aspetti educativi e preventivi dei disturbi alimentari in eta` evolutiva

ASPETTI EDUCATIVI E PREVENTIVI DEI DISTURBI ALIMENTARI IN
ETA’ EVOLUTIVA
di Domenico Milito
Affrontare le questioni connesse con la prevenzione e l’educazione sul versante dei
disturbi del comportamento alimentare (DCA), avendo come punto di riferimento
l’istituzione scolastica e l’azione che essa svolge a livello interistituzionale
(soprattutto nei rapporti con le famiglie), significa in prima istanza, interessarsi di un
campo di intervento imprescindibile e preliminare come quello dell’informazione.
Ciò richiede interrogarsi in ordine ai canali da ritenere funzionali allo scopo, a quali
target di interlocutori e, soprattutto, gli interventi da prendere in considerazione per
un’adeguata informazione.
I destinatari privilegiati, chiaramente, risultano essere gli allievi e le loro famiglie con
cui instaurare un costante rapporto di collaborazione.
Nei riguardi degli alunni gli interventi informativi si ibridano con la prevenzione
primaria (che avremo modo di richiamare successivamente), nonché con l’azione
prettamente educativa che la scuola svolge a prescindere dagli ambiti specifici volta
per volta presi in considerazione.
Per quanto concerne i nuclei concettuali riguardanti i disturbi del comportamento
alimentare è necessario rivolgere l’attenzione su quelli che più diffusamente si
verificano nell’età evolutiva, focalizzando le ipotetiche cause e i comportamenti che
contraddistinguono il manifestarsi delle patologie.
Si tratta di un’operazione che nella scuola avviene con scopo divulgativo e di
sensibilizzazione, senza presunzione di scientificità alcuna.
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Com’è noto i disturbi più ricorrenti in età infantile, puberale e giovanile nella
cosiddetta civiltà dell’opulenza, sono l’anoressia, la bulimia e il disturbo da
alimentazione incontrollata (bing eating discorder, BED)
L’anoressia è una malattia dell’adolescenza che, interessando prevalentemente le
donne, si attesta su una media di 6 casi ogni 100.000 abitanti, così come risulta dai
dati recenti forniti dal Ministero dalla Salute.
Essa insorge verso i 12 anni e, per questo motivo, alcuni studiosi ritengono che le
dinamiche dello sviluppo adolescenziale siano centrali per comprendere l’anoressia
nervosa.
E’ in tale periodo, infatti, che all’individuo è richiesto in modo particolare di prendere
decisioni in maniera indipendente e di conseguire obiettivi scelti autonomamente.
Vi sono, comunque, alcuni casi a esordio tardivo, poiché in alcune persone i problemi
dell’adolescenza non vengono completamente risolti: rimane, quindi, una
vulnerabilità latente che può essere sollecitata da crisi successive nel corso della vita.
Le cause dell’anoressia nervosa possono essere molteplici.
Paola Di Nicola definisce l’anoressia nervosa come “sindrome da cambiamento
culturale”, giacchè nei periodi di intenso mutamento dei ruoli femminili si verifica
un’ambivalenza di genere che conduce a forme di conflitto evolutivo.
Arthur Crisp sottolinea la componente evolutiva dell’anoressia nervosa e il suo
particolare rapporto con lo sviluppo adolescenziale. Egli ritiene che il problema
centrale per la ragazza che diventa anoressica è il raggiungimento dell’identità,
concepita in senso allargato.
In tal caso il disturbo è scatenato da eventi stressanti che mettono alla prova il senso
individuale di identità e di capacità personale, fattori cruciali nel periodo
adolescenziale, in modo particolare nei soggetti che affrontano le proprie difficoltà in
termini di peso e di immagine corporea.
Spesso le ragazze anoressiche crescono in famiglie in cui si ha la tendenza ad un forte
investimento sul successo personale, sull’aspetto esteriore e sul controllo del peso, ed
è per questo che si è inclini ad attribuire un certo valore a tali fattori.
Occorre, inoltre, considerare alcuni eventi (come la perdita di un amico caro, il
fallimento nelle prestazioni scolastiche o nei risultati personali e i rifiuti, spesso
dolorosi, subiti nelle relazioni interpersonali), che possono acquistare un’intensità
eccessiva per una persona con un’autostima già fragile e, quindi, più vulnerabile
all’anoressia nervosa.
Per quanto riguarda le manifestazioni tipiche dell’anoressia nervosa, il Manuale
diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-IV) esplicita alcuni criteri
diagnostici:
-rifiuto di mantenere il peso corporeo al di sopra o al livello minimo del peso normale
per l’età e la statura;
-intensa paura di acquistare peso o di diventare grassi;
-alterazione nel modo in cui il soggetto vive il peso o la forma del corpo;
-eccessiva influenza del peso o della forma del corpo sui livelli di autostima o rifiuto
di ammettere la gravità della condizione di sottopeso.
E’ appena il caso di ricordare che l’anoressia nervosa comincia spesso con una dieta;
la dieta sembra in genere abbastanza innocua e raramente viene intrapresa con
l’intento di ridursi alla fame, ma, data la particolare vulnerabilità della condizione
dell’anoressica, il fatto di sottoporsi ad una dieta genera un forte senso di
autocontrollo che ha basi “interne”, in quanto procura sicurezza ed euforia ad una
persona che in precedenza si sentiva depressa e vuota, ed “esterne” giacchè in una
cultura che valorizza la magrezza, il raggiungimento di una forma corporea esile
rappresenta una conquista.
Il rifiuto del cibo nel soggetto anoressico comporta una forte perdita di peso e nei casi
più esasperati porta addirittura alla morte (3-5 %)
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Come in precedenza affermato, altro disturbo del comportamento alimentare più
ricorrente nelle diverse fasi dell’età evolutiva è la bulimia (fame da bue).
Mentre nel caso dell’anoressia le maggiori difficoltà dello sviluppo sono legate ai
problemi dell’adolescenza e a quelli psicologici che accompagnano il mantenimento
del peso postpuberale, nel caso della bulimia la difficoltà centrale è dovuta alla
separazione dalla famiglia, all’ingresso nel mondo degli adulti e, in particolare, alle
minacce che queste difficoltà pongono al senso di identità personale.
Tra le possibili cause definite dalla ricerca clinica in tema di bulimia, particolarmente
interessante appare quella che lo psicologo Craig Johnson ha chiamato del “falso sè”.
La personalità “falso sé” ha, in genere, i tratti di una giovane donna, efficiente e di
bell’aspetto; come l’anoressica, ha per lo più successo nella scuola e nel lavoro e
appare come una persona indipendente e capace, ma dietro questa apparenza si celano
sentimenti di bisogno, dipendenza e scarsa autostima.
Questa scissione della sua identità deriva spesso da esperienze infantili caratterizzate
dalla mancanza o dall’assenza di figure parentali adeguate (dovuta a malattia,
depressione o dipendenza da droghe in almeno un genitore).
Da una persona così presupposta come forgiata dalla sventura (e quindi forte) ci si
aspetta un atteggiamento “pseudomaturo”, che lascia poco spazio tanto alla
dipendenza quanto alla ribellione.
La personalità “falso sé” è una tipologia estremamente comune nella bulimia, ma non
l’unica.
Infatti, alcune bulimiche hanno personalità borderline più gravemente disturbate dal
punto di vista psicologico; a loro il comportamento bulimico serve per allontanare
una sensazione inquietante di frammentazione della personalità e può essere
considerato analogo ad un’intera serie di sintomi autodistruttivi quali alcolismo,
automutilazione e promiscuità sessuale.
Queste pazienti hanno, in genere, sperimentato un ambiente infantile nettamente
traumatico, caratterizzato da abuso fisico o sessuale da parte dei genitori.
Occorre ricordare, inoltre, che alcune bulimiche sono vittime dei più comuni conflitti
adolescenziali: per loro la bulimia è tendenzialmente un sintomo passeggero e
superficiale e, perciò, più facile da eliminare.
Fatto sta che la bulimia è il percorso finale comune attraverso il quale può essere
espressa tutta una varietà di problematiche evolutive.
Anche per la bulimia nervosa il DSM-IV fornisce alcuni criteri diagnostici, che si
possono così riassumere:
-ricorrenti abbuffate, che consistono nel mangiare una quantità di cibo
significativamente consistente in un breve periodo di tempo accompagnate dalla
sensazione di perdere il controllo durante l’episodio;
-ricorrenti e inappropriate condotte compensatorie per prevenire l’aumento di peso,
come vomito autoindotto, abuso di lassativi, o diuretici, esercizio fisico eccessivo o
digiuno;
-livelli di autostima indebitamente influenzati dalla forma e dal peso corporei;
-abbuffate e condotte compensatorie che si verificano almeno due volte alla settimana
per tre mesi.
E’ ormai certo che una persona affetta da bulimia descrive una forte tensione che
aumenta prima dell’abbuffata: tra un episodio e l’altro mangia poco o, al limite,
resiste all’impulso di mangiare.
Generalmente è ossessionata dal pensiero dell’abbuffata successiva, che diviene
sempre più intenso con il passare del tempo: questo può portarla a rimuginare sui
dettagli della futura abbuffata, pensando a che cosa mangerà, dove andrà a prendere il
cibo, dove lo consumerà e quant’altro.
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Quello dei disturbi alimentari è un fenomeno in preoccupante espansione: si calcola
che circa due milioni di giovani italiani, tra i 12 e i 25 anni ne sono affetti (ultimo
Rapporto Eurispes); il Cidap (Centro italiano disturbi alimentari psicogeni) informa
che in Italia ci sono circa 1.450.000 ragazze bulimiche e 750.000 anoressiche.
Conseguentemente è sempre più avvertita l’esigenza di assumere efficaci rimedi,
investendo soprattutto la scuola.
E’ così che vengono elaborati programmi di azione preventiva i cui contenuti, oltre
ad essere informativi, vogliono permettere all’adolescente di rafforzare i fattori di
protezione (resilienza).
Come si è avuto modo di accennare prima, l’informazione per alcuni aspetti coincide
con la prevenzione primaria.
Essa, com’è noto, è indirizzata ai fattori di rischio onde evitare l’esordio del disturbo.
La prevenzione secondaria, invece, ha come obiettivo di accorciare i tempi tra
l’esordio della malattia e la richiesta di aiuto: a questo livello risulta fondamentale il
precoce riconoscimento della malattia
Cosa ben diversa è la prevenzione terziaria, giacchè mira soltanto a una riduzione del
danno in un disturbo ormai conclamato; essa coincide, quindi, con l’ambito del
trattamento.
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Passando ad affrontare gli aspetti educativi connessi con i disturbi del comportamento
alimentare, è bene smantellare un luogo comune secondo cui assegnare il compito
alla scuola di occuparsi dei più disparati ambiti educativi è eccessivo oltre che
pretestuoso.
I sostenitori di tale tesi criticano il fatto che ci si debba occupare di educazione alla
salute, educazione alimentare, stradale, alla legalità e quant’altro.
L’idea di uno sviluppo integrale e unitario della personalità dell’individuo, invece,
non può che superare la scissione, del tutto arbitraria (e che storicamente ha
riguardato una “vexata quaestio”), riguardante il fatto se si debba istruire o educare.
Si tratta delle due facce di una stessa medaglia che, amalgamate in un solo e
inscindibile progetto teso a valorizzare le potenzialità, le inclinazioni, le tendenze, le
motivazioni, gli interessi del soggetto, unico ed irripetibile, mette in moto tutte le sue
facoltà (affettivo-emotive, cognitivo-intellettive e socio-relazionali) per appropriarsi
di conoscenze, sviluppare abilità e maturare competenze in virtù di una ricerca basata
sull’uso critico dei saperi e tendente verso un orizzonte di senso e di significato.
Ben vengano, allora, le cosiddette “educazioni” formalizzate all’interno dei
Programmi, che ora, dato il regime di autonomia funzionale attribuito alle scuole,
hanno acquisito la denominazione di “Indicazioni Nazionali”.
Quelle in vigore sono allegate al Decreto Legislativo n. 59/2004 emanato a seguito
della Legge di Riforma n. 53/2003.
Anche in riferimento alla Riforma bisogna sgombrare il campo da alcuni luoghi
comuni: i processi innovativi a cui essa prelude non sono il frutto di un’esclusiva
“volontà nazionale”, bensì riflettono un’esigenza riconosciuta ed espressa nel
Documento di “Lisbona 2000” dall’Unione Europea che, riconoscendo la necessità di
riformare tutti i sistemi formativi dei Paesi membri per renderli più efficaci, ha
portato alla definizione di politiche scolastiche condivise e di obiettivi formativi
comuni da raggiungere entro il 2010.
In tale contesto bisogna inquadrare le riforme scolastiche che si sono succedute in
Italia e quelle che, eventualmente, verranno a determinarsi.
Ciò senza sottovalutare che gli obiettivi formativi e gli obiettivi specifici di
apprendimento sono ritenuti da tutti ineludibili; essi tra l’altro sono considerati, da un
lato, come funzionali alla costruzione dell’uomo e del cittadino secondo la
Costituzione Europea e quella nostra nazionale e, dall’altro, come elementi di
garanzia per un’educazione e un’istruzione ispirate al principio dell’eguaglianza.
E’ per questo motivo che gli obiettivi specifici di apprendimento erano ritenuti
irrinunciabili sin dal tempo della prima grande riforma della scuola contemporanea,
che è quella originata dalla Legge Delega n. 59/1997 che ha attribuito alla scuola
l’autonomia funzionale (ora dotata di dignità costituzionale per effetto della modifica
del Titolo V° della Costituzione).
Proprio il Regolamento dell’autonomia (D.P.R. n. 275/99) ha sancito che gli obiettivi
specifici di apprendimento debbano essere fissati dall’amministrazione centrale
(Ministro pro tempore) a salvaguardia del successo formativo e, quindi, del diritto
allo studio di tutti i cittadini.
Tali obiettivi assumono, perciò, valore di standard e sono il frutto della sinergia tra
conoscenze e abilità.
Da un’analisi comparativa degli OSA enucleati dalla vecchia Commissione, istituita
ai tempi del Ministro Berlinguer, con quelli formalizzati nelle Indicazioni ad opera
della successiva Commissione Bertagna emerge che pochi sono gli elementi di
difformità.
Lo stato d’animo di chi opera nella scuola, del resto, non può che essere aperto verso
l’ipotesi che essi vengano aggiornati sistematicamente in rapporto all’incessante e
repentina evoluzione delle conoscenze a cui si assiste oggi nella cosiddetta società
conoscitiva, plurietnica e multiculturale.
Ritornando alla nostra tematica specifica, vi è da rilevare che le Indicazioni Nazionali
in vigore si fanno carico per i diversi ordini di scuola, a partire dalla scuola
dell’infanzia, dell’educazione alimentare e dell’educazione alla salute.
Gli Obiettivi Specifici di Apprendimento risultano molto pertinenti rispetto a quanto
abbiamo detto circa la prevenzione e l’educazione sul versante dei disturbi del
comportamento alimentare.
Basta rilevarne alcuni che vengono qui di seguito esplicitati:
per la Scuola dell’Infanzia
-curare in autonomia la propria persona, gli oggetti personali, l’ambiente e i materiali
comuni nella prospettiva della salute e dell’ordine;
-toccare, guardare, ascoltare, assaggiare qualcosa e dire che cosa si è toccato, visto,
udito,odorato, gustato, ricercando la proprietà dei termini;
per la Scuola Primaria:
-la tipologia degli alimenti e le relative funzioni nutrizionali;
-la composizione nutritiva dei cibi preferiti;
-la distinzione tra nutrizione e alimentazione;
-il dispendio energetico dato dalle attività quotidiane di una giornata tipo;
-la piramide alimentare;
-vari tipi di dieta e la loro relazione con gli stili di vita;
-gli errori alimentari e i problemi connessi con gli squilibri alimentari;
per la Scuola Secondaria di Primo grado:
-rapporto alimentazione-benessere-realizzazione personale;
-fabbisogno calorico medio dei vari nutrienti;
-il fabbisogno calorico in rapporto all’attività motoria, fisica e sportiva;
-relazione tra i pasti e le energie necessarie al nostro organismo;
-un’alimentazione equilibrata: i L.A.R.N. (livelli di assunzione raccomandati di
energia e nutrienti).
Una nota a sé merita il PECUP (anch’esso allegato al citato D. Lgs. n. 59/2004)
riguardante il profilo educativo, culturale e professionale che dovrebbe
contrassegnare l’allievo in uscita dal cosiddetto “Primo Ciclo di Istruzione”.
Esso sul versante dell’alimentazione e della salute prefigura un cittadino
quattordicenne in grado di avvalersi dei saperi acquisiti e delle abilità sviluppate,
tanto da assumere atteggiamenti competenti, frutto di un incisivo ed efficace processo
educativo.
Allora è possibile leggere all’interno del PECUP che l’allievo deve essere in grado
di:
-conoscere le regole e le ragioni per prevenire il disagio che si manifesta sotto forma
di disarmonie fisiche, psichiche, intellettuali e relazionali;
-comportarsi in modo tale da promuovere per sé e per gli altri un benessere fisico
strettamente connesso con quello psicologico, morale e sociale;
-essere consapevole della necessità di alimentarsi secondo criteri rispettosi delle
esigenze fisiologiche, in modo non stereotipato nè conformato ai modelli culturali
che rispondono più alle logiche del consumo e del commercio che a quelle della
salute;
-conoscere i rischi connessi a comportamenti disordinati (uso/abuso di alcool, fumo,
droghe o alterazioni fisiologiche dei ritmi sonno-veglia) e cercare responsabilmente
di evitarli.
In conclusione si tratta di una persona umana che incastona le competenze del
versante dell’educazione alimentare in un saper essere intero ed organico che lo
configura come persona unitaria e integrale, orientata alla salvaguardia della sua
salute psicofisica nella piena consapevolezza che da essa dipende anche il benessere
sociale, e non soltanto in termini materiali.