Roberto Nava – FILOSOFIA – 2. Kant: la morale del dovere. 1 2

Roberto Nava – FILOSOFIA – 2. Kant: la morale del dovere.
2. KANT: LA MORALE DEL DOVERE
di Mariano Vezzali
L’idea di un’etica razionale
L’etica di Kant vuol essere razionale, guidata cioè
da quella facoltà che la riflessione del pensatore di
Königsberg ha posto al centro del destino umano.
Come essere razionale libero, l’uomo fa parte fin
dalla sua vita sulla terra di una realtà superiore, il «mondo
intelligibile», di cui Kant parla per la prima volta nei Sogni
di un visionario, un’opera del 1766. Il fatto però che
l’uomo sia cittadino contemporaneamente del mondo
intelligibile e di quello sensibile, lo porta a tendere verso il
primo dalla condizione di membro del secondo: al dovere
morale l’uomo si assoggetta quando segue questa
tensione che lo porta oltre le inclinazioni della propria fisicità. Così egli si rivela libero dall’assoluta
subordinazione alla propria natura, perché sa governarla in vista di un interesse superiore; questa libertà è per
Kant dovuta alla statura razionale dell’uomo: «Ora l’uomo trova realmente in sé una facoltà mercé la quale si
distingue da tutte le altre cose, persino da se stesso in quanto è affetto da oggetti, e questa facoltà è la
ragione».
L’altezza della facoltà razionale in ambito morale non consiste quindi nel suo essere la sede di criteri per
un cambiamento concreto del mondo, né nel fornire un’impossibile conoscenza esauriente e definitiva della
Sostanza, perché una conoscenza metafisica di questo tipo è stata già da Kant svelata come illusoria nella
Critica della Ragion pura; all’opposto la dignità della ragione consiste nel suo tendere alla totalità.
Esigenza di totalità e apertura alla trascendenza nella morale razionale
Mentre la concezione cristiana, passata in secondo piano nell’Europa dell’età moderna, considera il
mondo e la storia ultimamente dipendenti da un progetto divino e tendenti ad una conclusione escatologica
sottratta alle previsioni ed all’agire umano, l’ideologia dell’età moderna, che verrà espressa in tutte le sue
implicazioni da Hegel e da Marx, vede nell’uomo come agente storico assoluto il costruttore senza rivali del
nuovo ordine complessivo del mondo, cioè della nuova totalità.
Kant, nelle sue opere dedicate all’etica (i Fondamenti della metafisica dei costumi del 1785 e la Critica
della Ragion pratica del 1788) affronta l’argomento della totalità discostandosi notevolmente dagli esiti
ideologici ed immanentistici della filosofia moderna.
Nell’etica kantiana la tensione alla totalità è espressa dall’imperativo categorico «agisci in modo che la
massima delle tue azioni possa diventare una legge universale». Questa è l’unica legge morale possibile perché
è sino in fondo razionale, ed è sino in fondo razionale perché non si limita a proporre norme private, e quindi
parziali, ma comanda che tutte le norme private si armonizzino tra loro accogliendo come motivo determinante
l’interesse universale, quindi della totalità, più di quello individuale. L’azione morale è quindi razionale perché,
richiedendo che la massima, il movente individuale di ogni azione, possa diventare una legge universale, cioè
un motivo determinante per l’azione di tutti gli uomini, obbliga ogni uomo, in quanto essere razionale, ad
elevarsi al punto di vista della totalità.
Dal punto di vista conoscitivo la ragione, con le sue tre idee, mirava, senza riuscirvi, a rendersi
consapevole dell’intera apertura della realtà nelle sue implicazioni ultime. Dal punto di vista morale la ragione si
rivela ancora la «facoltà dell’intero», protesa com’è ad elevare ogni uomo dalla cura privata del suo particolare
interesse e ad inserirlo come attore responsabile in un’umanità finalmente concorde e priva di divisioni.
Ma questa istanza di totalità che la ragione kantiana evidenzia anche nella sua valenza pratica, può
effettivamente compiersi? In altre parole, Kant considera concretamente attuabile quella condizione perfetta e
concorde a cui la ragione comunque si ispira?
Nella Critica della ragion pratica Kant non ritiene possibile che la realtà naturale possa corrispondere
all’urgenza di totalità della ragione morale. La natura cammina infatti su vie diverse da quelle della ragione
morale, tanto che è perfettamente pensabile che una persona virtuosa, fino in fondo determinata dalla morale
razionale, non sia felice, non sia cioè in sintonia con la propria condizione naturale e col corso naturale delle
cose.
Proprio da qui scaturisce la consapevolezza di un’inconciliabilità fra ragione morale e natura, l’una
fondata sulla libertà, l’altra sulla necessità. La ragione morale può costituire con la natura una totalità, un
insieme cioè omogeneo in cui alla virtù corrisponda la felicità, solo in un’ipotetica trascendenza in cui la natura,
trasfigurandosi, venga ad assecondare l’ordine morale della libertà. Questa trasfigurazione della natura è, per
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Kant, al di là della portata dell’azione umana, ed ancora una volta il soggetto razionale scopre la limitazione e
l’attesa connesse alla sua condizione vitale.
L’attuarsi della totalità è impedito sia dall’inconciliabilità fra etica e natura, sia dall’impossibilità di
raggiungere, come mèta definitiva del progresso storico, una condizione di beata e definitiva stasi, in cui ogni
ideale si realizzi. Nell’Antropologia, un’opera del 1798, Kant nota esplicitamente che l’uomo non può mai
considerare concluso il suo cammino:
«L’uomo è destinato dalla sua ragione a formare una società con gli altri e in questa società a coltivarsi,
civilizzarsi e moralizzarsi mediante l’arte e le scienze; per forte che sia la sua tendenza animale ad
abbandonarsi passivamente agli stimoli dell’agiatezza e del benessere, che egli chiama felicità, è destinato a
rendersi attivamente degno dell’umanità, in lotta con gli ostacoli frapposti dalla rozzezza della sua natura».
Quello che Kant chiama qui «rozzezza della natura» umana aveva avuto il nome di male radicale
nell’opera La religione nei limiti della semplice ragione (1793): opponendosi all’ottimismo degli Illuministi, per i
quali il male era come uno stimolo per un progresso sempre più perfezionato, ed alla teoria rousseauiana del
buon selvaggio, Kant considera irrealistica ogni ipotesi di soluzione definitiva dei conflitti storici perché l’uomo,
macchiato da una tendenza connaturata al male, deve continuamente lottare per essere degno della propria
statura razionale.
Una corrispondenza necessaria fra la tensione della pura ragione alla totalità e l’insieme della natura e
delle volontà umane non può dunque essere costruita nella storia. Da questo punto di vista Kant si discosta
dalla linea portante della filosofia del XVIII secolo e di buona parte del XIX, secondo la quale l’umanità avrebbe
dovuto edificare progressivamente il proprio trionfo finale.
Se però la realizzazione di quanto la facoltà razionale conduce l’uomo a sperare fosse impedita ovunque,
tutta la condotta umana, che è regolata proprio da queste istanze, risulterebbe insensata e la persona sarebbe
esposta alla disperazione. Davanti a questa minaccia del non-senso, nella Critica della ragion pratica Kant
espone la dottrina dei postulati: la ragione deve necessariamente credere nell’esistenza di realtà peraltro non
accertabili dal punto di vista strettamente conoscitivo, come la libertà, l’immortalità dell’anima e l’esistenza di
Dio. Questi tre postulati sono, letteralmente, esigenze assolute della ragione che dà origine ad una fede
«scaturente dall’intenzione morale».
Il luogo della totalità deve quindi necessariamente essere pensato come metastorico e privo di ogni
riscontro sensibile: non potendo allora essere conosciuto (la Critica della ragion pura aveva infatti concluso che
conoscibile è solo quanto si dà nell’esperienza) può solo essere oggetto di una fede necessaria e postulatoria.
Solo postulando un mondo metastorico è infatti possibile pensare che l’anima raggiunga un’adeguazione
perfetta alla legge morale compiendo un cammino infinito di purificazione che, proseguendo anche dopo la
morte, la conduca ad un completo superamento delle tendenze sensibili. Ancora, solo postulando un mondo
metastorico sarà possibile riconoscere un Dio che conferisca alla virtù quella corrispondente felicità che, nella
condizione sensibile, non poteva esserle garantita.
Le due opere di carattere morale sottolineano quindi ancora una volta quanto i problemi più pressanti e
gli ideali più alti dell’uomo, gli uni e gli altri racchiusi nella facoltà razionale, non siano né risolubili
conoscitivamente né realizzabili storicamente dalla prassi soggettiva. L’attuazione della totalità non è dunque
pensabile se non oltre lo scenario storico, al di là cioè dell’unico ambito in cui la ragione può agire.
Così, gli esiti della Critica della Ragion pura e delle opere morali risultano molto simili. Nella prima opera, la
ragione doveva constatare che gli oggetti verso i quali provava «il più alto interesse» (l’immortalità dell’anima,
il senso ultimo del mondo, l’esistenza di Dio) potevano soltanto venire pensati e non potevano essere
conosciuti. Nelle opere morali la stessa ragione, perseguendo il disegno della sintesi armoniosa di tutte le
volontà umane tra loro e con la natura, si rende conto che questa sintesi può essere postulata, ma non
costruita. In entrambi i casi la ragione viene messa di fronte al proprio limite e ridimensionata drasticamente
nelle sue pretese conoscitive e costruttive.
Con queste ultime acquisizioni, il pensiero kantiano mostra ancora una volta la sua duplicità. Per un
verso Kant rifiuta di confondersi nella massa di quanti attendono dalla storia e dal suo compimento una
realizzazione definitiva delle idealità umane, e continua, coerentemente con la sua impostazione profondamente
religiosa, a indicare nella trascendenza l’unico luogo capace di esaudire pienamente le tensioni razionali. Per
altro verso, di questa trascendenza, che Kant ha il merito di riaffermare con forza di contro all’orientamento
immanentistico della cultura moderna, non è dato nessun segno (si è infatti visto come l’unico fondamento della
realtà metastorica sia la postulazione della facoltà razionale).
La totalità, cui l’essere razionale aspira con tutte le sue forze, potrà assumere in qualche luogo una
forma? Il divino, a cui si rivolgono tutte le attese religiose della ragione kantiana, soccorrerà infine la debolezza
dell’uomo? La risposta a queste domande è affidata solo alla postulazione razionale.
Kant quindi, pur restando per un verso legato alla concezione illuministica per cui ogni religione rivelata
(e perciò anche il Cristianesimo) è superabile dalla religione puramente razionale, riconosce per altro verso
nella ragione un’autentica dimensione religiosa. E l’esito dell’etica kantiana è una difficile religiosità, in cui alle
esigenze umane può dare risposta ancora una volta solo il «totalmente altro» del Protestantesimo,
autenticamente e disperatamente esigito ma ostinatamente distante.
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Un’altra ambiguità, da cui si genereranno sviluppi antitetici agli orientamenti originali di Kant, riguarda la
coscienza morale individuale. L’imperativo categorico, quella proposizione che comanda alla coscienza di
adeguare la massima individuale alla legge universale, trae la sua autorità dalle esigenze stesse della ragione.
In altre parole, l’etica kantiana è razionale in quanto, come si è precedentemente visto, esprime una tensione
interna al soggetto razionale verso la totalità. Di conseguenza l’etica acquisisce un carattere marcatamente
soggettivo, perché una verità è un bene oggettivo non conoscibile. Secondo la profonda ispirazione di Kant,
però, questa coscienza non resta chiusa nella sua soggettività, ma, accogliendo l’imperativo categorico, tende
all’universale e si apre quindi, per la dinamica precedentemente descritta, all’intersoggettività ed alla
trascendenza; ancora una volta, insomma, la filosofia kantiana parte dalla soggettività per superarla. Tuttavia
nell’800 non sarà difficile mantenere solo un lato dell’etica kantiana, ed esaltare così una coscienza del tutto
autosufficiente svincolandola da ogni riferimento all’universale, la cui credibilità diventa peraltro sempre più
scarsa.
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