scena di passione, ma
non dovrebbe mai costituire un intrattenimento a se stante di qualunque
durata.
Anche se concediamo che quella vocale sia superiore a tutti gli altri tipi di
musica, non possiamo comunque, perché è piena di assurdità, accettarla
quando sia basata su soggetti sconvenienti o costruita in modo innaturale,
cioè come ci viene presentata nell’opera di cui recentemente la città (voglio
dire la parte più rilevante del pubblico) si è totalmente inebriata e in quella
ubriacatura per sostenerla ha buttato via migliaia di sterline, più di quanto
ci avrebbe consentito di avere la migliore poesia e la migliore musica al
mondo, senza mettersi contro il buon senso comune. Si è detto che l’opera
sia l’invenzione dell’Italia moderna, il ritorno al sapere in mezzo a quella
barbara ignoranza con cui l’avevano sopraffatta le invasioni di vandali,
goti, unni e longobardi; credo però sia chiaro che i romani prima di allora
erano decaduti tanto dal loro antico sapere e buon senso quanto dalla virtù
e dalla gloria militare, e Luciano indica oltre ogni dubbio che gli
intrattenimenti che ora chiamiamo opere erano in uso ai suoi tempi,
quando dice, dopo aver ridicolizzato le tragedie di quel tempo:
L’attore libera anche la voce che ha dentro di sé, e apre il suo cuore e nel modo più
ridicolo canta le sue sofferenze e si rende odioso per quella stessa musica; finché
impersona un’Andromaca o un’Ecuba il suo canto è tollerabile, ma un Ercole, che
entra cantando in modo triste e che dimentica se stesso e non ha neppure riguardo
per la sua pelle di leone o per la clava, per forza deve sembrare sbagliato a un uomo
di giudizio.196
Ma questo, come ho detto, accadeva nella decadenza dello stato romano,
sotto l’impero, quando il sapere di nuovo si occupava più o meno
totalmente dei greci e non appariva quasi altro che quella nazione nei libri
degni di nota, come quelli di Plutarco, Sesto, Luciano, ecc. ma non fu mai
così in Grecia, come risulta dall’Alcesti di Euripide, dove i servi di Admeto
sono scandalizzati che Ercole canti quando Alcesti giace morta nel palazzo
196
Luciano, Sulla danza, 27.
108
Charles Gildon, Vita di Thomas Betterton
e i familiari sono tutti addolorati e affranti con il loro signore. È quindi
chiaro che il resto del dramma era parlato e non cantato. In verità Mr.
Barnes,197 autore di straordinarie congetture, immagina che le tragedie
greche fossero cantate come le opere, mentre quello che abbiamo qui
esemplificato e la costituzione del coro con la sua divisione in strofe,
antistrofe e epodo provano il contrario. Possiamo accettarlo però se detto
da uno che vorrebbe farci credere che Salomone era l’autore dell’Iliade.
Ciò che gli ha instillato questa idea sono state le parole che attribuisce a me,
ma che non implicano altro che l’armonia dell’eloquio che ho tentato di
raccomandare ai nostri attori di studiare. Ma se fosse realmente vero
(mentre è assolutamente il contrario della verità), non riesco a immaginare
autorità che lo giustificherebbe, dato che è assurdo. Però, affinché l’autorità
di un uomo, riconosciuto nel mondo e ritenuto persona di buon gusto e di
ammirevole buon senso, possa convincere chi presume di essere un genio
più della stessa ragione, trascriverò qui ciò che Monsieur St. Evremont ha
detto in pubblico su questo tema, sia per riguardo alla sua reputazione che
per la giustezza del suo ragionamento, che è la migliore conferma di
un’autorità, e anche se quello che dice si riferisce all’opera francese varrà
ancora di più contro quella italiana. St. Evremont scrive così allo scomparso
duca di Buckingham:
Signore, da tempo avevo in mente di dirvi le mie opinioni e offrirvi i miei pensieri
sulla differenza tra il modo di cantare italiano e quello francese.
La conversazione che facemmo a casa della duchessa di Mazarino198 invece di
soddisfare questo desiderio lo ha aumentato e ora lo esaudisco completamente con
questi pochi pensieri che vi mando al proposito. Comincerò perciò confessandovi
liberamente che non sono un ammiratore di quei drammi o tragedie musicali che
vediamo ai giorni nostri. Ammetto che in realtà la loro magnificenza mi dà piacere,
che le macchine talvolta hanno qualcosa di sorprendente, la musica in alcuni
momenti può essere affascinante e che il tutto sembra meraviglioso, ma d’altra parte
dovete concedermi che queste meraviglie sono estremamente noiose, perché laddove
la mente ha così poco da fare, i sensi, dopo il primo diletto dato da una sorpresa di
breve durata, per forza languiscono e muoiono. Gli occhi si stancano di fissare
sempre gli stessi oggetti abbaglianti. All’inizio di un concerto il pubblico osserva la
perfezione della musica e non gli sfugge nessuna delle diverse melodie che si
uniscono a formare la dolcezza dell’armonia; poco dopo gli strumenti ci stordiscono
e la musica all’ascolto non sembra più che un suono confuso e indistinguibile. Chi
può sopportare la noia del recitativo che non ha né il fascino del canto né la
gradevole forza di un bel parlare? L’animo, stanco di aver prestato una lunga
attenzione a cose in cui non trova niente di toccante, si ritira in se stesso per trovare
qualche segreta emozione che possa toccarlo, e la mente, dopo aver atteso invano che
Joshua Barnes (1654-1712), professore di Greco a Cambridge, aveva pubblicato nel 1694
un’edizione di Euripide e nel 1705 un’edizione di Anacreonte in cui aveva inserito titoli di
sue poesie.
198 Ortensia Mancini, nipote del Cardinale Mazarino e amante del re inglese Carlo II, visse in
Inghilterra e tenne un salotto intellettuale a Londra, che il suo amico St. Evremont
frequentava.
197
109
AAR Anno VI, numero 11 – Maggio 2016
le arrivino impressioni dall’esterno, ricorre a un meditare vuoto o diventa scontenta
di sé per essere così inutile al proprio appagamento. In breve, la fatica è così grande e
generale che pensiamo solo a come uscirne e tutto il piacere che lo spettatore stanco
può augurarsi è la speranza che lo spettacolo finisca presto.
Il motivo*199 per cui in generale mi stanco subito di un’opera è che non ne ho ancora
mai vista nessuna che non mi sembri assolutamente spregevole, sia nella
disposizione del tema che nei versi**.200 È inutile ammaliare l’orecchio e ingannare
l’occhio se la mente resta insoddisfatta. Il mio animo, essendo collegato più alla
mente che non ai sensi, lotta contro le impressioni che riceve o, per lo meno, non
riesce ad accettarle piacevolmente e senza tutto ciò anche gli oggetti più incantevoli
non potranno mai darmi un grande piacere.
È vero, una stupidaggine messa su e condita con musica, danza, macchine e
decorazioni è una stupidaggine sfarzosa e magnifica, ma resta sempre una
stupidaggine: è una brutta base per un magnifico ornamento, dietro il quale vedo
sempre la base con un bel po’ di frustrazione.
C’è un’altra cosa nelle opere così contraria alla natura che impressiona sempre la mia
immaginazione, cioè cantare tutto dall’inizio alla fine come se le persone avessero
complottato in modo ridicolo per trattare in musica sia le faccende più comuni che
quelle più importanti della vita umana. Chi può convincere la sua immaginazione
che un padrone chiama il servo e lo manda a fare una commissione cantando? Che
un amico comunica un segreto a un altro cantando? Che i politici deliberano in
consiglio cantando? Che gli ordini in una battaglia vengono dati cantando? E che gli
uomini sono uccisi in musica con la spada, la picca o il moschetto? Questo significa
perdere la verità e l’anima della rappresentazione, e qualsiasi uomo sensato non
dubita che essa sia preferibile alla musica. La musica non dovrebbe essere più che un
semplice aiuto alla poesia e i grandi maestri della scena hanno deciso di aggiungerla
non perché essenziale o necessaria, ma perché piacevole, dopo che hanno sistemato
tutto quello che ha a che fare con il soggetto e con il discorso.
Nel frattempo, in questo modo l’idea del maestro di musica o del compositore
prende il posto dell’eroe dell’opera e lo estromette dai nostri pensieri. Immaginiamo
Luigi, Cavalli e Cesti201 perché la mente, incapace di afferrare o concepire un eroe che
canta, si concentra su chi ha scritto la musica, e non si può negare che nelle opere
rappresentate al Palais Royal si pensa mille volte di più a Battista che non a Teseo o a
Cadmo.202
Non intendo assolutamente, con quello che ho detto, escludere ogni genere di canto
dal palcoscenico, e bisogna ammettere che ci sono alcune cose che devono essere
cantate e altre che possono esserlo senza errare contro la probabilità, la decenza e la
ragione. Voti, preghiere, lodi, sacrifici, e in generale tutto ciò che ha a che fare con il
servizio divino, sono cantate in tutte le nazioni e in tutti i tempi; le passioni tenere e
tristi si esprimono abbastanza naturalmente con un tipo di musica; l’espressione
dell’amore che sta nascendo, i dubbi e le incertezze di un’anima agitata dalle diverse
emozioni di quella passione sono argomento di strofe o di poesia lirica e quindi
** Questo motivo dovrebbe essere considerato dalle nostre persone di spirito, che
pensano di essere intelligenti eppure tollerano le sciocchezze in musica per quattro ore, e le
lodano pure [Nota di Gildon].
200 *** Qui si intendono le opere francesi di Quinaut che superano tutte le opere italiane, per
disposizione e versi, quanto Dryden supera Quarles [Nota di Gildon].
201 Si tratta dei musicisti Luigi Rossi, Francesco Cavalli (1602-1676) e Antonio Cesti (16231669), compositore e cantante.
202 Il riferimento è al teatro parigino e alle opere di Giovanni Battista Lulli o Jean-Baptiste
Lully (1632-1687), autore tra le altre opere di Cadmus et Hermione (1673) e di Thésée (1675).
199
110
Charles Gildon, Vita di Thomas Betterton
anche di musica. Ognuno sa che i greci introdussero il coro sulle scene e io credo che
possiamo per lo stesso motivo seguire il loro esempio nel nostro teatro.
Le questioni del dramma secondo me dovrebbero essere così distribuite: tutto ciò che
riguarda la conversazione, gli intrighi e le relazioni, i consigli e le azioni, va bene solo
nella bocca dell’attore ma è molto ridicolo in quella di un cantante. I greci hanno
scritto nobili tragedie in cui qualcosa era cantato; gli italiani e i francesi hanno scritto
quelle, detestabili, in cui tutto è cantato!
Volete sapere che cosa sia davvero un’opera? Ve lo dirò. — È uno strano miscuglio di
poesia e musica, in cui sia il poeta che il maestro di musica sono sulle spine l’uno per
l’altro e si danno un gran daffare per comporre un pezzo molto misero. Non che non
vi si possano talvolta trovare parole piacevoli***203 e delle belle arie, ma prima ancora
si troverà più certamente una repulsione per i versi, dove il genio del poeta si è
lesinato, e una totale sazietà del canto, quando un lavoro troppo lungo ha stancato il
compositore.
Se pensassi di avere la capacità di consigliare quelle persone di qualità e di buona
educazione che si divertono a questi intrattenimenti teatrali, li inciterei a guarire il
loro palato viziato e a godere nuovamente dei nostri bei drammi, delle tragedie e
delle commedie, dove la musica può essere introdotta senza danneggiare la
rappresentazione, dove si possono avere un prologo musicale e della musica negli
interludi, ravvivata da parole****204 che possano contenere il succo di ciò che è stato
rappresentato. E dopo che il dramma è finito, si può cantare un epilogo o alcune
riflessioni sulle cose più belle della pièce. Questo rafforzerebbe l’idea principale e
fisserebbe le impressioni fatte sul cuore del pubblico.
Con questi mezzi si potrebbe fornire abbastanza da soddisfare sia i sensi che la
mente; il fascino del canto darebbe sollievo alla pura rappresentazione e la forza
dell’azione alla lunghezza della musica.
Fin qui Monsieur St. Evremond. Mi astengo dal riportarvi il suo discorso
sulla reciproca avversione che i francesi e gli italiani hanno per le opere gli
uni degli altri, perché quella controversia non interessa il nostro scopo, e gli
italiani hanno non molto tempo fa pubblicato un libro intitolato Il parallelo
fra la musica italiana e quella francese, in cui l’autore francese concede la
vittoria agli italiani, in risposta a Luigi Rossi che tempo prima l’assegnava
ai francesi.205 Se avessi qualcosa a che fare con questa controversia,
**** Ciò accade solo nelle opere francesi e né quelle italiane né le nostre possono aspirarvi
[Nota di Gildon].
204 ***** Con questo intende ciò che Orazio dice del coro:
Un coro dovrebbe dare ciò che manca all’azione,
e ha una parte maschia e generosa;
trattiene l’ira selvaggia e ama l’onestà rigorosa,
e la stretta osservanza di leggi imparziali,
la sobrietà, la sicurezza e la pace,
e implora gli dei di girare la ruota della cieca fortuna,
far salire il misero e far cadere l’orgoglioso, &c. [Nota di Gildon].
205 François Raguenet, critico musicale francese (Rouen ca. 1660-Parigi ca. 1722). Abate, dal
1698 al 1700 fu a Roma, dove approfondì la conoscenza della musica italiana. Ritornato a
Parigi, nel 1702 pubblicò il Parallèle des Italiens et des Français, en ce qui regarde la musique et les
opéras, in difesa della tradizione italiana, che accese vive polemiche tra i seguaci di Lulli, alle
quali replicò con la Défense du “Parallèle des Italiens et des François” (1705). Luigi Rossi
(Torremaggiore ca. 1597-Roma 1653), tra i primi compositori a introdurre in Francia l’opera
203
111
AAR Anno VI, numero 11 – Maggio 2016
dubiterei molto del giudizio del francese per uno dei suoi tanti esempi,
dove ammira gli italiani perché cantano stonati in modo da rendere più
attraente la bella armonia che segue,206 come se uno dovesse ammirare
come perfetto qualcuno che prima dica sciocchezze per dopo far gustare di
più le cose sensate.
Confesso di essere stato un po’ sorpreso di sentirne parlare e poi di leggere
questo libro con le note del signor H— o di qualche sua creatura, poiché
non mi sarei mai aspettato che si sarebbero avventurati così lontano, al di là
della loro capacità, tanto da lanciarsi dal puro suono al senso, dalle note
musicali allo scrivere, dal momento che questo era l’unico modo efficace
che avevano per convincere tutti che si erano approfittati di noi e che, non
contenti di portarci via il denaro per delle arie e dei recitativi, dovevano
dirci in faccia che noi non sappiamo niente di questa materia e perciò
dobbiamo accettare qualunque cosa essi si degneranno graziosamente di
donarci.
Quest’autore mette in gran risalto il successo delle sue composizioni e il
fallimento di quelle degli altri, quando poco prima aveva negato che
sapessimo qualcosa di queste questioni. Se però concede che questa sia una
prova dell’eccellenza della sua opera, ciò varrà ancora di più per Henry
Purcell, la cui musica sosteneva una compagnia di giovani attori acerbi
contro i migliori e i favoriti dell’epoca e entusiasmò la città per molti anni
di seguito, e ancora oggi i veri amanti della musica. Che un maestro
qualsiasi confronti «Duemila divinità», la musica nella scena del Gelo,207
diverse parti della Indian Queen, e altri venti pezzi di Henry Purcell, con
tutti i ritornelli, i da capo, i recitativi di Camilla, Pirro, Clotilda,208 ecc., e poi
giudichi chi è il migliore. Purcell penetra nel cuore, fa danzare il sangue
nelle vene, e fa vibrare con la piacevole veemenza della sua armonia
celestiale; le ariette sono belle arie leggere, che solleticano l’orecchio ma
non vanno oltre, Purcell smuove le passioni come vuole, anzi, dipinge con i
suoni e conferma quello che si dice di Timoteo.209 La musica, come la
poesia, è soggetta a quella regola di Orazio:
italiana, fu al servizio del cardinale Barberini prima Roma e poi a Parigi dove nel 1647, sotto
gli auspici del cardinale Mazarino, mise in scena la sua opera, Orfeo, con straordinario
successo.
206 Parallèle des Italiens et des Français, cit.; la traduzione anonima in inglese apparve nel 1709
(London, Lewis) come A Comparison between the French and Italian Music.
207 «Twice ten hundred deities» è un incantesimo dall’opera The Indian Queen (1695), di
Henry Purcell, su libretto di Dryden e Howard; la scena del Gelo è dall’opera King Arthur
(1691), sempre di Purcell e ancora su libretto di Dryden.
208 Opere italiane che dovrebbero dimostrare la superiorità inglese: si tratta di personaggi da
Il trionfo di Camilla, regina de’ Volsci (1696) di Giovanni Bononcini (1670-1747); Pirro e
Demetrio (1694) di Alessandro Scarlatti (1660-1725); Faramondo (1698) di Carlo Francesco
Pollarolo (ca. 1653-1723) su libretto di Apostolo Zeno, poi ripreso da Haendel (1738).
209 Timoteo di Mileto, musico e poeta greco allievo di Frinide (V-IV sec. a. C.) che innovò
profondamente la tecnica musicale e inventò una cetra con undici corde.
112
Charles Gildon, Vita di Thomas Betterton
Chi vuole che gli spettatori condividano il suo dolore,
Deve scrivere non solo bene, ma in modo commovente*****.210
Questo era il talento di Henry Purcell e la sua musica, per quanto sia ben
nota e sia stata suonata spesso, fa ancora oggi lo stesso effetto. Ma tutte le
arie di queste opere, poiché interessano solo l’orecchio e l’udito si stanca
della ripetizione, svaniscono subito, cioè sopravvivono tutt’al più un anno.
Così quelle di Purcell, composte per penetrare nell’anima e far vibrare il
sangue nelle vene, vivono per sempre, ma questi capricci stranieri, che ci
sono costati più di ventimila sterline, sono perduti prima che i castrati
abbiano speso il denaro che hanno messo in cassa.
In questo stesso libro si dice che il nostro gusto è migliorato e si è molto
perfezionato dai tempi di Henry Purcell e che ora non ci dovrebbe piacere
nessuna delle sue opere. A questo rispondo che secondo me i migliori
giudici di musica, i maestri compositori e esecutori, preferiscono quello che
ha fatto lui a qualunque opera abbiamo ora, almeno sulle nostre scene.
Perciò vorrei tanto sapere: come è migliorato il nostro gusto? Il pubblico,
così eterogeneo, conosce meglio l’arte dell’armonia e della musica? No —
neanche uno su mille capisce una singola nota. Come possono questi allora
preferire la nuova musica a quella di Henry Purcell? Devono deciderlo i
maestri, forse risponderete. In verità così si ridurrebbe tutto a un campo
molto piccolo, alla decisione di pochi e non definitiva, poiché i maestri
inglesi hanno ancora una venerazione per Purcell e quelli stranieri hanno
un interesse troppo evidente per decidere loro. Il solo criterio sono le regole
dell’arte, perché ciò che va al di là è solo stravaganza e non bellezza, e se gli
italiani cantano in modo stonato per tendere alla perfezione, si godano loro
questo privilegio: chiunque altro al mondo lo condannerebbe come
cacofonico e di conseguenza non può essere bello o eccellente in musica, la
cui vera anima è l’armonia.
Ma chiudiamo questa digressione in difesa della nostra musica inglese per
tornare alle assurdità dell’opera: credo che la corruzione di quest’epoca sia
evidente nel produrre e incoraggiare un divertimento così misero, che non
ha niente in sé di virile o di nobile.
Ma, dice un certo signore, il compito del teatro è il piacere e se lo si trova
nelle opere, dov’è l’assurdità cui ci si oppone? Questa è una difesa ridicola
e sostiene quanto vi sia di più scandaloso e noioso in natura, ma l’ho sentita
fare da uomini di riconosciuto spirito e addirittura che avevano più spirito
che ragione o giudizio. Se questo fosse davvero un buon argomento, Clinch
****** «Non satis est pulchra esse Poemata dulcia sunto &quocunq. volent animum
Auditoris agunto (non basta che la poesia sia bella; dovrebbe essere dolce e portare la mente
dove vuole» [[Nota di Gildon]. Orazio, Ars Poetica, 99-100.]
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di Barnet,211 le farse alla fiera di S. Bartolomeo, un intrattenimento di
buffoni a Moor-Fields sono nobili intrattenimenti perché piacciono e sono
degni di salire sul palcoscenico quanto le opere, anzi a ragione lo sono di
più perché non sono così assurdi. Questo è convalidato dal gusto
aristocratico. Se il gusto aristocratico scende al livello di quello della
canaglia, non sono le persone che possono dargli una buona reputazione,
poiché il loro amato Cowley212 ci ha detto che esiste un grande volgo, così
come uno piccolo.
E allora un uomo di buon senso sarebbe in favore di un divertimento che
pone la sua intelligenza a livello della peggiore plebaglia? Eppure questo è
l’effetto di seguire le opere e insistere a difenderle dicendo che tutto ciò che
piace merita di essere incoraggiato, poiché è uno scandalo divertirsi con
certe cose mostrando di avere un intelletto debole o un gusto molto rozzo.
Ci sono piaceri che solo gli uomini con sensi raffinati e gusto per l’arte
possono distinguere, per esempio in pittura, nelle incisioni, ecc., laddove il
volgo vede allo stesso modo il migliore e il peggiore. Un certo gentiluomo
di campagna, di mia conoscenza, beveva in una taverna di paese e vedendo
diverse incisioni notevoli, del Figliuol Prodigo, di Robin Hood e Little John
e altre ignobili, peggiori di quelle che Overton abbia mai venduto, si rivolse
al signore che stava seduto accanto a lui e disse: «Bene! Questo dipinto è
arte nobile» — Di sicuro un’incisione del vecchio Van Hove o peggio, se ci
può essere di peggio, piacerebbe al volgo, quanto una di Edlinch, di
Audrand, o una qualunque delle stampe italiane, e un pezzo di un semplice
pittore di insegne vale agli occhi di un’intelligenza grossolana e comune
quanto un’opera di Raffaello o di Thornhill. E così in musica un tamburello
e una cornamusa, i piatti o una piva faranno impazzire la folla più del
mirabile Mr. Shore con il suo meraviglioso liuto, e la ballata Lillibullero più
di una bella sonata di Corelli. Così in poesia i più preferiranno Bunyan e
Quarles a Milton e Dryden.213 Di sicuro però un gentiluomo di buon gusto e
Intrattenitore che si esibiva a Londra nelle coffee-houses, dove imitava suoni, voci e
personaggi. Ne parlerà anche Addison nello Spectator n. 551 (2 dicembre 1712).
212 Il poeta Abraham Cowley che traduce l’Ode di Orazio «Odi profanum vulnus»: «Hence,
you profane, I hate you all,/ Both the great Vulgar and the small» (Fuori di qui, profani, vi
odio tutti/ Sia il volgo grande che quello piccolo).
213 I riferimenti sono a: John Overton (1640-1713) che con il figlio Henry produsse tra il 1665
e il 1755 un grande numero di mappe e atlanti; Frederick Hendrik van Hove (circa 16281698), incisore di origini olandesi; Philip Endlich (1700- attivo 1734), incisore olandese;
Gérard Audrand (morto nel 1703); Sir James Thornhill (1675-1734), pittore inglese; John
Shore (c. 1662-1772) che suonava la tromba e l’arciliuto ed ebbe l’incarico di «lutanti» della
Royal Chapel nel 1715 (sembra che avesse inventato il diapason per accordare il suo
strumento). Lillibullero è una marcetta di origine sconosciuta che diventò famosa durante la
Guerra civile a metà Seicento. John Bunyan (1628-1688) e John Quarles (1624-1665) erano
autori popolari; l’uno, puritano, autore del famoso The Pilgrim’s Progress (Il viaggio del
pellegrino, 1678-1684) e di altre opere allegoriche, l’altro scrittore di meditazioni spirituali e
di poesie emblematiche
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Charles Gildon, Vita di Thomas Betterton
di genio in tutte queste cose si vergognerebbe di proporre un argomento
come quello del piacere poiché tutte queste opere, che sono oltraggiose,
piacciono alla maggioranza delle persone.
È perciò scandaloso divertirsi con qualcosa di irrazionale e assurdo in
teatro, a confronto del dramma, quanto con i buffoni o le farse della fiera di
S. Bartolomeo fuori di esso; o preferire un Van Hove, ecc. a Edlinch o a
Audrand, oppure una musica di pinze e chiavi o di tamburelli e pive al
liuto di Mr. Shore o alle composizioni di Corelli.214
Ma, dice un altro, se tutto quello che è assurdo e irrazionale dovesse essere
escluso dal teatro, dovreste bandire tantissimi dei drammi più famosi,
come Otello, fatto di parti che sconvolgono la ragione e pieno di assurdità,
oppure The Maid’s Tragedy, che Rymer215 ha giustamente condannato, e
molti altri che nessuno è stato capace di difendere da difetti uguali a quelli
che si attribuiscono alle opere. E, se la nostra ragione deve essere sconvolta
con o senza musica, dateci l’opera, dove la piacevole arte del compositore
fa perdonare le stupidaggini del poeta. Allora, dice un altro, tenterò di
provare che non c’è quasi nessun dramma che abbia avuto un tollerabile
successo o che sia molto stimato e considerato di repertorio che non sia
assurdo e contrario alla ragione quanto la maggior parte delle opere; ciò
che è peggio è che l’autorità che hanno ottenuto presso tanta gente è così
grande che quando vi provate a dire qualcosa contro di loro sia le persone
di spirito che chi aspira ad esserlo gridano «che siete imperdonabili».
Se davvero, continua costui, si potesse risollevare il teatro britannico fino
alla perfezione di quello di Atene, non gli mancherebbe né buon senso né
musica, ma l’insieme sarebbe ammirevole e il divertimento divino; ma per
com’è ora il teatro, per come sono gli attori e i drammi, non vedo una
differenza così forte nel merito dei due divertimenti, e il buon senso di un
uomo è giustificato che frequenti l’uno o l’altro.
Devo confessare che quest’ultima obiezione ha molto peso, ma se chi
incoraggia questa follia si fosse speso anche solo la metà per riformare il
teatro lo avrebbe innalzato al pari, se non più in alto, di quello di Atene,
pur se quello stato impiegava somme immense per arricchirlo e per mettere
su i drammi; e se qualche uomo di potere e di interesse si impegnasse
attivamente ad aiutare il buon senso, la poesia e l’onore del suo paese,
potremmo eliminare questa obiezione, e buttar via questa feccia italiana
con le sue assurdità musicali.
Ma ci sono altri che ci dicono che è la bruttezza dei nostri attuali drammi a
giustificare la loro ammirazione per l’opera. Ciò non ha la minima ragione
d’essere o verità e costoro non possono in alcun modo provare che i nostri
Nella musica tradizionale irlandese venivano usati utensili e oggetti vari.
The Maid’s Tragedy (La tragedia della fanciulla, 1619) è un’opera di Francis Beaumont e
John Fletcher. Thomas Rymer ne contestò l’improbabilità della trama in The Tragedies of the
Last Age Considere'd (1678).
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drammi sono peggiori di quelli di cento anni fa, dato che sarebbe un
esempio troppo palese della loro profonda ignoranza o del loro stravagante
pregiudizio, al di sotto di quelli di un uomo di buon senso e di giudizio,
come si può dimostrare facilmente anche solo nella tragedia, di cui ci siamo
fatti appena un’idea giusta. La commedia non era molto conosciuta prima
del dotto Ben Jonson, perché nessuno può elogiare le commedie di
Shakespeare eccetto Le allegre comari di Windsor. Nelle altre sue opere ci
sono indubbiamente degli eccellenti pezzi comici sparsi qua e là e
intrecciati, ma Ben Jonson fu il primo a darci una commedia intera. Dopo di
lui abbiamo avuto Etherege, Wycherley, Shadwell e alcuni dei drammi di
Crowne,216 e gli altri del regno del re Carlo II. Dalla rivoluzione in poi, Mr.
Congreve in tre opere è stato molto lodato e ha ben contraddistinto i suoi
personaggi e ha raggiunto il vero umorismo. Anche Mr. Vanbrugh ha
mostrato un bel po’ della natura rozza, libera e spontanea; il suo dialogo è
generalmente drammatico e fluido. E poi, i nostri scrittori di farse meritano
più stima delle attraenti pièces di cento anni fa poiché hanno altrettanta
natura, più concezione e regole e molto più spirito.
Da questo risulta che l’obiezione circa la corruzione del teatro di oggi
rispetto a com’era prima, come scusa per frequentare le opere, non è altro
che una semplice accusa infondata, e se ora avessimo dal nostro pubblico
raffinato tanto incoraggiamento quanto quelle ne ricevono dal volgo, o se i
nostri giudici sapessero distinguere tra il bene e il male al punto di
incoraggiare il primo e eliminare il secondo, presto ci sarebbero drammi
più degni del genio inglese e l’opera si ritirerebbe al di là delle Alpi.
Dopo questo discorso salutammo Mr. Betterton e tornammo a Londra. Mi
era assai piaciuto il suo racconto delle stranezze a cui si abbandonano gli
attori, perché è una piacevolissima lezione per moltissimi dei nostri attori
moderni e potrebbe curarli delle bizzarrie che sono troppo di moda.
Autori di commedie della Restaurazione: George Etherege (ca.1636-1692), William
Wycherley (1641-1716), Thomas Shadwell (ca.1642-1692), John Crowne (1641-1712) e, più
avanti, William Congreve (1670-1729) e John Vanbrugh (1664-1726).
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