CRITICA DELLA RAGION PURA Kant e Hume Il pensiero di Kant scaturisce dall’antico dibattito tra empiristi e razionalisti, che nel Settecento conosce un’importante svolta grazie alle riflessioni di David Hume, secondo il quale una filosofia fondata sull’esperienza dei sensi non può che approdare a un radicale scetticismo. Per Hume infatti il fatto che una certa proprietà venga riscontrata in un dato numero di casi non autorizza a esser sicuro che la suddetta possa valere in tutti i casi. Come pervenire a leggi universali e necessarie? Il criticismo Kant, intuendo la portata della crisi della scienza aperta da Hume, propone, in alternativa al razionalismo di Cartesio (che sostanzialmente fa a meno dell’esperienza) ma anche allo scetticismo di Hume, il proprio criticismo. Kant compie una critica della ragione, istituendo un tribunale in cui la ragione funge da giudice di se stessa. Intelletto e categorie. La conoscenza umana è un procedimento che si avvale delle esperienze sensibili ma queste ultime, allo stesso tempo, sono organizzate secondo leggi dell’intelletto che sono proprie di ogni ragione umana, La ragione condotta entro i limiti dell’esperienza: l’intelletto, che ha leggi universali cioè comuni a tutti (categorie). Fenomeno e noumeno Quando la ragione va oltre l’esperienza ha a che fare con le idee (Dio, anima immortale, mondo) della metafisica, la quale non può essere una scienza perché va al di là dell’esperienza sensibile. La ragione ha una infatti tendenza insopprimibile a superare i limiti dell’esperienza. Per Kant, l’uomo non può conoscere la cosa in sé (il noumeno), indipendentemente dalle modalità con cui l’intelletto conosce la realtà. Kant distingue il fenomeno dal noumeno, cioè la realtà come ci appare (tramite i sensi e l’intelletto) e la realtà come è in sé (indipendentemente dal nostro modo di conoscerla). L’uso regolativo delle idee La metafisica non è scienza ma non è inutile: le idee della ragione hanno infatti un uso regolativo, cioè mi guidano nell’agire: devo presupporre, infatti, pur non potendo dimostrarlo, che esista o meno Dio o che l’anima sia mortale o immortale per poter compiere scelte morali. CRITICA DELLA RAGION PRATICA La ragion pratica Nella Critica della ragion pratica, Kant analizza le pretese della ragione in ambito pratico, cioè nel campo dell’agire (praxis=azione). Egli afferma che la legge morale trova fondamento sulla stessa natura umana e non dipende da alcuna realtà esterna. L’uomo è naturalmente libero: la libertà è un fatto della ragione, che è alla radice della mia possibilità di compiere delle scelte morali che un animale, ad esempio, non potrebbe fare. Mentre un leone è solo guidato dall’istinto, l’uomo è intermedio tra l’animale (dominato dagli istinti sensibili) e il santo; egli deve quindi rendersi il più possibile indipendente dalle inclinazioni sensibili. Morale autonoma e imperativo categorico Una morale autentica non può essere subordinata a moventi esterni all’azione (come premi o punizioni): dev’essere, cioè, autonoma e non eteronoma (diretta da altro). Se la morale eteronoma o eterodiretta si fonda su imperativi ipotetici (“se… allora”) in cui l’azione è subordinata a considerazioni esterne ad essa, la morale autonoma prescrive il dovere per il dovere e si fonda su un imperativo categorico (tu devi) uguale per tutti che regola il comportamento umano. Il regno dei fini Per Kant bisogna agire considerando l’uomo non solo come mezzo ma anche sempre come un fine in sé, come persona. Critica del Giudizio La finalità Come conciliare la concezione dell’universo come una macchina e la considerazione dell’uomo come essere libero di proporsi fini e azioni nel mondo? Ciò è possibile solo presupponendo che ci sia una finalità nella realtà che permetta di conciliare il meccanismo del mondo con le azioni libere dell’uomo. Attraverso un sentimento razionale, l’uomo riflette sulla natura proiettando in essa la considerazione della finalità: vedendo uno scheletro di animale, ad esempio, ne ammirerà la perfezione delle parti, come se esso fosse realizzato per un fine, per un progetto. Bello e sublime Il bello non è una qualità oggettiva presente nelle cose, né è costituito da elementi sensibili (che possono piacere a uno si ma un altro no), ma è il sentimento di una finalità che proiettiamo noi stessi nella realtà. Il sublime è legato alla considerazione di ciò che è smisurato (in estensione o in potenza, matematico o dinamico) e ciò suscita un sentimento di attrazione e repulsione allo stesso tempo. Nel sublime, l’uomo avverte in realtà la propria grandezza, mentre considera la grandezza (poiché può concepire l’infinito) o la potenza (poiché ha la dignità del pensare, come aveva già detto Pascal). Buono studio!!! L@ Prof