Rileggere la Seconda Repubblica. Un`introduzione di

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Rileggere la Seconda Repubblica.
Un’introduzione
di Nicola Genga e Francesco Marchianò*
1. Le culture politiche da una Repubblica all’altra
Questo volume raccoglie gli atti del VI e VII Confronto Italiano,
convegni che si sono svolti a Cetona (SI) rispettivamente nel dicembre 2010 e nell’ottobre 2011. Pur se dedicati a tematiche diverse,
questi momenti di confronto e riflessione appaiono fortemente legati tra loro da un filo rosso rappresentato dall’insuccesso delle novità sistemiche, istituzionali e politiche, introdotte in Italia dopo la
crisi della Prima Repubblica.
Il periodo storico dei primi anni Novanta ha visto accelerare in
maniera inarrestabile processi di disgregazione delle culture politiche e istituzionali, degli attori politici, delle istituzioni, dei principi
costituzionali. Gli eccessi partitocratici del decennio Ottanta si sono
risolti in un eccesso di segno opposto: la critica totale alla mediazione, sia tra Stato e società che nelle istituzioni stesse. Su questa
critica si è innestato il tentativo di creare in vitro un sistema politico
nel quale si sono sperimentati modelli diversi, caratterizzati da una
doppia incoerenza, sia con la cultura politica generale del paese che
al loro interno.
Questo spirito innovativo si prefiggeva di fare dell’Italia una democrazia maggioritaria, bipartitica, federale e presidenzializzata,
optando per l’importazione di modelli esteri, più o meno collaudati,
e facendo eccessivo affidamento su espedienti di tecnica elettorale,
visti come gli unici strumenti in grado di spezzare il consociativismo
*
Francesco Marchianò è autore del primo paragrafo, Nicola Genga del secondo
paragrafo.
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partitico e riconsegnare il potere ai cittadini. Questi tentativi sono
avvenuti trascurando un principio fondamentale. È noto, infatti, che
i sistemi politici non si creano ex novo, ma nascono e si sviluppano
su elementi culturali esistenti, su conflitti e fratture presenti già
nella società in cui anche i partiti nascono e crescono. Non può essere la sola tecnica elettorale a determinare il sistema dei partiti e il
loro numero. È la diversità storica, sociale e culturale specifica di
ciascun paese a condizionare il modo in cui la società si rappresenta
nello Stato. Non si può essere bipartitici per legge. È semmai la legge elettorale che dovrebbe adattarsi a consentire la migliore rappresentanza possibile di un paese, preoccupandosi, in ogni caso, di
rendere effettiva la governabilità.
Questo principio è stato smarrito per una lunga fase storica nella
quale è prevalsa l’illusione di poter adattare qualsiasi soluzione al sistema politico italiano. Sull’onda di una critica troppo radicale ai
partiti, cavalcata dagli organi di informazione, sono venute affermandosi opzioni politiche molto più ambigue e disfunzionali, leggi
elettorali confuse, riedizioni della legge Acerbo, un regionalismo
antistatalista, un diffuso presidenzialismo comunale e regionale
sprovvisto del necessario bilanciamento di poteri. La critica ai partiti, come attori della mediazione tra società e Stato, ha unito elettorati di segno opposto: quello della società civile più informata, incline all’impegno, ipersensibile agli aspetti legalitari, e attratta dal
partecipazionismo civico, dalla democrazia diretta dei referendum,
sedotta dai fax, dalla raccolta firme; quello periferico e alienato,
sensibile invece al richiamo dell’antipolitica più radicale che si è affidato alla soluzione carismatica e patrimoniale.
Così, al tramonto del sistema dei partiti, non è corrisposto un
miglioramento della democrazia italiana. Piuttosto, sono emersi
elementi molto più pericolosi. La critica al professionismo politico
ha spalancato le porte al dilettantismo. L’estraneità al mondo politico è diventata improvvisamente un titolo di merito per riscuotere
consenso tra gli elettori, così lo spazio del politico è stato colonizzato da altre sfere della società, in particolare quella dell’impresa e
quella della comunicazione. Berlusconi, in questo senso, come imprenditore della comunicazione, ha ben incarnato questa tendenza
portandola alle estreme conseguenze. Ma il caso italiano non è eccezione, semmai una forte caricatura di un processo che, come ha
notato Colin Crouch, è tipico delle postdemocrazie.
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In Italia, a questa tendenza, vanno aggiunti altri fattori. Dapprima la diffusione del populismo sia a destra (nella sua declinazione
identitaria con la Lega e aziendalista con il PDL), sia a sinistra con
l’impostazione leaderistica e personalistica rappresentata dalla logica delle primarie e dei partiti estroversi. Inoltre, la destrutturazione
degli apparati partitici ha fatto venire meno anche una delle loro
funzioni principali cioè la capacità di selezionare élites politiche all’altezza del loro compito. Il decadimento del paese è il segno del
decadimento, in primo luogo, delle nostre classi dirigenti.
Per comprendere come e perché si sono verificati questi cambiamenti sia nel paese che nei partiti, alcuni contributi partono da un
inquadramento storico-politico e storico-giuridico. La ricognizione
compiuta sulle culture politiche italiane di destra e di sinistra (si vedano i saggi di Pasquale Serra e Michele Prospero), sul rapporto
centro-periferia (Claudio De Fiores) e sull’evoluzione dell’amministrazione in Italia (Andrea Guiso) sono molto utili, da questo punto
di vista, sia per cogliere gli aspetti di rottura, innestatisi su elementi
di lunga durata, sia per dimostrare come fossero presenti nel passato alcuni preoccupanti «segnali premonitori» nascosti nelle zone
d’ombra della nostra Storia.
Questo sguardo all’indietro si rivela perciò un esercizio molto utile,
non solo per capire le novità introdotte nella Seconda Repubblica, ma
soprattutto per interrogarsi sul loro (prevedibile?) tradimento.
2. La transizione italiana tra miti e realtà
All’antitesi tra miti e realtà della politica italiana di oggi, che gli interventi contenuti in questa raccolta mettono in luce in tutte le sue
sfaccettature, si affianca un altro binomio problematico: quello che
unisce bipolarismo e transizione. Bipolarismo e transizione sono, in
effetti, due termini in grado di sintetizzare efficacemente il dibattito
politologico, e politico, dell’Italia recente. Nel ventennio della «cosiddetta» Seconda Repubblica si sono sedimentati innumerevoli contributi
incentrati sul tema della transizione verso un assetto bipolare. O comunque della transizione ad un nuovo assetto attraverso il bipolarismo.
Secondo una chiave di lettura transitologica la transizione è quindi
la dimensione temporale in cui si dovrebbe, o si sarebbe dovuto,
gradualmente costruire un bipolarismo strutturato. Tuttavia, è pro15
prio il concreto divenire della transizione italiana a mettere in evidenza lo iato tra i miti e la realtà della Seconda Repubblica. Come
osserva Mauro Volpi, l’affannosa ricerca di aderire all’idealtipo bipolare si è infatti scontrata con evidenti contraddizioni ed è sfociata
in prevedibili fallimenti. L’obiettivo della governabilità non può essere raggiunto attraverso una fittizia elezione diretta del Governo e
l’adozione di un sistema di voto forzosamente maggioritario. Questo sembrano testimoniare le scarsissime performance degli esecutivi italiani negli ultimi vent’anni, non bastasse il fatto che la forma di
Governo delineata nella costituzione vigente, rimasta impermeabile
ad un tentativo di robusta revisione, non è compatibile con formule
di democrazia immediata che, peraltro, non trovano un corrispettivo neanche in democrazie maggioritarie di lungo corso.
L’idea stessa che quello visto dal ’94 ad oggi possa essere un bipolarismo in grado di resistere nel tempo, restando un modello capace di incanalare compiutamente la dialettica socio-politica esistente in Italia, si affievolisce di fronte all’osservazione del dato empirico. Lo mette in luce Fortunato Musella individuando nella
frammentazione, nel transfughismo e in un mancato radicamento
sociale i connotati dell’attuale bipolarismo italiano. Si è assistito, in
questi anni, a un bipolarismo imperniato su soggetti dall’identità e
dal profilo organizzativo evanescente, visto che i partiti hanno perso
consistenti porzioni di sovranità in favore delle coalizioni. Secondo
Michele Prospero proprio questa nuova entità, il soggetto coalizione, è il protagonista di una stagione politica caratterizzata da un bipolarismo meramente meccanico in quanto indotto dalla coercizione del sistema elettorale. Attraversate da contraddizioni interne e
da eterogeneità politico-culturali spesso inconciliabili, le coalizioni
preelettorali si sono dimostrate inadatte a rendere funzionale un sistema basato sulla contrapposizione tra due schieramenti che potessero alternarsi fornendo un contributo incrementale alla costruzione di politiche pubbliche efficaci. Il bipolarismo quantitativo e coalizionale della lunga transizione italiana si è espresso prevalentemente, dice Prospero, come scontro «rusticano» tra leadership asimmetriche: da una parte il neopatrimonialismo politico berlusconiano, dall’altra la sperimentazione di formule iperdemocratiche e
plebiscitarie che rivelano una subalterna predisposizione alla rincorsa dell’avversario. Sono questi gli elementi di quello che Prospero definisce, mutuando una formulazione di Marco Follini, «bilea16
derismo asimmetrico», ossia un sistema egemonizzato da capi inamovibili alla guida di schieramenti privi di una chiara identità politico-culturale. L’assenza di uno statuto dell’opposizione, registrata
da Elisabetta De Giorgi nel suo contributo, è l’epifenomeno di questa «conflittualità esasperata», di un «contrasto paralizzante», di una
«polarizzazione» imperniata sulla figura di Berlusconi più che sulla
contrapposizione consapevole di forze distinte da una costituency definita e da una cultura politica radicata. Nel complesso si assiste ad
un’impotenza strutturale del bipolarismo italiano, evidenziata, come
evidenzia Michela Manetti, dalla supplenza del Presidente della
Repubblica Napolitano nello sblocco di una situazione di impasse che
sembrava inamovibile con gli strumenti consueti della dialettica
parlamentare.
È, insomma, lecito chiedersi quale sia la transizione di cui il paese
abbia bisogno nei prossimi anni. C’è, insomma, l’esigenza, di compiere definitivamente il passaggio da un «pluralismo polarizzato» ad
un «bipolarismo costituzionalizzato», se non addirittura ad un bipartitismo, ammettendo che gli eventi degli ultimi vent’anni abbiano
posto le fondamenta per l’edificazione di una democrazia maggioritaria compiuta? Oppure la transizione deve riguardare il superamento di una serie di equivoci che hanno gravato sulla vicenda politica italiana negli ultimi vent’anni, e contribuire a chiudere una parentesi fatta di miti come l’antiribaltonismo, il determinismo elettorale e il bileaderismo, provvedendo a conciliare il sistema politicoistituzionale con la realtà sociale e le prerogative storico-culturali
del paese? I contributi di questo volume cercano di dare una risposta articolata a questo dilemma di fondo, ancor più scottante alla luce della recente emersione elettorale di proposte, si pensi al Movimento 5 Stelle, fortemente critiche nei confronti dei meccanismi e
degli attori della democrazia rappresentativa italiana.
Certamente, se lo sbocco della transizione che inizia con il consolidamento della democrazia bipolare vorrà essere positivo dovrà garantire migliori prestazioni non solo in termini di «funzionamento»
del sistema e di pacificazione tra le forze politiche. La sfida che si
pone in questo passaggio di fase sta, in breve, nella capacità di
combinare rappresentanza e governabilità accrescendo la qualità
della democrazia in Italia. Il nesso ineludibile tra accountability e
qualità democratica è ben evidenziato sia da Marco Almagisti che
da Prospero, il quale individua il partito politico come input e la
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crescita economica come output di un ottimale funzionamento del sistema rappresentativo.
Naturalmente non vi può essere un’adesione fideistica ad un modello prestabilito da cui ricavare, per deduzione, tutti gli elementi
del sistema. Vi sono, al contrario, alcuni nodi fondamentali da sciogliere per riconfigurare il volto della democrazia italiana. Intanto,
come osservano sia Oreste Massari, sia Bruno Tabacci nella Tavola
Rotonda, si tratta di compiere una scelta chiara sulla forma di Governo. L’Italia può strutturarsi come democrazia competitiva, ma
solo a patto di chiarire l’equilibrio tra i poteri e, prima ancora, di
verificare la tenuta dell’attuale forma di Stato di fronte ad istanze
autonomiste e potenzialmente disgregative.
A dirimere la questione non può essere nemmeno una legge
elettorale scaturita dall’esito di un referendum manipolativo, né il
«riformismo di maggioranza» di una coalizione temporaneamente
al Governo. Anche perché, lo sottolinea De Fiores, se è vero che la
legge elettorale può essere considerata una «tecnica di inveramento della democrazia», bisogna tenere conto che il dibattito sulla
revisione del sistema elettorale non può che accompagnarsi ad
una riflessione complessiva sulle forme della democrazia stessa.
Come rileva Domenico Fruncillo il successo di qualsiasi intervento
legislativo in materia dipende dall’analisi ponderata del contesto
politico-istituzionale e della società nel suo complesso. In ogni caso, Volpi ribadisce che non esiste alcun legame tra l’adozione di
un particolare sistema elettorale e l’efficacia della meccanica bipolare. Le recenti vicende inglesi lo suggeriscono in maniera abbastanza convincente, non bastassero i fallimenti dei nostrani Mattarellum e Porcellum.
Ad alterare i termini della discussione sulla legge elettorale, è
stata tuttavia la frequente contrapposizione di due spauracchi:
l’asseblearismo da una parte e il decisionismo dall’altra. Regolare
la rappresentanza non significa però né accentuarla fino all’atomizzazione, né razionalizzarla fino a soffocare le istanze minoritarie. Può significare, invece, badare ad alcuni dettagli tutt’altro che
secondari, congegnando clausole di sbarramento meno arbitrarie
e frastagliate di quelle previste dall’attuale normativa elettorale.
In questa direzione vanno, ad esempio, le proposte di riformulazione del sistema di voto sinteticamente illustrate da Luciano Violante. Ma significa anche ripensare complessivamente la questione
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dei rapporti tra centro e periferia, sia a livello nazionale che su
scala europea.
Lo Stato, come attore di un processo di necessaria riorganizzazione delle istituzioni politiche continentali, e i partiti, in qualità di
agenzie di mobilitazione del consenso popolare, si confrontano con
questa doppia incombenza. La nuova missione dei partiti, nella visione di Almagisti, sta nel ricostruire le forme e i processi della rappresentanza attraverso una «divisione del lavoro» con altri soggetti
sociali come i movimenti e le associazioni, fungendo da «sensore» e
«cinghia di trasmissione» delle istanze dei territori. Se ci limitiamo a
considerare il caso italiano, questo riassetto orizzontale delle forme
di mediazione politica passa per l’attenta considerazione delle specificità subculturali che contraddistinguono le diverse aree del paese. Nei suoi interventi durante la Tavola rotonda Gianluca Pini ha
rivendicato a più riprese il tentativo della Lega Nord, suo partito di
appartenenza, di ri-mediare politica e territori attraverso una revisione dell’assetto istituzionale che reincardini in una nuova forma di
Stato i rapporti tra centro e periferia.
A livello dei rapporti dell’Italia con lo spazio politico ed economico dell’Unione europea si tratta, invece, come suggerisce Giovanni Rizzoni, di riflettere sullo scarto tra il modello nazionale di
politics e government, nelle sue dinamiche avversariali, e il modello
della governance, che orienta in senso cooperativo la produzione di
policies su scala internazionale. Una discrepanza che rimanda alla distinzione tra la politica partisan e l’amministrazione affidata ad organismi dal profilo squisitamente tecnocratico.
Il funzionamento di un sistema rivitalizzato dipende, poi, dal
ruolo che i diversi attori riusciranno a ritagliarsi a cavallo tra istituzioni e società. I partiti, come spesso evidenziato fin qui, non possono essere estromessi dal restyling di un sistema in cui, invece, dovranno giocare un ruolo da protagonisti. Perché ciò accada è però
necessario che si allenti la morsa dei leader sulle organizzazioni. È
chiaro che il «problema della personalità» non potrà scomparire
dall’oggi al domani. E il ridimensionamento del principio carismatico potrà avere luogo solo se i partiti lavoreranno con efficacia alla
propria rilegittimazione. Lo rimarca Massari, nell’invocare maggiori
assunzioni di responsabilità, politica e giuridica, da parte dei partiti
stessi. Una correzione di rotta resa tanto più urgente dalle sempre
più diffuse manifestazioni di populismo strisciante che dileggiano
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l’immagine della politica come professione necessaria allo svolgimento di funzioni pubbliche fondamentali, tipiche di qualsiasi democrazia contemporanea.
Infine, gli equilibri intraistituzionali. Come nota Manetti, la stabilità del sistema richiede necessariamente il superamento di un
clima avvelenato che colpisce anche gli organismi di garanzia come
il capo dello Stato e la Corte costituzionale, oggetto degli strali di
un’opinione pubblica che esprime per lunghi tratti una vocazione
nichilista all’antipolitica. La tenuta di qualsiasi nuovo assetto politico si fonda sulla ritrovata coesione tra i diversi pilastri del sistema:
Parlamento, Governo, Presidenza della Repubblica, Corte Costituzionale. Solo con la transizione dai miti della Seconda Repubblica
immaginaria alla realtà di una Repubblica rifondata si potrà tentare
il ripristino di questo terreno comune.
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