Bellerofonte
rivista pedagogica diretta da
Giorgio Vuoso
1/2011
Bellerofonte
1/2011
Anno XIII
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senza il permesso scritto dell’Editore.
I edizione: gennaio 2012
ISBN 978-88-548-4461-2
ISSN 2039-2737-11001
Indice
saggi
7 Durkheim e la pedagogia
Giorgio Vuoso
23 Filosofia cristiana dall’Età Antica al Basso Medioevo
Marco Pezzarossa
63 L’educazione in Cina
Francesca Gualberti
121 La svolta storicistica
Giorgio Vuoso
123 La ricerca in educazione: oggetti, metodi e interdisciplinarietà
Georges Felouzis
135Tre figure chiave dell’epistemologia pedagogica contemporanea
in Italia
Giorgio Vuoso
recensioni
143 Teoria della Halbbildung di T.W. Adorno
Giorgio Vuoso
147 Osservare l’universo di P. De Bernardis
Giorgio Vuoso
151
La città dei nomi comuni. L’epistemologia pedagogica di Sergio De
Gia­cinto di D. Felini
Giorgio Vuoso
155 Sfibrata paideia di Francesco Mattei
Marco Pezzarossa
indice
159 La rivoluzione di Wikipedia di Andrew Lih
Francesca Gualberti
giornate di studio
169Dinamiche discorsive e interattive della Rete: una riflessione attraverso la Grounded Theory
Evelina De Nardis
175Una questione di metodo: la sociologia delle arti e le storie di
vita delle artiste, dal Medioevo alla contemporaneità
Milena Gammaitoni
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saggi
ISBN 978-88-548-4461-2
ISSN 2039-2737-11001
DOI 10.4399/9788854844611
pp. 7-21
Durkheim e la pedagogia
Giorgio Vuoso
La recezione di Durkheim in Italia è stata caratterizzata non solo
dall’approccio sociologico, bensì anche da una sorta di declinazione pe­
dagogica che nondimeno ha considerato l’opera durkheimiana nella sua
complessità.
Nel 1968 Santomauro si propose di evidenziare la validità e i limiti
del discorso pedagogico di Durkheim (soprannominato dai suoi gio­
vani condiscepoli il “metafisico”!) e sottolineò l’influenza di Fustel de
Coulange nella formazione storiografica di Durkheim1, il quale già negli
anni trascorsi a Bordeaux (1887–1902) insegnò sociologia e pedagogia,
a cominciare dal 1896.
Nel 1902 la facoltà di lettere dell’Università di Parigi lo chiamò a
supplire a Ferdinand Buisson nella cattedra di “scienza dell’educazione”
che nel 1913 fu trasformata in cattedra di “scienza dell’educazione e so­
ciologia”. Sussiste una correlazione fra le idee pedagogiche di Durkheim
(1858–1917) e la sua concezione sociologica. La giustificazione della
divisione del lavoro lo conduce alla polemica contro la cultura genera­
le (intesa come effetto di una disciplina “molle e rilassata”)2. Secondo
Durkheim l’effetto più notevole della divisione del lavoro non consiste
nel rendimento, bensì nella solidarietà sociale. Cosicché la “divisione” è
più un fatto etico, anziché meramente economico.
Si assiste alla complicazione crescente dell’organismo sociale. Ciò
nondimeno la “solidarietà sociale” non si presta di per sé ad un’osserva­
zione esatta, nonostante gli effetti sensibili. Il diritto incarna la solida­
rietà sociale, che si evidenzia particolarmente nelle sanzioni restitutive.
Cosicché la solidarietà sociale si dicotomizza nella solidarietà meccanica
1. Cfr. G. Santomauro, Il problema educativo nella dinamica del pensiero sociologico di
E. Durkheim, Milella, Lecce 1968, p. 11.
2. Cit. in ivi, p. 39.
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saggi
del diritto penale e nella solidarietà organica dei diritti a sanzione resti­
tutiva (diritto civile, commerciale, amministrativo, costituzionale ecc.).
Le espressioni primitive di tipo “meccanico” (orda, clan, società segmen­
tarie) si trasformano in forme sempre più varie e complesse di tipo “or­
ganico” (città, società democratiche, società industriali). Ma la genesi
evolutiva non elimina l’analisi strutturale, tuttavia la tipologia organica
può svilupparsi soltanto nella misura in cui regredisce la tipologia mec­
canica, mediante l’aumento della “densità dinamica” (o morale) e della
“densità materiale” (o del volume) del corpo sociale.
Allorché la “lotta per la vita” è più ardente, maggiore è la specializza­
zione del lavoro. Perciò la divisione del lavoro oltre ad essere un risulta­
to della lotta per la vita è insieme “uno scioglimento mitigato di essa”3.
Santomauro nota la metafisica del naturalismo e scrive: «Né possiamo
esimerci dal rilevare il carattere aprioristico di alcune sue fondamentali
proposizioni sociologiche, tendenti per un verso a considerare l’indivi­
duo come mero “prodotto della vita comune”, dalla quale trae il proprio
significato, la propria dignità e il proprio valore, e per un altro verso
a respingere violentemente fuori dell’area sociologica ogni elemento
extrasociale»4. Si obnubila la distinzione concreta fra morale e diritto,
non senza tuttavia la fuga metafisica nella “coscienza collettiva”.
Il naturalismo però non si configura come mero materialismo (o dar­
winismo sociale), in base anche al riconoscimento del fenomeno educa­
tivo. «L’educazione avrebbe, quindi, come linea di terra, la realtà biolo­
gica della persona e, come suo orizzonte, l’ambiente sociale, ed avrebbe
3. Ivi, p. 48. «Ecco come, senza averlo voluto, l’umanità di trova ad essere adatta
a ricevere una cultura più intensa e più varia». Cfr. E. Durkheim, La divisione del lavoro
sociale, trad. it., Edizioni di Comunità, Milano 1962, cit. in ivi, p. 49.
4. Ivi, pp. 49–50. Secondo Carlo Augusto Viano, Durkheim deriva da Comte e da
Spencer il tema della divisione del lavoro. «E da essi Durkheim poteva ben accettare il
presupposto senza il quale la sua stessa monografia non si spiegherebbe: la divisione del
lavoro è stata descritta in modo inadeguato dagli economisti, i quali non hanno visto
che essa è non soltanto uno strumento di razionalizzazione economica del lavoro pro­
duttivo, ma anche una struttura della società, un insieme di rapporti attraverso i quali i
membri di un gruppo realizzano l’unità del gruppo stesso, non appena esso raggiunge
un certo volume e un certo grado di densità» (C.A. Viano, La dimensione normativa nella
sociologia di Durkheim, in «Quaderni di sociologia», XII, 1963, p. 310). Anche a proposito
dell’educazione, gli economisti hanno dato vita all’“economia dell’istruzione”, renden­
do più complessa la pedagogia, ma poi non riescono a stabilire quando si tratta di inve­
stimento educativo e quando al contrario di mero consumo (o spreco) educativo (cfr. A.
Page, Economia dell’istruzione, trad. it. il Mulino, Bologna 1974, p. 33).
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Durkheim e la pedagogia | Giorgio Vuoso
il compito di promuovere l’ordinata socializzazione dell’individuo, sulla
misura delle condizioni obiettive dell’ambiente sociale»5. Sicché occor­
re riconoscere che la “socializzazione” alla Durkheim non è senza tele­
ologia, benché resti pur sempre “socializzazione” come adeguamento
e non già emancipazione. Il rigido determinismo della socializzazione
renderebbe inutile la funzione dell’educazione. Infatti l’educazione, pur
declinata come socializzazione, conferisce dinamismo all’azione sociale.
La realtà storico–sociale muta, ed appunto perché muta, noi dob­
biamo mutare. Non si può pretendere di adottare costumi ormai stori­
camente obsoleti. Ci differenziamo dai nostri antenati e dagli altri che
vivono in un diverso ambiente sociale. Da qui deriva l’accettazione di
forme di solidarietà e di organizzazione professionale tipiche delle so­
cietà moderne. Nelle società evolute si allentano i vincoli che legavano
l’individuo alla famiglia, al suolo natale, alle tradizioni e agli usi collet­
tivi. In ogni caso, la differente morfologia dell’ambiente sociale favorisce
una fitta rete di “pressioni” e di “sanzioni” sulla condotta individuale. E
nondimeno le forme di vita, ispirate dalla solidarietà organica, sono più
rispettose dell’autonomia e delle qualità personali.
La natura del gruppo (volume e densità) spiega la condotta umana,
anziché la natura psicologica dell’uomo in genere. Da ciò Santomauro
deduce che il fenomeno, a cui Durkheim fa riferimento, non abbia alcun
carattere specifico e non possa costituirsi come compito originale del
gruppo sociale. La sua concezione pedagogica (la sua “scienza dell’e­
ducazione”) viene riduttivamente ricondotta alla sociologia. Si può ag­
giungere che l’insensibilità della successiva “sociologia dell’educazio­
ne” ai valori del cambiamento e dell’emancipazione derivano da tale
(o simile) concezione statica della società e della tensione innovativa
vista solo o quasi esclusivamente come pericolo di disordine sociale o
addirittura come patologia della personalità. Una concezione dinamica
della società conferisce specificità al fenomeno educativo e rende meno
traumatico il cambiamento dei valori (sociali e scientifici). Comunque,
Santomauro parla di una «discutibile riduzione della pedagogia a scienza
sociale»6. Il rischio è che il dissenso possa essere patologizzato come
ansietà e anomia.
5. G. Santomauro, op. cit., p. 52.
6. Ivi, p. 59. Affermava Durkheim: «Esiste, dunque, in ogni momento storico, un
modello normativo dell’educazione da cui non possiamo allontanarci senza incontrare
vive resistenze, che frenano la velleità di dissenso» (E. Durkheim, L’educazione: la sua na-
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saggi
Il fatto è che sul piano epistemologico Durkheim è vittima di una
concezione causalistica della scienza. Nelle Règles afferma che ad uno
stesso effetto corrisponde sempre una stessa causa. Gli era ignoto l’in­
determinismo. Da ciò derivava l’enfasi sulla “lezione dei fatti”. L’elimi­
nazione della presenza del soggetto porta al dogmatismo dei risultati,
benché si resti consapevoli del fatto che lo spirito umano non potrà
“forse” mai impossessarsi in modo completo della realtà. Si ammette la
“porosità” dei bordi di confine della conoscenza, ma non già dei singoli
frammenti di essa. I fatti sociali, distaccati dai soggetti coscienti che se
li rappresentano, acquistano uno spessore “cosalistico” (che non può
essere giustificato solamente dalla volontà di sorpasso “scientifico” della
psicologia da parte della sociologia). L’interpretazione causalistica dei
fatti sociali fa apparire reale la loro “straordinaria regolarità” e la loro
“stupefacente uniformità” data per dimostrata da Durkheim.
La spiegazione morfologica evita gli elementi finalistici (o intenzio­
nali), introducendo così ad una visione scientifica del mondo umano e
sociale, che non aveva trovato il consenso né di Boutroux né di Bergson.
Tuttavia, Durkheim nega che esiste «conformismo sociale che non com­
porti tutta una gamma di sfumature individuali»7. Eppure nulla è indefi­
nitivamente e incondizionamente buono. Il comportamento normale è
quello del tipo medio (nonostante l’esistenza di personalità che “oltre­
passano” il loro secolo). Il mutamento non è il risultato di una visuale
innovatrice, ma appare eventualmente imposto meccanicisticamente.
Allora l’educazione ha un carattere inevitabilmente impositivo (come
le “ore regolari” dei pasti). «In quanto fatto sociale, il processo educa­
tivo si presenta come fenomeno “oggettivo”, avente una genesi sociale,
un substrato sociale e uno scopo sociale»8. L’educazione trae la sua forza
“antropoplastica” dall’ambiente sociale. Gli educatori (maestri, genitori)
diventano strumenti della coscienza collettiva. Da ciò deriva il fastidio
della giovane generazione per certi contenuti e per certe forme di edu­
cazione.
Le personalità scolasticamente adattate garantiscono l’ordine e l’effi­
cienza della vita associata. Come non c’è un’etica universale, così non c’è
un’educazione con leggi universali e scopi immutabili, giacché quest’ul­
tura e il suo ruolo, in V. Cesareo [a cura di], Sociologia dell’educazione, Hoepli, Milano 1972,
p. 55).
7. Cit. in G. Santomauro, op. cit., p. 75.
8. Ivi, p. 81.
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Durkheim e la pedagogia | Giorgio Vuoso
tima varia a seconda della morfologia sociale, benché i processi di ini­
bizione mediante la selezione istituzionale trasformino la “costrizione”
brutale in “obbligazione”, «accettata e subita di buon grado»9. Ma ciò
costituisce l’“internalizzazione”, che è cosa ben diversa dal processo di
interiorizzazione e di autonomia. Le istituzioni educative plasmano
prevalentemente gli individui secondo l’impersonale modello imposto
dalla coscienza collettiva, enfatizzando regole giuridiche e morali, detti
popolari, nonché fatti culturali e istituzionali, benché possano maturare
gradualmente la capacità critica e l’attitudine scientifica. «Certo, nelle
Régles non mancano delle affermazioni che alludono ad un fondamen­
tale atteggiamento negativo dell’Autore nei confronti di tutte le espres­
sioni del pensiero personale (e quindi di quelle “idealistiche” e “utopi­
stiche”) che rappresenterebbero delle illusioni o addirittura dei pregiudizi
di cui bisogna ”disfarsi” se si vuole promuovere effettivamente lo svilup­
po dello spirito scientifico e un rinnovamento della vita sociale in senso
razionale»10. Perciò bisogna distinguere fra il discorso pedagogico di ca­
rattere scientifico e i discorsi “approssimativi” sulle condizioni educative
ottimali e sul suo profilo futuro. Durkheim condannava l’intuizionismo
bergsoniano e il pragmatismo deweyano o, in forma astratta, il sogget­
tivismo psicologico, il settarismo ideologico e l’apriorismo filosofico. Il
9. Ivi, p. 85.
10. Ivi, p. 90. È da notare che illusioni e utopie costituiscono delle rappresentazioni
individuali. Al contrario, nelle Formes, per Durkheim (come pure per Cassirer) religione
e mito sono forme culturali e simboliche, nelle quali si preannuncia, sia pure in forma
torbida e grezza, la potenza ordinata e razionale della mente umana. Più coerentemente
con una mentalità antistoricistica Lévy–Bruhl (1910) sottolinea la discontinuità fra reli­
gione e scienza, parlando di “partecipazioni prelogiche” della “mentalità primitiva” (cfr.
R. Cantoni, La sociologia religiosa di Durkheim, in «Quaderni di sociologia», XII, 1963,
pp. 243–245). La religione non è inganno dei preti o oppio dei popoli. Ma resta rappre­
sentazione simbolica della società. E pur senza giustificazioni trascendenti si possono
avallare fastidi, privazioni e sacrifici, per non parlare delle grottesche ierofanie della Ge­
rarchia, della Razza, del Partito. Comunque, per Durkheim la società ha una funzione
stimolante, corroborativa, soccorritrice. Nelle cerimonie c’è effervescenza ed esaltazione
collettiva. Ma Durkheim osserva e non inventa oppure, antiutopista e laico, divinizza la
società e legittima la proliferazione di ierofanie? E l’ateo Durkheim o lo scienziato so­
ciale può dire che nella religione c’è qualcosa di eterno? Pare proprio di sì (almeno nelle
Formes). Ma se il sociologo fosse veramente scienziato, dovrebbe ammettere che non è
una contraddizione in termini: la società diventa anomica, se la statica sociale coarta lo
sviluppo dei fattori nuovi della complementare dinamica sociale. In realtà in Durkheim
convivono un sociologo della società nel suo complesso e un ideologo della statica so­
ciale settorializzata.
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saggi
suo neutralismo non gli consentiva di tener conto delle istanze indivi­
duali, garantite da valori perenni.
Il determinismo si insinua anche nella ricerca durkheimiana dedica­
ta al suicidio. Secondo Santomauro, Durkheim elabora una concezione
monogenetica del suicidio: finisce per assolutizzare la visuale sociolo­
gica, elevandola di fatto ad unica prospettiva di studio del problema,
in grado di darci delle «risultanze scientificamente valide»11. Nei paesi
cattolici il suicidio presenta uno scarsissimo sviluppo, mentre raggiunge
il suo maximum nei paesi protestanti.
Anche la famiglia è uno strumento “profilattico” contro il suicidio.
Quando una società è fortemente disintegrata, può verificarsi il suicidio
egoistico come esagerata e paradossale affermazione dell’io individua­
le di fronte all’io sociale. Per Durkheim un eccessivo individualismo
porta dunque al suicidio, ma anche un individualismo insufficiente in
una società fortemente integrata produce gli stessi effetti (il cosiddetto
“suicidio altruistico”, di cui Durkheim distingue tre varietà: suicidio al­
truistico obbligatorio, suicidio altruistico facoltativo, suicidio altruistico
acuto, il cui modello perfetto è il suicidio mistico). Nelle società evolute
esiste il suicidio anomico, così denominato perché trova la sua genesi
nello stato di disordine in cui precipita la società, in certi periodi di crisi
economica, politica e morale. Un aumento di tale tipologia di suicidio
si riscontra anche allorché la società è turbata da fortunate ma troppo
rapide trasformazioni: tale (per così dire) sottospecie di suicidio ano­
mico costituisce l’esatto opposto del suicidio fatalista, che risulta da un
eccesso di regolamentazione imposta all’individuo, il quale al contrario
nel suicidio anomico, «abbandonato a se stesso, diventa insofferente di
ogni limite, di ogni rinunzia, di ogni sacrificio, e lasciandosi travolgere
dal tumulto dei sensi e delle emozioni, finisce per avere nausea e fasti­
dio della sua stessa esistenza»12. Santomauro non si dimostra convinto
dell’eziologia sociologistica del suicidio. Del resto lo stesso Durkheim
non nega la componente climatica e sessuale: vi sono più suicidi d’e­
state e di maschi che di donne o in altre stagioni. Ma le impostazio­
ni naturalistiche e biologistiche trovano attuazione nella spiegazione
durkheimiana mediante il medium sociale. Santomauro, invece, enfatiz­
11. G. Santomauro, op. cit., p. 108.
12. Ivi, p. 112. Nella complessa tassonomia durkheimiana, il suicidio anomico an­
tifatalista costituisce la tipologia più originale: una vera e propria scoperta di Durkheim,
che tuttavia non deve far dimenticare le altre correnti “suicidogene”.
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Durkheim e la pedagogia | Giorgio Vuoso
za l’eterogeneità delle motivazioni, minimizzate dalla monofattorialità
sociologica, che comunque è inefficace sul tipo medio e quindi a conti
fatti non è deterministica.
Nonostante il sociologismo della sua concezione (la società come
una sorta di deus ex machina) e l’epistemologia causalistica (dal mo­
mento che si intende come vincolata al rapporto di causa e di effetto)
Durkheim è il rappresentante eminente dell’approccio storicistico alla
pedagogia, che consiste nel contrastare i teorici che si sforzano di defi­
nire una sorta di educazione universale ed unica. La storia ci insegna la
mutabilità (la storia come progressiva “epifania dell’uomo”). L’educa­
zione varia infinitamente nel tempo e nello spazio. Ogni società ha un
sistema peculiare di educazione. Ma il sociologismo seppure storicistico
non consente di immaginare una realtà diversa da quella esistente. La so­
cietà è la pietra di paragone. Al sistema educativo tocca adeguarsi al tipo
di società. E all’individuo spetta l’adattamento al sistema di educazione
del suo ambiente sociale. Ogni deviazione dalla traiettoria sociale è ef­
fettuata a rischio e pericolo di chi l’intraprende. Già prima di Durkheim
si era insistito sulla funzione educativa della vita sociale, il grande socio­
logo enfatizza con vigore insolito il fatto che solo se si studia il modo in
cui si sono formati e sviluppati storicamente i sistemi di educazione, ci si
accorge che essi dipendono dalla religione, dall’organizzazione politica,
dal grado di sviluppo delle scienze, dallo stato dell’industria e da altre
strutture sociali consimili13. La riflessione individuale non può sostituir­
si all’ingranaggio dei fenomeni reali. Si può agire su di essi alla maniera
dei fisici e dei biologi, che ne conoscano i meccanismi.
Lo sforzo volontario è una delle caratteristiche essenziali dell’uomo.
L’educazione “disciplina” tale sforzo in maniera metodica. Lo Stato
svolge una funzione di promozione e di controllo, e nondimeno lascia
un certo margine alle iniziative individuali, perché — ed è Durkheim
ad ammetterlo — l’individuo è più facilmente innovatore dello Stato.
Benché la definizione durkheimiana dell’educazione sia stata formulata
nei seguenti termini molto restrittivi: l’“educazione” è «l’azione eserci­
tata dalle generazioni adulte su quelle che non sono ancora mature per
la vita sociale», egli non è stato vittima dello scolasticismo definitorio,
giacché ha affermato che il maestro non adempie al proprio dovere se
13. Si veda in trad. it. E. Durkheim, L’evoluzione pedagogica in Francia. Storia dell’insegnamento secondario, Bononia University Press, Bologna 2006.
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saggi
usa l’autorità di cui dispone per trascinare gli allievi sulla linea delle pro­
prie scelte personali, per quanto ragionevoli possano sembrargli. I suoi
sommi principi erano il rispetto per la scienza e la morale democratica.
Il ruolo dello Stato è quello di farli “insegnare” nelle scuole e di control­
lare che da nessuna parte li si lasci ignorare.
D’altronde se in Durkheim non è assente la dimensione corporativa,
bisogna anche dire che egli «giunge sino alla delineazione di un tipo
ideale di società “socialista”, nella quale a) il potere politico e morale
dei gruppi professionali controlli tutta l’organizzazione cosciente della
vita economica; b) la sociologia garantisca lo sviluppo e il consolida­
mento della cultura positiva ed elabori le soluzioni scientifiche dei pro­
blemi sociali; c) il diritto renda gli uomini “contenti della loro sorte” e
“convinti” che non è giusto che essi abbiano di più di quanto meritano;
d) e la religione, profondamente rinnovata nella sua organizzazione e
nelle sue credenze, sia fautrice di una morale sociale fondata sul culto
dell’umanità»14. Purtroppo, manca il motore del cambiamento, giacché
l’educazione non è che il riflesso della società. In tale contesto riprodut­
tivo di sociologia dell’educazione, infatti l’educazione non crea. Invero
per Durkheim (come del resto per Croce) il socialismo non è opera di
scienza. Tuttavia il socialismo, pur non essendo un’espressione scientifi­
ca dei fatti sociali, è esso stesso un fatto sociale. «Il socialismo, insomma,
ha, secondo Durkheim, una sua “ragion d’essere” nella situazione socia­
le che lo suscita: Saint–Simon, Fourier o Marx sono, in un certo senso,
gli effetti “particolari” di quella situazione sociale»15. Il socialismo non
è una sociologia in miniatura e nondimeno (come Croce ne ricavava
un canone storiografico) Durkheim ne ricava una serie di constatazioni:
l’insufficiente regolamentazione della produzione rispetto alle necessità
del consumo e la trasformazione incessante delle macchine, che pone il
14. G. Santomauro, op. cit., p. 148. Scrive Kenneth Thompson: «Un suo impegno
inequivocabile è stata la riforma educativa. Ha fatto di volta in volta dichiarazioni sulla
necessità di ridurre le disuguaglianze, ha parlato della necessità di abolire l’ereditarie­
tà della proprietà privata» (K. Thompson, Émile Durkheim, trad. it. il Mulino, Bologna
1987, p. 25). Durkheim giovane fu intimo amico di Jean Jaurés, poi futuro leader sociali­
sta (ivi, p. 33). Forse da ciò derivò l’impulso a studiare Henry Saint–Simon, considerato
l’antesignano di Marx. Anche le implicazioni politiche della sociologia e della pedagogia
di Epinas pare abbiano influenzato Durkheim verso un socialismo sui generis (ivi, p. 44).
Jaurés ebbe poi l’occasione di lodare il lavoro svolto da Durkheim (ivi, p. 52).
15. C. Montaleone, Scienze umane e metodologia. Weber, Popper, Durkheim, Istituto
Editoriale Cisalpino – La Goliardica, Milano 1975, p. 150.
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Durkheim e la pedagogia | Giorgio Vuoso
lavoratore «in una condizione d’inferiorità che gli impedisce di conclu­
dere contratti equi»16. È ancora poco per parlare di «una convergenza con
Marx» (a cui fa un vago riferimento Montaleone). Durkheim ribadisce
contro Labriola che il “fattore economico”, sebbene non possa essere va­
lutato alla stregua di un epifenomeno, non deve neppure essere confuso
col sostrato «per farne qualcosa di particolarmente fondamentale»17. Se
di sostrato si vuol parlare per Durkheim, esso consiste nel grado di co­
municabilità esistente tra le coscienze degli individui (benché poi, alla
stessa maniera di Labriola, l’evoluzione sociale ha cause non conosciute
dagli stessi autori degli avvenimenti).
16. Cit. in C Montaleone, op. cit., pp. 153–154. Si rimanda ad Alvin Gouldner
(1958) per la convergenza fra Durkheim e Marx, vista nel fatto che entrambi scorgono
nella divisione del lavoro la condizione fondamentale per il sorgere del socialismo (cfr.
ivi, p. 159, nt. 39). «Per Mario Proto, Durkheim è molto lontano dalla problematica
fondamentale del socialismo scientifico. La sua stessa polemica antimarxista, che non
supera i limiti di una libellistica goffa e volgare, rivela non soltanto una conoscenza
superficiale e frammentaria degli scritti di Marx e una sostanziale indisponibilità a co­
gliere il significato rivoluzionario, il carattere scientifico e la forte carica morale dell’ana­
lisi marxiana della società, ma anche una totale incomprensione delle condizioni e dei
problemi di una democrazia socialista, degradata a “consorteria professionale, fondata
sull’esasperazione dello specialismo e della competenza”» (M. Proto, Durkheim e il marxismo, Lacaita, Manduria 1974, p. 93, cit. da G. Santomauro, Il sociologismo pedagogico
di Emile Durkheim, Adriatica, Bari 1976, pp. 28 e 60, nt. 15). Comunque, secondo San­
tomauro, si tratta di un concetto molto singolare della democrazia. La democrazia di
Durkheim è una democrazia da farsi: in ogni caso, «non possiamo dire che in essa si
esprima una mentalità sostanzialmente antidemocratica e totalitaria, che prelude al cor­
porativismo fascista» (G. Santomauro, Il sociologismo pedagogico di Emile Durkheim, cit.,
p. 30). Infine, Santomauro scorge negli scritti del periodo di Parigi maggiori aperture di
Durkheim, per esempio nei confronti del vitalismo e della psicologia del profondo (cfr.
ivi, p. 56), dalle quali non si lasciò dominare.
17. Cfr. C. Montaleone, op. cit., pp. 161–162. Montaleone in un altro passo nota la
tensione di Durkheim verso la verità (in antitesi all’interpretazione durkheimiana del
pragmatismo) e nondimeno scrive: «Tuttavia l’imporsi della verità non annulla la cir­
costanza che i concetti e le categorie scaturiscano dal flusso dell’esperienza, e quindi
conservino tracce di relativo» (C. Montaleone, op. cit., p. 128). Scivoletto, invece, da una
parte considera l’opera di Durkheim “un modello di attualità” (cfr. A. Scivoletto, Il metodo sociologico di Emile Durkheim, FrancoAngeli, Milano 1970, p. 14). Dall’altra, enfatizza
il positivismo di Durkheim e conclude: «Il positivismo pone le basi della scienza quale
interazione soggetto — oggetto, ma nel suo primo formularsi concede all’oggetto una
priorità che non andando — ripetiamo — fraintesa col materialismo deterministico, si
precisa col fissare una “unicità” del conoscibile che, agli occhi del positivista, rende la
scienza un problema, appunto, di “scoperta” e non già, quale oggi l’intendiamo, ossia di
conoscenza interattiva, empirica e convenzionale» (ivi, pp. 16–17).
bellerofonte • 1 / 201115
saggi
La fiducia nella riforma delle strutture organizzative della società non
è più riposta né nella società politica, né nella società religiosa e neppu­
re nella famiglia, bensì nel gruppo professionale (o corporazione), che
toglie l’individuo dall’isolamento morale. La corporazione è elevata a di­
gnità di istituzione formativa e storicamente “educògena”. Ciò, secondo
Santomauro, denuncia però «l’angustia soffocante del retrospettivismo
sociologico»18. Ciò nondimeno, poiché la società moderna è scossa da
propositi riformatori, anche l’educazione dovrebbe riflettere questo mon­
do di tensioni. Certo gli uomini aspirano ad istruirsi, quanto più si sono
svincolati dal giogo della tradizione. Comunque, la scienza, ben lungi
dall’essere la sorgente del male, è il rimedio: il solo di cui disponiamo.
Si nota una discontinuità nel pensiero di Durkheim. Verso la fine del
periodo di Bordeaux, il determinismo scientifico diventa meno rilevan­
te. Santomauro osserva: «Ci sembra molto significativo ciò che scrive il
Durkheim intorno alla contingenza delle leggi che disciplinano la strut­
tura e la dinamica delle forme superiori del reale e che riecheggiano,
sia pure liberamente e con spirito diverso, una tesi tanto cara ad Emile
Boutroux»19. Una volta che è stata dinamizzata la sociologia determi­
nistica, si finisce per delineare uno schema teorico meglio disposto a
fondare e legittimare un discorso autenticamente pedagogico. La socio­
logica non può essere declinata come “psicologia collettiva”, in quanto
studia la “mentalità di gruppi” e altri modi di agire di un dato aggregato
sociale. Le “rappresentazioni collettive” costituiscono il riflesso del siste­
ma di vita di una comunità. Il passaggio dalla coscienza collettiva alle
rappresentazioni individuali utilizza l’educazione. Perciò «l’educazione
assume il compito specifico di promuovere la progressiva razionalizza­
zione della vita rappresentativa»20. In un articolo (La sociologia e il suo dominio scientifico) apparso nella «Rivista italiana di sociologia» (IV/1900,
pp. 127–148), Durkheim delinea la fisiologia sociale in termini psico­
logici. Ma non si tratta della tradizionale scienza psicologica. I singoli
assimilano le pratiche e le credenze sociali mediante un processo d’in­
dividuazione. Tramite l’educazione, i fenomeni sociali si attualizzano
nelle coscienze singolari. Tuttavia, l’educazione resta una tecnica sociale,
nonostante il clinamen sociologico.
18. G. Santomauro, Il problema educativo nella dinamica del pensiero sociologico di E.
Durkheim, cit., p. 155.
19. Ivi, p. 173.
20. Ivi, p. 177.
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L’educazione come tecnica sociale libera i singoli dai limiti e dalle
angustie della loro natura e garantisce alla società la continuità e lo svi­
luppo. Nel pensiero di Durkheim esiste anche una disaggregazione del
fenomeno educativo: l’educazione comune trasmette le pratiche della
civiltà e gli usi comuni; l’educazione tecnica diffonde le regole professio­
nali e l’educazione religiosa propaga gli articoli di fede. Ma nell’articolo
su La sociologie en France au XIX siècle (in «Revue Bleue», XIII/1900, pp.
609–613 e pp. 647–652) si ritiene che la pedagogia non può essere una
scienza. Il suo carattere “poietico” la porta ad essere piuttosto un’arte.
Ciò nonostante, la pedagogia ha una matrice essenziale nella sociologia
(ma non esclusiva), di cui costituisce una direzione applicativa, benché
in essa non manchino esigenze derivanti dalla biologia e dalla psico­
logia, nonché precetti metodologici e didattici di carattere meramente
empirico21. Nelle Leçons de Sociologie (scritte tra il novembre del 1898 e
il giugno del 1900, ma pubblicate postume: P. U.F., Paris 1950) emerge
una visione composita della realtà educativa. Nonostante l’avversione
di Durkheim per la metafisica e per l’etica universale, si indica (forse
inavvertitamente oppure Durkheim è metafisico, malgré lui) il fine dell’e­
ducazione: «sviluppare l’umanità sia in noi che nei nostri simili» (p. 7).
Oltre a ciò, vi sono regole che si connettono con certe nostre qualità
o funzioni particolari: sesso, età, famiglia, professione, ambiente, orga­
nizzazione sociale e politica, rito religioso. La sanzione materiale è il se­
gno esteriore costitutivo della prova sensibile che c’è qualcosa che ci tra­
scende, benché solo la consapevolezza possa trasformare la costrizione
sociale in sentimento del dovere. Tuttavia non si giunge all’autolegisla­
zione. In ogni caso, in parte Santomauro riesce a scagionare Durkheim
dall’accusa di aver risolto l’universo etico in quello sociologico22. Si può
aggiungere: in un certo senso i geni religiosi e morali sono portavoce del­
la coscienza collettiva. L’autolegislazione non è arbitrio. Solo per questi
motivi si parla di ispirazione divina. Senonché è come se la coscienza
collettiva avesse due strati: la morale statica si ferma al primo, la mo­
21. Ivi, p. 181. Si è parlato di “durkheimianesimo di stato”, per il fatto che «il suo
corso di storia e teoria dell’educazione a Parigi era obbligatorio per tutti gli studenti che
intraprendevano l’agrégation in lettere e scienze» (K. Thompson, op. cit., p. 49).
22. Cfr. S. Deploige, Le conflit de la morale e de la sociologie, Institut Sup. de Philoso­
phie, Louvain 1911, e J. Vialatoux, De Durkheim à Bergson, Bloud et Gay, Paris 1939: cit. in
G. Santomauro, Il problema educativo nella dinamica del pensiero sociologico di E. Durkheim,
cit., p. 186, nt. 48.
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rale dinamica perviene al secondo. Al di là della consapevolezza che
Durkheim abbia potuto avere della morale dinamica, egli ha enfatizzato
«anzitutto una comunità armonica di sforzi» (p. 22).
Durkheim riconosce alla famiglia una grande parte nella storia della
morale, al punto di affermare che si è potuto giungere a forme di vera
e propria “tirannia” domestica, avversa ad ogni tentativo del singolo di
organizzare la propria vita in modo diverso da quello imposto dal grup­
po familiare. I valori restano quelli trasmessi dagli antenati. L’educazio­
ne familiare non tollera qualsiasi iniziativa di deviazione. Molti gruppi
familiari possono modificare la propria prassi educativa. Comunque la
loro educazione tende alla stabilizzazione e prelude al processo di for­
mazione che dovrebbe essere integrato dalle corporazioni professionali.
La morale professionale non è da confondere con il Beruf weberiano,
intransigente e universalistico. Del resto Weber (1918) si scaglierà con­
tro l’idea delle corporazioni, attribuite alla mentalità dei “letterati” e
senza futuro nelle società moderne. La politica diventerebbe la sede del
mercato degli interessi23. Durkheim accetta, invece, che l’organizzazione
corporativa imponga a ciascun gruppo dei doveri particolari. L’educa­
zione “per contagio” è meno esigente della pedagogia “vocazionale” (o
carismatica). Tuttavia Santomauro scorge in Durkheim lo sforzo teorico
per impedire alle stesse corporazioni di diventare centri di privilegio e
di monopolio: si stigmatizza una loro eventuale involuzione patologi­
ca. Intanto, la visione durkheimiana dello Stato è nettamente differente
da quella individualistica (Rousseau, Kant, Spencer). Eppure Durkheim
non si riconosce nel misticismo statolatrico di Hegel. Il compito dello
Stato non è quello di ingrandirsi, ma di «chiamare ad una vita morale
sempre più alta un numero sempre maggiore di cittadini» (p. 90). Al­
lora l’ideale nazionale convive con l’ideale umano e tra il patriottismo
e il cosmopolitismo non c’è antagonismo. L’esigenza degli Stati demo­
cratici è quella di organizzare la vita sociale in senso razionale. Perciò
l’idea della fisica dei costumi non annulla la funzione dell’educazione.
23. Cfr. M. Weber, Parlamento e governo (1918), trad. it. Laterza, Roma–Bari 1982, p.
28. Ancora: «Per la burocrazia ciò avrebbe il risultato di accrescere, offrendole più libertà
di movimento, la tentazione di mantenere la propria potenza giocando su contrasti di
interessi materiali e servendosi di un sistema rafforzato di mance per patronati e forni­
ture, e soprattutto di rendere illusorio ogni controllo dell’amministrazione» (ivi, p. 29).
Inoltre si nota che «gli italiani, e dopo di loro gli inglesi, hanno sviluppato la moderna
organizzazione economica capitalistica» (ivi, p. 33).
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«Anzitutto, nell’ambito della società democratica l’educazione non rap­
presenta un’attività di margine che esula dal campo degli interessi e dei
compiti fondamentali dello Stato, ma costituisce un istituto sociale di
primaria importanza, che condiziona con la sua opera lo sviluppo dello
spirito democratico»24. Senza spirito democratico e autoconsapevolezza
c’è solo tradizionalismo stagnante e solidarietà meccanica. L’educazione
favorisce la solidarietà organica. «Per questo, quanto più un individuo
è cosciente di sé stesso e riflessivo, tanto più è aperto ai mutamenti. Gli
uomini incolti sono spiriti ciecamente empirici e immutabili, sui quali
non fa presa nulla» (p. 105). La democrazia, infatti, è il regime più con­
forme all’attualità. E il diritto obbligatorio non esclude l’attività educa­
tiva “supererogatoria” volta a sensibilizzare verso tutto ciò che riguarda
la “personalità umana”, per accrescere il numero degli uomini migliori e
per promuovere lo sviluppo di personalità dinamiche.
Giorgio Vuoso
24. G. Santomauro, Il problema educativo nella dinamica del pensiero sociologico di E.
Durkheim, cit., p. 207. Cfr. inoltre C. Montaleone, Biologia sociale e mutamento: il pensiero
di Durkheim, FrancoAngeli, Milano 1980, p. 183.
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saggi
Bibliografia
Traduzioni italiane
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con il titolo di Breviario di Sociologia, Newton Compton, Roma 1971].
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(l’introduzione all’edizione italiana è di Alessandro Russo, pp. 11–43).
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