note e discussioni

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Rivista di Filosofia Neo-Scolastica, 1 (2010), pp. 179-193
NOTE E DISCUSSIONI
MARCO SGARBI
© 2010 Vita e Pensiero / Pubblicazioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore
LA GENESI DELLA FONDAZIONE DELLA MORALE IN KANT.
NOTA IN MARGINE A UN RECENTE COMMENTO ALLA
KRITIK DER PRAKTISCHEN VERNUNFT*
Pochi sono gli studi dedicati dalla Kant-Forschung alla ricostruzione della
genesi del pensiero morale kantiano1. Si ricordano i lavori di Paul Menzer,
Josef Schmucker, Dieter Henrich, Keith Ward, Clemens Schwaiger, Stefano
Bacin e pochi altri2. Nessuna ricerca però ha valorizzato nel Kant precritico una reale distinzione fra la fondazione della morale e la morale in sé,
intesa sia come dottrina dell’agire che come disciplina antropologica3.
*
G.B. SALA, Immanuel Kant, Critica della ragion pratica. Un commento, Vita e pensiero, Milano 2009.
1
Tutte le citazioni di Immanuel Kant sono da I. KANT, Kant’s gesammelte Schriften
(=KGS), Akademie der Wissenschaften, Berlin 1900 ss., secondo il numero del volume e
della pagina.
2
Cfr. P. MENZER, Die Entwicklung der kantischen Ethik in den Jahren 1760 bis 1785,
«Kant-Studien», 2-3 (1898-1899), pp. 290-322, 31-104; D. HENRICH, Hutcheson und Kant,
«Kant-Studien», 49 (1957-1958), pp. 49-59; J. SCHMUCKER, Die Ursprünge der Ethik Kants in
seinen vorkritischen Schriften und Reflexionen, Hain, Meisenheim am Glan 1961; D. HENRICH,
Über Kants früheste Ethik. Versuch einer Rekonstruktion, «Kant-Studien», 54 (1963), pp. 404431; K. WARD, The Development of Kant’s View of Ethics, Oxford University Press, Oxford
1972; C. SCHWAIGER, Kategorische und andere Imperative. Zur Entwicklung von Kants praktischer Philosophie bis 1785, Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 1999; S. BACIN,
Il senso dell’etica. Kant e la costruzione di una teoria morale, il Mulino, Bologna 2006.
3
Cfr. A.W. WOOD, Kant’s Ethical Thought, Cambridge University Press, Cambridge
1999; F. MUNZEL, Kant’s Conception of Moral Charcter, The “Critical” Link of Moraliy,
Anthropology and Reflective Judgment, The University of Chicago Press, Chicago 1999;
J.H. ZAMMITO, Kant, Herder and the Birth of Anthropology, The University of Chicago
Press, Chicago 2002.
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Eppure nella Grundlegung zur Metaphysik der Sitten Kant è estremamente chiaro nel determinare la distinzione fra fondazione della morale e
morale: “La fondazione altro non è che la ricerca e la determinazione del
principio (Prinzip) supremo della moralità, la quale di per sé, nel suo intento, costituisce un compito da distinguere da ogni altra ricerca morale”4. La
fondazione della morale si occupa solo ed esclusivamente della ricerca del
principio primo della moralità e non di tutti gli altri problemi legati all’agire morale tematizzati dalla tradizione quali il carattere, le passioni, i sentimenti, ecc.
Il problema consiste nel determinare cosa Kant intendesse per principio
della moralità, se la legge morale o ciò che rendeva possibile la legge morale, oppure entrambe le cose. Per quanto riguarda la fondazione della morale, essendo la ricerca intorno il principio supremo della moralità, il suo
oggetto dovrebbe essere l’indagine delle condizioni per le quali la morale
stessa dovrebbe essere possibile e quindi non solo e semplicemente la legge
morale in sé, la quale costituirebbe più che altro il risultato finale. In questo senso si esprime Kant durante le lezioni di etica: “Occorre distinguere
in questa sede la norma dal movente. La norma è il principio di discriminazione dell’obbligo, il movente quello del suo adempimento: andata perduta questa distinzione tutto si è corrotto nella morale. [...] Il principio che
regge l’impulso non deve essere confuso con il principio che guida il giudizio. Questo è la norma, l’altro il movente”5. L’indagine sul principio
supremo della moralità deve riguardare sia il movente sia la norma, ma la
norma senza il movente rimane del tutto ingiustificata, perciò ricercare la
fondazione della morale prima di tutto significa ricercare in che modo l’essere umano è determinato e poi in secondo luogo attraverso quale legge.
Il grande merito dell’opera di Giovanni B. Sala è di dare alcuni suggerimenti sull’evoluzione della genesi della fondazione della morale kantiana
che culminò nella Kritik der praktischen Vernunft e ricomprenderla in un
contesto che era quello della metafisica scolastico-wolffiana.
In effetti, se si esaminano le prime riflessioni kantiane sulla fondazione
della morale si nota inequivocabilmente come il problema di Kant non sia
quello etico, bensì quello metafisico.
Più in generale è possibile dire che sin dagli anni Cinquanta l’interesse
kantiano per la fondazione della morale era del tutto subordinato a quello
metafisico, tanto che l’etica stessa era considerata come una parte della
4
KGS, IV, p. 392.
I. KANT, Eine Vorlesung Kants über Ethik, hrsg. v. P. MENZER, Pan, Berlin 1924, p. 44.
Cfr. KGS, XXVII, p. 274; KGS, XXVII, p. 1423. I. KANT, Vorlesung zur Moralphilosophie,
hrsg. v. W. STARK, De Gruyter, Berlin 2004, pp. 55-56.
5
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metafisica6. Testimonianza di ciò è che quando Kant decise di scrivere
un’opera sulla fondazione della morale scrisse una Grundlegung zur
Metaphysik der Sitten, trattando significativamente di una “metafisica”
della morale e non della morale in sé.
Il problema metafisico principale era senza dubbio quello dell’incondizionato (Unbedingte)7. Nella seconda Vorrede alla Kritik der reinen
Vernunft, Kant è piuttosto esplicito in merito: “Ciò che ci spinge a oltrepassare di necessità il confine dell’esperienza e di tutto ciò che ci appare è
l’incondizionato, quello che, rispetto a ogni condizionato, la ragione esige
necessariamente e a pieno diritto nelle cose in se stesse, per poter così concludere la serie delle condizioni”8. L’incondizionato conduce alla ricerca
della fondazione della morale perché “nel caso ammettessimo che la nostra
conoscenza di esperienza si regoli sugli oggetti come cose in sé, troveremmo che l’incondizionato non si può affatto pensare senza contraddizione”9:
questa contraddizione è quella prodotta nella terza antinomia.
La contraddizione che scaturisce dalla ricerca dell’incondizionato
cadrebbe nel caso si ammettesse che “non è la nostra rappresentazione
delle cose, così come ci vengono date, a regolarsi su di esse come cose in
sé, ma che al contrario questi oggetti, così come essi ci appaiono, si regolano sul nostro modo di rappresentarli”10. L’incondizionato perciò non si
dovrebbe cercare nelle cose in quanto si conoscono, bensì in quanto non si
possono conoscere, come cose in sé. Tuttavia, la ragione speculativa,
rispetto a questo destino di ricercare l’incondizionato nelle cose in sé, non
può avere alcuna pretesa di avanzamento perché essa esige sempre un confronto diretto con l’esperienza. Al contrario, secondo Kant, la ragione pra-
6
Sull’inclusione dell’etica nella metafisica cfr. G. TONELLI, Kant’s Ethics as a part of
Metaphysics: a possible Newtonian Suggestion? With Some Comments on Kant’s “Dream
of a Seer”, in C. WALTON - J.P. ANTON (eds.), Philosophy and the Civilizing Arts: Essays
Presented to Herbert W. Schneider, Anton, Athens 1974, pp. 236-263; M.J. VÁZQUEZ
LOBEIRAS, La ética kantiana como una parte de la metafísica, in J. CARVAJAL CORDÓN (ed.),
Moral, derecho y política en Immanuel Kant, Ediciones de la Universidad de Castilla-La
Mancha, Cuenca 1999, pp. 321-332; M. SGARBI, Kant’s Ethics as a Part of Metaphysics:
The Role of Spontaneity, «Kant e-prints», 2 (2008), pp. 265-278. Per una netta indipendenza dell’etica dalla metafisica cfr. BACIN, Il senso dell’etica. Kant e la costruzione di una teoria morale, p. 65: “[Kant] non arrivò mai, nemmeno in questi anni, a esprimere un accordo
con l’idea centrale di una dipendenza della filosofia pratica dalla metafisica, comune a tutti
i wolffiani e a coloro che si ispiravano a quella dottrina, anche in forme eterodosse”.
7
Cfr. il lungo excursus di Sala su Kant e l’idea dell’incondizionato, SALA, Immanuel
Kant, Critica della ragion pratica. Un commento, pp. 307-310.
8
KGS, III, B XX.
9
Ibidem.
10
Ibidem.
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tica può determinare questo concetto razionale del trascendente incondizionato. Ecco perché l’incondizionato è oggetto della morale.
Sul problema dell’incondizionato è incentrata, come si è appena detto,
l’intera terza antinomia che riguarda specificatamente la determinazione
delle cause degli accadimenti del mondo in relazione alla possibilità della
libertà. L’antinomia si risolve con il riconoscimento di una libertà trascendentale o spontaneità assoluta come particolare tipo di causalità. Infatti, per
Kant esistono due tipi di causalità, uno secondo la natura o uno secondo la
libertà. La prima causalità è la connessione di uno stato del mondo sensibile con un altro stato precedente, cui quello segue secondo una regola. Per
causalità mediante libertà, Kant intende la facoltà di cominciare spontaneamente uno stato, la cui causalità non soggiace a sua volta a un’altra
causa che l’abbia precedentemente determinata. In questo senso la libertà è
una pura idea trascendentale che non contiene nulla di derivato dall’esperienza e che consiste nell’“indipendenza dell’arbitrio dalla costrizione esercitata dagli impulsi della sensibilità”11. Si tratta per Kant di un particolare
tipo di libertà per cui la sensibilità non rende necessaria l’azione, cioè
riguarda la possibilità che l’uomo ha autodeterminarsi indipendentemente
dalla costrizione esercitata dagli impulsi sensibili.
Se ogni causalità nel mondo fosse secondo natura, ogni accadimento
sarebbe determinato necessariamente e ogni libertà pratica sarebbe soppressa. La libertà pratica, infatti, presuppone “una capacità di produrre,
indipendentemente da quelle cause naturali, e addirittura contro la loro
forza e il loro influsso, qualcosa di determinato nell’ordine temporale
secondo leggi empiriche, e perciò in grado di cominciare in modo del tutto
spontaneo una serie di accadimenti”12. La causalità umana, per ammettere
la possibilità stessa della morale, deve essere concepita secondo due aspetti: “come intelligibile secondo la sua azione, in quanto azione di una cosa
in se stessa, e come sensibile secondo i suoi effetti, in quanto effetti di un
fenomeno nel mondo sensibile”13. Questi due aspetti della causalità si
riflettono in Kant in un duplice carattere dell’uomo, uno empirico “in virtù
del quale le sue azioni, come fenomeni, sarebbero completamente connesse con altri fenomeni secondo leggi di natura costanti”, e uno intelligibile
“tramite cui esso è causa di quelle azioni in quanto fenomeni, ma non sottostà a sua volta ad alcuna condizione della sensibilità, e non è esso stesso
un fenomeno”14. Solo in base a questo carattere intelligibile l’uomo deve
11
KGS, III, A 534/B 562.
Ibidem.
13
Ibi, A 538/B 566.
14
Ibi, 539/B 567.
12
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essere dichiarato libero e capace di incominciare spontaneamente i suoi
effetti nel mondo sensibile, cioè solo attraverso questo tipo di libertà è possibile la moralità. La spontaneità trascendentale è dunque il vero fondamento della morale.
Non stupisce che Kant, quattro anni dopo la Kritik der reinen Vernunft,
nella sua Grundlegung, riprenda proprio questo tema come centrale per
spiegare la fondazione della morale. La soluzione dell’antinomia si presenta nel cercare se “quando pensiamo noi stessi come cause efficienti
mediante la libertà, non assumiamo un punto di vista diverso da quando ci
rappresentiamo nelle nostre azioni come effetti, che ci stanno davanti agli
occhi”15. Il punto di vista che si assume nel concepire l’uomo come libero
è quello di pensarlo come cosa in sé in contrapposizione al fenomeno. Ciò
conduce, secondo Kant, all’inevitabile distinzione fra mondo sensibile e
mondo intelligibile: “Il primo dei quali può anche differire decisamente nei
vari osservatori, per la differenza della loro sensibilità, mentre il secondo,
che gli sta a fondamento, rimane sempre il medesimo”16. L’intelligibile è a
fondamento del sensibile: la causalità noumenica rappresenta la fondazione di quella fenomenica. Con ciò, non significa conoscere il soggetto morale come cosa in sé, ma significa semplicemente ammettere la sua esistenza
come qualcosa d’intelligibile perché possa sussistere una morale. Infatti,
nella Kritik der reinen Vernunft questo mondo intelligibile veniva a coincidere con il mondo morale. L’idea di un mondo morale ha perciò una sua
vera realtà oggettiva, ma non in quanto si riferisce all’oggetto di una intuizione sensibile, ma come “un corpus mysticum degli esseri razionali che si
trovano in esso, in quanto il libero arbitrio di tali esseri, sotto le leggi morali, implica in sé un’unità sistematica completa, sia con se stesso sia con la
libertà di ogni altro”17.
Per Kant è chiaro quindi che l’uomo può esprimere questa sua causalità
solo attraverso la ragione che come “pura attività spontanea, s’innalza
anche al di sopra dell’intelletto”18. Sebbene anche l’intelletto sia in un certo
senso spontaneo, esso non può, tuttavia, trarre dalla propria attività altri
concetti “se non quelli che servono unicamente a portare sotto regole le
rappresentazioni sensibili”19. La ragione, invece, manifesta una idea di
spontaneità così pura da trascendere ogni sensibilità e porta a termine “il
suo compito più elevato nel distinguere tra loro il mondo sensibile e il
15
KGS, IV, p. 450.
Ibi, p. 451.
17
KGS, III, A 808/B 837.
18
KGS, IV, p. 452.
19
Ibidem.
16
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mondo intellegibile”20. Questa spontaneità assoluta è racchiusa secondo
Kant nel concetto dell’“autonomia della ragione”, il quale era definito
come il principio supremo della moralità, il principio unico della morale, e
quindi l’oggetto della ricerca della fondazione della morale21.
È indubbio che queste idee sull’“autonomia della ragione” e sulla
“spontaneità trascendentale” siano centrali per la genesi della Kritik der
praktischen Vernunft che rappresenta il testo critico per eccellenza sulla
fondazione della morale22. Quest’opera, come segnala giustamente Sala, è
del tutto inaspettata23, tanto che può essere considerata nel suo nucleo originario, limitatamente alla prima parte, come una lunga appendice alla
terza antinomia della Kritik der reinen Vernunft. D’altra parte la stessa
Dialektik della Kritik der praktischen Vernunft può essere considerata come
una sottile rielaborazione dei postulati dell’immortalità dell’anima e dell’esistenza di Dio sviluppati nel capitolo Von dem Ideal des höchsten Guts
della Kritik der reinen Vernunft24.
Il fatto che la Kritik der praktischen Vernunft non fosse un’opera inizialmente progettata come parte della filosofia trascendentale kantiana,
come correttamente nota Sala25, è un ulteriore sintomo del generale disinteresse di Kant nei confronti della morale, se non per i suoi aspetti più
metafisici26.
La stessa stesura della Kritik der praktischen Vernunft, scritta verosimilmente fra la fine della primavera del 178727, quasi del tutto completata
alla fine del giugno del 178728, e consegnata definitivamente all’editore nel
20
Ibidem.
Ibi, p. 440.
22
Cfr. G. PRAUSS, Kant über Freiheit als Autonomie, Klostermann, Frankfurt a. Main
1983; A. GUNKEL, Spontaneität und moralische Autonomie, Haupt, Bern-Stuttgart 1989.
23
Cfr. SALA, Immanuel Kant, Critica della ragion pratica. Un commento, p. 68.
24
Cfr. KGS, III, A 804-819/B 832-848.
25
SALA, Immanuel Kant, Critica della ragion pratica. Un commento, p. 70: “Kant era
in un primo tempo dell’opinione che i principi supremi della moralità e i concetti di essa
non appartenessero alla filosofia trascendentale”.
26
KGS, III, A 801/B 829: “Tutti i concetti pratici riguardano oggetti del piacere o del
dispiacere, cioè della gioia e del dolore, quindi riguardano, almeno indirettamente, oggetti del
nostro sentimento. Ma poiché quest’ultimo non costituisce una capacità rappresentativa delle
cose, ma cade totalmente al di fuori della capacità conoscitiva, allora gli elementi dei nostri
giudizi, nella misura in cui si riferiscono alla gioia o al dolore, e quindi nella misura in cui
costituiscono dei giudizi pratici, non competono all’insieme della filosofia trascendentale, la
quale si occupa unicamente di conoscenze pure a priori”. Cfr. SALA, ibi, pp. 62-64.
27
Per questa data Kant aveva consegnato la seconda edizione della Kritik der reinen
Vernunft all’editore.
28
KGS, X, p. 490.
21
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settembre 178729, cioè più o meno composta in cinque mesi30, lascia supporre che l’opera non fosse altro che un rimaneggiamento di un materiale
più antico e di diversa provenienza31: “Ad una lettura attenta del testo non
possono sfuggire i difetti nell’ordine dei temi e l’oscurità delle argomentazioni come pure scabrosità, salti e ripetizioni”32.
Il fatto che Kant stesse rielaborando i suoi pensieri sulla scia delle riflessioni della Kritik der reinen Vernunft e della Grundlegung è chiaro sin dalla
Vorrede: con la ragione pura pratica si stabilisce una volta per tutte “la
libertà trascendentale e, invero, presa nel senso assoluto del quale aveva
bisogno la ragione speculativa nell’uso del concetto di causalità per scampare dall’antinomia in cui essa inevitabilmente cade quando vuol concepire l’incondizionato nella serie delle relazioni causali”33.
La prima questione della Kritik der praktischen Vernunft posta nella
Einleitung è perciò quella “se la ragione pura basti per sé sola alla determinazione della volontà, oppure se soltanto come condizionata empiricamente possa essere un motivo determinante di essa”34. Alla luce delle considerazioni appena fatte la risposta appare ormai scontata: la ragione pratica deve essere completamente spontanea per ammettere la possibilità stessa della morale. La spontaneità della ragione come fondamento della morale si esprime principalmente attraverso la facoltà “o di produrre oggetti corrispondenti alle rappresentazioni, oppure di determinare se stessa, cioè la
propria causalità, all’attuazione di essi”35: cioè la capacità di auto-legiferare la legge morale (o imperativo categorico) e di seguirla spontaneamente.
A sostegno di ciò c’è il §8 della Kritik der praktischen Vernunft, nel quale
si sancisce che l’autonomia della volontà è l’unico principio di tutte le leggi
morali36, facendone il principio stesso della fondazione della morale.
Se la libertà trascendentale in quanto capacità di produrre e seguire l’imperativo categorico costituisce l’esito finale del pensiero di Kant sulla fondazione della morale37, di sicuro il merito di Sala è quello di aver rintracciato le tappe dell’evoluzione di questo pensiero già negli anni Sessanta e
in seno alla tradizione metafisica wolffiana.
29
Ibi, p. 491.
SALA, Immanuel Kant, Critica della ragion pratica. Un commento, pp. 68-69.
31
Sala, tuttavia, afferma che è difficile a dirsi “se in base a una stesura così rapida si
debba concludere a un’opera unitaria o invece a una composizione non del tutto coerente
di argomentazioni del passato e di diversa provenienza”. Ibi, p. 69.
32
Ibidem.
33
KGS, V, p. 3.
34
Ibi, p. 15.
35
Ibidem.
36
Ibi, p. 33.
37
SALA, Immanuel Kant, Critica della ragion pratica. Un commento, p. 217.
30
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Rintracciare nella filosofia wolffiana le origini della fondazione della morale di Kant non è cosa così scontata. Tutti gli studi della prima metà del
Ventesimo secolo distinguevano nettamente l’etica precritica dall’etica critica: la prima, influenzata dalla filosofia del sentimento morale e da autori
quali Anthony Ashley Cooper Third Earl of Shaftesbury, Francis
Hutcheson, David Hume e Jean-Jacques Rousseau, si fondava principalmente su “principi materiali”; la seconda, del tutto originale, si fondava
“principi formali”38. Henrich e Schmucker hanno contribuito a scardinare
questa distinzione e hanno rilevato come già negli scritti della seconda metà
degli anni Sessanta si possono rintracciare elementi che poi confluirono
nella Grundlegung. In particolare Schmucker notò che “ai due grandi rappresentanti della filosofia dell’Illuminismo tedesco, Wolff e Crusius, spetta
un significato sostanzialmente maggiore per lo sviluppo dell’etica kantiana
di quanto abitualmente venga ad essi attribuito e, viceversa, l’influenza
della filosofia morale inglese, e in un certo senso anche della filosofia di
Rousseau, è stato corrispondentemente sopravvalutata dalla maggior parte
degli interpreti”39. D’altra parte i sostenitori di una “morale materiale” precritica, completamente differente dalla morale critica, focalizzavano il proprio interesse su scritti quali l’Über die Deutlichkeit der Grundsätze der
natürlichen Theologie und der Moral, dove Kant rimanda a “Hutcheson e
altri”, e alle Beobachtungen über das Gefühl des Schönen und Erhabenen,
che non trattano direttamente della fondazione della morale.
Sala, invece, sulla scia delle riflessioni di Schwaiger40, abbozza alcuni
elementi che spiegano in che senso i principi fondamentali della cosiddet-
38
Ibi, p. 28.
SCHMUCKER, Die Ursprünge der Ethik Kants in seinen vorkritischen Schriften und
Reflexionen, pp. 21-22.
40
Cfr. C. SCHWAIGER, La teoria dell’obbligazione in Wolff, Baumgarten e nel primo Kant,
in G. CACCIATORE - V. GESSA-KUROTSCHKA - H. POSER - M. SANNA (a c. di), La filosofia pratica tra metafisica e antropologia nell’età di Wolff e Vico, Napoli 1999, pp. 323-340;
C. SCHWAIGER, Ein „missing link“ auf dem Weg der Ethik von Wolff zu Kant. Zur Quellen- und
Wirkungsgeschichte der praktischen Philosophie von Alexander Gottlieb Baumgarten,
«Jahrbuch für Recht und Ethik», 8 (2000), pp. 247-261; ID, Vollkommenheit als Moralprinzip
bei Wolff, Baumgarten und Kant, in M. OBERHAUSEN - H.P. DELFOSSE - R. POZZO (hrsg.),
Vernunftkritik und Aufklärung. Studien zur Philosophie Kants und seines Jahrhunderts,
Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 2001, pp. 317-328; ID., Die Anfänge des
Projekts einer “Metaphysik der Sitten”. Zu den wolffianischen Wurzeln einer kantischen
Schlüsselidee, in V. GERHARDT - R.-P. HORSTMANN - R. SCHUMACHER, Kant und die Berliner
Aufklärung. Akten des IX. Internationalen Kant-Kongresses, De Gruyter, II, Berlin-New York
2001, pp. 52-58; ID., Baumgartens Ansatz einer philosophischen Ethikbegründung,
«Aufklärung», 20 (2008), pp. 219-237; ID., Zur Theorie des Glücks bei Christian Wolff und
Alexander Gottlieb Baumgarten, in J. STOLZENBERG - O.-P. RUDOLPH (hrsg.), Christian Wolff
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ta morale critica fossero già stati fissati ben prima di questi scritti e che in
questa sede sembra opportuno segnalare e integrare41.
In primo luogo è necessario ricordare che almeno negli anni Cinquanta
svolsero un ruolo decisivo le riflessioni morali della scuola wolffiana: esse
furono il vero luogo natìo e punto di partenza della morale di Kant42. È
ormai un dato consolidato della Kant-Forschung che a partire dal semestre
invernale 1756/175743 Kant insegnò, per i suoi corsi di filosofia morale,
prima l’Ethica philosophica di Alexander Gottlieb Baumgarten, pubblicata
nel 1740, e poi gli Initia philosophiae practicae primae, pubblicati nel
1760, e che questi manuali fossero la “materia prima” dalla quale egli attinse per le sue riflessioni morali44.
Il primo scritto che più di tutti risente dell’influenza wolffiana e crusiana è indubbiamente la dissertazione Principiorum primorum cognitionis
metaphysicae nova dilucidatio del 1755. In questo testo, il fondamento
della morale è individuato in modo inequivocabile, sebbene non esplicito,
nel concetto di “spontaneità” che si è visto essere il filo conduttore delle
riflessioni morali nell’epoca critica.
In epoca moderna il concetto di spontaneità era stato rintrodotto con particolare enfasi dei Gottfried Wilhelm Leibniz. Negli Initia et specimina
scientiae novae generalis e nel §301 degli Essais de théodicée sur la bonté
de Dieu, la liberté de l’homme et l’origine du male Leibniz scrive che la
libertà è la spontaneità guidata dall’intelligenza, riprendendo in modo diretto il concetto aristotelico elaborato in Ethica Nicomachea, III/345. Nel §301
Leibniz afferma esplicitamente che “spontaneum est, cuius principium est in
agente”46, mentre nel §291 stabilisce che ogni singola e semplice sostanza
ha in sé, spontaneamente, la capacità di determinare ogni sua azione e per-
und die Europäische Aufklärung. Akten des 1. Internationalen Christian-Wolff-Kongresses,
Hildesheim, Olms 2009, pp. 31-44.
41
SALA, Immanuel Kant, Critica della ragion pratica. Un commento, p. 30.
42
Ibi, pp. 31-37.
43
Cfr. SCHWAIGER, Kategorische und andere Imperative. Zur Entwicklung von Kants
praktischer Philosophie bis 1785, pp. 33 s.
44
SALA, Immanuel Kant, Critica della ragion pratica. Un commento, p. 33. A buona
ragione Bacin scrive che “il progetto di Kant per una rifondazione della filosofia pratica –
non soltanto negli anni Sessanta – richiede di essere compreso a partire dal confronto con
il quadro sistematico scolastico nella versione di Baumgarten”. Cfr. BACIN, Il senso dell’etica. Kant e la costruzione di una teoria morale, p. 51.
45
Cfr. M. SGARBI, Kant’s Concept of Spontaneity within the Tradition of Aristotelian
Ethics, «Studia Kantiana», 8 (2009), pp. 121-139.
46
G.W. LEIBNIZ, Die philosophischen Schriften (=GP), Weidmann, VI, Berlin 18751890, p. 296.
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cezione47. Seguendo Leibniz, Christian Wolff nei Vernünftige Gedanken von
Gott, der Welt und der Seele des Menschen sostiene che l’anima avente in
sé la ragione delle sue azioni è spontanea48. Nella Psychologia empirica la
spontaneità è definita come “principium sese ad agendum determinandi
intrinsecum”, aggiungendo che “actiones dicuntur spontaneae, quatenus per
principium sibi intrinsecum, sine principio determinandi extrinseco, agens
easdem determinat”49. In modo particolare il concetto di spontaneità fu
ripreso e rielaborato dai wolffiani più indipendenti come Baumgarten e
Georg Friedrich Meier. Per Baumgartem, come per Leibniz, la sostanza
semplice è una monade intesa come “vis repraesentativa pro positu corporius humani”50, la quale spontaneamente, da sé, trae ogni conoscenza e azione. Queste monadi spontanee sono dei veri e propri automi spirituali per i
quali ogni azione può dirsi spontanea solamente se dipende e scaturisce dal
loro principio interno51. Questa attività spontanea dell’anima è definita da
Meier come autoattività (Selbsttätigkeit). Su questa scia, anche se in diretta
polemica con la scuola wolffiana, Christian August Crusius nella sua
Anweisung vernünftige zu Leben definisce la spontaneità come autoattività
spirituale (geistige Selbsttätigkeit) dalla quale scaturisce ogni rappresentazione e volizione52. Nell’Entwurf der nothwendigen Vernunft, Crusius sottolinea che la spontaneità è l’actio prima libera53, la quale è capace di determinare il bene e quindi l’azione morale54.
Alla luce di queste considerazioni sulla spontaneità deve essere letto il
paragrafo della Nova dilucidatio dedicato al principio di ragion determinante, nel quale Kant tratta del problema della spontaneità umana in relazione alla necessità naturale e alla libertà di Dio. In questo passo Kant stabilisce perentoriamente un assunto che guiderà ogni sua futura ricerca in
campo morale, cioè che non è importante conoscere quanto un’azione sia
47
Cfr. F. PIRO, Spontaneità e ragion sufficiente, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma
2002, pp. 147-195.
48
C. WOLFF, Vernünftige Gedanken von Gott, der Welt und der Seele des Menschen,
Renger, Halle 1719, p. 317.
49
ID., Psychologia Empirica, Renger, Halle 1738, p. 702.
50
A.G. BAUMGARTEN, Metaphysica, Hemmerde, Halle 1757, pp. 176-177.
51
Ibi, pp. 270-274.
52
A.C. CRUSIUS, Anweisung, vernünftig zu leben, Gleditsch, Leipzig 1744, p. 45.
53
ID., Entwurf der nothwendigen Vernunft-Wahrheiten, Gleditsch, Leipzig 1745, p. 148.
54
Ibi, p. 343. Sul concetto di spontaneità da Leibniz a Kant cfr. K. KAWAMURA,
Spontaneität und Willkür, Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 1996, pp. 35-81;
M. SGARBI, Spontaneity from Leibniz to Kant. Sources and Studies, in H. BERGER J. HERBST - S. ERDNER (hrsg.), Einheit in der Vielheit: XII. Internationaler LeibnizKongress, Leibniz Gesellschaft, Hannover 2006, pp. 989-996.
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necessitata, ma piuttosto è importante sapere quale sia l’origine di quell’azione per sapere se essa sia morale o no. Kant per spiegare questo concetto utilizza per la prima volta l’analogia fra la libertà di Dio e la libertà dell’uomo. Nessuno, scrive Kant, può dubitare del fatto che la creazione fosse
determinata in Dio, tuttavia, la Sua azione fu libera perché proveniva dalla
Sua infinita intelligenza e non da un cieco potere della natura55. La creazione fu determinata in modo tale che il suo opposto non poteva essere
concepibile, ma questo non significa per Kant che essa fosse necessitata in
modo assoluto, infatti, essa scaturì dal principio spontaneo interno a Dio.
Analogamente alla libertà di Dio, per Kant, si può concepire quella dell’uomo. In primo luogo la differenza fra azioni fisiche e azioni che scaturiscono dalla libertà morale non dipende dal grado di necessità, ma dalle
ragioni da cui sono determinate. Le azioni umane sono libere quando
“sono prodotte da motivi dell’intelletto applicati alla volontà, laddove,
invece, nelle azioni fisiche, cioè quelle psico-meccaniche, tutti questi fatti
avvengono per necessità in modo conforme a sollecitazioni e agli impulsi
esterni, senza alcuna disposizione spontanea dell’arbitrio”56. In questo
passo per la prima volta la spontaneità è posta da Kant a fondamento dell’azione morale. Kant ripropone il concetto anche nel successivo dialogo
fra Caio e Tizio contro l’indifferentiae aequilibrium, nel quale un’azione
spontanea è quella che scaturiva dal principio interno dell’agente e la
libertà è nient’altro che la spontaneità determinata in conformità alla rappresentazione dell’ottimo57. La rappresentazione dell’ottimo, o del bene,
non poteva che venire per Kant che dalla autoattività dell’anima. Kant
indubbiamente aveva in mente le riflessioni wolffiane che sancivano nell’autonomia della ragione il principio della moralità: “Siccome noi
mediante la ragione conosciamo ciò che la legge della natura esige, perciò
l’uomo in quanto dotato di ragione non ha bisogno di nessuna altra legge;
mediante la sua ragione l’uomo è legge a se stesso”58. In questo senso Sala
ha ragione di segnalare che Kant si riferiva soprattutto a Wolff perché quest’ultimo da una parte distingueva la fondazione ultima della legge morale
che si basava sulla spontaneità dell’uomo e dall’altra la volontà divina,
tanto che la legge morale sarebbe stata possibile anche se Dio non fosse
stato59. Kant mantenne questa concezione leibnizio-wolffiana almeno per
55
KGS, I, p. 400.
Ibidem.
57
KGS, I, p. 402.
58
C. WOLFF, Vernünftige von der Menschen Thun und Lassen, Renger, Marburg 1752,
pp. 18-19.
59
Cfr. SALA, Immanuel Kant, Critica della ragion pratica. Un commento, p. 37.
56
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tutti gli anni Sessanta, infatti, è solo a partire dalle lezioni di etica e poi
nella Kritik der reinen Vernunft che la spontaneità senza Dio risultava essere insufficiente per fondare una vera legge morale60. All’epoca Kant era già
sicuramente conscio del fatto che equiparare la libertà con la spontaneità
significava in un certo senso ricomprendere la libertà all’interno della
necessità. Tuttavia, da alcuni elementi del Versuch einiger Betrachtungen
über den Optimismus del 1759, si può evincere che questa libertà necessaria è di gran lunga preferibile alla libertas indifferentiae che preludeva inevitabilmente a esiti nichilistici: “Non so che farmene di una libertà che
condanna al nulla eterno [...] preferisco quella buona necessità in cui ci troviamo bene e dalla quale non può nascere se non l’ottimo”61. Nelle riflessioni sulla fondazione della morale degli anni Cinquanta rimaneva ancora
irrisolto in Kant il problema di come e in che senso l’uomo potesse essere
considerato spontaneo, sebbene in certa misura sempre determinato dal
suo corpo e quindi dalla sensibilità. L’effettivo punto di svolta si ebbe con
la pubblicazione dei Träume eines Geistersehers erläutert durch Träume
der Metaphysik nel 1766.
Nei Träume Kant afferma che gli esseri umani vivono in una specie di
paradosso perché in quanto esseri spirituali e spontanei sono fondati sulla
facoltà interiore, capace di determinar se stessa secondo l’arbitrio, ma
come esseri materiali sono sottoposti anche alle necessità della natura.
Rispetto alla loro parte spirituale essi non subiscono l’azione della materia
secondo le leggi del contatto e dell’urto, ma che anzi con un’attività interna determinano se stessi e anche la materia morta: “Essi sono principi
agenti per sé, e quindi sostanze e nature per sé stanti”62. In questo contesto
Kant sta parlando indubbiamente del carattere spontaneo dell’uomo. Intesi
come esseri spontanei, gli esseri umani costituirebbero un mundus intelligibilis governato da leggi di azione definite pneumatiche in opposizione ad
un mundus sensibilis governato dalle leggi della fisica.
L’idea dell’esistenza dei due mondi e in particolare dell’esistenza di un
mundus intelligibilis governato da leggi pneumatiche era comune in questo
60
KANT, Eine Vorlesung Kants über Ethik, pp. 48-49: “Ma noi non abbiamo bisogno di
Lui [Dio] per giudicare della moralità: tutte le leggi morali possono essere giuste, anche in
sua assenza. Sebbene rimarrebbero inoperanti nell’applicazione, se non vi fosse un altro
essere che ci potesse costringere ad esse. [...] La conoscenza di Dio è dunque necessaria
per quel che riguarda l’attuazione della legge morale” (KGS, III, 811/B 838). Cfr. SALA,
Immanuel Kant, Critica della ragion pratica. Un commento, p. 39.
61
KGS, II, p. 34. Cfr. H. KLEMME, Necessità pratica e indifferenza del volere. Considerazioni sulla libertas indifferentiae in Kant, in L. FONNESU (a c. di.), Etica e mondo, il
Mulino, Bologna 2008, pp. 57-73.
62
KGS, II, p. 329.
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periodo sia ai wolffiani eterodossi che ai moralisti inglesi63. Nel §403 della
sua Metaphysica Baumgarten sosteneva che il nexus fra le sostanze spirituali era determinato da leggi pneumatiche in un mundus pneumaticus,
intellectualis, moralis, regnum gratiae64. Meier nel §375 della sua
Metaphysik parlava di un nexus universale di tutte le sostanze spontanee
che costituiva un Geisterwelt, o un mondo intellettuale e morale, in quanto
solo alle sostanze spontanee possono essere attribuite l’intelligenza e la
moralità65. Anche in newtoniani come John Norris, Andrew Michael
Ramsay e George Cheyne era presente il medesimo concetto. In modo particolare l’opera di Cheyne Philosophical Principles of Religion, conosciuta in Germania attraverso un riassunto dettagliato di Johann August
Eberhard, affermava che come il mondo materiale e sensibile era connesso
per mezzo della legge di gravitazione, il mondo intelligibile era connesso
da un sentimento morale o desiderio chiamato anche gravità morale66.
Sulla scia delle riflessioni di questi autori, l’anima umana per Kant
doveva “essere considerata come già connessa, nella vita presente, allo
stesso tempo con due mondi, dei quali essa sente chiaramente soltanto
quello materiale, in quanto è legata ad un corpo nell’unità di persona; ma,
in quanto membro del mondo spirituale, essa riceve e dà i puri influssi delle
nature immateriali, cosicché, non appena quel collegamento è cessato, la
comunione, in cui essa sempre sta con le nature spirituali rimane sola e si
dovrebbe manifestare chiaramente alla coscienza”67.
In quanto parte di questa comunione di spiriti, di un mundus intelligibilis, le forze che muovono l’uomo sarebbero focalizzate fuori di esso in altri
esseri ragionevoli e da ciò scaturirebbe il fatto che si tiene così fortemente
ed universalmente conto del giudizio altrui e spontaneamente si crede “che
la conferma o l’approvazione degli altri sia così necessaria al completamento del nostro giudizio”68. Infatti, scriveva Kant, “anche nell’animo più
disinteressato e veritiero si sente un segreto impulso a confrontare con il
giudizio degli altri ciò che da noi stessi giudichiamo buono o vero per ren-
63
Cfr. TONELLI, Kant’s Ethics as a part of Metaphysics: a possible Newtonian
Suggestion? With Some Comments on Kant’s “Dream of a Seer”, pp. 246-256.
64
BAUMGARTEN, Metaphysica, p. 1289. Il fatto che sia Baumgarten la fonte di Kant è
testimoniato dal fatto che nella Kritik der reinen Vernunft si parla di un mondo intelligibile, morale, regnum gratiae. Cfr. KGS, III, A 815/B 843.
65
G.F. MEIER, Metaphysik, Hemmerde, Halle 1756, pp. 164-165.
66
G. CHEYNE, Philosophical Principles of Religion, Strahan, London 1733-36,
pp. 77-78.
67
KGS, II, p. 332.
68
Ibi, p. 334.
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dere concordi entrambi i giudizi”69. Il sentire questa dipendenza dei propri
giudizi da quelli altrui è dovuta secondo Kant da una specie di comune
intelletto umano universale che garantisce a tutti gli esseri pensanti una
specie di unità razionale: “Nei più segreti motivi noi ci vediamo dipendenti dalla regola del volere universale, e da ciò nasce nel mondo di tutti gli
esseri pensanti una unità morale ed una disposizione sistematica secondo
leggi puramente spirituali”70.
Questo passo è estremamente interessante perché definisce in che senso
sia possibile parlare di azione morale in termini del tutto simili a quelli esposti dalla Grundlegung. L’azione morale è tale perché gli esseri umani, in
quanto spontanei e facenti parti di un mundus intelligibilis, fra di loro condividono una legge universale sulla quale convengono per mezzo di una universale ragione umana. Questa regola del volere universale diventerà in epoca
critica l’imperativo categorico secondo il quale la massima della volontà di
ogni essere umano deve poter essere pensata valida come legge universale:
“agisci in modo che la massima della tua volontà possa valere nello stesso
tempo come principio di una legislazione universale”71. Di certo Kant si basa
su un assunto fondamentale dell’Aufklärung: la legge morale può essere pensata valida solo perché scaturisce dalla comune proprietà della spontaneità
della ragione che era considerata al tempo uguale in tutti gli uomini.
Questa spontaneità della volontà nel concordare con un volere universale sarebbe secondo Kant il sentimento morale, il quale altro non sarebbe
che “il sentimento del piacere nell’uso della propria libertà”72, cioè un epifenomeno, un risultato della spontaneità. È lecito pensare retrospettivamente che sia stato a partire dal concetto di “spontaneità” come fondamento della morale che Kant avesse iniziato ad interessarsi al problema del
sentimento morale e ad autori quali i moralisti inglesi e Rousseau negli
scritti come la Untersuchung über die Deutlichkeit del 1763 e le
Beobachtungen über das Gefühl des Schönen und Erhabenen del 1764. In
autori come Shaftesbury e Hutcheson, Kant ritrovava il concetto di “sentimento morale” come qualcosa di derivante dalla spontaneità interna comune a tutti gli individui. In Rousseau, invece, Kant trovava l’idea dell’accordo spontaneo della volontà singolare con la volontà generale73.
69
Ibidem.
Ibi, p. 335.
71
KGS, V, p. 30.
72
SALA, Immanuel Kant, Critica della ragion pratica. Un commento, p. 52.
73
M. SGARBI, L’origine della connessione fra antropologia, morale ed estetica in Kant
(1763-1766), in L.R. DOS SANTOS (hrsg.), Was ist der Mensch? Anthropologie, Ästhetik und
Teleologie bei Kant, in preparazione.
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Le riflessioni morali della seconda metà degli anni Sessanta non sono
perciò le prime idee di Kant sulla morale, ma esse si basano su lunghe meditazioni effettuate per circa un decennio a partire dal 1755 sulla possibilità
della fondazione della morale attraverso il concetto di “spontaneità”. Si è
visto, sviluppando i preziosi suggerimenti offerti da Sala, che il pensiero
sulla fondazione della morale ebbe la sua genesi in seno alla filosofia wolffiana. Questa genesi prese l’avvio dall’analisi di questioni metafisiche
sostanzialmente legate al problema dell’incondizionato in Dio e nell’uomo.
Nella Nova dilucidatio del 1755 si affacciava in Kant per la prima volta il
concetto di “spontaneità” come elemento caratterizzante della libertà
umana. Essa rappresentava la condizione di possibilità per la fondazione
della morale: la sola spontaneità della ragione bastava a garantire la legge
morale. Nei Träume del 1766 la spontaneità diveniva l’aspetto determinante e comune di ogni essere umano: esso costituiva il suo carattere intelligibile. La comunione di questo aspetto intelligibile dell’essere umano portava
Kant ad elaborare un mondo intelligibile morale in opposizione ad un
mondo sensibile materiale.
È possibile così affermare che già negli anni Sessanta Kant avesse stabilito in maniera definitiva almeno tre elementi essenziali per la fondazione
morale. Il primo elemento è senz’altro la spontaneità della ragione che da sé
legifera e segue la legge morale. Il secondo elemento è il carattere noumenico di questa spontaneità che rivela un mundus intelligibilis nel quale gli
esseri umani sono fra di loro in comunione morale. Questa unità morale dettata dalla spontaneità stabilisce che la legge morale del singolo debba valere per ogni essere umano proprio grazie all’assunto illuministico che tutti gli
uomini condividono la stessa ragione e la stessa natura spirituale. A Kant
tanto bastava negli anni Sessanta per la fondazione della morale.
Durante gli anni Ottanta, a fianco della spontaneità venivano ad aggiungersi le altre due grandi idee trascendentali cioè quella dell’immortalità
dell’anima e Dio, le quali garantivano che la libertà trascendentale non
fosse un semplice girarrosto74.
Queste sono, tuttavia, dottrine piuttosto tarde, le quali non devono far
tacere – come suggerisce Sala – che Kant avesse già determinato negli anni
Sessanta, sulla scia di riflessioni metafisiche, la sua fondazione della morale mediante il concetto di “spontaneità” così come si sarebbe riproposta
vent’anni dopo nel suo primo scritto dedicato completamente a temi etici.
74
Già nella Kritik der reinen Vernunft Kant afferma che “Dio e una vita futura sono,
secondo i principi della ragion pura, due presupposti inseparabili dall’obbligazione che la
ragion pura [pratica] stessa ci impone” (KGS, III, A 811/B 839).
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