introduzione generale allo stoicismo antico

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INTRODUZIONE GENERALE ALLO STOICISMO ANTICO
Le tre fasi della scuola stoica. L’altra grande scuola dell’età ellenistica, quella stoica, così chiamata
perché la sua prima sede fu un portico di Atene denominato Stoa Pecile (= Portico dipinto), ebbe
una storia assai lunga e complessa, soprattutto per i rapporti con la scuola cinica, con cui ebbe punti
di contatto e di filiazione: anzi, si può dire che la scuola cinica conobbe i suoi momenti di
reviviscenza proprio quando lo stoicismo tendeva a differenziarsene. Nella storia dello stoicismo si
sogliono distinguere tre periodi: lo «stoicismo antico», di cui ci occupiamo nel presente paragrafo e
la cui tradizione dura fino a circa la metà del n secolo a.C., lo «stoicismo medio», nella seconda metà
del II e nel I secolo a.C. e lo «stoicismo tardo» o «stoicismo romano», fiorito soprattutto nel I e nella
prima metà del II secolo d.C., ma non esaurito in questo arco di tempo.
Zenone. Il fondatore della scuola stoica fu ZENONE di Cizio, nato nel 336/5 e morto, forse suicida,
nel 264/3 a.C. Dopo un periodo di attività commerciale, la lettura dei Memorabili di Senofonte gli
avrebbe suscitato la passione per la filosofia: si recò quindi ad Atene e fu discepolo del cinico
Cratete, del megarico Stilpone e dell’accademico Polemone. Verso il 300 a.C. avrebbe fondato la sua
scuola, conducendo vita semplicissima e rifiutando, sembra, l’invito di Antigono Gonata a recarsi
alla corte di Macedonia. Scrisse moltissime opere (Logica, Sulle passioni, Sul conveniente,
Repubblica), di cui ci restano scarsi frammenti. A Zenone risalgono già le linee fondamentali della
filosofia stoica e il tentativo di unificare la tradizione genuinamente cinica con una coerente e
sistematica trattazione dei problemi fisici, metafisici, logici e scientifici posti dalla situazione
culturale del tempo e dalle discussioni delle altre scuole.
La crisi della scuola: Aristone e Cleante. Dopo Zenone la scuola ebbe un momento di crisi, perché
da un lato le sue dottrine gnoseologiche, logiche e fisiche erano attaccate a fondo dall’accademico
Arcesilao, e dall’altro un discepolo di Zenone, ARISTONE di Chio, cercò di ricondurre la scuola alle
sue origini ciniche e di concentrarne l’interesse alle sole questioni morali. Altro stoico «dissidente»
dall’insegnamento di Zenone fu ERILLO di Cartagine. Tuttavia la scuola stessa reagì a queste
deviazioni e con CLEANTE di Soli, autore del famoso Inno a Zeus e capo della scuola dalla morte di
Zenone al 231 a.C., tornò alla discussione dei problemi scientifici e logici.
Crisippo e i suoi discepoli. Il terreno era così pronto alla vastissima attività di CRISIPPO di Soli (o
di Tarso) in Cilicia. Nato tra il 281 e il 277 a.C. e morto tra il 208 e il 204, egli fu chiamato il secondo
fondatore dello stoicismo, per averne restaurato e sistemato, ma in molti punti anche innovato, le
dottrine, rispondendo alle obiezioni di Arcesilao. Gli antichi gli attribuirono oltre 700 scritti e ne
ammirarono il vigore dialettico. Suoi discepoli furono Zenone di Tarso, Diogene di Seleucia, detto
anche il babilonese (che fece parte della famosa ambasciata a Roma nel 155 a.C. con Carneade e
Critolao) e Antipatro di Tarso. E con questi discepoli di Crisippo termina lo «stoicismo antico».
Anche le opere di Crisippo e dei suoi discepoli sono andate quasi totalmente perdute e per la
conoscenza della filosofia stoica dobbiamo servirci di posteriori fonti dossografiche, da Cicerone a
Plutarco, da Diogene Laerzio a Galeno, dagli stoici romani ai padri della chiesa.
La tripartizione della filosofia. Anche la filosofia stoica (che qui esponiamo senza tentare di
distinguere ciò che risale già a Zenone e ciò che probabilmente è dovuto a Crisippo) pone la più
stretta relazione tra il problema della scienza, il problema della virtù e il problema della felicità; la
tripartizione della filosofia in logica (che comprende anche la psicologia e la gnoseologia), in fisica
(che comprende anche la metafisica e la teologia) e in etica (che comprende anche la politica)
implica pertanto la convergenza delle tre parti nella delineazione di un ideale del sapiente, che è
nello stesso tempo compiutamente saggio e felice.
Logica e gnoseologia. Con il termine di «logica», che Zenone avrebbe usato per primo, al posto di
quello aristotelico di «analitica», di significato troppo ristretto, gli stoici intesero indicare la
dottrina che ha per oggetto i lògoi, cioè i discorsi e le conoscenze. In tal modo la logica non è più
soltanto lo «strumento» con cui costruire argomentazioni valide, ma è una vera e propria «parte»
della filosofia, i cui rapporti con le altre «parti» sono tuttavia variamente determinati in modo
analogico: paragonando la filosofia ad un organismo vivente, gli stoici dicevano che la logica
corrisponde alle ossa e ai nervi, l’etica alla carne e la fisica all’anima; oppure, paragonando la
filosofia ad un uovo, dicevano che la logica è il guscio, l’etica è il bianco e la fisica è il tuono; infine,
paragonando la filosofia a un giardino, dicevano che la logica è la siepe circostante, l’etica è i frutti e
la fisica è gli alberi e la terra.
Fondamento di ogni nostra conoscenza è per gli stoici la sensazione (disthesis) e la
rappresentazione (phantasìa) impresse dagli oggetti nella nostra anima. Tuttavia la conoscenza non
è mera passività, perché implica anche l’«assenso» del soggetto conoscente; l’errore nasce così
quando si dà troppo precipitosamente l’assenso a sensazioni o rappresentazioni che non
corrispondono a cose reali (per esempio assentire che il remo immerso nell’acqua sia realmente
spezzato perché così appare).
Fantasia catalettica e concetti universali. Il criterio di verità consiste perciò nel dare l’assenso
solo a quelle sensazioni o rappresentazioni che ci fanno comprendere direttamente la realtà così
come essa effettivamente è: rappresentazioni «comprensive» o «catalettiche» (phantasìai
kataleptikài), le quali hanno in sé tanta evidenza da escludere che possano essere difformi dalla
realtà o ingannevoli; e su questa base gli stoici ritenevano di poter distinguere con sicurezza le
rappresentazioni che sono catalettiche da quelle che non lo sono. Secondo un famoso paragone di
Zenone, la mano aperta con le dita distese simboleggiava la sensazione; curvando un poco le dita
era rappresentato l’assenso e la chiusura della mano nel pugno rappresentava la «comprensione»;
stringendo infine saldamente il pugno con l’altra mano si simboleggiava la scienza e la saldezza
della connessione sistematica delle sue conoscenze. I concetti universali sono interpretati come
«anticipazioni» (prolépseis, praesumptiones) o «nozioni comuni» (koinài énnoiai, notiones
communes), analogicamente o naturalmente prodotte dalla mente e perciò diverse dalle astrazioni
empiriche, che ne traggono tuttavia conferma e garanzia. Gli universali, esistenti nella mente, non
esistono nella realtà, che è tutta fatta di cose particolari.
La dottrina del significato. Di grande importanza è la dottrina stoica del «significato»: tra la cosa
reale, che è ciò che è, e il nome, che è lo strumento con cui significhiamo qualcosa (semainòn) sta il
significato (semainòmenon) che è ciò che noi significhiamo mediante un nome o una proposizione. I
primi due sono corporei, ma il terzo è incorporeo: questo è dunque un concetto o una
rappresentazione che fa da tramite tra il nome e la cosa e consente il riferimento del nome alla cosa.
In questa fondamentale distinzione fatta dagli stoici il ruolo principale spetta al «significato», come
prova il fatto che uno che non conosce il greco, cioè un barbaro, ode il suono del nome, vede la cosa,
ma non capisce il significato: il che vuol dire che, contrariamente a quanto si è ritenuto fino ad
Aristotele, tra linguaggio e realtà non c’è un rapporto immediato, ma un rapporto mediato dal
«significato». Questa dottrina del significato sta alla base della logica stoica, che è logica della
proposizione e non dei termini, com’era, prevalentemente, quella aristotelica: il significato infatti è
compiuto soltanto nella proposizione, cioè nella connessione di un soggetto e di un predicato, e di
essa solo è possibile dire che è vera o falsa.
La dialettica. I ragionamenti, di cui è scienza la «dialettica», consistono nella connessione tra
proposizioni semplici e la forma più originaria di connessione è l’«implicazione», espressa dalla
formula «se... allora», come per esempio «se è giorno, allora c’è luce; ma è giorno, quindi c’è luce».
Qui si vede la differenza sostanziale tra la logica aristotelica e quella stoica: la prima ha a che fare
con concetti e con i termini che li designano; la seconda con proposizioni (logica proposizionale), le
cui implicazioni, riguardando sempre e soltanto il loro significato e non le cose, possono essere
«valide» anche senza essere «vere»: per esempio l’implicazione «se piove, mi bagno» è sempre
valida, anche quando di fatto, essendoci il sole, essa è falsa: il suo valore non dipende quindi né dai
fatti, né dai precedenti ragionamenti.
L’importanza di queste analisi, che per lungo tempo sono apparse solo tautologie o vuoti
giuochi verbali, è stata rivalutata dalla moderna logica formale: sta di fatto che esse sono il
primo tentativo di liberare la logica dal problema, che non le compete, della «verità» del
pensiero, per fissare le condizioni della sua «validità», indipendentemente dalle condizioni
di fatto della sua verità.
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La logica proposizionale. La forma elementare del ragionamento non è quindi il sillogismo
aristotelico, cioè la connessione di due termini mediante un terzo, ma è l’implicazione, cioè la
connessione di proposizioni, le cui forme più semplici sono per sé evidenti, e perciò non bisognose
di dimostrazione: tali ad esempio il ragionamento ipotetico («se è giorno, c’è luce; è giorno, quindi
c’è luce») e il ragionamento disgiuntivo («o è giorno, o è notte; ma è giorno, dunque non è notte»).
Il sillogismo elaborato nella logica stoica è pertanto, in primo luogo, il sillogismo ipotetico e di
esso sono classificati vari tipi, di cui però uno solo è veramente «dimostrativo». Il sillogismo
dimostrativo si differenzia dal sillogismo vero perché pretende di avere qualcosa di più, nel senso
che un sillogismo vero ha evidenti sia la premessa sia la conclusione, mentre un sillogismo
dimostrativo ha una conclusione oscura che deve essere svelata dalle premesse. Esempio di sillogismo vero è: «se è giorno, allora c’è luce; ma è giorno, quindi c’è luce»; esempio di sillogismo
dimostrativo è: « se questa donna ha latte nelle mammelle, allora ha partorito; ma questa donna ha
latte nelle mammelle, quindi ha partorito». Il fatto che la donna abbia latte nelle mammelle è
«segno» di qualcosa che non è immediatamente evidente, e cioè che ha partorito.
Da ciò gli stoici furono indotti a elaborare una teoria molto importante, quella del «segno»
(seméion), per spiegare il passaggio da ciò che è noto e evidente a ciò che è ignoto e non manifesto
(àdelon). Facciamo un esempio: sempre, quando arde un fuoco, c’è fumo; è possibile dunque
considerare il fumo come il «segno» della presenza del fuoco, anche se, in quel momento, il fuoco
non è visibile. Questo «segno» è chiamato «rammemorativo», perché la sua presenza ci ricorda la
simultanea presenza di ciò che lo produce. C’è però anche un altro tipo di «segno», chiamato
«indicativo», perché è indizio di qualcosa non evidente e che quindi non è stata osservata
simultaneamente alla cosa evidente. Per esempio: «se c’è sudore, allora ci sono pori nella pelle»,
oppure: «se questa donna ha latte nelle mammelle, allora ha partorito»: il sudore è «segno
indicativo» dell’esistenza dei pori nella pelle e il latte nelle mammelle è «segno indicativo» del parto
avvenuto. È evidente che per la conoscenza e per la scienza la validità dei segni indicativi è molto
più rilevante di quella dei segni rammemorativi: proprio per questo la polemica scettica si
indirizzerà soprattutto contro i primi.
I principi della fisica stoica. La fisica stoica è schiettamente materialistica: corporea è infatti non
soltanto la materia vera e propria, ricettiva e passiva, ma anche la forma, che è forza causante e
agente, perché dove non c’è corpo non c’è né azione nè passione. Veniva con ciò ripreso un
principio fondamentale della fisica aristotelica, ma, contro Platone e Aristotele, veniva
rigorosamente negato ogni dualismo tra realtà sensibile e realtà intelligibile, tra fisica e metafisica.
Né con questa tesi contrasta la già vista ammissione della realtà di un «incorporeo »come il lektòn:
in effetti per gli stoici esistono degli «incorporei» (oltre il lektòn, il vuoto, il tempo, ecc.), ma questi
«incorporei» sono tali proprio perché non possono essere né materia né causa o forma. Tutte le
cose risultano così dal concorso di questi due principi immanenti l’uno all’altro: la materia è la
sostanza delle cose e la forma conferisce loro le qualità; oltre la «sostanza» e la «qualità» esistono
negli esseri solo i «modi» e le «relazioni» (che non sono tuttavia reali in sé) e a queste quattro gli
stoici riducono le dieci categorie aristoteliche.
Il principio attivo è insieme «forza», «potenza» (dynamis) e «ragione» (logos), principio
ordinatore e legge immanente della realtà, e perciò la fisica stoica è nello stesso tempo dominata
dalla necessità e finalistica, centrata contemporaneamente sui concetti di «destino» o «fato»
(heimarméne) e di «provvidenza» (prònoia). L’universo è, secondo gli stoici, sferico, finito e
continuo: cioè il vuoto non esiste al suo interno (contro la concezione corpuscolare e discontinua di
Epicuro) ma al suo esterno, perché il vuoto è appunto un «incorporeo», ciò che può essere occupato
da un corpo ma non lo è. La dottrina stoica del lògos è stata presa come prova di un ritorno degli
stoici a dottrine eraclitee e ciò è parso confermato dal fatto che il lògos è identificato con il fuoco,
principio non solo di distruzione e di consumazione, ma anche di vita e di fecondazione.
La cosmologia. Dei quattro elementi tradizionali (acqua, aria, terra e fuoco) solo il fuoco è infatti
eterno, mentre gli altri si generano da esso e in esso ritornano. Perciò gli stoici negano, contro
Aristotele, l’esistenza di un quinto elemento (l’etere), anche se Crisippo parlava di un fuoco celeste,
diverso da quello sensibile, più puro e quindi in qualche modo analogo all’etere aristotelico. Su
questa base gli stoici tracciano una grandiosa cosmologia: l’universo non è eterno perché soggetto a
formazioni e distruzioni periodiche, che si ripetono ciclicamente e in ogni ciclo tutte le cose e tutti
gli avvenimenti tornano a riprodursi e a ripetersi esattamente come nel ciclo precedente: ci
saranno nuovamente Socrate e Platone e tutti gli altri uomini e il loro destino sarà esattamente
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identico. Gli stoici ritengono infatti che nell’universo esistano eternamente i «semi» e le «ragioni
seminatrici» (lògoi spermatikòi) che producono tutte le cose, così come eterno è il fuoco che
periodicamente distrugge il mondo con un grande incendio (ekpyrosis), e che presiede al suo
riformarsi (e in questo senso gli stoici parlavano di «fuoco artigiano», pyr technikòs): dal fuoco si è
prodotta, per raffreddamento, l’aria e da questa l’acqua e da questa, per condensazione, la terra che,
animata da una forza centripeta, si colloca al centro e vi si mantiene in equilibrio; attorno ad essa
ruotano gli astri e le sfere degli altri elementi (ed è noto che Cleante respinse come empia la
dottrina eliocentrica formulata in quel periodo da Aristarco di Samo).
E poiché unica è la ragione e l’anima del mondo (da cui deriva anche l’anima umana, fuoco e soffio
vivificante e quindi materiale e perciò destinata a perire, anche se non immediatamente, con il
corpo), tutte le parti dell’universo’ sono razionali e viventi, strette da un mutuo rapporto di
simpatia e da un’unica legge di necessità: il fato. Di qui la convinzione dell’esistenza di influssi
astrali sul mondo e sugli uomini, la fede nell’astrologia, nella divinazione del futuro e nella
previsione per mezzo dei sogni.
La teologia. D’altra parte, questa ragione e anima del mondo è lo stesso principio divino
(chiamato anche pnéuma, «soffio vitale»), unico e immanente al mondo: contro il dualismo
platonico aristotelico, la fisica stoica è rigidamente monistica e monoteistica. E Dio, oltre che natura
e destino, è anche mente ordinatrice e provvidenza delle cose, che sono pertanto tutte pervase da
un generale finalismo. Deriva di qui, non solo la negazione della tesi epicurea del disinteresse della
divinità per le cose del mondo, ma anche l’affermazione di un rapporto diretto ed intimo tra Dio e
gli uomini: onde si spiega il tentativo che gli stoici fecero di accogliere il politeismo tradizionale
nella loro cosmologia e nella loro teologia, interpretando gli dei come personificazioni delle varie
potenze cosmiche (Efesto il fuoco, Demetra la terra, Zeus l’etere, ecc.) e giustificando così la stessa
molteplicità di culti e di fedi del mondo ellenistico.
L’etica: la libertà. Il passaggio dalla fisica all’etica è segnato dal problema della libertà dell’uomo:
se tutto è casualmente e fatalmente determinato dovremo negare all’uomo ogni libertà e ogni
responsabilità? Crisippo lo nega e, distinguendo le cause perfette da quelle prossime, afferma con
decisione la libertà e la iniziativa dell’uomo, così come libero è l’assenso che noi diamo o neghiamo
alle sensazioni; e del resto la stessa legge del fato non annulla le particolarità e le capacità
individuali, ma anzi è diversamente determinata da esse. Egualmente l’esistenza del male non
smentisce ma conferma la provvidenza divina, perché se non ci fosse il male non ci sarebbe
neppure il bene e l’uno prende risalto e fisionomia dall’altro.
La virtù. Da queste premesse, è chiaro il principio della morale stoica: esso consiste nel
riconoscere e nell’accettare spontaneamente la necessità provvidenziale che governa tutte le cose.
Ribellarsi ad essa, cercare di sottrarsi alla «natura» e alla «ragione», non è possibile e solo lo stolto
crede di poterlo fare, con il risultato di eseguire egualmente, costretto e infelice, ciò che la natura gli
impone. L’uomo è perciò simile ad un cagnolino legato ad un carro: se lo segue spontaneamente
non avvertirà costrizione e si sentirà libero; se pretende di stare fermo o di andare per suo conto
sentirà sul collo il dolore della corda che lo trascina. La virtù dell’uomo consiste dunque nel vivere
«secondo natura», secondo quella ragione che governa tutte le cose e che come «egemonico», cioè
come «parte» principale dell’anima, comanda e guida tutte le altre «parti»: ne consegue che la virtù
è una e che la cosiddetta molteplicità delle virtù (giustizia, temperanza, fortezza, ecc.) non è altro
che molteplicità di nomi per indicare l’unica virtù; e la virtù o è presente tutta o è assente del tutto:
non ci sono gradi intermedi e gli uomini o sono sapienti e virtuosi o insensati e malvagi. La virtù,
inoltre, non è un dono di natura, ma un’acquisizione dell’anima; e per questo, mentre alcuni
ritenevano che, una volta acquisita, la virtù non potesse essere più perduta, altri ritenevano che
essa, in quanto acquisibile, potesse anche essere perduta. E poiché la virtù è identica alla felicità e
all’utilità, essa è fine a se stessa.
Il bene, il male, l’indifferente; l’«apatia». Tutto ciò che è conforme a natura è virtuoso ed è bene,
ciò che invece è ad essa contrastante è vizioso ed è male: il resto è indifferente (adiàphoron).
Indifferenti sono la salute e la malattia, la ricchezza e la povertà, la fatica e il piacere, ecc., perché
non contribuiscono al raggiungimento del bene e della felicità, che consistono soltanto e per intero
nel possesso della virtù. Tuttavia dal punto di vista della natura umana la salute non è indifferente
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rispetto alla malattia, ma è «preferibile». L’ostacolo vero ad una vita regolata sulla ragione è dagli
stoici individuato nelle passioni (pathe). Per «passione» gli stoici intendono un «movimento
irrazionale e innaturale dell’anima», che nasce allorché un «istinto (hormé) eccedente la misura» si
genera dall’assenso dato ad una rappresentazione falsa. Contro Platone, che aveva distinto una
parte razionale e una parte irrazionale dell’anima, Crisippo precisa che non esiste un istinto
generato dalla parte irrazionale dell’anima ma che la passione è, anch’essa, una forma di «giudizio»,
cioè «un lògos che è cattivo e sfrenato in seguito ad un giudizio perverso ed erroneo che si impone
con violenza e con forza». Tutte le passioni sono egualmente negative e il fine della vita è pertanto
la liberazione da esse o «apatia» (apàteia).
La figura del saggio. Questo rigorismo morale ha la sua personificazione nella figura del saggio
stoico: ricco nella povertà, libero nelle catene, felice nei tormenti, egli è il vero sovrano e il vero
sacerdote, saldo nelle sue deliberazioni, privo dì bisogni e perciò assoluto padrone di sé e superiore
a tutti gli eventi, da cui anche con il suicidio egli riafferma la propria totale indipendenza.
I doveri. Ma la stessa elevatezza di questo ideale ne segnala l’astrattezza: non tutti gli uomini
possono innalzarsi a questo livello e, del resto, Io stesso sapiente, rispetto ai quotidiani problemi
della condotta pratica, si trova di fronte a tutta una serie di alternative che, se sono indifferenti
rispetto al bene e al male, non lo sono in se stesse: alcune sono da preferire, altre sono da
respingere e altre infine sono neutre. Nasce così l’idea delle cose che sono convenienti e doverose
(kathékonta, officia) nel campo della vita familiare e politica, a cui gli stoici invitano a partecipare.
Ed è proprio questa etica dei « doveri» che prende sempre più spazio rispetto a quella delle «virtù»
e che dà allo stoicismo quel carattere di severa disciplina, di attivo e virile impegno, che ne
favorirono la diffusione nel mondo romano.
Del resto al saggio non solo è possibile ma è anche lecito fare tutto: egli solo è buon retore, buon
poeta, buon medico, buon governante; egli solo può fare cose che, se fatte da uno stolto, potrebbero
apparire riprovevoli. Per questo Zenone, tracciando il quadro di una città ideale, non solo andò
molto oltre Platone, delineando con forti influenze ciniche una comunità di sapienti senza
distinzione di governanti e governati, senza proprietà, senza legami familiari, senza culto degli dei,
ma ritenne lecite anche pratiche di antropofagia e di incesto. Gli stoici posteriori respinsero queste
tesi estremistiche, ma tennero ferma l’idea che i saggi costituiscono una comunità che va oltre le
mura di una città e oltre i confini di uno stato: il saggio è cittadino del mondo (cosmopolitismo) e il
lògos universale ed eterno è la norma che deve fare da modello alle concrete legislazioni. Il che rese
gli stoici più disponibili ad accettare la nuova situazione politica creata dalle grandi monarchie
ellenistiche e ad assegnare al saggio il compito di educatore e di consigliere del monarca, purché
disposto ad attuarne le idee.
Il diritto e la negazione della schiavitù. Caratteristica, infine, dello stoicismo è una concezione
naturale e non convenzionale del diritto, identificato con la stessa ragione universale: di qui la
professione di cosmopolitismo, che è l’altra faccia dell’individualismo dell’etica stoica («il saggio è
cittadino del mondo»); di qui la negazione di una distinzione naturale tra liberi e schiavi: tutti gli
uomini sono per natura eguali e la vera libertà è solo nell’ubbidienza alla legge naturale; perciò
liberi sono i sapienti e schiavi gli insensati, mentre lo schiavo, pur restando socialmente e
giuridicamente tale, può sentirsi libero, se attinge la saggezza e valuta come indifferente ogni
condizionamento esteriore. La crisi dell’etica «cittadina» del mondo greco non poteva avere
espressione più rigorosa. Nello stesso tempo, però, lo stoicismo seppe dare una risposta a
molteplici e diverse esigenze emergenti nel mondo ellenistico e poi ellenistico-romano: se con il suo
finalismo, con il suo cosmopolitismo, con la sua etica del dovere esso si presterà a fornire l’ideologia
delle classi dirigenti, esso offrirà anche agli uomini più poveri, più semplici e più emarginati la
consolazione di una fede negli dei, nella provvidenza, nella mantica e nella divinazione, fino a
influenzare la stessa tradizione cristiana.
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