Liceo Scientifico Statale “G. Galilei” - Catania
Lo Stoicismo
di Barbara Maltese
coordinatore
prof. Alfio Bonfiglio
Lo Stoicismo, scuola fondata nel 300 a.C. da Zenone di Cizio (336 – 264 a.C.); fra gli scolari
si ricordano Aristone di Chio, Enrico di Cartagine, Perseo di Cizio e Cleante. Quest’ultimo
successe Zenone nella direzione della scuola; seguito poi da Crisippo, il quale fu di prodigiosa
fecondità letteraria. Continuarono nel dirigere tale scuola, rispettivamente Zenone di Tarso,
Diogene di Selcia e infine Antiparto di Tarso.
Questa scuola venne fondata come continuamento e completamento della dottrina cinica.
Come i cinici gli sotici cercavano la felicità per mezzo della virtù; ma a loro differenza,
ritenevano che per raggiungere la felicità e la virtù, fosse necessaria la scienza. Questa era
considerata indispensabile per la condotta di vita; e sebbene non le venisse riconosciuto un
valore autonomo, veniva inclusa tra le condizioni fondamentali della virtù. Veniva considerata
essa stessa una vera e propria virtù. E quindi le divisioni di quest’ultima erano anche divisioni
della scienza. Questa fu la dottrina che prevalse nello Stoicismo.
Seneca sosteneva: “La filosofia è l’esercizio di
virtù, ma per mezzo della virtù stessa; giacchè
non può esserci né virtù senza esercizio, né
esercizio di virtù senza virtù”.1
Il concetto della filosofia e quello della virtù
vennero così a coincidere. Il suo fine è quello di
raggiungere la sapienza, «scienza delle cose
umane e divine»; ma l’unica arte per poterla
Sede della scuola stoica, Atene
raggiungere è appunto l’esercizio della virtù.
Vi sono tre virtù generali: la naturale, la
mortale e la razionale; alle quali corrispondono altrettante parti in cui la filosofia viene
suddivisa: la fisica, l’etica e la logica.
La logica è la dottrina avente per oggetto i logoi (discorsi). Si identifica come retorica, la
scienza dei discorsi continui; come dialettica, la scienza dei discorsi divisi per domanda e
risposta. In particolare la dialettica viene definita come «la scienza di ciò che è vero e di ciò
che è falso e di ciò che non è né vero né falso» (quest’ultimi intesi come sofismi o paradossi e
come i ragionamenti stessi, considerati solo dal loro punto di vista della loro concretezza
formale).
La dialettica a sua volta si suddivide in due parti: la grammatica, trattante le parole; e la
logica in senso proprio, avente per oggetto le nozioni significate (le cose che le parole
significano), e quindi le rappresentazioni, le proposizioni, i ragionamenti e i sofismi.
1
Epistole, 89.
Le rappresentazioni catalettiche o concettuali rappresentano il criterio della verità mediante
cui il pensiero può servire da guida all’azione; criterio inteso o come l’atto, o come l’azione
dell’oggetto che imprime la rappresentazione sull’intelletto.
Il giudizio è invece l’atto (libero) con il quale l’uomo assente ad una rappresentazione,
oppure ne dissente, oppure rinunzia ad assentirne.
Secondo gli stoici la conoscenza umana deriva dai sensi: l’anima è come una carta bianca
(tabula rasa) su cui si registrano le rappresentazioni (impressioni) sensibili, definite impronte
o segni delle cose secondo Celante; modificazioni dell’anima secondo Crisippo; ritenute
comunque rappresentazioni riprodotte passivamente dagli oggetti esterni e dagli stessi stati
d’animo, le quali una volta accomunate, formano un procedimento naturale, l’anticipazione
(“prolépsi”): processo inteso come una conoscenza universale ramificata in una serie di
nozioni comuni (comunes natitiae).
La scienza è invece costituita dall’iniseme delle conoscenze universali formatesi
artificialmente in virtù dell’istruzione e del ragionamento.
Tuttavia, entrambi i tipi di concetti, naturali e artificiali, non hanno nessuna realtà, poiché
quest’ultima, secondo gli stoici, è sempre individuale e solo nell’anima esiste l’universale.
I concetti generali (categorie di Aristotele) sono quattro: 1) il soggetto o sostanza, 2) la
qualità; 3) il modo d’essere; 4) la relazione.
Come concetto più esteso si intendeva il genere sommo (concetto di essere che coinvolge
tutto, poiché ogni cosa, in qualche modo, è). Come concetto meno esteso e più determinato,
veniva invece inteso la specie (concetto dell’individuo, che non ha altra specie sotto di sé).
Gli stoici trovarono inoltre un concetto più esteso del genere sommo, un qualcosa (aliquid),
comprendente anche le cose incorporee o inesistenti.
La dottrina della logica soica che ha riscontrato maggiore importanza in tutta la tradizione
filosofica è la dottrina del significato, un’alternativa alla teoria dell’essenza di Aristotele (il
concetto è l’essenza delle cose).
Per gli stoici, difatti, il concetto è un segno che significa le cose. In ogni segno si
distinguono tre cose: 1) la cosa significane (parola); 2) il significato (immagine o
rappresentazione mentale che esiste o che viene a nascere in noi, nel momento in cui
pronunziamo o ascoltiamo la parola); 3) la cosa che è significata (oggetto reale). Tra questi, si
riconoscono come elementi corporei, la parola e l’oggetto reale; come elemento incorporeo, il
significato.
Uno dei principali elementi speculativi dello Stoicismo furono i ragionamenti
anapodittici. Se è possibile esprimere in una frase un significato, questo si dice compiuto; e
pertanto si identifica con l’enunciato (axìoma), proposizione linguistica di senso
compiuto(vera o falsa che sia)… concatenando più proposizioni, si compone un
ragionamento; quello per eccellenza è appunto il ragionamento anapodittico (non
dimostrativo), dove sia la premessa che la conclusione risultano immediatamente evidenti.
Per questo tipo di ragionamento, gli stoici enumeravano cinque figure (tròpoi):
1.
Se è giorno c’è luce. Ma è giorno. Dunque c’è luce.
2.
Se è giorno c’è luce. Ma non c’è luce. Dunque non è giorno.
3.
Non può essere insieme giorno e notte. Ma è giorno. Dunque non è notte.
4.
O è giorno o è notte. Ma non è notte. Dunque è giorno.
La premessa maggiore contiene un’assunzione ipotetica (se) oppure disgiuntiva (o…o); la
premessa minore contiene una constatazione fattuale in forma categorica; la conclusione
contiene un’inferenza dedotta coerentemente dalle premesse.
Difatti per gli Stoici, la concludenza di un ragionamento, costituiva una proprietà
indipendente dalla verità; per tale ragione si concentrarono prevalentemente su meccanismi
logici, in quanto tali.
I ragionamenti anapodittici non dimostrano nulla: esprimono ciò che si vede o che appare
evidente. La dimostrazione invece mette in luce qualcosa che prima era oscuro, servendosi di
un indizio per risalire alla causa che lo ha prodotto. 2
Secondo alcune testimonianze, tra le varie forme di ragionamento, gli stoici presero in
considerazione anche quell’insieme di discorsi insolubili (paradossi, antinomie, dilemmi,
sofismi, aporie, ...). 3
I più famosi, ampiamente diffusi, erano quelli di origine megarica (tradizionalmente
attribuiti ad Ebulide). Tra i più celebri, quello del Mentitore e del Bugiardo (Epimenide
cretese proclamava che tutti i cretesi erano bugiardi. Ma allora: diceva il vero o il falso,
Epimenide? Infatti se diceva il vero mentiva, in quanto cretese, asserendo che tutti i cretesi
erano bugiardi; quindi diceva il falso. Se diceva il falso, non mentiva, come cretese, quindi
diceva il vero).
Più elaborato e sottile, ed altrettanto diffuso come il precedente, è il dilemma del
coccodrillo(un coccodrillo, rubato un bimbo, promise alla madre di renderglielo, a patto che
essa avesse indovinato la sua intenzione di restituirlo. Avendo la madre risposto che il
coccodrillo non l’avrebbe restituito, il predone cadde in un terribile dilemma. Infatti, non
2
3
Giovanni Foriero, Protagonisti e Testi della Filosofia, Vol. A, T. I, Paravia, pp. 383;
Cfr. D. Laerzio, Vitae philosophorum, VII, 82-83. Cfr. Stoici Antichi, cit., pp. 726;
restituendolo, avrebbe reso vera la risposta della madre, e quindi avrebbe dovuto, in base al
patto, procedere alla consegna del bimbo. Viceversa, restituendolo, avrebbe reso falsa la
risposta della madre, e quindi, in base al patto, non avrebbe dovuto consegnare il bambino. In
ambe due i casi, il coccodrillo si sarebbe trovato in una paralizzante contraddizione con se
stesso). 4
L’insieme di questi ragionamenti, sia essi che che siano palesi sofismi sia autentiche
antinomie, hanno finito per contribuire al progresso delle ricerche logiche, in quanto
obbligarono gli studiosi ad escogitare appositi schemi di risoluzione.
Il concetto fondamentale della fisica stoica si basa su un ordine immutabile, razionale,
perfetto e necessario, il quale è responsabile dell’esistenza delle cose, conservandole quelle
che sono.
Tale ordine si identifica secondo gli stoici, in dio stesso, poiché la loro dottrina si basa su un
rigoroso panteismo.
Durante lo Stoicismo vennero sostituite le quattro cause Aristoteliche (materia, forma, causa
efficiente, causa finale) con due principi: passivo (sostanza spoglia di qualità, la materia) e
attivo (la ragione, ossia dio sostanza che produce gli esseri viventi, agendo sulla materia).
Entrambi i principi sono inseparabili l’uno dall’altro, ma soprattutto materiali, poiché solo il
corpo esiste.
Gli Stoici attribuirono tale qualità ai due principi, basandosi sulla definizione dell’essere
data da Platone nel Sofista: esiste ciò che agisce o, subisce un’azione. Di conseguenza, poiché
solo il corpo può agire o subire un’azione, solo il corpo esiste. Anche il bene era ritenuto un
corpo: Seneca sosteneva infatti che “il bene opera perché giova e ciò che opera è un corpo. Il
bene stimola l’anima in un certo modo, la plasma e la tiene in freno, azioni che sono proprie
di un corpo. I beni del corpo sono corpi, dunque anche quelli dell’anima che anch’essa è un
corpo”5
Solo quattro specie di cose venivano ritenute incorporee: il significato. Il vuoto, il luogo e il
tempo.
Nemmeno Dio veniva ritenuto sostanza incorporea, in quanto ragione cosmica e causa di
tutto; in particolare era definito fuoco, inteso come soffio caldo (pneauma) e vitale che
conserva, alimenta, accresce e sostiene. Tale fuoco è chiamato ragione seminale, poiché in
esso sono contenute le ragioi seminali per mezzo delle quali tutte le cose si generano.
Tuttavia risulta perfetta la distinzione tra le varie cose: non possono esistere in tutto il
mondo due cose simili, neppure due fili d’erba.
4
5
Giovanni Foriero, Protagonisti e Testi della Filosofia, Vol. A, T. I, Paravia, pp. 384;
Epistole, 106;
La vita del mondo è costituita da un unico ciclo il quale, dopo un lungo periodo di tempo
(grande anno), superata una fase di distruzione (conflagrazione) di tutti gli esseri, ricomincia
(palingenesi e avocatasi) nuovamente senza alcuna modificazione. Tale ciclo si ripete in
eterno.
Gli stoici identificavano nel destino l’ordine necessario del mondo e la concatenazione
causale che lega fra loro gli esseri.
Coincidendo tale ordine, da un punto di vista panteistico, con Dio, il destino si intende
dunque come una struttura benefica razionale, legato in un tutt’uno con la Provvidenza.
Difatti in base all’ottimismo metafisico stoico “tutto avviene secondo una necessità fisica,
coincidente con una necessità assiologia (accade cioè quanto è bene che accada)”.6
Gli stoici giustificavano quindi la mantica, ossia l’arte di prevedere il futuro, grazie
all’interpretazione dell’ordine necessario delle cose; e solo il filosofo poteva praticare tale
arte, in quanto conoscitore dell’ordine necessario del mondo.
Gli stoici sostenevano che il mondo si identificasse con la stessa ragione divina; dunque non
poteva essere che perfetto.
Non per questo gli stoici negavano l’esistenza dei mali nel mondo; semplicemente, in
quanto contrari al bene, li ritenevano necessari per l’esistenza di quest’ultimo: bisogna che i
beni e i mali si sostengano tra loro, poiché senza un contrario non ci sarebbe neppure l’altro.7
Crisippo giustificò la corporeità dell’anima, servendosi della definizione platonica della
morte come «separazione dell’anima dal corpo». “L’incorporeo non potrebbe né separarsi dal
corpo né unirsi con esso; ma l’anima si unisce al corpo e se ne separa; dunque l’anima è
corpo”.8
L’anima è costituita da quattro parti: 1) principio direttivo o egemonico che è la ragione; 2) i
cinque sensi; 3) il seme o principio spermatico; 4) il linguaggio.
Il principio egemonico è quello che genera e controlla le altre parti dell’anima,
protendendosi in esse; e inoltre produce non solo le rappresentazioni e l’assenso, ma
determina anche i sensi e l’istinto.
Gli stoici sostenevano (come anche in passato fecero Platone e Aristotele) che la libertà
consiste nell’essere «causa di sé» o dei propri atti o movimenti. Per indicare tale libertà gli
stoici coniarono il termine autopraghia (  autodeterminazione); attribuendola solo ai
sapienti, poiché solo quest’ultimi venivano ritenuti liberi in quanto capaci di determinarsi da
sé.
S. Moravia – F. Trabattoni;
Sulla Provvidenza, Crisippo;
8
Sulla natura degli uomini, Nemesio, 2, 81;
6
7
Ma la libertà del sapiente consiste nel suo conformarsi al destino. Per la prima volta, quindi,
con questa corrente filosofica si affacciò la dottrina identificane la libertà con la necessità,
trasferendo la libertà stessa dall’uomo al Principio che opera e agisce nell’uomo.
E’ la base dell’etica stoica, l’idea secondo il quale ogni essere tende ad attuare o conservare
se stesso (oikéiosis) in armonia con l’ordine perfetto del mondo. Ed è attraverso due forse
ugualmente infallibili che ciò avviene: L’istinto (guida l’anima a prendersi cura di sé per
sopravvivere) e la ragione (garantisce l’accordo dell’uomo con se stesso e in generale con la
natura).
Dell’etica stoica, la massima fondamentale fu, secondo i maggiori filosofi di tale corrente
«vivere secondo natura»; dove per natura s’intende sia quella universale, sia quella umana
(contenuta in quella universale). Pertanto la massima stoica equivale a quella di «vivere
secondo ragione».
Venne anche introdotta, dell’etica stoica, la nozione del dovere: un’azione conforme a
ragione, quindi alla natura.
“Gli stoici chiamano dovere – dice Diogene Laerzio (VII, 107 – 109) - ciò la qui scelta può
essere razionalmente giustificata… dalle azioni compiute per istinto alcune sono doverose,
altre contrarie al dovere, altre né doverose né contrarie al dovere. Doverose sono quelle che la
ragione consiglia di compiere… contro il dovere sono quelle che la ragione consiglia di non
fare… né doverose né contrarie al dovere sono quelle che la ragione né consiglia né vieta… ”.
Si distinguevano nel periodo stoico, il dovere retto, perfetto e assoluto risiedente in
nessunaltro che nel sapiente, e i doveri «intermedi», comuni a tutti, prevalentemente realizzati
con il solo aiuto di un’indole buona e di una certa istruzione. Tale prevalenza delle nozioni del
dovere condusse gli stoici a una delle dottrine tipiche della loro etica: la giustificabilità del
suicidio. Quando infatti le azioni contrarie al dovere prevalgono su quelle favorevoli, il
sapiente ha il dovere di abbandonare la vita, anche se raggiunto il colmo della felicità
(precetto seguito da molti maestri stoici).
Tuttavia il dovere non è il bene. Si definisce tale, solo quando la scelta consigliata dal
dovere si ripete e si consolida, mantenendosi conforme alla natura, sino a divenire, nell’uomo,
una disposizione uniforme e costante. Quindi non si definisce più dovere, bensì virtù,
destinata solo al sapiente. Distinta con vari nomi, la virtù in realtà è unica, posseduta
interamente solo da chi sa intendere e compiere il dovere, ossia il sapiente. Per tale motivo
non esiste via di mezzo tra virtù e vizio (il suo opposto).
Il principio secondo cui si definisce la virtù, portò gli stoici alla formulazione di una
dottrina tipica della loro etica: quella delle cose indifferenti, cose cioè che no costituiscono
virtù, ma che tuttavia venivano scelte o preferite in quanto ritenute degne di ciò; e tutti i loro
contrari. Per definire l’insieme di tutti i beni e di tutte le cose indifferenti, venne utilizzata la
parola valore (ogni contributo ad una vita conforme a ragione9). Nell’etica stoica si giunse
però alla negazione totale del valore dell’emozione (pathos), in quanto si sosteneva che fosse
provocato da fenomeni di stoltezza e di ignoranza consistenti nel “giudicare di sapere ciò che
non si sa”.10
Tutte le emozioni, secondo gli stoici, si potevano ridurre in quattro “tipi” fondamentali: la
brama dei beni futuri e la letizia di quelli presenti, entrambe originate dai beni presunti; il
timore dei mali futuri e l’afflizione di quelli presenti, entrambi generati dai mali presunti.
Alle prime tre emozioni corrispondevano rispettivamente tre stati normali propri del
sapiente: la volontà, la gioia e la precauzione, tutti stati di calma e di equilibrio razionale.
E’ invece all’afflizione per lo stolto che, nel sapiente, non corrisponde nulla, poiché non
esiste alcun male di cui quest’ultimo debba dolersi, in quanto egli conosce la perfezione
dell’universo.
Le emozioni vengono considerate dal sapiente come delle
vere e proprie malattie (dal quale è però immune), che
colpiscono lo stolto.
E’ quindi il sapiente in una condizione di perenne apatia
(indifferenza ad ogni emozione).
Oltre le leggi dei vari popoli, gli stoici sostenevano
l’esistenza di una legge superiore a tutte le altre, governante
l’intera umanità secondo l’ordine razionale del mondo.
Sicchè l’umanità è retta da un’unica legge, una sarà la
comunità umana.
“L’uomo che si conforme alla legge è cittadino del
mondo (cosmopolita)”.11
Scultura di Cicerone
Sebbene si chiuse la parentesi di questa grande corrente
filosofica, lo stoicismo no scomparve mai del tutto,
lasciando nel tempo numerose tracce.
Senza dubbio infatti, quella stoica, tra le tre grandi scuole post-aristoteliche, fu la più ricca
di influenze, rivestendo un ruolo decisivo, oltre che nell’ultimo periodo della filosofia greca,
9
Diogene Laerzio, VII, 105;
Tusculane, Cicerone, IV, 26;
11
Cicerone;
10
nella patristica, nella scolastica araba e latina e nel rinascimento; anche nel seno stesso della
filosofia moderna e contemporanea, sia in maniera diretta che sotto forma di dottrine.
Barbara Maltese
Liceo Scientifico St. “G. Galilei” di Catania
Classe IV sezione F.
Insegnante di Storia e Filosofia:
prof. Alfio Bonfiglio
Indicazioni bibliografiche
Testi degli Stoici:
Stoici antichi ( a cura di M. Isnardi Parente), Utet, Torino 1989.
R. Mondolfo – D. Pesce ( a cura di), Il pensiero stoico ed epicureo, La nuova Italia,
Firenze1989.
Opere sugli Stoici:
G. Mancini, L’etica stoica da Zenone a Crisippo, Cedam, Padova 1940.
M. Mignucci, Il significato della logica stoica, Patron, Bologna 1965.
M. Pohlenz, La Stoa. Storia di un movimento spirituale, La Nuova Italia, Firenze 1967.
C. A. Viano, La dialettica stoica, in AA. VV., Studi sulla dialettica, Taylor, Torino 1969, pp.
63-111.
A. M. Ippolo, Aristone di Chio e lo stoicismo antico, Bibliopolis, Napoli 1980.
A. M. Ippolo, Opinione e scienza. Il dibattito tra stoici e accademici nel III secolo e nel II
secolo a.C., Bibliopolis, Napoli 1986.
M. Isnardi Parente, Introduzione a Lo stoicismo ellenistico, Laterza, Bari 1995.