Leggi un estratto del libro - Reale Società Ginnastica di Torino

Sommario
13 Presentazione. Impronte nella storia, nello sport
e nella società
17 Le Impronte
19 Il difficile percorso della donna
19
La donna e il suo tradizionale ambito di competenza:
la famiglia
25
Donna e società
27
La donna nella storia: dalle origini al Settecento
33
L’Illuminismo: un nuovo modo di pensare
34
La donna del xix secolo
41
Donna, istruzione e cultura nel xix secolo
46
Donna, sesso e società nel xix secolo
50
Brevi cenni sulle principali tappe del femminismo
56
La donna in Piemonte e in Italia
nel Risorgimento
58
Il Risorgimento invisibile. Le donne del Meridione
59
Il salotto e il ruolo femminile dal Seicento ai primi
anni del Novecento
61
Donne e nazione. Identità femminili nell’Italia del
lungo Ottocento
69
La moda femminile nel xix secolo
79 L’infanzia
79 La storiografia sull’infanzia
88
Il bambino nei secoli
100
Segnali di cambiamento tra Settecento e Ottocento
103
Letteratura e infanzia
107
Il bambino nell’arte figurativa
110 La nascita della ginnastica a Torino e in Italia
110 Rudolf Obermann e la Società Ginnastica di Torino
115
Rudolf Obermann: l’arrivo a Torino, le prime
difficoltà, il metodo, gli scritti
126
Sviluppo e monopolio della Società Ginnastica
di Torino
128
La donna in palestra: la nascita dello sport femminile
in Europa e in Italia
154
Il bambino e l’attività sportiva
161
La ginnastica nelle scuole
165
Ginnastica e salute
171
Significato dell’introduzione della ginnastica
nel settore civile e la sua ricaduta sul costume
175Postfazione
175 Premessa
176 Un quadro di riferimento
180 La ginnastica in Europa e in Italia. La nascita
del movimento sportivo
183 La Società Ginnastica di Torino
185 La ginnastica, la donna e il rinnovamento sociale
187 Su scuola e sport
189 Tra sport e sociologia
200 Note biografiche sui fondatori della Rsgt
203Bibliografia
Presentazione.
Impronte nella storia, nello sport
e nella società
E
ra il 20 luglio 1969, quando Neil Armstrong, comandante dell’Apollo 11, lasciò la propria impronta sul
suolo lunare nel cosiddetto «Mare della Tranquillità».
Fu lui il primo uomo che, superata l’atmosfera terrestre,
si posò, con l’aiuto di formidabili mezzi tecnologici, sul
nostro satellite.
Diventò subito famosa la sua espressione: «Questo è un
piccolo passo per l’uomo, ma un balzo gigante per l’umanità!».
Quante sono state e saranno ancora le occasioni per l’uomo di lasciare la propria impronta! La storia umana è costellata di miliardi di «impronte», alcune favolose, altre,
purtroppo, terribili.
Nel 1844 nasce a Torino la Società Ginnastica (fregiatasi nel 1933 del titolo di Reale) e da allora alla conquista
della luna sono passati centoventicinque anni (oggi, ben
centosessantanove), colmi di soddisfazioni, ma anche di
difficoltà e rinunce.
Nel presentare questa pubblicazione ci preme evidenziare alcune caratteristiche del confronto tra i due eventi,
così da poter comprendere i significati, anche quelli più
reconditi, di quest’avventura che ha interessato non solo
l’ambiente sportivo, attraverso tre secoli (xix, xx e xxi).
La storia è la protagonista nell’uno come nell’altro caso.
Sono state entrambe sfide ardue per gli uomini che le
hanno propugnate, difese e realizzate. In ogni caso hanno
13
dato corso a un cambiamento che, nella letteratura sociologica, è un argomento di particolare rilevanza. Cambiamento che è stato sociale e culturale, ma che ha anche
investito positivamente una molteplicità di rapporti a vari
livelli: politici, economici, istituzionali, tecnici, ecc.
Andare sulla Luna non è stato solo la vittoria, come rilevato allora da diversi cronisti e studiosi, della tecnologia americana su quella sovietica (con gli annessi patrocini politico-economici). Essa ha significato orientare
in modo deciso le azioni della ricerca scientifica e delle
relative risorse pubbliche e private in una nuova direzione. Fu come «strappare un sipario» tra i nostri confini
naturali e quelli dell’infinito cosmico.
Anche il lavoro svolto da Rudolf Obermann, il ginnasta
svizzero cui si deve l’avvio delle attività ginniche e la copaternità della nascita e sviluppo della Società, si può paragonare a uno «svelamento».
Processo questo non facile, come il lettore avrà la possibilità di appurare dalle ricche notazioni e informazioni
contenute nel libro.
Nella Torino sabauda, piccolo ma, nell’immediato futuro, importantissimo regno, si dà corso a un cambiamento che investirà mode, costumi, scienze, politica, salute,
scuola, e altri vari aspetti della comunità locale per proiettarsi, in seguito, fuori da questi confini.
Negli anni a venire anche in Europa erano in atto i prodromi di cambiamenti che avevano strette relazioni con
la pratica motoria, la ginnastica come prima disciplina.
Questi si presentavano, secondo gli stati che li propugnavano o li avversavano, in vario modo. Alcune parti del
libro sono per l’appunto dedicate a queste rilevazioni (o
rivelazioni) che hanno comportato l’acquisizione di modelli «sportivi» che riverberavano, tra l’altro, le prime ansie libertarie del periodo.
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Ma in questo contesto, che abbiamo volutamente delineato soltanto per grandi tratti, si muovevano attori e attrici
di prima grandezza.
In effetti un argomento che il testo giustamente privilegia
riguarda il ruolo della donna. Una donna nobile o di alto
rango, inserita nel processo di cambiamento che trasformerà la società nobiliare nella borghesia; ma anche una
donna madre, insegnante, intellettuale, poeta, scrittrice.
E poco più tardi, nel Risorgimento, donna rivoluzionaria,
popolana, contadina, operaia.
E qui dobbiamo prendere dovutamente atto che la Rsgt
risultò essere una promotrice dell’emancipazione femminile. Altro «sipario strappato», altra orma posata su un
terreno sino ad allora patrimonio esclusivo del genere
maschile.
La struttura del libro si snoda tra richiami di carattere
specialistico e informativo. Esplicita e approfondisce gli
elementi innovativi dello sport, richiamando diversi studi
nazionali e internazionali, accompagnando il lettore nella
decifrazione della nuova «stele di Rosetta»: lo sport come
fenomeno di «civilizzazione».
Al contempo fornisce molteplici spunti di riflessione che
collegano lo sport dell’Ottocento con quello odierno.
Che cosa è cambiato? Non solo regole e comportamenti,
ma anche il legame sociale che esso è in grado di sviluppare tra persone diverse.
Il testo presenta inoltre la storia della Rsgt in un ricco
quanto variegato quadro contestuale. Ora tratta dell’economia piemontese e italiana del periodo, ora della scolarità e dei rapporti con la Chiesa e la nobiltà. Un nome su
tutti: quello di Ferrante Aporti.
Una parte è giustamente dedicata alla conquista dell’Unità nazionale nel cui ambito diversi importanti personaggi
della società si distinsero in varie attività. Non si dimen-
15
tichi, a tal proposito, che le attività fisico-sportive, volute
da re Carlo Alberto e affidate alle cure di Obermann, erano in realtà destinate alla specifica preparazione militare;
solo nel prosieguo del consolidarsi societario si apriranno
nuovi orizzonti, si lasceranno sul terreno della storia e
della società nuove quanto rilevanti «impronte».
Così la stessa realizzazione dello stato unitario rappresenta una tappa storica, politica, economica e sociale, nel cui
ambito la Rsgt può essere annoverata tra le realtà più
importanti.
Rossella Guerci, Nadia Rizzo, Guglielmo Bruna
Gruppo di ricerca della Reale Società Ginnastica di Torino
16
Le Impronte
Rossella Guerci
I
l percorso evolutivo della civiltà nella storia non procede regolarmente: a periodi meno ricchi di inventiva,
più ripetitivi degli schemi precedenti, l’uomo alterna fasi
di spinta al cambiamento, di desiderio di sperimentazione, di fantasia e volontà innovativa. Generalmente ciò si
avverte in tutti i settori della sua azione: politico, scientifico, sociale e di costume.
Ci sembra di poter individuare uno di questi momenti di
risveglio proprio negli anni in cui si costituì l’unità politica italiana, che ne fu appunto un risultato importante,
ma non l’unico.
Accanto alla volontà di indipendenza e di unità, al notevole impulso nella ricerca scientifica, allo sviluppo economico, si palesò una vera e propria volontà di rivedere
i rapporti sociali, la posizione tradizionale della donna e
del suo ruolo, così come cambiò il modo di intendere e
sentire l’infanzia e di rapportarsi a essa.
A questi cambiamenti forieri di una sostanziale rivoluzione del costume contribuirono anche realtà apparentemente circoscritte, ma che per la determinazione e l’impegno costante dei promotori ebbero il merito di imprimere una forte impronta nella storia del costume.
Tale fu il risultato dell’introduzione della ginnastica nelle abitudini del settore civile della società, poiché questo
comportò un cambiamento nel modo di vedere la donna,
l’infanzia, la medicina.
17
In Italia questo merito fu della Reale Società Ginnastica
di Torino.
Nelle pagine che seguono alcune considerazioni storiche
sulla famiglia, sulla donna, sul bambino, potranno aiutare
ad apprezzare i cambiamenti che si verificarono in questi
settori nella seconda metà del xix secolo e il peso che
ebbe l’azione dei fondatori della Reale Società Ginnastica
di Torino in questo processo evolutivo.
18
Il difficile percorso della donna
La donna e il suo tradizionale ambito di competenza:
la famiglia
«Il nostro è un mondo fabbricato dagli uomini per gli uomini, la loro dittatura è così antica che si estende perfino
al linguaggio: si dice uomo per dire uomo o donna, si dice
bambino per dire bambino o bambina, si dice figlio per
dire figlio o figlia...»1.
Trenta anni fa Oriana Fallaci poteva ancora esprimere in
questi termini, ben sintetizzandola, la situazione storica e
di costume nella quale la donna si è trovata imprigionata
dalle origini e che riconosceva come sua unica competenza la famiglia e la cura dei figli.
Perciò, prima di ripercorrere le vicende della condizione
femminile, ci pare opportuna una breve digressione sul
concetto di famiglia. Si tratta di un campo di studi specialistico, che tuttavia tocca ambiti rilevanti di carattere
sociale, storico ed economico.
Marx ed Engels hanno ipotizzato un momento della storia umana in cui uomini e donne avrebbero avuto relazioni libere e comuni, finalizzate alla procreazione, prive di
un contesto o di una struttura; oggi antropologi e sociologi sembrano d’accordo sul fatto che il nucleo familiare sia
sempre esistito, come starebbero a dimostrare miti, leggende, graffiti: il mondo delle divinità nelle religioni più
diverse è strutturato secondo schemi di parentela2 e la vita
dell’oltretomba è rappresentata spesso in ambiti familiari.
Se è vero che la famiglia costituisce il nucleo essenziale di
ogni comunità umana, è anche vero che il suo ruolo e la
sua struttura hanno subìto molti mutamenti nel tempo e
nello spazio.
O. Fallaci, Lettera a un bambino mai nato, Rizzoli, Milano 1975.
É. Durkheim, Le forme elementari della vita religiosa, Edizioni di Comunità, Milano 1971.
1
2
19
Il termine stesso può indicare tre differenti realtà:
– un gruppo di individui che vivono insieme nella stessa
abitazione (struttura familiare);
– i rapporti (affetto, autorità) esistenti in tale gruppo (relazioni familiari);
– i rapporti e i legami esistenti tra diversi gruppi co-residenti (rapporto di parentela)3.
Solo a Novecento avanzato gli storici hanno cominciato
a occuparsi dell’argomento e, nel farlo, hanno focalizzato
la loro attenzione su «rapporti» e «relazioni» all’interno
della famiglia e tra questa e la società. In precedenza, le
teorie al riguardo erano quelle «elaborate dai grandi scienziati sociali nella seconda metà dell’Ottocento»�4. Esse riguardavano piuttosto la «struttura», cioè la composizione
del gruppo domestico co-residente e, secondo una visione
evoluzionistica, ne tracciavano il mutamento da una struttura allargata, comprensiva di molti parenti conviventi e
talvolta di più di un nucleo familiare, a una struttura nucleare, cioè una sola unità coniugale più i figli; mettevano inoltre in stretta relazione questo cambiamento con
il passaggio dall’età pre-industriale a quella industriale,
con una visione ancora in parte diffusa oggi. Il sociologo
francese Émile Durkheim parla per esempio di una «legge della contrazione» che, con il passaggio all’età industriale, avrebbe assottigliato la famiglia, mentre Frédéric
Le Play arrivò a tracciare le tappe di questo cambiamento
strutturale: dalla famiglia patriarcale, tipica delle società di
nomadi e pastori, in cui convivevano il patriarca e tutti i
discendenti in linea maschile con i loro nuclei, alla «famiglia-ceppo», diffusasi nelle società contadine europee, in
3
L. Molinari, Breve storia dell’evoluzione della famiglia, consultabile
all’indirizzo http://cronologia.leonardo.it/mondo47.htm.
4
F. Ramella, La storia della famiglia nella storiografia europea: alcuni
problemi, conferenza tenuta all’Università di Quilmes il 26 settembre
2000, consultabile all’indirizzo http://revista-theomai.unq.edu.ar/numero2/artRamella2.htm.
20
cui il patriarca conviveva solo con la famiglia del primogenito ed erede, sino alla famiglia instabile (destinata a rompersi con il matrimonio dei figli), che lo studioso considera tipica delle città manifatturiere, divenuta sempre più
diffusa con l’industrializzazione. Dunque, per i fondatori
della sociologia «il mutamento della struttura della famiglia andava ricercato all’interno del più generale processo
di mutamento sociale che accompagnava la transizione
dalla società preindustriale [...] alla società industriale»5.
L’industrializzazione avrebbe determinato la scomparsa
della famiglia allargata a favore di quella a nucleo ristretto.
Questa ipotesi venne letteralmente rovesciata intorno
agli anni Sessanta del secolo scorso da Peter Laslett, che
con il suo gruppo di studio di Cambridge notò come la
famiglia a struttura allargata non aveva mai prevalso in
Inghilterra in età preindustriale, quando anzi era più
diffusa quella nucleare. Altri studiosi fuori dalla Gran
Bretagna riscontrarono la medesima situazione nell’area
centro-settentrionale dell’Europa. Questa verifica portò
lo studioso ad affermare che era invece la famiglia a struttura nucleare che, come espressione di un comportamento individualistico e moderno, avrebbe favorito l’avvento
dell’industrializzazione. Sembrava dimostrarlo il fatto
che la famiglia a struttura nucleare era la più diffusa proprio in quelle aree che avevano visto una più precoce e
rapida diffusione dell’industrializzazione, mentre quella
a struttura allargata era tipica dell’area orientale e mediterranea, tra cui ovviamente l’Italia, la cui economia si
basava prevalentemente sull’agricoltura.
In realtà le conclusioni di Laslett partono da postulati
arbitrari, come l’idea che al comportamento individualistico delle persone corrisponda automaticamente una
struttura familiare nucleare; oggi appare debole anche la
5
Ibid.
21
metodologia su cui essa si basa. È chiaro il legame con
Weber, quando lo studioso inglese contrappone la figura
solitaria e individualistica dell’imprenditore protestante a
quella dell’uomo mediterraneo, intrappolato in una rete
di relazioni parentali che lo immobilizzano, negandogli
l’autonomia.
Recentemente Jack Goody, che ha lavorato su società del
Terzo Mondo e sull’Europa, ha pubblicato il libro La famiglia nella storia europea nella collana «Fare l’Europa»
diretta da Jacques Le Goff. In quest’opera offre molte
ragioni per dubitare delle teorie di Laslett: il capitalismo
mercantile della Toscana del Trecento e del Quattrocento, per esempio, è caratterizzato da ampie strutture familiari e di parentela; inoltre le attività proto-industriali
non sono affatto limitate a una sola parte dell’Europa e
in esse le strutture familiari sono di vario tipo; l’ipotesi più realistica è piuttosto quella della compresenza di
forme molto diverse di famiglia all’interno di uno stesso
momento storico e di una eguale struttura economica di
un paese. Inoltre la famiglia non è una realtà immobile,
ma suscettibile di evoluzione, mentre gli studi di Laslett
la rilevano e la fissano in un determinato momento come
dato immutabile.
Un capovolgimento totale negli studi si è avuto negli ultimi anni, quando è stata posta in discussione l’utilità delle
indagini essenzialmente incentrate sulla struttura della
famiglia, cioè sulla sua forma, che tralasciano di indagare
sul mondo relazionale in cui essa è inserita. Il suggerimento proviene da Giovanni Levi che ha proposto perciò
di approfondire l’analisi delle strategie familiari interne
ed esterne alla famiglia stessa; Levi si rifà in particolare a
un testo della fine degli anni Cinquanta di un’antropologa sociale inglese, Elizabeth Bott6.
E. Bott, Family and Social Network, Tavistock Publications Ltd,
Londra 1957.
6
22
L’autrice contrastava l’opinione diffusa secondo la quale
la famiglia occidentale, diventando nucleare, si era isolata dalla parentela, mantenendo con questa solo rapporti
affettivi non rilevanti dal punto di vista sociale ed economico, come sosteneva in quegli anni il sociologo americano Talcott Parsons; al contrario, Bott dimostrò che
i rapporti continuavano a esistere e andavano ben oltre
l’affettività; Levi ha sottolineato come queste relazioni
siano fondamentali per la definizione dei ruoli e delle
norme comportamentali all’interno della stessa famiglia,
contribuendo a caratterizzarla rispetto alle altre, al di là
della struttura, identica in tutte.
Tralasciando ulteriori approfondimenti sul concetto
di «famiglia», ci sembra comunque di poter affermare
che oggi la sua struttura è ormai nucleare, senza che si
debba necessariamente mettere in relazione questo fatto con il processo di industrializzazione in un rapporto
causa-effetto; al declino della famiglia estesa hanno certo
contribuito altri fattori, quali i forti flussi migratori e l’urbanizzazione, senza dimenticare il progressivo affermarsi
ed estendersi dei sistemi di previdenza sociale, che oggi
assolvono alle necessità prima garantite dalla parentela.
Inoltre, l’origine di detto mutamento può essere rintracciata nel diffondersi della Riforma protestante. Se, infatti, la tradizionale famiglia allargata occidentale deriva
dall’antica famiglia patriarcale ebraica, legata da severi
precetti religiosi, con la Riforma questa concezione è sostituita da una visione più laica, tipica delle società contemporanee che definiscono le relazioni familiari sul piano civile e non su quello religioso; d’altronde l’Italia, che
non fu toccata da rivoluzioni religiose, cominciò a vedere
una forte differenziazione della struttura familiare tra città e campagna nelle regioni centro-settentrionali sin dal
xiv secolo, quando nelle zone urbane prese a prevalere il
modello nucleare, almeno nei ceti medi degli artigiani e
23
commercianti, mentre in quelle rurali sussisteva il modello di famiglia estesa per la necessità del lavoro agricolo.
Si può ipotizzare insomma che la fine delle servitù medievali e del sistema corporativo, con la conseguente parzializzazione dei capitali, abbia dato inizio nel Rinascimento
a una economia più individualista, che contribuì nelle
città a creare anche singoli nuclei familiari. Nello stesso
periodo i sovrani avocarono a sé l’esercizio della giustizia
civile e penale, spezzando ulteriormente la tradizione medievale che ne prevedeva lo svolgimento in seno alla famiglia stessa. Con questi pochi esempi si vuole indicare che
i suddetti fattori, flussi migratori, urbanizzazione, mutamenti socio-economici, hanno contribuito ai cambiamenti della struttura familiare in qualunque periodo storico si
siano manifestati e che quindi la sua «nuclearizzazione»
nella seconda metà del xix secolo non deve essere messa
in relazione solo con il processo di industrializzazione.
Certo è, come nota Marzio Barbagli, che «[...] le regole
di formazione della famiglia e la sua composizione hanno influito in vario modo sulla configurazione dei ruoli
al suo interno»7. Da questo dipendeva per esempio se i
bambini trascorrevano la loro infanzia solo con i genitori
o con nonni, zii e cugini; se gli anziani vivevano soli o
sostenuti dalla struttura familiare; da questo dipendeva
anche il momento in cui i maschi acquisivano l’autonomia dal padre e contraevano matrimonio, in un’età più
avanzata nella realtà urbana della famiglia nucleare, per
evidenti motivi di indipendenza lavorativa ed economica,
rispetto a quanto succedeva nella famiglia allargata rurale, dove la sussistenza di tutti era assicurata dal lavoro
sulla stessa terra. I primi diventavano capofamiglia con il
matrimonio, mentre i secondi sovente dovevano aspettare la morte del padre per acquisire detta posizione.
Barbagli M., Sotto li stesso tetto. Mutamenti della famiglia in Italia
dal xv al xx secolo, il Mulino, Bologna 2000.
7
24
Ciò che si conservò immutato sino al xviii-xix secolo furono l’indiscussa autorità dell’uomo e la deferenza di moglie e figli nei suoi confronti; solo nel secolo xix i maschi,
pur mantenendo potere assoluto, cominciarono a ridurre la distanza con la moglie e i figli, avviandosi verso il
modello relazionale detto «coniugale intimo», frutto dei
grandi cambiamenti politici, sociali, economici e giuridici
verificatisi con la crisi dell’Ancien Régime.
Un altro mutamento, che ha certamente influito sul cambiamento sia della struttura familiare sia delle relazioni
al suo interno, è legato alla ridefinizione dei ruoli sociali
delle donne al momento del loro ingresso nel mondo del
lavoro. È vero che ciò avvenne inizialmente con la rivoluzione industriale, ma il fenomeno, come quello dell’emigrazione, si incrementò e si diffuse soprattutto dopo la
prima guerra mondiale.
Donna e società
Ogni mutamento nella famiglia implica un pari mutamento nella società e, se cambia il ruolo della donna all’interno dell’una o dell’altra, ciò comporta forti cambiamenti
di mentalità e di costume: per questo uno studio sul suo
ruolo è in grado di fornire un’immagine più strutturata
di un certo ambito socio-culturale in un determinato periodo.
Recentemente si è tentata un’analisi sulla condizione sociale della donna a partire dalle origini: per alcuni, nelle
società primitive essa sarebbe stata schiava dell’uomo e
il suo processo di emancipazione correrebbe parallelo a
quello di civilizzazione. Per altri, al contrario, gli albori
della vita sociale sarebbero stati caratterizzati dal primato
femminile, al punto che Wilhelm Reich parla di società
matristiche, regno di amore, concordia, felicità, seguite
da società patristiche, dalle quali si sarebbero originate
guerre, infelicità e odio.
25
Forse la posizione più equilibrata è quella che considera
la condizione femminile correlata all’apporto che la donna può dare alla ricerca dei mezzi di sussistenza.
Il primo stadio dell’umanità, il più lungo vissuto fino a
ora, è quello dei «cacciatori/raccoglitori». Presso i gruppi di raccoglitori la donna può contribuire attivamente
alla ricerca del cibo e la sua posizione è relativamente simile a quella degli uomini: ne sono un esempio ancora
oggi i Boscimani; dove, invece, la fonte di sussistenza è la
caccia, attività prettamente maschile, la donna tende a essere totalmente sottomessa all’uomo, come accade presso
gli esquimesi.
In una seconda fase, quella dell’agricoltura, gli esseri
umani diventano forzatamente sedentari. In ampie comunità, infatti, diventa indispensabile un’organizzazione
sociale con l’attribuzione dei ruoli: contadini, artigiani,
guerrieri, ecc. In questo quadro la specializzazione della donna diventa quella immediatamente derivante dalla
sua fisiologia, dalla sua capacità di procreare.
Tenendo poi conto dell’alta percentuale della mortalità infantile e dell’importanza di riuscire a portare i figli
sino all’età adulta in cui diventeranno una forza lavoro,
si comprende il motivo per cui il ruolo femminile comincia a connotarsi come quello di madre, sempre assorbita
da questa funzione tanto più impegnativa quanto più si
procede a ritroso nel tempo, per la mancanza degli aiuti
offerti oggi dalla medicina e dalla tecnologia. L’assenza da
altri ruoli sociali, come la sua dipendenza dall’uomo per la
propria sussistenza e quella dei figli, finisce per estraniarla
da ogni possibilità decisionale o posizione di potere.
Solo lo sviluppo della civiltà industriale, mutando le condizioni materiali e sociali che avevano relegato la donna
per millenni in quel ruolo, le consentirà un cambiamento. Progressivamente il crollo della mortalità infantile,
l’innalzarsi dell’età media delle persone, la scomparsa
26
di epidemie e carestie, grazie al progresso in campo medico, così come le scoperte in quello tecnologico, che
comportarono la comparsa di invenzioni tali da facilitare
il lavoro domestico, lasciarono alle madri del tempo da
poter dedicare a un lavoro, cosa che oggi, oltre a ridar
loro una funzione esterna alla famiglia, è ormai diventata
indispensabile contributo economico8.
Malauguratamente esiste tuttora l’enorme difficoltà di
superare una mentalità consolidata per millenni, che
considera la donna meno adatta a ruoli decisionali e di
comando; a ciò si aggiunga che, anche laddove l’uomo
partecipa ai compiti relativi alla gestione della casa e dei
figli, la donna è comunque ancora considerata il referente
principale per questa sfera di impegno ed è più coinvolta;
di fatto, dunque, si trova ad assolvere giornalmente a un
doppio impegno: siamo ancora lontani dalla parità effettiva, ma oggi ci sono le condizioni perché questo processo si consolidi nel tempo.
La donna nella storia: dalle origini al Settecento
Tornando al percorso storico della donna, si può certo
affermare che la sua condizione è sempre stata di inferiorità rispetto all’uomo, sul piano sia sociale sia giuridico e
politico.
Come si può dedurre dai poemi omerici, nel mondo miceneo, e in molte altre civiltà orientali del Mediterraneo,
la donna svolgeva, almeno in alcuni casi privilegiati, un
ruolo sociale. Alcune figure letterarie lo testimoniano:
nell’Iliade Andromaca, Ecuba, Cassandra, nell’Odissea
Penelope, immagine femminile che campeggia come una
vera protagonista.
Omero accanto ai guaritori pone anche figure femminili;
certo, pur godendo di una relativa libertà, la donna era
G. De Sio Cesari, Il ruolo della donna nella storia delle società, consultabile all’indirizzo http://www.giovannidesio.it/donne08.asp.
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27
comunque sottoposta all’autorità del marito; suo destino
naturale erano il matrimonio e la procreazione.
Nell’età greca classica essa viveva, in pratica, reclusa,
usciva solo per le cerimonie religiose; se in casa entrava
un uomo estraneo alla famiglia, doveva ritirarsi nel gineceo; la sua capacità giuridica era nulla, passava direttamente dalla giurisdizione del padre a quella del marito,
non poteva fare testamento, né essere testimone in un
processo. In alternativa al destino matrimoniale poteva
diventare sacerdotessa. È vero che vi furono nella società
greca, in particolare ateniese, alcune donne colte e raffinate la cui vita era ricca di relazioni, come Aspasia, compagna di Pericle, ma si trattava di etère, cortigiane, donne
che erano collocate ai margini della società, isolate, e che
non costituivano la regola del mondo femminile, bensì
l’eccezione.
La donna romana godeva certamente di maggiore libertà
rispetto a quella greca: aveva un ruolo centrale nella famiglia, era sovente confidente e consigliera ascoltata del
marito, le era concesso ricevere una istruzione regolare,
ma era pur sempre sottoposta all’autorità del coniuge,
che si estendeva come un potere assoluto a tutta la famiglia, patria potestas, comprendente schiavi e liberti. A
Roma, tuttavia, si manifestarono presto spunti di ribellione, come nel 195 a.C., anno in cui le donne scesero
in piazza per chiedere l’abrogazione della lex Oppia contro il lusso femminile. Leggi e testi scritti testimoniano
queste prese di posizione femminile; Giovenale, intorno
al i secolo d.C., lamentava lo sconfinamento delle donne
in terreni prettamente maschili, quali la letteratura e gli
sport, compreso il combattimento; la sesta del secondo
libro di Satire è tutta sui difetti e le colpe del sesso femminile che viene dipinto come ricettacolo di ogni disonestà,
lussuria e colpa:
28
Che pudore può mostrare una donna
con l’elmo in testa, che abdica al suo sesso?
L’attira la forza, eppure diventar uomo
non vorrebbe...
Bell’onore se mettessero all’asta
gli arnesi di tua moglie:
cinturone, bracciali, elmo
e mezzo cosciale della gamba sinistra!
Da questa lettura e da altre si deduce che, almeno sul piano pratico e quotidiano, di fatto le donne erano piuttosto
libere e gestivano la loro vita autonomamente; tuttavia
non godevano della parità di diritti con gli uomini. Possiamo piuttosto dire che erano diventate abili nell’agire
«nonostante» gli uomini.
Inoltre, sia nella società greca sia in quella romana, la donna, oltre a non godere di nessun diritto politico o civile,
era ritenuta incapace di lavoro intellettuale; la produzione
culturale classica femminile fu apprezzata più dai posteri
che dai contemporanei e il caso di Saffo resta una rarità,
come quello di una donna chiamata Teano, ammessa nella
scuola di Pitagora a Crotone, o di Ipazia di Alessandria,
famosa matematica, filosofa e astronoma. L’educazione
dei giovani maschi di famiglia aristocratica veniva affidata
a schiavi colti, provenienti sovente dall’oriente, piuttosto
che a una donna. Non mancavano le educatrici, Saffo
stessa lo era, ma esse si occupavano esclusivamente delle
fanciulle e l’oggetto dell’insegnamento, dettato dall’élite
maschile dominante, era finalizzato alla formazione della
«buona moglie», colta, raffinata, ma sottomessa.
L’avvento del cristianesimo non solo non modificò la condizione giuridica femminile, ma, soprattutto nei primi
secoli, assimilò l’immagine della donna a quella di Eva,
per l’uomo fonte del peccato e di ogni tentazione: illustri
scrittori «[...] all’interno della tradizione classica e patristica avevano descritto i diabolici allettamenti dell’essere
29
femminile e ne avevano stigmatizzato l’insanabile propensione per il peccato e la promiscuità»9. Goffredo di
Vendôme la considerava responsabile di tutti i malanni
della storia sino alla morte del Cristo, che dovette sacrificarsi per lavare i peccati del mondo, dei quali Eva era
stata la prima responsabile. Il santissimo abate Oddone
di Cluny la paragonava a un sacco di escrementi e si stupiva che si potesse provare il desiderio di abbracciarla.
È curioso osservare come nel corso di tutti questi secoli la differenza tra i due sessi sia stata mantenuta anche
quando la donna manifestò una natura criminale e risultò colpevole in qualche modo: per l’uomo era previsto il
carcere, per la donna il convento.
Per altre categorie, come le malate mentali, ma anche per
chiunque deviasse semplicemente dal comportamento
ritenuto «normale», si creò addirittura una categoria ad
hoc, riservata solo alle donne: quella delle streghe. La caccia alle streghe proseguì sino al xviii secolo.
Ma dall’xi secolo si impose in campo religioso il modello
della Vergine e la devozione mariana si fece sempre più
sentita e presente nelle preghiere e negli scritti religiosi,
sino alle lodi a Maria intessute da san Bernardo: Maria
è madre, ma soprattutto è vergine, non ha conosciuto la
volgarità del concepimento umano, è totalmente staccata
dalla materia; questo è il modello che la Chiesa proponeva alle donne in contrapposizione a Eva. La condizione
ottimale per una donna non è dunque quella matrimoniale, ma quella dell’abbandono della vita secolare a favore
della vita monacale.
Nel xiv secolo cominciarono a diffondersi i primi movimenti spirituali femminili, che incarnarono e diffusero
questa nuova immagine della donna vergine, portando
alla nascita di moltissime istituzioni monastiche.
E. Bellomo, Dal medioevo con dolore, consultabile all’indirizzo
http://cronologia.leonardo.it/storia/a1972m.htm.
9
30
Progressivamente mutò anche l’opinione sulla donna
non consacrata alla vita religiosa, cui si cominciarono ad
attribuire doti di bontà e dolcezza, soprattutto nel ruolo
materno, con un’evidente assimilazione all’immagine di
Maria, madre di Gesù, senza tuttavia che cambiasse il suo
rapporto di sottomissione rispetto all’uomo o il giudizio
generalmente diffuso della sua inferiorità fisica, spirituale
e intellettuale.
Ancora oggi le limitazioni per le donne all’interno della
Chiesa cattolica sono evidenti, a cominciare dal fatto che
esse non possono ambire al sacerdozio; in questo le grandi religioni monoteistiche ebbero sempre una posizione
analoga. I testi sacri spesso riflettono la società del tempo
in cui furono scritti e, per il fatto di essere considerati
parola di Dio, hanno condizionato e ancora condizionano i comportamenti sociali, politici e giuridici, sancendo,
anche a livello religioso, la superiorità del maschio sulla
femmina:
«[...] la donna impari in silenzio, con tutta sottomissione.
Non concedo a nessuna donna di insegnare, né di dettare legge all’uomo; piuttosto se ne stia in atteggiamento
tranquillo»10.
«[...] Gli uomini hanno sulle donne autorità per la preferenza che il Dio ha concesso al maschio sulla femmina
[...]»11.
Nell’età cavalleresca, la posizione centrale della donna nell’idealità cortese non deve trarre in inganno: essa
non era altro che un mezzo per il progresso spirituale e
morale dell’uomo. Infatti, il suo peso giuridico non subì
sostanziali modificazioni e gli statuti comunali ne limitavano persino i diritti patrimoniali. Solo la tarda età comunale vedrà una sua evoluzione intellettuale e sociale;
in questo periodo si ebbero grandi figure femminili: san La Bibbia di Gerusalemme, Edb, Bologna 2003.
Il Corano, Mondadori, Milano 1979.
10
11
31
ta Chiara di Assisi, Caterina da Siena, Vittoria Colonna,
Giulia Gonzaga. Lo studio della mistica permise a molte
religiose di penetrare nel mondo della filosofia, un settore
sino ad allora riservato rigorosamente agli uomini. Tuttavia la condizione giuridica femminile rimase invariata.
Umanesimo e Rinascimento non operarono cambiamenti; educatori delle donne come Juan Luis Vives nell’opera
De Istitutiones foeminae christianae, 1523, indica, quale
finalità precipua, preparare le donne alla gestione domestica e abituarle alla castità, al silenzio e all’obbedienza.
In sostanza non occorre che apprendano niente più del
necessario. Esistono però eccezioni: già nel 1304 a Firenze esisteva una maestra di scuola che insegnava il latino.
Tra il xiv e il xvii secolo, nelle città italiane, il dieci per
cento degli insegnanti erano donne. All’estero il fenomeno era più diffuso.
Non dimentichiamo che comunque le «femmine» continuavano a essere considerate frutto di concepimenti «inferiori». Inoltre rappresentavano un costo, poiché all’atto
del matrimonio la famiglia della sposa doveva versare a
quella dello sposo una dote il cui ammontare crebbe nel
corso del Rinascimento; senza una dote nessuna ragazza
poteva sposarsi. L’unico vantaggio per il padre di una figlia femmina era la possibilità di alleanze vantaggiose attraverso il matrimonio: infatti, la volontà degli sposi non
contava. Essi dovevano sposarsi secondo gli accordi delle
famiglie. Non solo, ma il matrimonio stesso nel Rinascimento, prima della Riforma e della Controriforma, era
costituito esclusivamente da un contratto, seguito, dopo
un periodo più o meno lungo, dalla consumazione sessuale. Solo più tardi si aggiunse il matrimonio in chiesa.
Il passaggio alla condizione di sposata non migliorava la
situazione delle donne; cambiava solo il soggetto dal quale dipendevano: dal padre al marito, al quale era dovuta
la stessa obbedienza e sottomissione. Anche dal punto di
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vista patrimoniale, le donne non avevano libertà di gestione né della dote che portavano con sé, né di eventuali
altre proprietà. Alto era il numero delle donne abbandonate.
Maggiore libertà, almeno nel Nord Europa, nei primi
decenni del Rinascimento, avevano le vedove che, se appartenenti alla classe artigianale o mercantile, potevano
continuare l’attività del marito, mantenendo perciò la
propria indipendenza economica; tuttavia tale diritto si
andò riducendo con il passare del tempo. La vedova, se
aveva figli minorenni, era invitata a restare dalla famiglia
del defunto, ma se si risposava, perdeva anche la prole
che veniva considerata proprietà del primo marito. La
condizione della donna andò ulteriormente peggiorando
a mano a mano che ci si inoltrava nell’età controriformistica, che la relegò rigorosamente nell’ambito domestico.
L’Illuminismo: un nuovo modo di pensare
Bisognerà attendere il xviii secolo perché si affaccino
idee, almeno in teoria, favorevoli alla donna: l’Europa
settecentesca, con la filosofia illuminista, fiduciosa nei
concetti di «ragione e progresso», di diritto naturale, cominciò a dibattere intorno alla condizione della donna
anche se fu più interessata allo studio sulla sua natura che
alla definizione dei suoi diritti.
L’Illuminismo, parlando di libertà e uguaglianza, aveva
fornito le basi ideologiche per la rivoluzione francese e
quella americana. Proprio il principio dell’uguaglianza
universale avrebbe dovuto garantire alle donne un riscatto dalle condizioni di subordine patite per secoli. Effettivamente la «Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del
cittadino» (1789) si baserà su questo concetto, che però
a proposito delle donne non verrà del tutto applicato, riconoscendo loro i diritti civili, ma non quelli politici: perfino Robespierre le escluse da qualsiasi attività politica.
33
Agli inizi del xix secolo un rivoluzionario francese, Sylvain Maréchal, pubblicò un fittizio progetto di legge «per
proibire alle donne di imparare a leggere»12.
La reazione del mondo femminile a questo stato di cose
costituirà quello che fu chiamato il «primo femminismo»,
culminante nella «Dichiarazione dei diritti della donna e
della cittadina» (1791) della francese Olympe de Gouges.
La Dichiarazione portò al riconoscimento dei diritti civili
femminili, ma non ancora di quelli politici.
Poco dopo il codice napoleonico confermò da un lato la
parità giuridica della donna nubile, ma ripristinò la piena
sottomissione al marito della donna sposata, alimentando
l’idea che essa fosse proprietà del marito. Uno dei compilatori del codice faceva ancora riferimento alla vecchia
idea che la natura stessa abbia relegato la donna in una
condizione di inferiorità e dichiarava: «Non è quindi in
una nostra ingiustizia, ma nella loro naturale vocazione,
che le donne devono cercare il principio dei più austeri doveri che sono imposti a loro maggiore beneficio e a
profitto della società».
La donna del xix secolo
Anche se nel secolo xix i maschi cominciarono a ridurre
la distanza con la moglie e con i figli, avviandosi verso
il modello relazionale cosiddetto «coniugale intimo», il
loro potere in famiglia rimaneva assoluto.
Ciò relegava la moglie in un ruolo ben preciso e limitato: la teoria dei ruoli di competenza e della divisione
sessuale delle sfere d’azione nell’Ottocento condizionava
ancora fortemente la mentalità corrente e non solo. Filosofi, politici e giuristi francesi e italiani, tutti concordavano nell’assegnare agli uomini la sfera pubblica e in
particolare quella politica in evoluzione in tutti i paesi
12
S. Maréchal, Project d’une loi portant défense d’apprendre à lire aux
femmes, Massé Editeur, Parigi 1801, TdA.
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europei, che all’epoca sviluppavano regimi costituzionali e democratici, mentre alle donne «tocca il privato e il
focolare [...] di cui esse detengono l’amministrazione, ma
sotto il controllo maschile, perché il padre o il marito [...]
mantengono il dominio sulla famiglia, cellula base della
società»13. Questa visione della natura femminile si accompagnava a un continuo elogio dell’utilità sociale delle
donne proprio per i compiti cui erano relegate: procreare
e crescere i figli; questo riconoscimento di merito, oltre
ad assegnare loro una posizione ben precisa e limitata
all’interno della famiglia e della società, attraverso l’adulazione finiva per far loro accettare questo unico ruolo.
Le doti richieste alla moglie/madre sono sempre le stesse: obbedienza, sottomissione, docilità e purezza. Il
condizionamento cominciava da bambina, il primo insegnamento riguardava il pudore: bisognerà «educarlo,
affinarlo, sicché sia un sentimento tutto sincerità e delicatezza, e non un’ipocrisia di convenzioni»14. La bimba
dovrà diventare, in età adulta, la «vestale del pudore» e
sacrificherà la verginità al proprio marito, soddisfacendo
così la sua sana «idolatria morale per il suo uomo(!)». Da
qui derivavano tutti gli altri doveri: la fedeltà, l’onestà,
l’attenzione per le apparenze: «[...] anche il più banale
aspetto della vita della donna, il più insignificante elemento fisico, o oggetto femminile indossato è sottoposto
a una simbolizzazione moralistica»15.
D’altronde la filosofia idealista del periodo romantico,
con sfumature diverse da autore ad autore, mantenne
posizioni tradizionali al riguardo: se Kant (1724-1804)
aveva attribuito al matrimonio una valenza essenzialmen13
P. Mantegazza, Fisiologia dell’amore, Pensa Multimedia, Lecce
2003, p. 56 e sgg.
14
Ibid.
15
G. Bonetta, Corpo e nazione. L’educazione ginnastica, igienica e sessuale nell’Italia liberale, Franco Angeli, Milano 1991, p. 355.
35
te giuridica concependolo come un contratto, all’interno
del quale l’uomo comanda e la donna obbedisce, Fichte
(1762-1814) vide modernamente nel matrimonio un legame d’amore, il punto di unione tra natura e ragione di
due persone, ma poi parlava di sottomissione della donna
all’uomo, che avverrebbe per un atto di libertà. Per Hegel
(1770-1831) il matrimonio è un fatto morale, un vincolo
che partendo da due consensi forma «una persona», ma il
capo della famiglia, la persona giuridica è sempre l’uomo.
Solo più tardi Marx (1818-1883) riconoscerà che nella società capitalistica del tempo la donna è ridotta a merce e
che, invece, proprio perché il capitalismo la immette nel
mercato del lavoro come «produttrice», sottraendola alla
funzione di «riproduttrice» della vita familiare, essa diventa un essere autonomo nella vita privata. La posizione
di Marx ebbe un peso notevole, anche perché collegava
l’autonomia della donna ai mutamenti economici e sociali, quali l’industrializzazione, l’urbanizzazione, il lavoro
femminile nelle fabbriche, che costituivano un’innegabile
realtà. Perciò da quel momento i movimenti femministi
furono sovente legati alla posizione politica socialista ed
effettivamente esiste una relazione molto stretta tra democrazia e considerazione paritaria tra uomo e donna, nel
senso che non si può affermare che vi sia democrazia dove
alla donna non si riconosca parità sociale, giuridica, lavorativa ed economica equivalente a quella degli uomini.
Prima di allora restavano isolate voci come quella di
Stuart Mill (1806-1873), che aveva messo in relazione il
concetto di eguaglianza tra i due sessi con quello di libertà, notando che, se questa esiste, non può essere riservata
solo a una parte della popolazione.
Darwin (1809-1882), invece, pur non interessato in particolare al problema dei due sessi, indirettamente nell’opera La discendenza dell’uomo, sostenne che la selezione
naturale, accompagnata dalla selezione sessuale, ha pri37
vilegiato l’uomo divenuto superiore alla donna. Tale affermazione ebbe un peso negativo notevole nell’opposizione che la donna trovò da quel momento in poi; infatti,
tra le motivazioni più frequenti che venivano addotte per
precluderle certi settori di attività vi erano spiegazioni
naturalistiche (in tutte le aggregazioni animali la femmina
avrebbe un ruolo subalterno), fisiche (la donna sarebbe
costituzionalmente più fragile dell’uomo), psicologiche
(la donna svilupperebbe maggiormente la sfera emotiva
rispetto a quella razionale).
Le teorie di Darwin sembravano avvalorare queste posizioni. Neppure il progredire della scienza determinò
in realtà un vero cambiamento nella valutazione sulle
possibilità femminili; la donna è sempre ritratta come un
«essere fragile, emotivo, instabile, capriccioso, incapace
di assumersi responsabilità importanti»16. E l’atteggiamento di fondo nei suoi confronti era identico, sia che
essa appartenesse a una classe benestante sia a una contadina. Certo però l’appartenenza a una classe povera ne
estremizzava le conseguenze: nelle famiglie contadine del
xix secolo, ci si preoccupava più della mucca che della
moglie; il marito preferiva spendere per il veterinario che
non per il medico e la morte della moglie risultava meno
grave di quella della mucca, poiché questa avrebbe dovuto essere ricomprata, mentre una seconda moglie non
solo non sarebbe costata nulla, ma anzi avrebbe portato
in casa una nuova dote.
L’aspetto femminile minuto e apparentemente fragile
sembrava confermare le limitazioni attribuite alle donne
e la scienza medica, che pure nel xix secolo fece grandi
progressi, in molti casi confermò questa idea e si arenò su
molti preconcetti: l’isteria trovava la sua causa nell’utero;
la bassa statura, le anche strette erano indice di sterilità,
Ivi, p. 320 e sgg.
16
38
di cui le donne erano ritenute le uniche responsabili, anche dopo la scoperta dell’ovulazione a metà Ottocento.
Cesare Lombroso (1835-1909) non potendosi spiegare
la presenza di crudeltà e violenza nelle donne criminali,
tanto queste caratteristiche erano estranee alla comune
immagine femminile, le interpretava come caratteristiche
maschili che la delinquenza farebbe acquisire a queste
donne.
A ciò si aggiunsero, a fine secolo, le teorie psicoanalitiche
di Sigmund Freud (1856-1939) e in particolare quella relativa al «complesso di castrazione», che legava la bambina al senso di menomazione per la mancanza del fallo;
la femminilità una volta di più fu descritta non per le caratteristiche possedute, ma in negativo per una mancanza rispetto al maschio; la donna non è considerata come
individuo a sé stante, ma sempre in rapporto al maschio
o come parte di un tutto, la famiglia, che fissa e limita
tutti i suoi compiti alla riproduzione. Il dottor Adolphe
Pinard, celebre ostetrico ottocentesco si esprimeva così:
«Una donna non dovrebbe avere mai mestruazioni. Dovrebbe sempre essere incinta, o stare allattando»17. Émile
Zola (1840-1902) esprimeva le stesse opinioni in Fecondità (1899).
In Inghilterra la donna occupò una posizione centrale
nella riforma religiosa e morale proposta dal metodismo evangelico di William Wilberforce (1759-1833) e di
Hannah More (1745-1833); quest’ultima, contraria all’eguaglianza tra i sessi, celebrava la padrona di casa attiva e
generosa. William Colbett18 (1763-1835), scrittore e giornalista, ebbe molta influenza sul ceto operaio, al quale
17
M. Perrot, L’emancipazione delle donne in Europa (secoli xix-xx),
in P. Bairoch ed E. J. Hobsbawm (a cura di), Storia d’Europa. V. L’età
contemporanea. Secoli 19-20, Einaudi, Torino 1996, p. 756.
18
W. Colbett si fece campione della tradizione rurale inglese contro i
cambiamenti della rivoluzione industriale.
40
trasmise questa visione della donna e dei suoi compiti. La
sua funzione materna è poi estesa a tutta la società attraverso la filantropia, che in tal modo conferisce alla donna
un ruolo pubblico corrispondente a quello maschile nella
politica.
Come già detto, la posizione della Chiesa in materia era
assolutamente rigida sulla funzione procreatrice della
donna, sulla sua subordinazione al marito; questa linea
di pensiero limitava la condizione della donna in tutta
Italia e in Piemonte in particolare vista la religiosità severa, quasi bigotta, della Real Casa di Savoia. Naturalmente
ciò è tanto più vero per la prima metà del secolo: la rivoluzione industriale provocherà nell’Ottocento inoltrato
una serie di conseguenze che coinvolgerà anche la donna,
mutandone progressivamente la condizione.
Donna, istruzione e cultura nel xix secolo
Tuttavia il fatto che le grandi rivoluzioni, quella francese
e americana, abbiano visto almeno il nascere di proposte e analisi concentrate sulle rivendicazioni femminili è
cosa del tutto nuova e importante, poiché l’avvento della
donna come soggetto e oggetto della storia è già segno
dell’inizio di un processo di emancipazione.
Altrettanto indicativo è il mutamento, se pur parziale,
del rapporto coniugale che diventa progressivamente più
personale e concede alla donna una posizione di maggior
influenza sul coniuge. Con il passare dei decenni, poi,
le mutate condizioni sociali e lavorative diedero vita ai
primi movimenti di emancipazione politica e culturale
femminile.
Questa pur parziale apertura consentì alla donna dell’inizio del xix secolo più ampi spazi di azione: le permise di
curare di più la propria cultura, di intervenire nel campo sociale prediletto, quello dell’educazione. Non solo
in Francia e in Inghilterra, ma anche in Italia si ebbero
41
allora grandi figure che si dedicarono a questo settore,
come Matilde Calindri, Amelia Calani e Anna Ricasoli.
L’aumento dell’alfabetizzazione femminile, soprattutto
nelle classi medio-alte, ma anche nella fascia piccolo-borghese, l’allontanamento dalle campagne, il tramonto di
un’economia familiare di sussistenza, fondata sul lavoro
delle donne (filare, tessere, fare il pane, la birra, il sapone, le candele, ecc.), consentì loro di sottrarre ai compiti
quotidiani del tempo per la lettura e lo studio; ciò non
toglie che nel 1870 Aristide Gabelli19 poteva ancora affermare che una donna con un libro in mano non è più una
donna, o almeno è una donna e che fa lo stesso effetto di
un uomo che dipani una matassa20.
Per questo le statistiche ci dicono che nel 1861 il tasso di
analfabetismo femminile arrivava all’81 per cento: inoltre
«[...] l’istruzione femminile ha percorsi assai rigidi e limitati», è praticamente inesistente tra le classi più disagiate,
più diffusa nelle classi abbienti, ma sempre rigidamente controllata e limitata sin dall’infanzia. La scelta delle
letture permesse viene fatta dagli adulti: genitori, suore,
insegnanti. La giovane non può mai sceglierle di propria
iniziativa.
Di Fazio compie un’interessante analisi di alcune opere dell’Ottocento, dalla quale emerge perfettamente il
pensiero corrente sulla donna lettrice, così come viene
rappresentata in letteratura; la Teresa delle Ultime lettere
di Jacopo Ortis di Ugo Foscolo, per esempio, è descritta
A. Gabelli (1830-1891) positivista e pedagogista.
M. Di Fazio, La donna lettrice. Modelli educativi e pratiche di lettura
nel romanzo italiano dell’Ottocento, in «La critica sociologica», n. 116,
1996, p. 21 e sgg.: «Leggere e scrivere restavano comunque due attività
assai poco diffuse nella popolazione femminile, tra le due cose veniva
preferita la lettura, che permetteva di accostarsi ai libri di preghiere,
mentre la scrittura era a volte considerata pericolosa, in quanto poteva servire a scrivere lettere d’amore. La Chiesa vietava comunque alle
fanciulle la lettura dei romanzi».
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