Cibo ed etnopsichiatria

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CORRELATE
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I disturbi del comportamento
alimentare tra clinica psichiatrica
occidentale ed etnopsichiatria.
Una riflessione nosografica
Gli Autori passano in rassegna i principali dati epidemiologici
e nosografici in atto disponibili sui disturbi della condotta alimentare, ed in particolare sulla bulimia, e propongono una serie di osservazioni storiche e cliniche sul significato che tali
disturbi hanno assunto nella nosografia psichiatrica occidentale, in particolar modo in tempi recenti. Fondandosi su tali
dati, essi suggeriscono che in tali disturbi possa esistere una
forte connotazione culturale, sino a potersi ipotizzare che essi possano essere considerati l'espressione occidentale moderna di una sindrome mediata dalla cultura (culture-bound
syndrome), secondo la classica definizione dell'etnopsichiatria. In base a tale ipotesi, è allora da ritenere possibile
che il trattamento dell'anoressia e della bulimia - oltre che ovviamente medico e psicologico 'ortodosso' - possa anche
utilizzare gli stessi criteri metodologici e gli stessi strumenti
clinici che possono essere utilizzati in etnopsichiatria per la
terapia delle 'culture-bound syndromes'. Ci si riferisce nella
fattispecie all'ipotesi di terapie che abbiano la finalità di ristrutturare i modelli culturali e sociali occidentali alla base dei
disturbi della condotta alimentare, attingendo alle risorse culturali originarie del paziente e mirando psicodinamicamente
ad un ridimensionamento del suo Sé.
Parole Indice
Disturbi del comportamento alimentare, Bulimia, Etnopsichiatria
ella storia della cultura occidentale, le prime descrizioni di anomalie dell'alimentazione o comunque di condizioni analoghe a quelle che oggi consideriamo disturbi della condotta alimentare (DCA)risalgono a centinaia di
anni fa. Ma si tratta di descrizioni sporadiche, incerte, spesso
inappropriate, senza alcuna rilevanza nemmeno dal punto di
vista storico. Di certo non possono in alcun modo essere considerate delle descrizioni di un disturbo, ma semplicemente qualcosa di assai simile a storie inattendibili, o ad osservazioni di
'stranezze comportamentali' non dissimili dalla 'malattia d'amore' descritta accuratamente dallo stesso Ippocrate.
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D'altra parte, anche gli attacchi di
fame vorace ed insaziabile sono presenti nella antica letteratura greca
ed ebraica, ma non possono affatto
essere considerati descrizioni di un
quadro patologico.
È invece nel basso Medioevo che i
disturbi dell'alimentazione divengono oggetto di cronache dettagliate
ed attente, in particolare modo per
quanto attiene alle manifestazioni di
essi in sante o comunque in donne
particolarmente pie e devote. BelI ha
addirittura suggerito che molte sante del tredicesimo secolo fossero affette da anoressia (una 'santa anoressia', come l'Autore la definisce
(1». Uno degli esempi più ec1atanti
di tale comportamento è quello di
Santa Caterina da Siena che, secondo Rampling (2) era affetta da una
severa forma di anoressia nervosa.
Scriveva Santa Caterina da Siena,
per esemplO:
"Vi assicuro, davanti a Dio... che
una o due volte al giorno mi sforzo
di assumere del cibo... Ho preso accuratamente in esame questa infermità e ho pensato che Dio, nella sua
bontà, me la desse per correggermi
dal vizio della gola".
D'altra pàrte basta pensare che la
grande magrezza era in qualche
modo connessa, nell'immaginario
sociale di altre epoche, come il Medioevo, al desiderio di trascendere il
corpo, di mortificarlo in favore dello
spirito.
Ma pur essendo comportamenti noti
sin dall'antichità, i disturbi dell'alimentazione non sono stati per lungo
tempo considerati delle condizioni
di rilevanza clinica, non insomma
delle vere e proprie malattie.
Questo è stato dovuto, probabilmente, non tanto alla irrilevanza clinica
e nosografica del disturbo, o alla sua
assenza, quanto probabilmente al
fatto che i DCA erano culturalmente
DISTURBI
DELL'ALIMENTAZIONE
mascherati, la magrezza in particolare divenendo epifenomeno di una
weltanshauung che tendeva alla spiritualità
mistica ed all'ascetismo,
passando attraverso la mortificazione della corporeità.
Ciò avveniva
non solo attraverso il rifiuto del cibo, e quindi l'enfatizzazione
della
magrezza estrema come negazione
della corporeità stessa, ma anche attraverso i sintomi secondari indotti
da questa scelta, anch'essi evidente
espressione
del rifiuto/negazione
del corpo. Si pensi, per esempio, al
vissuto della mancanza di cicli mestruali nell'anoressia nervosa, come
espressione simbolica della negazione della sessualità (3), ed al rapporto
di questo fenomeno - al tempo stesso
culturale e patologico - con l'ascetismo (nella fattispecie cattolico).
D'altra parte, una visione dell'anoressia come condizione femminile
purificata da ogni altra contaminazione corporea mediata dal cibo (e
della sua funzione "eccitante")
è
presente ampiamente nella concezione medioevale, come è stato altrove suggerito (3, 4). Il problema
dei disturbi del comportamento
alimentare si pone storicamente, quindi, quasi come categoria comportamentale atta a modificare non solo o
non tanto il corpo femminile, quanto le possibilità di espressione reale
e di potenzialità simbolica del medesimo, in assoluta aderenza con un
ideale estremo di incontaminazione
mistica, che rendeva
spensabile il rifiuto
forma di istintualità
privilegiare al corpo
me 'natura' un corpo
me 'cultura'.
pertanto indidi qualunque
e comunque il
femminile cofemminile co-
In epoca moderna, la prima descri"
zione clinica dell'anoressia nervosa
venne fornita da Sir William Gull a
Londra nel 1868, che propose per
questo quadro clinico proprio il ter-
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mine di 'anoressia nervosa' (5); una
ulteriore descrizione venne poi data
a Parigi dal francese Laségue (6),
nel 1873. Precedentemente
c'erano
state altre descrizioni del quadro
clinico: una abbastanza approssimativa di ]ohn Reynold nel diciassettesimo secolo, che riferisce di una
'prodigious abstinence', e una invece molto più dettagliata di Richard
Morton che, nel 1689 (7) e nel
1694 (8), rilevò le caratteristiche
essenziali della sindrome, dal rifiuto
del cibo ai disturbi mestruali che poi
si evidenziò essere associati pressocché costantemente a questo quadro
clinico. Sebbene, pertanto, Morton
possa essere considerato il medico
che ha propriamente
'scoperto' l'anoressia nervosa - come suggerisce
Silverman (9) - CulI e Laségue furono certamente i primi non solo a
descriverne con precisione 'moderna' il quadro clinico, ma anche a
suggerire un approccio terapeutico.
L'anoressia nervosa fu quindi descritta quasi contemporaneamente
nella seconda metà dell'800 in due
grandi aree metropolitane.
A differenza dell'anoressia, nota agli
ambienti psichiatrici e medici da oltre un secolo, la bulimia nervosa nasce come entità nosografica autonoma solo nel 1980; prima di allora fu
considerata solo un sintomo, sfumato
nel quadro clinico dell'anoressia.
In realtà di tale disturbo si trova
menzione nella letteratura
medica
francese (la Boulimie) già del 1772,
in cui veniva definita come "bulimia
emetica" e descritta come consumazione forzata, con successivo rigurgito di quantitativi maggiori di quelli che possono essere digeriti. Verso
la fine del secolo scorso (1899) la
bulimia era descritta come "una fa~
me patologica osservabile specialmente tra gli idioti e i maniaci, che
induce i pazienti a mangiare in mo-
~
B U S
do cosi sfrenato da causare il rigurgito e il vomito, dopo il quale essi
riprendono a riempirsi".
Da quest'ultima data al 1975, data di
pubblicazione del DSM-III, la bulimia viene quasi del tutto dimenticata,
facendola in qualche modo rientrare
all'interno della sindrome anoressica,
o una reazione psicologica gastrointestinale, oppure una variante dell'obesità. Russell fu colui che per primo
nel 1979 propose la definizione di
"bulimia nervosa" in cui incluse oltre agli episodi bulimici altre caratteristiche psicopatologiche quali il terrore di ingrassare, il vomito autoindotto e l'abuso di purganti.
La bulimia acquistò vasta notorietà
presso il pubblico statunitense in seguito ad una invasione di articoli divulgativi sulla stampa, tra cui un
pezzo apparso nel 1981 sul New
York Times che descriveva una ricerca condotta su una vera e propria epidemia del disturbo insorta in
un campus della State University di
New York, in cui un buon 13% dei
soggetti iscritti, di cui 1'87% era costituito da donne, rispondeva ai criteri diagnostici del DSM III per la
bulimia, dichiarando cioè un passato di eccessi alimentari seguiti da
vomito volontario.
La necessità di disporre di criteri
oggettivi, per quanto possibile non
dipendenti da assunti teorici e confessionali, ha spinto l'American Psychiatric Association alla formulazione di criteri diagnostici accettabili da
tutti gli operatori e a rendere così
confrontabili casistiche e protocolli.
Da quando l'esistenza di disturbi del
comportamento alimentare venne
identificata come problema psichiatrico, i DCA hanno modificato di-
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verse loro caratteristiche. Anzitutto
è stato osservato
un aumento
nell'incidenza dell'anoressia nervosa. Il fenomeno è stato evidenziato
per primo da Theander (IO), che rilevò a Malmo, in Svezia, un aumento dell'incidenza tra gli anni 30 e i
50. Questa rilevazione fu successivamente confermata da una serie di
altri studi: da Kendell et al. nel Regno Unito (I 1), da Szmukler et al.
in Scozia (I 2), da Jones et al. negli
Stati Uniti (I3), da Willi e Grossmann in Svizzera (14).
Un solo studio, realizzato negli Stati
Uniti, ha negato l'aumento di incidenza dell'anoressia
nervosa (I5),
analizzando i dati disponibili alla
Mayo Clinic e relativi al periodo tra
il 1935 e il 1979. Si tratta dell'unico
studio discrepante, e la differenza
nei dati sembra poter essere attribuita al fatto che la popolazione sulla quale lo studio venne condotto
era più caratterizzata da registrazioni mediche generali che da registrazioni psichiatriche.
Di fatto, è stata raccomandata prudenza nell'interpretazione
di questo
aumento di incidenza dell'anoressia
nervosa, ed è stato provocatoriamente
suggerito che tale aumento possa essere un altro 'mito medico' (16). In
realtà i dati disponibili s~mbrano
tutti concordare in direzione di un
sicuro aumento dell'incidenza di disturbi del comportamento alimentare, come è stato anche confermato
da studi su popolazioni studentesche, relativi in particolare alla bulimia (I7).
Tali dati sono stati anche valutati come allarmanti su riviste mediche non
psichiatriche (18), mentre Masloney
e Klykylo, nel 1983 (I9) e Vandereycken e Meerman nel 1984 (20)
hanno palesemente espresso l'opinione che il fenomeno della diffusione dei disturbi alimentari nella
DISTURBI
DELL'ALIMENTAZIONE
popolazione giovanile stesse aumentando con un vero andamento epidemico, dato riportato anche in altri
studi (2 I). I dati relativi a questa
tendenza nella valutazione epidemiologica dei disturbi della condotta
alimentare sembrano derivati talvolta da una eccessiva enfatizzazione forse - dei dati disponibili (22), ma
bisogna anche ammettere che dati
epidemiologici fondati derivano da
studi sulle ammissioni in ospedale di
giovani donne con quadro clinico di
anoressia nervosa (IO, 14, 23), ma
anche sulle condizioni cliniche di
pazienti non ricoverati e appartenenti ad una popolazione giovanile
(24), o da casistiche derivate da registri epidemiologici
(I I, 12, 25).
Gli studi epidemiologici non hanno
comunque
mostrato alcun incremento dei casi maschili di anoressia
nervosa (26, 27). È il caso anche di
rilevare come recenti studi epidemio logici (Fombonne, 1995) (28)
abbiano messo in evidenza non solo
la mancanza di dati sufficienti a suffragare l'ipotesi di un aumento nell'incidenza in particolare dell'anoressia nervosa, ma anche il cambiamento nei criteri diagnostici (per
esempio il fatto non irrilevante che
per una diagnosi di anoressia nervosa il DSM III richiedesse una diminuzione di peso del 25%, mentre il
DSM III-R ridusse tale percentuale al
15%, aggiungendo però la mancanza
di tre cicli mestruali consecutivi,
modificando in tal modo inevitabilmente - anche se magari in mahiera
non rilevante - i tassi di anoressia
mentale diagnosticati nei vari studi).
L'evidenza maggiore del fatto che
l'anoressia nervosa abbia subito notevoli cambiamenti è l'emersione recente della bulimia nervosa. In effetti - e questo giustifica la sua connessione nosografica con l'anoressia
- si tratta di un fenomeno dalle
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uguali determinanti, solo che assu~
me caratteristiche più 'violente, nel
senso che il mantenimento
di un
adeguato peso corporeo è stabilito
mediante il vomito o l'uso di lassativi da parte dei soggetti affetti. Non
si tratta di un dato storico~nosogra~
fico legato all'anoressia
nervosa,
tanto che resoconti più antichi rela-
tivi al disturbo in oggetto, come quel
~
lo di Kay e Leigb del 1954 (29), non
dicono alcunché di rilevante su queste pratiche di induzione del vomito
o di abuso finalizzato di purganti.
L'evidenziazione del fatto che queste
prassi avevano con notazioni patolo~
giche, risale solo agli anni '70 (30).
Nel 1959, Stunkard (31) coniò l'e~
spressione - ormai entrata nell'uso
comune
~
di 'binge-eating syndro~
me', riferendosi a pazienti obese che
vomitavano per mantenere un certo
grado di 'forma' fisica.
La Bruch (32) descrisse nel 1974 le
persone che vomitavano dopo ampie
ingestioni di cibo con una espressione caratteristica, e difficilmente tra-
ducibile in senso letterale: parla in
~
fatti di 'thin fat people', qualcosa di
simile a 'gente magra-grassa'.
Solo nel 1979 Russell (33) introdus~
se il termine di 'bulimia nervosa'
per descrivere pazienti caratterizzate da un abuso episodico e compul~
sivo di cibo (le 'abbuffate') e dalla
successiva e volontaria 'induzione di
vomito per limitare gli effetti 'ingrassanti' del cibo. Russell dedusse
che questo comportamento non dif~
feriva da quello tipico delle pazienti
anoressiche, e che quindi poteva esserne considerato una variante.
De Azevedo e Ferréira hanno condotto uno studio di prevalenza sulla
anoressia nervosa e sulla bulimia
nelle Azzorre, rilevando come la
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prevalenza di tali disturbi sia pres~
socché irrilevante. Essi non contestano gli altri studi di prevalenza,
ma attribuiscono tale risultato alla
mancanza di pressioni sociocultura~
li indirizzate al controllo dell'ali~
mentazione e del peso (34).
È stato suggerito che i disturbi della
condotta alimentare abbiano determinanti culturali tali da poter essere
considerati culture-bound syndromes
(35, 36), ovvero come un disturbo
etnopsichiatrico, nel senso che esso è
fortemente caratterizzato dalla sua
presenza in certi contesti culturali e
sociali ed in certi momenti storici,
per motivazioni che possono essere
connesse con uno specifico assetto
sociale e con uno specifico significato
etnologico - per esempio di inconscia
protesta contro una conflittualità implicita nel ruolo femminile moderno
(donna autonoma/donna asservita a
ruoli domestici tradizionali) (36).
Esistono dati relativi e questa conno~
tazione dei disturbi del comporta~
mento alimentare: essi sono eviden~
ziati quasi esclusivamente in Occidente, e riguardano tipicamente
giovani donne di classe sociale ele~
vata o comunque agiata (24, 33,
37). Bartocci e Paoletti (38) hanno
fornito una suggestiva sinossi delle
caratteristiche culturali dei disturbi
del comportamento alimentare, con
specifico riferimento comunque al~
l'anoressia nervosa: l'assenza del disturbo nelle cosiddette popolazioni
'primitive', l'esistenza di disturbi si~
mili, anche se non sovrapponibili
al
~
l'anoressia mentale in popolazioni
non bianche nei Paesi in via di svi~
luppo; una incidenza massima nella
società Occidentale industrializzata;
una bassa incidenza del disturbo in
popolazioni di colore emigrate da
tempo in Occidente.
D'altra parte, Schwartz el al. (39)
hanno sostenuto, non senza ragione,
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che l'anoressia nervosa sembra essere una moderna forma di isteria essendo entrambe sostenute da una
forte base sociale, ed essendo pertanto socialmente determinata.
Nelle culture non occidentali il concetto di peso corporeo femminile nei
suoi risvolti estetici e sessuali è sicuramente considerato in maniera molto differente che in Occidente (40).
I valori vengono anzi assai spesso riba1tati, nel senso che la magrezza,
che in Occidente è ritenuta attrattiva sessuale desiderabile, in altre
contrade è ritenuta fattore negativo
dell'attrazione sessuale femminile.
L'essere abbastanza grasse è stato
considerato un fattore di grande attrazione sessuale.
È un dato di fatto che ogni cultura
ha il proprio concetto di femminilità
e di estetica del femminile.
Nella cultura araba la magrezza è
considerata indesiderabile, e l'idea
stessa di grassezza è considerata
simbolica di femminilità e di maternità (41, 42). Al contrario, nella società occidentale moderna la femminilità è inevitabilmente associata ad
una idea di magrezza, secondo modelli che trovano nella mitica bambola americana Barbie il loro ideale
e la loro più compiuta espressione
estetica. Non a caso, il Mildtown
Manhattan Study (43) ha rilevato
l'esistenza di una correlazione inversa tra lunghezza del periodo di
esposizione ai valori della società
americana e obesità.
Ciò che appare insolito, inopportuno, limitativo e problematico è l'approccio a questa sindrome nella moderna medicina occidentale. Si ha
talvolta l'impressione che, in effetti,
tutti concordino sul fatto che la bulimia, così come in genere i disturbi
DISTURBI
DELL'ALIMENTAZIONE
del comportamento alimentare, siano espressione della cultura occidentale dominante anche perché
dissentire da questo punto di vista
significherebbe saltare a piè pari
tutti i dati epidemiologici disponibili
ed una serie di contributi clinici e
teoretici di indubitabile valore scientifico. Il problema non è, però, questo. È che a fronte di un riconoscimento necessario, la prassi terapeutica comune di recupero psicologico
e psichiatrico non tiene in alcun
conto questo dato di fatto obiettivo.
È presumibilmente rilevante il fatto
- squisitamente
medico - che indivi-
duata una patologia la terapia adottata sia tanto più precisa quanto più
essa sia eziologica, quanto più, cioè,
essa tenda ad agire sulla causa della
patologia medesima. È, questo, un
dato di fatto che contraddistingue
teoreticamente la storia stessa della
medicina occidentale.
Ciò che non si comprende bene nel
caso dei disturbi del comportamento
alimentare, ed in particolare della
bulimia, è il fatto che a fronte di riconoscimenti epidemiologici di caratteristiche che si accordano in
qualche modo con una cultural
bound syndrome, i provvedimenti
terapeutici non tengano sufficientemente conto di questa variabile, che
diviene a conti fatti una delle variabili fondamentali.
Il problema è, probabilmente, che
quella culturale viene considerata
una variabile, decisamente meno rilevante di altre - per esempio dei
meccanismi serotoninergici del food
intake o del ruolo dei fattori meramente cognitivi. È fuori discussione
che entrambi i fattori citati (selezione del cibo, meccanismi neuromediatoriali e fattori cognitivi) abbiano
una loro rilevanza. Qui il problema
è, crediamo, della rilevanza, più o
meno evidente, di un fattore eziopa-
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- ~
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togenetico rispetto ad un altro.
Dalla revisione della letteratura e
dai dati disponibili, l'ipotesi che la
bulimia abbia tutte le connotazioni
di una cultura! bound syndrome è
estremamente forte. Essa affonda le
sue radici nella cultura occidentale,
nella visione del mondo suggerita da
una società consumistica, dove anche il sesso e l'immagine della donna è insana e mercificata; essa trova
le sue origini in un mondo dominato, per dirla con Erich Fromm, assai
più dall'avere che dall'essere, dall'apparire più che dal concretizzarsi
come persona. È ovvio che di questo
meccanismo le pazienti anoressiche
e bulimiche sono vittime inconsapevoli. Ma è altrettanto ovvio che una
strategia terapeutica non può non
tenere conto di questo fattore. Si ha
l'impressione, invece, che una eccessiva attenzione verso gli aspetti
neurochimici o psicoterapici nasconda in fondo la rimozione stessa
del problema, la determinazione
pervicace ad eliminare l'idea di
questa malattia, che è al contempo
fonte del nostro disagio sociale. Disagio nei confronti di un disturbo
che, con le sue caratteristiche, con il
suo modo di porsi come critica disperata al consumismo, ad una società dell'apparenza e della forma (è
un caso di coincidenza linguistica
che la bulimia sia proprio patologia
della forma?), pone in crisi le fondamenta stesse della cultura occidentale contemporanea. Ed è di
fronte a questo atto d'accusa che la
medicina occidentale moderna pone
in atto le proprie difese.
Di norma un disturbo psichiatrico
culturale può essere affrontato in
almeno tre modi diversi. Il primo:
evitare di pensare che sia un disturbo culturale, ed agire come se comunque non lo fosse, utilizzando
metodi e modelli esclusivi della psi-
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chiatria occidentale moderna. Il secondo: considerarlo un disturbo che
abbia qualche connotazione culturale ma, nonostante questo, continuare a ritenerlo un fatto nosografico per il quale comunque applicare
norme e metodi codificati dalla medicina più ortodossa. Il terzo: considerarlo e trattarlo come un disturbo
culturale e quindi applicare per la
sua cura metodi etnopsichiatrici.
L'uso di tali strategie deve tener
conto di alcune peculiarità 'culturali' dei DCA, per esempio il fatto che
i tassi di incidenza e prevalenza di
tali disturbi sia diverso tra sottogruppi differenziati all'interno dello
stesso sistema culturale.
Da un punto di vista teorico appare
in proposito ben giustificata l'interpretazione che di questo fenomeno
danno Bartocci e Paoletti (38) che
considerano la possibilità della presenza in popolazioni specifiche di
atteggiamenti psichici che rappresentino, dal punto di vista psicodinamico, una sorta di 'immunità psicologica' che si oppongono alle
pressioni socioculturali all'origine
dei DCA, così come - da una prospettiva genetica- la presenza di una
radicata organizzazione mentale che
reputi il cibo, per motivi storici, talmente rilevante da non potersi concepire la negazione del cibo stesso.
Sul piano clinico, se si vuole adottare una strategia etnopsichiatrica, bisogna tenere conto di alcuni altri
fondamentali fattori.
1. Il cibo, le sue modalità di assunzione, il suo significato rituale ed etnico variano da popolazione a popolazione, dove si intende per popolazione un gruppo umano sufficientemente strutturato da avere una
propria storia, ed una propria serie
di consuetudini culturali. Questo
implica allora l'obbligo per il terapeuta, per ogni paziente con distur-
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2,
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bi del comportamento alimentare in
terapia, di considerare con grande
attenzione a quale gruppo originario appartiene, indipendentemente
dal contesto di inserimento. Questo
proprio perché, come evidenziato
ancora da Bartocci e Paoletti (38),
alcuni gruppi culturali possono avere proprie potenzialità 'difensive'
importanti nei confronti dei DCA
anche se inseriti in culture ad alto
rischio per gli stessi. È possibile ipotizzare al riguardo che ogni gruppo
umano abbia le proprie difese 'culturali' contro la patologia psichiatrica,
e compito di ogni terapia non può
che essere che quello di attivarle.
2. Un momento fondamentale di
una terapia etnica dei DCA dovrebbe essere costituito dalla ristrutturazione affettiva del rapporto col cibo,
a partire dal tentativo del terapeuta
di stabilire non tanto un rapporto di
maternage col paziente, bensì un assetto relazionale che contrasti l'assetto relazionale intrafamiliare tipico del paziente con DCA (padre debole, madre molto forte), utilizzando i modelli della cultura originaria
del paziente.
3. La finalità di un approccio terapeutico etnopsichiatrico dovrebbe comunque essere la modificazione del
rapporto del paziente con il suo stesso
Sé. Studi di grande suggestione suggeriscono che la persona con DCA,
così come Falcolista o il tossicodipendente, abbia la tendenza a procurarsi,
attraverso tale comportamento anomalo, stati alterati di coscienza che in
qualche modo sostituiscano il rapporto con la realtà 'vera', in favore di
una realtà 'altra' (44,45).
Questa 'fuga' è motivata dal bisogno
di sfuggire all'angoscia esistenziale
che nasce dal conflitto tra un ideale
di Sé grandioso che, al confronto
con la realtà, appare drammaticamente inadeguato. Come scrivono
DISTURBI
DELL'ALIMENTAZIONE
Salvemini et al. (45): "La ricerca di
stati di coscienza non ordinari rappresenterebbe una sorta di auto medicazione, un rimedio contro l'angoscia insopportabile che attanaglia
questi pazienti quando le oscillazioni del sistema cognitivo e gli input
provenienti dall'esterno li portano a
ricorrere al confronto con la propria immagine ideale che però viene
percepita come inarrivabile e quindi
non utilizzabile".
Ma la costruzione di una immagine
del proprio Sé grandiosa e rigida è
ipotizzabile che sia connessa a importanti input culturali (per esempio
specifiche modalità di espressione
delle emozioni nel gruppo familiare,
o la relazione culturalmente mediata
tra livello di prestazioni concrete e
riconoscimento affettivo (44) o tutte
quelle condizioni che caratterizzano
un quadro di "violenza culturale"
(38). Ogni etnoterapia dei DCA non
dovrebbe allora prescindere dal
porre in atto una destrutturazione
dell'ideologia sociale dominante e
patogena - e non solo nel campo alimentare, nel quale si esprime semplicemente il sintomo di un disagio
ben più profondo. Una simile terapia, che ci sentiamo in questa sede
soltanto di ipotizzare, dovrebbe avvenire nel contesto di un 'quadro' di
riferimento che possa attivare anche
risorse terapeutiche trasversali e
tradizionali, come nel modello del
'cadre' di Tobie Nathan (46), applicabile in molteplici contesti culturali (47).
Dicevamo più sopra dei tre modelli
secondo cui affrontare un disturbo
etnopsichiatrico.
La psichiatria sembra sinora essersi
orientata nei confronti della bulimia
tra il primo e il secondo modello. I
risultati appaiono deludenti. È presumibile che solo il passaggio al terzo
modello - sia in termini di clinica e
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riabilitazione, sia soprattutto in forma di prevenzione primaria - possa
rendere la bulimia una malattia perfettamente gestibile, e in prospettiva
un semplice evento storico nel contesto della storia della psicopatologia e
della nosografia contemporanee.
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