Non c’è scampo per nessuno Impressionante, eloquente monologo da L’uomo nell’olocene di Max Frisch / 22.05.2017 di Marinella Polli «Ho l’impressione di essermi persa», questa la frase spesso ripetuta da Auguste D., la paziente che permise al dott. Alois Alzheimer di compiere le sue ricerche su una malattia allora ancora sconosciuta e per lo più fatta rientrare nella casistica delle demenze senili. Ce la ricordiamo perché proprio di lì muoveva un lavoro teatrale andato in scena parecchi anni fa al Neumarkt Theater di Zurigo. Anche Max Frisch, nella sua novella o racconto lungo L’Uomo nell’Olocene (Der Mensch erscheint im Holozän), racconta con una scrittura pura e precisa, ma intensissima, della disgregazione della mente umana – qui probabilmente dovuta ad un ictus – che è poi l’apocalittica, estrema disgregazione. È a questo capolavoro di Frisch che si ispira il monologo portato in scena al Luzerner Theater dal regista Felix Rothenhäusler (luci e scene di Matthias Singer) e su brani della Decima di Mahler. Monologo costituito da una serie di riflessioni del signor Geiser, un anziano vedovo che si trova bloccato, senza elettricità e completamente isolato in uno sperduto villaggio del Canton Ticino (Frisch aveva vissuto a Berzona, ricordiamocelo, in Vall’Onsernone) a causa di piogge alluvionali e frane. L’uomo pensa intensamente alla vecchiaia ormai imminente, alla morte ma, soprattutto, alla possibile perdita del controllo e della memoria e al conseguente decadimento intellettivo, iniziando dunque a scrivere su foglietti che appende ovunque gli capiti, e con parole semplici o di difficile significato, pensieri e considerazioni di vario genere: sull’origine dell’uomo avvenuta nell’Olocene, sulla conservazione della specie umana, sulla natura, sugli innumerevoli tipi di tuono che riecheggiano nelle montagne ticinesi, sull’estinzione di dinosauri e brontosauri cui farà seguito la sua più o meno prossima personale estinzione. È come se Geiser, con questo suo meticolosissimo tentativo di aggrapparsi a cultura e a conoscenze acquisite onde tracciare un quadro completo del mondo, intendesse contrastare l’avanzare dell’incapacità di servirsi del linguaggio, e con esso il disorientamento, la confusione, la dissoluzione dei territori cerebrali, la cui conseguenza non può che essere la totale inconsapevolezza di sé. Il soliloquio viene come detto sottolineato dalla musica di Mahler, dapprima solo qualche accordo, poi accenni sempre più eloquenti, fino ad arrivare alle note esplosioni della Decima, incompiuta, ma in parte ricostruita sulla base degli appunti di Mahler; inoltre, in quanto opera tarda nella vita dell’artista, così come il capolavoro di Frisch, altra fonte di possibili sinergie. Una galassia di forze che si scontrano, questa musica eseguita dalla Luzerner Sinfonieorchester per la direzione musicale di Yoel Gamzou (che, insieme al regista, è ideatore della produzione) e Winston Dan Vogel. Una performance dura ma emozionante, terribile ma avvincente dall’inizio alla fine, non da ultimo perché tratta un tema che riguarda tutti. Molto è dovuto alla prestazione di Adrian Furrer nei panni di Geiser: dapprima determinato e sicuro di sé, poi delirante, ossessivo come il crescendo della musica, che è monito costante di un pericolo imminente da cui non c’è salvezza per nessuno. E sarà proprio questo crescendo terribile come un diluvio universale ad averla vinta, persino oltre il suo spegnersi in un altrettanto terribile silenzio, quando il protagonista, il corpo tenacemente presente, ma lo sguardo ormai perso nel vuoto, non potrà più parlare, né formulare, né scrivere. Mentre la natura, violenta e, soprattutto, ignara, indifferente e insensibile, continuerà anche senza le analisi, le ricerche e le definizioni di Geiser, perché lei, a differenza di lui, per sopravvivere non ha bisogno di nomi né di denominazioni.