Le origini culturali e politiche del nazismo: un bilancio storiografico 0001000110 Nell'arco di otto anni, dal 1961 al 1969, in un'epoca di grande fervore per la concettualizzazione, la ricerca e la creatività storiche, tre storici ebrei che lavoravano negli Stati Uniti e in Inghilterra, e due politologi della Repubblica Federale di Germania orientati verso l'approccio storico, pubblicarono degli studi che stabilirono i temi fondamentali e gli orientamenti futuri necessari alla comprensione delle origini ideologiche del nazismo. Fritz Stern, Kurt Sontheimer, Peter Pulzer, George Mosse, Norman Cohn, Karl Bracher ed Eberhard Jäckel, elencati seguendo l'ordine cronologico di pubblicazione delle loro opere più note, posero le basi per un'analisi sia delle origini dell'ideologia del Partito nazista sia della concezione del mondo di Hitler e, ad esclusione di Sontheimer, del ruolo che l'antisemitismo ha avuto all'interno di quella visione. Con la stessa attenzione e profondità, la loro disamina si rivolse alle posizioni assunte dai politici e dagli intellettuali conservatori tedeschi prima e dopo la Grande guerra, quando questi ultimi attaccarono le istituzioni democratiche della Repubblica di Weimar, garantendo rispettabilità, legittimità e infine sostegno politico al Partito nazista nel 19331. Considerate globalmente, queste opere enunciavano il nucleo di quella che in seguito sarebbe stata chiamata l'interpretazione “intenzionalista” del nazionalsocialismo. Ma tale definizione, con la sua connotazione di semplice causalità del ruolo delle idee nella storia e degli eventi che seguono un corso teleologico, finisce per occultare la complessità e le sfumature del progetto intrapreso da questi storici. Questo saggio si propone di ripercorrere le loro tesi, osservarne gli sviluppi e le critiche, analizzare il loro contributo alla comprensione dei diversi aspetti del regime nazista, compreso l'Olocausto, e valutare l'approccio delle ricerche successive sul problema delle origini dell'ideologia nazista. Concepite nel decennio 1950-1960 e pubblicate negli anni Sessanta, queste opere erano il prodotto del liberalismo storiografico e anche politico che si opponeva al marxismo degli anni Sessanta e Settanta o, più tardi, alla reazione neoconservatrice degli anni Ottanta. Anche se tutti i saggi citati hanno delineato le origini dell'ideologia nazionalsocialista, il loro impatto non è stato pienamente riconosciuto. Nei primi anni Settanta molti storici, giunti all'età adulta nel decennio precedente, stavano abbandonando la ricerca sulle origini dell'ideologia nazista per orientarsi verso i differenti approcci della storia sociale, che implicavano una concezione di ideologia intesa come strumento o funzione delle classi sociali e delle istituzioni ritenute più importanti. Gli storici culturali europei, che si formarono negli anni Sessanta e che probabilmente avrebbero potuto approfondire questi testi fondamentali con ulteriori studi sulle origini dell'ideologia nazista e sulle sue successive vicende storiche, si interessarono invece alla storia della sinistra culturale europea. Di conseguenza, la tradizione della storiografia sull'ideologia nazista registrò una lieve seppure non fatale discontinuità, alla quale seguì una discreta ripresa a partire dagli anni Ottanta. Paradossalmente i contributi più importanti e significativi alla storia delle origini dell'ideologia nazista non furono il frutto di una generazione degli anni Sessanta che proclamava “faremo i conti con il passato nazista” nel segno dell'attivismo, ma vennero da alcuni storici che solo poco tempo prima si erano dedicati a quel compito nella quiete dei loro studi. 0001000110 ‣ Le origini culturali . La ricerca storica sulle origini dell'ideologia nazionalsocialista ebbe inizio con le opere di tre storici ebrei-tedeschi, Fritz Stern e George Mosse rifugiati negli Stati Uniti e Peter Pulzer in Inghilterra, i quali definirono i termini della discussione e i temi più dibattuti2. Il saggio Politics of Cultural Despair: A Study in the Rise of the Germanic Ideology fu scritto da Stern come tesi di dottorato alla Columbia University a metà degli anni Cinquanta e fu pubblicato nel 1961. L'opera di Mosse The Crisis of German Ideology: The Intellectual Origins of the Third Reich (tradotta in italiano con il titolo: Le origini culturali del Terzo Reich) e il saggio di Pulzer The Rise of Political Anti-Semitism in Germany and Austria furono entrambi pubblicati nel 1964. Nel 1962, Sontheimer pubblicò Antidemokratisches Denken in der Weimarer Republik, uno studio sulla destra antidemocratica a Weimar. Nel 1969, nella Repubblica Federale Tedesca, Karl Bracher ed Eberhard Jäckel pubblicarono delle opere che collocavano i temi dell'antisemitismo e delle origini dell'ideologia nazista, sollevati da Mosse, Pulzer e Stern, all'interno del principale campo di studi tedesco. Tale tendenza è evidente nell'opera di Bracher Die Deutsche Diktatur e nella risposta che Jäckel oppose allo scetticismo imperante circa l'importanza dell'ideologia di Hitler nel suo saggio Hitlers Weltanschauung: Entwurf einer Herrschaft. Sebbene ciascuna di queste opere si discosti dalle altre per le tesi dibattute, è possibile individuare un elemento comune nella seguente conclusione generale: il nazionalsocialismo, contrariamente a quanto credevano molti contemporanei, aveva una pre-storia ideologica e culturale che traeva le sue origini da un complesso di idee di chiara matrice europea, ma al contempo emerse con maggiore forza e profondità in Germania e in Austria. Il modo in cui la Germania divenne uno stato moderno tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo scatenò una reazione culturale particolarmente forte contro il liberalismo politico, i valori dell'Illuminismo, l'eterogeneità etnica, il capitalismo inteso come supremazia del commercio sulla società e contro gli ebrei, a favore di una visione di unità nazionale basata sulla superiorità razziale, sul darwinismo sociale, sull'espansione della politica estera attraverso la guerra, se necessario. Questa miscela ideologica, chiamata alternativamente “disperazione culturale” o “ideologia völkisch ”, divulgata da opere saggistiche e narrative divenute popolari, trovò sedi istituzionali nei movimenti nazionalisti, nelle università e nei partiti nazionalisti e antisemiti in Germania e in Austria. Alla vigilia della Prima guerra mondiale, tuttavia, essa restava una corrente minoritaria nell'Europa centrale di lingua tedesca. L'esperienza della guerra e in seguito la sconfitta del 1918-19 diedero a questi orientamenti culturali un'incubazione ideologica destinata a radicalizzarli. Nel periodo postbellico, i maggiori intellettuali tedeschi svilupparono una tendenza antidemocratica che rifletteva e perfino dava voce ai sentimenti dei gruppi dirigenti conservatori tedeschi. Nella Vienna prebellica, e a Monaco durante il conflitto e nel dopoguerra, Adolf Hitler sfruttò e sintetizzò questa miscela ideologica, creando il Partito nazista come strumento organizzativo atto a diffondere il suo messaggio e ponendo l'antisemitismo al centro dell'odio politico verso il liberalismo e il marxismo. Durante il periodo della grande depressione, il gruppo dirigente dei conservatori tedeschi, già poco fedele alle istituzioni democratiche, sostenne l'ascesa di Hitler al potere in parte sulla base della condivisione di alcuni punti del suo programma, in parte sottovalutando la gravità del suo estremismo ideologico. L'ascesa di Hitler al potere e i suoi successi in politica estera durante gli anni Trenta, ma anche la sua abilità nello scatenare la Seconda guerra mondiale, furono il risultato di decisioni sue e di nessun altro. Tuttavia tali successi si costruirono anche sugli errori, che pure potevano essere evitati, dei suoi avversari, i quali sottovalutarono ripetutamente sia Hitler sia l'ideologia nazista. Questa conclusione generale presuppone ciò che gli storici hanno definito il Sonderweg [percorso speciale] della storia tedesca moderna. Dal momento che questa teoria è stata oggetto di recenti critiche3, ci sembra importante ricordarne i punti essenziali. Alcuni fatti incontrovertibili della storia tedesca dal XVII al XIX secolo ne illustrano la specificità rispetto a quella della Francia e dell'Inghilterra, e troppo spesso sono stati trascurati nella discussione sul Sonderweg 4. Alla fine della Guerra dei Trent'anni, in un'epoca in cui Francia e Inghilterra erano stati-nazione devoti l'uno alla Chiesa cattolica e l'altro alla Chiesa anglicana, la “Germania” non esisteva come realtà politica unitaria, in quanto era costituita da centinaia di piccole entità politiche, a loro volta divise tra principati protestanti e cattolici. Con il risveglio del nazionalismo tedesco, in reazione alla Rivoluzione francese e alla successiva invasione e occupazione napoleonica, la sua forte componente conservatrice si schierò contro i principi rivoluzionari e auspicò uno Stato centrale forte in grado di superare le molte divisioni che avevano indebolito gli stati tedeschi, rendendoli vulnerabili. In realtà, i pensatori illuministi tedeschi, tra i quali Kant, Hegel, Goethe, contribuirono in modo determinante alla teoria liberale e democratica, ma i liberali tedeschi furono indeboliti dall'assenza di un centro politico su cui far convergere il potere contro le forze dell'autoritarismo locale. Il nazionalismo tedesco che emerse nelle guerre di liberazione contro l'occupazione della Francia si definì in opposizione agli ideali della Rivoluzione francese. Al posto della centralità attribuita da Kant all'autonomia e alla libertà dell'individuo, il nazionalismo di Fichte e di Arndt celebrava l'autodeterminazione nazionale, in nome della quale gli individui dovevano sottomettersi all'interesse collettivo. A partire da Lutero, e proseguendo lungo la linea dei suoi successori esponenti dell'Illuminismo secolarizzante, emerse un'“idea tedesca di libertà” incentrata sulla sua realizzazione nella sfera intima, piuttosto che in quella della libertà politica5. Nel nazionalismo tedesco, come in quello francese e inglese, non mancarono le voci che si batterono in nome dell'individualità ma, rispetto ai precursori occidentali, questo impulso liberale fu più debole in Germania dove più potenti erano le pressioni collettiviste e autoritarie6. La tesi del Sonderweg fu inclusa anche nella storiografia marxista tradizionale che inizia con la storia di Friedrich Engels sulle guerre dei contadini in Germania e sulla continuità del potere dei feudatari locali conservatori nelle epoche successive7. La relativa debolezza delle classi medie e del liberalismo politico nella società tedesca emerse con forza e si aggravò ulteriormente con il fallimento della rivoluzione del 1848, quando crollò il sogno di unificare la nazione attorno a un programma liberale. Attraverso le tre guerre di unificazione di Bismarck, la Germania divenne ciò che Helmet Plessner definì una “nazione in ritardo” nel 18718. Alla base dell'agognata e tardiva unificazione nazionale non vi fu un parlamento come in Inghilterra o una rivoluzione democratica come in Francia, ma un'alleanza di forze autoritarie, l'aristocrazia militare prussiana e l'emergente industria tedesca: la famosa alleanza “dell'acciaio e dei cereali”. In un breve saggio, lo storico tedesco Jürgen Kocka riformulò la tesi del Sonderweg alla luce della compresenza dei più importanti fattori di modernizzazione9. In Inghilterra e in Francia, l'unificazione nazionale, la creazione di istituzioni democratiche, l'estensione della cittadinanza, l'industrializzazione e l'urbanizzazione ebbero luogo in un arco di tempo di due secoli. In Germania, questi stessi eventi si concentrarono con un effetto dirompente negli ultimi cinquant'anni del XIX secolo. Di conseguenza, lo scontro tra la politica, l'economia e la cultura moderne da un lato e le varie forze della tradizione dall'altro fu più accentuato in Germania rispetto agli altri due principali paesi dell'Europa occidentale. Indubbiamente nel Reich bismarckiano esisteva il più grande partito socialdemocratico d'Europa, una rifondata e moderna università di ricerca, un'industria chimica ed elettrica che si avvaleva delle applicazioni della ricerca scientifica, uno stato sociale moderno nei suoi aspetti fondamentali e un crogiolo di innovazioni artistiche e letterarie10. Tuttavia, come avrebbe testimoniato l'elaborazione e la successiva realizzazione del Piano Schlieffen nell'agosto del 1914, e, in seguito, l'escalation della Grande guerra segnata dagli scontri tra sommergibili nell'Atlantico, la politica estera del governo tedesco era condotta al di fuori di ogni sistema di controllo parlamentare. L'élite conservatrice, che aveva deciso l'entrata in guerra, rifiutò una pace di compromesso, incolpando della sconfitta i liberali, la sinistra e spesso gli ebrei del fronte interno, e dopo la guerra si ripresentò compatta e decisamente ostile verso la prima democrazia tedesca, la Repubblica di Weimar11. Furono queste diverse componenti del gruppo dirigente conservatore – risultanti di quel processo storico plurisecolare definibile, rispetto alle altre nazioni, come la via illiberale della Germania alla modernità – che offrirono rispettabilità e sostegno a Hitler all'inizio e a metà degli anni Venti, e anche in seguito durante la crisi economica e politica degli anni 19291933, fino a invitare il Partito nazista nel governo di coalizione. Durante gli anni Quaranta furono compiuti alcuni tentativi per generalizzare le origini ideologiche del nazismo, individuandole soprattutto in elementi comuni a tutte le società moderne. I contributi più significativi furono quelli degli intellettuali tedeschi rifugiati e politicamente vicini alla sinistra: Dialettica dell'illuminismo di Max Horkheimer e Theodor Adorno, Le origini del totalitarismo di Hannah Arendt e Behemoth. Struttura e pratica del nazionalsocialismo di Franz Neumann12. Ciascuna di queste opere, divenute oggi dei “classici”, colse degli aspetti importanti sul regime nazista e sul suo contesto europeo, ma nessuna formulò o seppe rispondere a queste domande fondamentali: se tra le origini dell'ideologia nazionalsocialista annoveriamo la degenerazione della ragione in razionalità strumentale, gli interessi dei capitalisti o l'alleanza tra ceti dirigenti e classi subalterne in una società di massa, allora per quale ragione il nazismo prese il potere in Germania, il fascismo in Italia e in Giappone e non nelle più avanzate società capitalistiche come quelle degli Stati Uniti, della Gran Bretagna e della Francia? Perché l'antisemitismo fu una componente centrale della politica nazista mentre fu meno rilevante nell'Italia di Mussolini? Quali furono le reali motivazioni che spinsero le democrazie liberali di Gran Bretagna e Stati Uniti a sfidare la Germania nazista? La tendenza che sottolineava soprattutto la dimensione europea del nazionalsocialismo si arricchì di altri riferimenti politici e culturali. Nel 1963, Ernst Nolte pubblicò Der Faschismus in seiner Epoche, la cui edizione inglese Three Faces of Fascism: Action Française, Italian Fascism and National Socialism comparve nel 196513. Basandosi su un'impostazione heideggeriana, Nolte descrisse l'ideologia fascista come un fenomeno “transpolitico” caratterizzato soprattutto dalla “resistenza alla trascendenza”, cioè resistenza all'inquietudine e allo sradicamento indotti dalla modernità. Nel suo ampio saggio, Nolte non si soffermò particolarmente sul ruolo dell'antisemitismo in Germania e in seno al nazionalsocialismo, e quando se ne occupò lo fece concentrandosi sulla percezione che il fascismo ebbe dei legami tra ebrei e comunismo, mentre tralasciò gli argomenti riguardanti la specificità tedesca presenti invece nell'opera di Stern del 1961. In modo non ancora evidente alla metà degli anni Sessanta, la tendenza alla generalizzazione espressa da Nolte, il suo debole interesse per le origini tedesche e austriache dell'antisemitismo e per il rapporto tra storia politica e storia culturale prefiguravano la controversia che lui stesso avrebbe scatenato a metà degli anni Ottanta, affermando che le origini ideologiche dell'Olocausto andavano ricercate nella reazione nazista ai gulag di Lenin e Stalin14. L'opera di Fritz Stern The Politics of Cultural Despair, iniziata come tesi di dottorato alla Columbia University negli anni Cinquanta, elaborava il concetto di “ideologia germanica” presente nei lavori di tre esponenti di spicco della “rivoluzione conservatrice” tedesca: Paul de Lagarde, Julius Langbehn e Möller van den Bruck. Con l'espressione “disperazione culturale”, Stern si riferiva alla critica culturale sferrata contro la modernità, e soprattutto contro il liberalismo, il secolarismo e le conseguenti visioni utopistiche che si sarebbero sostituite alla realtà esistente. Sebbene nessuno dei tre autori fosse uno studioso eminente o un intellettuale, tutti e tre esercitarono una forte influenza sullo stato d'animo delle masse, accentuandone la disperazione e il distacco, “fino a quando queste tendenze si fusero con l'ondata nichilista del nazionalsocialismo”15. “Questi uomini odiavano soprattutto il liberalismo” – cioè la vita borghese, l'economia di mercato, il sistema parlamentare – e al suo posto cercavano di fondare “una nuova comunità di seguaci [...], una nuova religione nazionale che avrebbe unito assieme tutti i tedeschi”. Inoltre erano “razzisti letterari” e “irriducibili antisemiti” in quanto consideravano gli ebrei come causa di “insidiose forze di dissoluzione”16. Nel complesso, i tre autori svilupparono una serie di idee che presentavano affinità tali da costituire “un'ideologia, un atto d'accusa, un programma e una mistica”, e tale ideologia aveva una chiara impronta germanica dal momento che i suoi fautori auspicavano il ritorno di un “Deutschtum [Germanicità] mitico” che univa disperazione culturale e nazionalismo mistico. Essi erano al contempo i sintomi di una crisi culturale e i soggetti che operavano per alimentarla e aggravarla, incoraggiando uno stato d'animo, una mentalità latente consacrata “al rifiuto idealistico della società moderna e al risentimento contro le imperfezioni degli ideali e delle istituzioni occidentali che avevano contribuito in maniera decisiva a indebolire la democrazia in Germania”17. Stern osservò che gli storici, essendosi concentrati su fattori a breve termine quali l'Articolo 48 della Costituzione di Weimar e il ruolo dell'alta finanza, “non avevano probabilmente considerato con la giusta attenzione il malcontento politicamente strumentalizzabile che aveva pervaso a lungo la cultura tedesca”18. Lo studioso descrisse la rivoluzione conservatrice come uno stato d'animo che “cercava di distruggere il disprezzato presente per riscoprire un passato idealizzato e proiettarlo in un futuro immaginario” e comprendeva “l'attacco ideologico alla modernità, al complesso di idee e istituzioni che caratterizzano la nostra civiltà liberale, secolare e industriale”. Tali elementi divennero una componente importante dell'ideologia di destra. Stern mise in evidenza il modo in cui Langbehn, Lagarde e van den Bruck si erano ispirati in modo efficace e selettivo a elementi della cultura tedesca che incontravano il favore dei loro contemporanei: l'antagonismo verso la Rivoluzione francese e l'Illuminismo manifestato dal movimento romantico e dai nazionalisti aggressivi come Friedrich Jahn ed Ernst Arndt. Questi ultimi citavano affermazioni tratte da Nietzsche e dagli scrittori romantici, ma ne tralasciavano o omettevano i temi di spirito cosmopolita e umanista e le critiche al nazionalismo tedesco. Invece di sviluppare la tesi di uno sviluppo teleologico da Lutero fino a Hitler, Stern focalizzò la sua attenzione sull'intensa attività dei critici culturali dei decenni che precedettero la Prima guerra mondiale: essi furono dei “selezionatori che operarono in modo indiscriminato e parziale”. In effetti, in opposizione a coloro che consideravano Nietzsche un precursore del nazismo, Stern si spinse ad affermare che “Nietzsche era del tutto estraneo alla nascita dell'ideologia germanica”19. In seguito, Steven Aschheim ha mostrato che il pensiero di Nietzsche, essendo stato filtrato dalla ricezione che ne fecero la rivoluzione conservatrice e poi gli ideologi nazisti, ebbe in effetti un impatto anche sull'ideologia nazista20. Il rapporto che Stern coglieva tra questi sostenitori della disperazione culturale non si basava su un determinismo idealista. Dopo le esperienze della Grande guerra, la sconfitta e la crisi della democrazia di Weimar, “questo senso di disperazione pervase sia la destra tedesca che i nazionalsocialisti. Senza quel diffuso stato d'animo, i nazionalsocialisti non avrebbero avuto successo. Un migliaio di insegnanti della Germania repubblicana che, da giovani, avevano letto e adorato Lagarde o Langbehn, ebbero altrettanta importanza, per il trionfo del nazionalsocialismo, di tutti gli ipotetici milioni di marchi che Hitler avrebbe ricevuto dai grandi industriali tedeschi”. La diffusione dell'“ideologia germanica” contribuì a spiegare la ragione per cui le classi colte della Germania accettarono e sostennero il nazionalsocialismo, e in genere non riuscirono a opporsi a esso. L'ideologia germanica “per motivazione, forma e contenuto” assomigliava all'ideologia nazionalsocialista, infatti “le loro idee negative erano indispensabili”. Per gli ideologi germanici e gli ideologi nazisti il “liberalismo era il nemico principale, una forza estranea e corrosiva che stava divorando il vero spirito germanico e stava distruggendo l'impero tedesco”. I fautori di entrambe le ideologie invocavano un Reich unificato con un Führer in grado di fondarlo; inoltre attaccavano la vita borghese e lo spirito del capitalismo, mettendo al centro della loro ideologia l'antisemitismo e il pensiero razzista21. Kurt Sontheimer nell'opera Antidemokratisches Denken in der Weimarer Republik (1962) spostò l'arco temporale dell'analisi alla Repubblica di Weimar e agli intellettuali antidemocratici di destra che contribuirono a indebolire la prima democrazia tedesca. Egli esaminò come i temi antiilluministi influenzassero il pensiero politico sui temi della democrazia e della dittatura nell'opera di Carl Schmitt. Il saggio di Sontheimer fu uno dei primi lavori a far emergere l'importanza dell'esperienza bellica della Prima guerra mondiale, un'esperienza che secondo gli ideologi di destra aveva sancito per la prima volta l'unione di nazionalismo e socialismo nel cameratismo dei soldati in trincea. Questa visione trovò un seguito politico nel nazionalismo di destra durante la Repubblica di Weimar, e si concretizzò negli attacchi alla democrazia parlamentare e ai partiti politici e nell'aspirazione a uno stato autoritario e totalitario che avrebbe presumibilmente superato le divisioni e la frammentazione del liberalismo. Sontheimer dimostrò quindi che esisteva una continuità nella tradizione anti-illuministica della destra analizzata da Stern e che essa si era ulteriormente radicalizzata dopo la Grande guerra. Anche Mosse nell'opera Le origini culturali del Terzo Reich individuò nell'attacco al liberalismo le “origini culturali” del nazismo, ma dedicò una parte più importante della sua trattazione al ruolo dell'antisemitismo. Il suo pensiero sulle origini ha come punto di partenza ciò che egli ha chiamato “ideologia völkisch ”, un complesso popolare di idee, costituito da una concezione razzistica, dal cristianesimo germanico e dal misticismo della natura, che immaginava una nazione unificata in vista del superamento delle divisioni e dei problemi dell'industrializzazione, dell'urbanizzazione e della democratizzazione tedesche tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo. Mosse osservò che i temi dell'ideologia völkisch “non erano stati ritenuti degni di troppa attenzione dagli storici che avevano considerato questa ideologia come un'espressione non intellettuale e popolare”. Lo studioso riprendeva la tesi di coloro che ritenevano queste idee “una facciata atta a dissimulare la violenza di una nuda lotta per il potere”, ragione per cui “lo storico avrebbe dovuto interessarsi ad altri, e presumibilmente più importanti, atteggiamenti nei riguardi dell'esistenza. Ma le cose non stavano così, trattandosi anzi di quel complesso di valori e idee, prettamente tedeschi, tramite il quale vasti strati della popolazione si erano accostati ai grandi problemi dell'epoca”22. Profondamente radicati nei movimenti giovanili e nelle università, gli ideologi völkisch contrapposero una cultura tedesca incontaminata alle devastazioni della civiltà occidentale. Mentre l'atteggiamento della critica culturale era variamente connotato dal punto di vista sia politico sia culturale all'interno dell'arco politico, Mosse sostenne che “il movimento nazista si sviluppò al di fuori di questo contesto” e si appropriò della parola d'ordine della “rivoluzione tedesca”. Scardinando la tesi abituale che collocava il nazismo all'interno delle tendenze controrivoluzionarie della storia moderna, Mosse risultò provocatorio quando scrisse che “in fin dei conti, la rivoluzione nazista fu la rivoluzione borghese ``ideale'', in quanto ``rivoluzione dell'anima'' che in effetti non minacciava nessuno dei legittimi interessi economici della classe media; al contrario l'ideologia vo«lkisch prendeva di mira il nemico interno”. Mosse pose l'antisemitismo al centro della sua storia di questa ideologia tedesca. Gli ideologi völkisch vedevano l'ebreo come il nemico “fautore del progresso in tutta la sua distruttività” e definivano la nazione tedesca “contro – e in rapporto alla – supposta ``minaccia ebraica''”. Questo atteggiamento nei confronti degli ebrei, agendo come “cemento” all'interno dell'ideologia völkisch, era dunque un aspetto essenziale per la comprensione di quest'ultima. La tesi di Mosse sulle origini dell'ideologia nazista è la seguente: nel XIX e all'inizio del XX secolo alcuni saggisti, romanzieri e giornalisti politici diffusero un insieme di idee definito “ideologia völkisch ”. Dal romanticismo tedesco essa derivava visioni di un paesaggio naturale inalterato e primitivo precedente all'atomizzazione e all'alienazione della società industriale e urbanizzata. I teorici del razzismo, come Arthur de Gobineau e Houston Stewart Chamberlain, celebravano la razza “ariana” che, biologicamente superiore alle altre, veniva minacciata da queste nella sua esistenza. La Germania era il centro di questa razza superiore e aveva bisogno di accrescere la forza militare e industriale per raggiungere e sostenere la sua legittima posizione egemonica nel mondo. Nei decenni 1870 e 1880 furono pubblicate diverse opere di carattere antisemita di grande successo, a firma di Gustav Freytag, Wilhelm Marr ed Eugen Dühring, i quali accusavano gli ebrei di essere l'incarnazione del materialismo e presentavano l'ebraismo come una religione senz'anima e incapace di infondere emozioni. La Germania, nelle loro aspirazioni, doveva liberarsi degli ebrei. Nel 1911, il sociologo Werner Sombart cercò di conferire rispettabilità scientifica ai pregiudizi antisemiti nel suo saggio Die Juden und das Wirtschaftsleben 23. Mosse indagò inoltre le vie di diffusione e di istituzionalizzazione di queste idee nelle università, nei movimenti giovanili, nelle associazioni pangermaniste prima della Grande guerra, nelle organizzazioni dei veterani dopo la guerra, nei partiti nazionalisti conservatori tedeschi, e studiò la ricerca di una terza via tra capitalismo e comunismo che nella Repubblica di Weimar doveva culminare con la nascita del “nazionalsocialismo” dello stesso Partito nazista. Il risultato fu una rivoluzione culturale impregnata di spirito nazionalista che aspirava a una comunità unificata, in grado di trascendere i limiti della modernità. Il saggio di Mosse Le origini culturali del Terzo Reich fu al contempo un'opera di storia culturale, intellettuale e sociale, in grado di illuminare sia sui testi sia sulle istituzioni, oltre che sui canali di diffusione delle idee. Secondo lo storico, l'ideologia völkisch “aveva profondamente penetrato di sé l'edificio nazionale” come conseguenza di sviluppi storici specifici. Pertanto, “il gennaio del 1933 non fu un accidente storico, ma il risultato di una lunga preparazione”. In realtà, se non fosse stato il nazionalsocialismo a prendere il sopravvento, altri gruppi erano pronti a farlo, data la pervasività dell'ideologia völkisch nella destra tedesca24. Mosse prese le distanze sia da quegli storici che vedevano il nazismo come la “logica culminazione di tutta la storia tedesca”, sia dagli studiosi conservatori tedeschi che ne mettevano in discussione le radici storiche tedesche. Per prevenire le eventuali critiche sulla natura teleologica della ricerca delle origini, Mosse elaborò una visione sfumata che ci sembra importante sottolineare. Rifiutò il “determinismo storico”, volendo soprattutto “mostrare come una corrente del pensiero tedesco abbia potuto rafforzarsi al punto che milioni di individui l'accettarono come l'unica soluzione al dilemma della Germania” e spiegare come “gli atteggiamenti nazional-patriottici avevano permeato l'intera destra tedesca”. Si noti che Mosse non affermava che la maggioranza dei tedeschi avesse aderito in massa all'ideologia völkisch, ma che lo avevano fatto “milioni” di persone, e che le idee da lui esaminate avevano pervaso non tutta la società tedesca o tutti i tedeschi, ma “la destra tedesca”. Fu il “genio” di Hitler, scrisse Mosse, “che spostò la fuga nazional-patriottica dalla realtà alla disciplina e alla organizzazione politica efficiente”25. Nel 1964 Peter Pulzer, in un'altra opera destinata a diventare un punto di riferimento fondamentale, The Rise of Political Anti-Semitism in Germany and Austria, prese in esame l'ascesa dei partiti politici antisemiti in Germania e in Austria dal 1860 fino alla vigilia della Grande guerra e ne analizzò le conseguenze sulle origini del nazismo26. Il particolare contributo di Pulzer consistette nell'esame che egli compì delle modalità di diffusione dell'antisemitismo in alcuni partiti politici in Germania e in Austria nei cinquant'anni che precedettero lo scoppio della Prima guerra mondiale. L'opera di Pulzer fu molto importante in quanto spostò l'attenzione sullo scenario austriaco: dopo tutto, fu nel clima antisemita dei partiti politici di Vienna che Hitler si avvicinò all'antisemitismo politico. Pulzer precisò inoltre che, nonostante la massiccia propaganda, a partire dal 1918, i partiti antisemiti non erano stati capaci di estirpare i diritti di cittadinanza degli ebrei, ma erano riusciti a conferire alle idee antisemite una certa rispettabilità negli ambienti del potere politico, economico e accademico in Austria e in Germania. Come scrisse, “la differenza principale tra l'antisemitismo politico dei periodi prebellico e postbellico non sta nel suo contenuto, ma nel suo successo”27. Grazie a un'attenta ricostruzione della vita politica, il saggio di Pulzer contribuì alla ricerca sulle origini ideologiche del nazismo e dimostrò che l'antisemitismo ebbe le sue più rilevanti e terribili conseguenze quando si legò ai partiti politici e, come è ovvio, soprattutto al Partito nazista. Questi, infatti, avevano capito che l'antisemitismo poteva essere utile sia come idea radicata nelle masse, sia come strumento politico manipolatorio. Nel 1967 venne pubblicata un'altra opera classica, il saggio di Norman Cohn intitolato Licenza per un genocidio. I “Protocolli degli Anziani di Sion”: storia di un falso 28. Cohn esaminò le teorie riguardanti la cospirazione degli ebrei antecedenti la pubblicazione del falso ad opera della polizia zarista. Dopo aver analizzato il famoso documento, ne studiò la pubblicazione, la traduzione e la diffusione in Europa e negli Stati Uniti (soprattutto ad opera di Henry Ford) e osservò l'influenza che aveva avuto sul pensiero dei nazisti stessi. Sebbene Cohn non abbia studiato l'elaborazione di una teoria della congiura, relativa al giudaismo internazionale nel contesto della Seconda guerra mondiale, il suo saggio fu decisivo per comprendere una delle caratteristiche storiche fondamentali dell'antisemitismo radicale che lo distingueva da altre forme di pregiudizio razziale e religioso, in particolare quello dei bianchi nei confronti dei non bianchi. I Protocolli descrivevano il giudaismo internazionale come un piccolo ma potentissimo soggetto politico a livello mondiale, altamente distruttivo e subdolamente impegnato in attività segrete. Secondo la giusta visione di Cohn, l'immagine di questa forza potente e maligna divenne una “licenza per il genocidio” essenziale nell'ideologia che il nazismo perpetuò fino allo scoppio della Seconda guerra mondiale. 0001000110 ‣ Le origini politiche . Il saggio di Karl Bracher, La dittatura tedesca, mise invece in relazione le origini culturali e ideologiche con la storia politica29. Alcune parti del libro furono scritte negli Stati Uniti, al Center for Advanced Study in the Behavioral Sciences presso la Stanford University e all'Institute for Advanced Study di Princeton. In esse Bracher lascia intravedere la sua familiarità con i lavori degli storici ebrei-tedeschi rifugiati che, nella sua opera, vengono accolti per la prima volta nella storiografia tedesca attraverso l'esame delle origini del nazismo “su due piani”, quello della storia tedesca e quello della storia europea. Se la Germania fu investita dall'intensificarsi della politica di massa affermatasi in tutta Europa in seguito alla Rivoluzione francese e all'industrializzazione, il nazionalsocialismo si proclamava – secondo Bracher – come “il grande movimento storico antagonista della Rivoluzione francese [...] contro il liberalismo e la libera democrazia, contro i diritti dell'uomo e del cittadino, contro la civiltà occidentale e il socialismo internazionale. [...] Il primo obiettivo che la rivoluzione nazionalsocialista si attribuì fu in effetti lo sradicamento del liberalismo e dell'individualismo”30. Il nazismo abbracciava un “fronte ideologico anti- ” che includeva il nazionalismo imperialista, la glorificazione conservatriceautoritaria di uno Stato forte, un'“aberrazione nazionalista-statalista del socialismo” e infine (alludendo chiaramente all'opera di Mosse) “l'ideologia di una comunità völkisch basata sulla razza”. Iniziata come semplice xenofobia, l'ideologia völkisch “si trasformò in un antisemitismo radicale e biologico che alla fine divenne il dogma irrinunciabile del nazionalsocialismo”. L'ideologia trasse origine sia da forze rivoluzionarie che da forze reazionarie, ma in definitiva “subordinò ogni cosa a un razzismo völkisch ”, e pertanto in questo senso si distinse dal regime fascista in Italia. L'antisemitismo – come scrisse Bracher – fu un fenomeno europeo e non solo tedesco, ma sarebbe divenuto “la più importante componente del nazionalsocialismo”31. L'interpretazione di Bracher dell'antisemitismo e del razzismo come “principale dogma” del nazismo segnò un notevole passo in avanti nella ricerca accademica tedesca, poiché si collocava all'interno di una società e di una professione – quella di storico – che contava pochi ebrei e che sembrava in qualche modo riluttante ad accordare una simile rilevanza all'antisemitismo o una funzione esplicativa così importante all'ideologia völkisch 32 (e forse la sede istituzionale di Bracher nel Dipartimento di scienze politiche all'Università di Bonn facilitò questo “precoce” inserimento della tematica dell'antisemitismo). Secondo Bracher l'antisemitismo in Germania assunse la forma più estrema in quanto esso si legò al darwinismo sociale fortemente razzista, che sanciva la superiorità razziale di un popolo giunto all'apice di un processo di selezione naturale e l'eliminazione delle razze considerate biologicamente inadatte. Queste nozioni “pseudoscientifiche” tratte dall'eugenetica furono alla base anche della successiva politica nazista di selezione razziale e di sterminio. Tali teorie equivalevano alla “rinunzia a quelle leggi morali che pongono la compassione e la tolleranza, la protezione e l'assistenza al centro di una società civile”. Il darwinismo sociale di stampo razzista e l'antisemitismo impregnarono e rafforzarono le ideologie antidemocratiche. La “particolare evoluzione politica e sociale dello Stato tedesco nei secoli XIX e XX” divenne per Bracher la chiave per rispondere all'interrogativo sul perché le tendenze nazionaliste e antisemite esistenti nel contesto europeo si diffusero così rapidamente in Germania, fino a determinare la nascita del nazismo. Questa evoluzione lasciò “la Germania con minori possibilità di resistenza rispetto ad altri paesi”33. Bracher descrisse quindi le condizioni politiche in cui si era formato il nazismo, distinguendo sei tappe evolutive. In primo luogo, la reazione nazionalista tedesca alla Rivoluzione francese e a Napoleone, che considerava gli ideali rivoluzionari nemici della nazione tedesca. In secondo luogo, il fallimento della rivoluzione del 1848, che condusse a un liberalismo orientato verso un forte Stato nazionale in cui i valori della libertà individuale e della riforma democratica erano subordinati al potere delle autorità militari, dell'aristocrazia e della burocrazia statale. Il raggiungimento dell'unità nazionale con la rivoluzione nazionale e conservatrice di Bismarck, infatti, integrò le forze liberali nella struttura di uno “Stato apparentemente costituzionale, ma in realtà quasi assolutistico, feudale, militare, e burocratico”. In terzo luogo, questo fallimento del liberalismo contribuì a radicalizzare il socialismo tedesco e a indebolire l'impulso liberale. In quarto luogo, i problemi che permanevano all'interno del Reich tedesco incoraggiavano a spinte imperialiste verso l'esterno piuttosto che a promuovere un processo di democratizzazione interna34. La generazione guglielmina perseguì una politica di espansione che consolidò i legami tra l'aristocrazia feudale, i ceti capitalisti e le forze militari, culminando nei piani espansionistici della Prima guerra mondiale. In quinto luogo, la Grande guerra, con il suo esito e i suoi strascichi, creò “le condizioni immediate per la nascita e la diffusione del nazionalsocialismo”. La destra nazionalista mise in relazione la Repubblica di Weimar con la sconfitta nella guerra. Infine, in sesto luogo, la débâcle della grande depressione fece della Repubblica di Weimar “il trampolino di lancio della dittatura hitleriana”, quando il partito conservatore tedesco favorì l'ascesa al potere di Hitler nel 193335. I nazisti, che erano stati i più accaniti oppositori del trattato di pace di Versailles, vedevano la Germania come grande potenza dominante nell'Europa centrale. A questa componente prussianotedesca della dottrina espansionistica, Hitler aggiunse una componente specificamente austriaca della “Grande Germania”. Eppure, malgrado si fosse pubblicamente autoproclamato tedesco nazionalista, Hitler “mirò fin dall'inizio alla propria meta finale: non solo ingrandire il territorio nazionale, ma ingrandire con la forza il Lebensraum [spazio vitale] del popolo tedesco ben al di là del suo ``nucleo razziale''”. Egli avrebbe attuato il suo piano sostituendo il tradizionale nazionalismo radicale con un principio di supremazia razziale del popolo tedesco, ritenuto biologicamente superiore agli slavi a est e agli ebrei all'interno: “il nemico mondiale numero uno”36. L'ideologia nazionalsocialista poteva trovare un alleato favorevole nel militarismo prussiano. Ma i “veri precursori” del Partito nazionalsocialista provenivano dai movimenti nazionalisti antisemiti e antislavi sorti in Austria e in Boemia verso la fine del secolo. E non è neppure un caso che il partito di Hitler sia stato fondato a Monaco, “dove, come a Vienna, sette segrete coltivavano una fantasiosa mistica germanica e dove dominava non l'idea prussiano-protestante dello Stato, bensì la concezione cattolica della Grande Germania”. Il Partito nazista contava più esponenti tedeschi meridionali, austriaci e tedeschi etnici che prussiani, eppure le idee e le istituzioni del militarismo prussiano, e la loro alleanza con il nazionalismo tedesco nella Prima guerra mondiale, accelerarono l'unione alla fine dell'era di Weimar tra Hitler e i nazisti da un lato, e i nazionalisti reazionari dall'altro37. Bracher sollevò il problema della “necessarietà o meno dell'evoluzione tedesca verso il nazionalsocialismo”: “La Germania – egli scrisse – non doveva per forza imboccare la via che la condusse al Terzo Reich”. Furono la forza delle tradizioni antidemocratiche della Germania e anche le interpretazioni più o meno fuorvianti della crisi alla fine della Repubblica di Weimar a rendere possibile l'ascesa al potere del nazionalsocialismo nel 1933. La causa ultima fu tuttavia “la profonda frattura tra il pensiero politico tedesco e quello occidentale e la formazione di una peculiare coscienza del destino tedesco, con caratteri antioccidentali”38. L'opera di Bracher si rivelava particolarmente efficace nell'integrare le tendenze a lungo termine e le vicende contingenti che segnarono la fine della Repubblica di Weimar. Le diverse crisi della politica weimariana si manifestavano nella debolezza o nel non-funzionamento della prassi parlamentare; nella tendenza a un sistema presidenziale che operava quasi come una dittatura; in partiti politici irrigiditi sul piano ideologico; nell'ascesa di movimenti antidemocratici di destra ma anche di sinistra, che restringevano gli spazi di manovra per l'attuazione di compromessi e di coalizioni; nella diffusione di una filosofia politica terrorista che “opponeva alla politica democratica di compromesso il principio amico/nemico”; nell'inclinazione della burocrazia e dell'amministrazione giudiziaria verso politiche autoritarie di destra e nella diffidenza delle forze armate nei confronti della Repubblica democratica. Di fronte all'evidente incapacità dei governi di Weimar di risolvere la crisi economica della Germania iniziata nel 1929, il nazionalsocialismo attrasse parti dell'elettorato come forza integrante. Il culto votato dal Partito nazista al Führer incarnato da Hitler, l'unità instaurata con la dittatura, l'abolizione dei partiti, la pretesa omogeneità e superiorità razziale, la comunità di popolo e l'espansione verso l'esterno alla ricerca di un Lebensraum verso oriente: tutti questi aspetti combinati furono all'origine delle crisi a breve termine degli anni Trenta, ma richiamavano anche più lunghe continuità della storia tedesca. Mentre il darwinismo sociale e l'espansione della politica estera attraverso la guerra, se fosse stata necessaria, caratterizzavano anche il fascismo italiano, un chiaro elemento distintivo del nazionalsocialismo tedesco era la centralità assunta dall'antisemitismo razzista nella sua ideologia e nel suo programma. Purtroppo, come Bracher ha sottolineato, troppi contemporanei di Hitler minimizzarono l'ideologia nazista: “La storia del nazionalsocialismo è essenzialmente la storia della sua fatale sottovalutazione”39. Nel concludere la sua analisi, Bracher afferma che “fu una serie di errori evitabili che contribuì all'ascesa di Hitler”, errori commessi dai politici conservatori che sostennero la scalata di Hitler al potere nel 193340. Eppure, la sottovalutazione e le errate previsioni del feldmaresciallo Hindenburg e del cancelliere Franz von Papen, fautori dell'ascesa di Hitler, erano il risultato di decenni di profondo disprezzo manifestato dalle élite conservatrici per le istituzioni democratiche. Si può dunque concludere che se i contemporanei di Hitler avessero considerato seriamente l'ideologia nazista e le sue origini come avrebbero dovuto fare, si sarebbe potuta evitare la presa del potere da parte di Hitler e l'insediamento di una dittatura nazista. Probabilmente la crisi degli anni Trenta sarebbe comunque sfociata in una qualche forma di regime autoritario, ma sarebbe stata di gran lunga meno devastante rispetto al Terzo Reich41. La storia della sottovalutazione di Hitler e dell'ideologia nazista, che rese anzitutto possibile la presa del potere nazionalsocialista, proseguì con le vicende della politica internazionale degli anni Trenta, caratterizzata dalla politica delle concessioni condotta da Gran Bretagna e Francia e seguita dalle fatali ed errate valutazioni di Stalin che firmò e prestò fede al patto di non-aggressione nell'agosto 1939. Sebbene i contemporanei di Hitler abbiano commesso molti errori sul suo conto, Bracher non nutre alcun dubbio sul fatto che fu Hitler stesso, con le sue decisioni e azioni, a determinare l'inizio e l'escalation della Seconda guerra mondiale e ad attuare la “Soluzione finale”. L'opera di Bracher La dittatura tedesca si rivela particolarmente interessante in quanto mette in relazione le origini dell'ideologia nazista con le crisi politiche di lungo e breve termine42, riallacciandosi in tal modo alla tradizione della storiografia liberale, a cui possono essere ricondotti L'antico regime e la rivoluzione di Tocqueville (1856) e Storia dell'Inghilterra di Macaulay43. In queste opere infatti si evidenzia come le decisioni e le idee dei soggetti politici interagiscano con una serie finita di possibilità, determinate dagli sviluppi della storia passata. La catastrofe della Grande guerra, le numerose crisi postbelliche degli anni Venti e le profonde tradizioni culturali della Germania considerate singolarmente non avrebbero di certo generato il nazionalsocialismo. Per contro, senza le origini culturali, politiche e intellettuali individuate da Stern e da Mosse prima e analizzate da Bracher all'interno del quadro politico, queste crisi non avrebbero condotto a una dittatura nazista 44. 0001000110 ‣ La visione del mondo di Hitler . Nello stesso anno in cui fu pubblicata La dittatura tedesca di Bracher, lo storico tedesco Eberhard Jäckel pubblicò la sua breve ma importantissima opera La visione del mondo in Hitler: progetto di un dominio assoluto 45, destinata anch'essa a segnare una svolta nella ricerca storica sulle origini ideologiche del nazismo. Basandosi sulle dichiarazioni pubbliche di Hitler dal momento della fondazione del Partito nazista fino alla fine della guerra, Jäckel si oppose alla tesi che presentava la Weltanschauung hitleriana come politicamente conseguente ma al tempo stesso priva di coerenza. Questa tesi era stata avanzata da Hermann Rauschning in La rivoluzione del Nichilismo. Apparenze e realtà del Terzo Reich, da Alan Bullock in Hitler. Studio sulla tirannide e, in forma diversa, nelle analisi di Martin Broszat sul regime di Hitler46. Tutti questi studiosi affermavano che Hitler fu spinto soprattutto da una spietata sete di potere in nome della quale seppe opportunisticamente utilizzare un insieme di messaggi ideologici. Al contrario, Jäckel introdusse l'idea secondo la quale, per quanto spregevole, Hitler avesse una Weltanschauung, una sua visione del mondo dotata di coerenza interna e che costituiva la base programmatica della sua politica. Analizzando attentamente il Mein Kampf, Jäckel osservò che era possibile individuare tre fasi principali nel piano politico di Hitler riguardante la Gran Bretagna, la Francia, l'Italia e la Russia, la politica territoriale, la revisione dei trattati e la politica razziale. La prima fase includeva il consolidamento interno e il riarmo, e contemporaneamente i trattati con la Gran Bretagna e la Francia che avrebbero isolato quest'ultima. Nella seconda fase, la Germania avrebbe dichiarato guerra alla Francia, sconfiggendola. Con la terza fase, dopo aver eliminato la minaccia proveniente da occidente, la Germania avrebbe lanciato una guerra di conquista contro la Russia. Questo conflitto si sarebbe facilmente risolto con la vittoria sull'intrico di ebrei e slavi che governava l'Unione Sovietica e avrebbe consentito la vasta espansione nell'Europa orientale del Lebensraum, destinato a essere colonizzato dalle future generazioni tedesche. La conquista delle ingenti materie prime e delle risorse agricole della Russia europea e dell'Europa orientale avrebbe immunizzato il popolo tedesco dalle conseguenze del blocco angloamericano, creando quindi le premesse per una rinascita della Germania come potenza mondiale47. Sospendendo provvisoriamente l'ovvio giudizio morale su un tale piano di guerra e di aggressione, Jäckel ha giustamente osservato che esso dimostrava di essere articolato, coerente e logico, in quanto combinava obiettivi precisi con l'indicazione dei mezzi che sarebbero stati necessari per raggiungerli. Pur non essendo privo di elementi di nichilismo, opportunismo e politica di potenza, esso presentava comunque degli obiettivi, delle finalità, dei principi. Inoltre, queste visioni ambiziose di politica estera prefiguravano le decisioni effettive prese da Hitler in politica estera nei primi anni della Seconda guerra mondiale. I più gravi errori di valutazione che Hitler ha commesso sulla Gran Bretagna e soprattutto sull'Unione Sovietica furono indotti dalla sua ideologia razziale. Gli studi più accreditati effettuati dagli storici esperti di strategie e diplomazia hitleriane, Gerhard Weinberg negli Stati Uniti e Andreas Hillgrüber nella Repubblica Federale Tedesca, confermarono la validità della posizione di Jäckel: “Pochi uomini di Stato hanno perseguito i loro scopi con maggiore ostinazione o tenacia [...] l'opportunismo [di Hitler] fatto di calcolo e menzogne era, innanzitutto, una questione di principio”48. Proseguendo la sua analisi, Jäckel raccolse le dichiarazioni di Hitler sugli ebrei – dai primi discorsi, al Mein Kampf, alla frequentemente ribadita “profezia” del 1939 –, ripetute in diverse occasioni sino alla fine della guerra: avrebbe sterminato gli ebrei nel caso in cui “essi” avessero iniziato una Seconda guerra mondiale. Jäckel formulò una tesi convincente, secondo la quale nella visione hitleriana della politica estera la questione ebraica non era considerata come uno strumento per realizzare altri scopi. Il problema degli ebrei assunse nel pensiero di Hitler una forma coerente, per quanto ripugnante, e ben radicata. Jäckel documentò la coerenza delle idee di Hitler prima e durante la guerra e sino alla “Soluzione finale”, quando “risultò chiaro che lo sterminio degli ebrei stava diventando progressivamente lo scopo più importante dello scontro bellico [...] allorché le sorti della guerra volsero le spalle alla Germania, la distruzione degli ebrei divenne il contributo offerto dal nazionalsocialismo al mondo”49. Sulla base dello Zweites Buch di Hitler50, scoperto da Gerhard Weinberg nel 1958 e pubblicato in Germania nel 1961, Jäckel studiò i nessi esistenti tra l'antisemitismo di Hitler e le sue concezioni razziste riguardo al Lebensraum verso oriente e alla guerra contro l'Unione Sovietica. Gli strumenti del potere statale dovevano servire al raggiungimento di due obiettivi principali: la creazione del Lebensraum a est e l'eliminazione degli ebrei. Sebbene l'opera di Jäckel non vi faccia riferimento, nel 1965 lo storico di diplomazia tedesco Andreas Hillgrüber aveva documentato nel suo Hitlers Strategie: Politik und Kriegsführung, 1940-1941 come l'antisemitismo radicale di Hitler fosse stato incorporato nei documenti programmatici quali il Kommissar-Befehl della primavera del 1941, e poi nell'attuazione della guerra di annientamento razziale condotta sul fronte orientale51. Negli Stati Uniti, Gerhard Weinberg pubblicò The Foreign Policy of Hitler's Germany: Diplomatic Revolution in Europe, 1933-36, il primo di due volumi sulla politica estera di Hitler che avrebbe portato alla sua decisione di scatenare la Seconda guerra mondiale52. Con la pubblicazione di queste opere fondamentali di Hillgrüber e in seguito di Weinberg, l'indagine sulle origini dell'ideologia nazista iniziata con The Politics of Cultural Despair e The Crisis of German Ideology si arricchì di una dettagliata documentazione sui rapporti tra l'ideologia al potere e la politica estera nella Seconda guerra mondiale. Nel 1975, nel suo libro The War Against the Jews, 1933-1945, Lucy Dawidowicz tracciò la storia dell'ideologia nazista dalle origini alla politica della “Soluzione finale”, analizzando gli strumenti della sua realizzazione ad opera delle SS e del RSHA [Reichssicherheitshauptamt, Ufficio centrale per la sicurezza del Reich] e l'assoluta priorità accordata da Hitler al raggiungimento di tale obiettivo negli anni centrali della Seconda guerra mondiale53. I lavori di Bracher, Cohn, Jäckel, Mosse, Pulzer, Sontheimer e Stern costituiscono nel loro insieme dei testi basilari sulle origini ideologiche del nazismo. Come si è visto, nessuno di questi storici sostenne che vi fosse una linea di continuità o di inevitabilità tra le origini ideologiche e il 1933 o l'Olocausto. Essi non avanzarono neppure l'ipotesi che gli eventi contingenti fossero irrilevanti o che altri esiti fossero impossibili. Sebbene le origini dell'ideologia non siano sufficienti a spiegare l'ascesa al potere del nazismo, esse costituiscono un aspetto fondamentale del tentativo, da parte degli storici, di fornire una spiegazione causale non solo alle motivazioni che spinsero Hitler a scatenare la Seconda guerra mondiale, ma anche alla sua decisione di combattere quel tipo di guerra, e di dare inizio, insieme ai suoi collaboratori, alla “Soluzione finale”. Gli storici citati sostennero che le origini del nazismo non sono da ricercare all'esterno, ma all'interno della cultura europea e tedesca e di alcune tra le loro tradizioni culturali più importanti. Il Terzo Reich non fu un evento casuale della storia o principalmente il risultato delle crisi esplose nel corso della Prima guerra mondiale e nel periodo successivo. Per effettuare un resoconto storico completo del nazismo era necessario fondere le prospettive a breve e a lungo termine, una sintesi che è chiaramente realizzata nel lavoro classico di Bracher del 1969. 0001000110 ‣ Il modernismo reazionario . Gli anni Settanta, successivi a questo grande flusso di ricerche, furono dominati maggiormente dalla storia sociale, mentre le correnti della storia ideologica e culturale persero vigore. Negli anni Settanta e Ottanta non si può far riferimento a un insieme di lavori sulle origini dell'ideologia nazista altrettanto importanti per quantità e qualità. Perciò è forse sorprendente che il mio lavoro Reactionary Modernism: Technology, Culture and Politics in Weimar and the Third Reich 54 fosse concepito inizialmente nella forma di una tesi di dottorato, come un'opera di sociologia storica interpretativa sulla linea di Weber e Tocqueville. Tentavo allora di rispondere al seguente interrogativo sollevato, ma lasciato irrisolto, da Stern e Mosse: se una rivolta culturale e ideologica contro la modernità costituiva il nucleo delle origini dell'ideologia nazista, come fu possibile per il movimento, il partito e il regime conciliare tale rivolta antimodernista con il dinamismo ideologico nella società industrializzata avanzata della Germania, ma anche dell'Italia fascista e del Giappone? Prendendo atto del fatto che i nazisti attuarono programmi di riarmo e di ripresa economica, in quale modo doveva essere interpretata la loro ideologia antimodernista? Il sociologo tedesco Ralf Dahrendorf sostenne che “la forte spinta verso la modernità” era un aspetto fondamentale del nazionalsocialismo. Se si concorda con tale affermazione, emergeva chiaramente una dicotomia tra l'ideologia antimodernista studiata dagli storici intenzionalisti e la prassi modernizzante del nazismo. Nel suo influente lavoro del 1966, Society and Democracy in Germany, Dahrendorf scrisse che il “velo dell'ideologia non deve trarci in inganno”. La contraddizione tra ideologia e prassi era così ampia che “si sarebbe quasi portati a credere che l'ideologia non era soltanto uno strumento consapevole per confondere deliberatamente la gente”55. Le tesi di Dahrendorf ravvivarono l'interpretazione dell'ideologia nazista che Jäckel e gli altri intenzionalisti avevano messo in dubbio, anche se la sua opinione non lo metteva al riparo dalla critica rivolta a Rauschning e Bullock. Se l'ideologia era principalmente un cinico inganno mirante a illudere gli ingenui, come spiegare quel fanatismo ideologico e quella coerenza così evidenti nell'Olocausto oppure nella guerra razziale nazista sul fronte orientale? Se per gli storici delle origini era problematico comprendere le dimensioni moderne del nazismo, coloro che fecero questo tentativo furono incapaci di spiegare perché il regime nazista attuò crimini così gravidi di conseguenze. Il mio saggio Modernismo reazionario cercava di rispondere a questo interrogativo riesaminando l'unione delle componenti moderniste e antimoderniste della rivoluzione conservatrice di Weimar e del Partito nazista. In particolare, l'opera esaminava le opinioni sulla tecnica moderna espresse da eminenti intellettuali della destra tra cui Oswald Spengler, Ernst Jünger, Carl Schmitt, Hans Freyer, Martin Heidegger, Werner Sombart, pubblicisti che scrivevano in riviste di ingegneria e infine Hitler, Göbbels e ideologi meno noti del partito e del regime nazista. Tale riesame delle origini dell'ideologia nazista condusse alla formulazione della tesi seguente: nei decenni che precedettero la Prima guerra mondiale, alcuni intellettuali conservatori come Spengler e Sombart operarono una distinzione tra il capitalismo, da essi condannato in quanto associato al commercio e agli scambi, e la tecnologia moderna, da essi esaltata come espressione della cultura tedesca. Mentre il capitalismo, sistema tipico della civiltà occidentale, era rappresentativo di Francia, Inghilterra e Stati Uniti, la tecnologia affondava le sue radici nell'ethos tedesco della produttività, dell'artigianato e della produzione come valore d'uso e non di scambio. Sombart in particolar modo associava la tecnologia ai valori tedeschi, mentre assimilava lo spirito giudaico a un capitalismo che giudicava ostile alla cultura. Secondo Spengler la tecnologia era di per sé autoritaria ed era dunque in accordo con la tradizione prussiana, statalista. Queste idee fecero breccia nelle classi dirigenti conservatrici tedesche. I saggi, le memorie e i romanzi di Ernst Jünger sull'esperienza nelle trincee della Prima guerra mondiale segnarono un punto di svolta nelle correnti antimoderniste della destra tedesca. In quelle opere, nel ricordo della comunità virile delle trincee, Jünger invoca una conciliazione tra gli appelli antiborghesi, romantici e nietzschiani alla volontà, da un lato, e la moderna tecnologia dall'altro. In ricerche come Kampf als inneres Erlebnis (La lotta come esperienza interiore, 1922), Ernst Jünger fece convergere la tecnologia con le correnti vitaliste e irrazionaliste della rivoluzione conservatrice tedesca e suggerì che le macchine esprimevano una volontà di potenza piuttosto che un sentimento di inumanità. Egli sottrasse la tecnologia dalla sfera della civiltà per incorporarla in una nuova cultura tedesca postbellica, postborghese, autoritaria e perfino totalitaria. Carl Schmitt e Hans Freyer concentrarono maggiormente la loro attenzione sulle istituzioni politiche. Entrambi sostennero che la tecnologia era necessaria in un nuovo stato totalitario, che la democrazia liberale era un'eredità del XIX secolo e la modernità del XX secolo era definita da un miscuglio di dittatura e di tecnologia moderna. A tali idee Martin Heidegger aggiunse delle riflessioni sulla presunta “essenza” autoritaria della tecnologia e giudicò che la speciale missione della Germania fosse collocabile tra il materialismo individualistico occidentale e il collettivismo sovietico. I professori d'ingegneria dei politecnici tedeschi scrissero libri e saggi che descrivevano la moderna tecnologia come parte integrante della rivolta nazionalista della Germania contro il razionalismo superficiale dell'Occidente. Nei discorsi e nei saggi degli anni Venti e Trenta, i leader nazisti si richiamavano a queste correnti di pensiero quando promettevano di “svincolare” la tecnologia dai “lacci” delle istituzioni democratiche di Weimar, liberarla dal cattivo uso nelle mani degli ebrei, riempire il mondo con le sue forme pure e rigorose e allo stesso tempo utilizzarla per la riconquista del potere economico e politico da parte della Germania. Da tali premesse scaturiva che l'ulteriore sviluppo industriale e il miglioramento tecnico sarebbero andati di pari passo con il rifiuto dei valori politici e morali di ciò che in Europa si intendeva con modernità (liberalismo, democrazia, uguaglianza di tutti i cittadini, cosmopolitismo ecc.). Questa riconciliazione della protesta culturale antimodernista con la rivoluzione conservatrice preparò la strada al partito e al regime nazista, in cui la spinta verso la modernità tecnologica era unita al rifiuto degli aspetti politici e culturali associati al liberalismo e all'Illuminismo. Lo spirito modernista reazionario riconciliò l'ideologia völkisch e la disperazione culturale con la tecnica moderna facilitandone così l'armonia ideologica nel regime nazista. Il riarmo, il progresso tecnologico e la crescita economica smisero di essere in conflitto con l'ideologia nazista intesa in questo senso. Il primato delle politiche razziali durante la guerra e l'Olocausto si fondava su presupposti ideologici che non contrastavano con il modernismo tecnologico. La tesi modernista reazionaria preservò le specificità della storia tedesca articolate nella tesi del Sonderweg, e al tempo stesso illustrò come la Germania era divenuta ideologicamente moderna nel suo modo peculiare. Il nazismo non offriva l'esempio di una dialettica indifferenziata dell'Illuminismo o di una minaccia imminente in agguato nella burocrazia moderna. In un discorso alla Library of Congress a Washington DC nel 1945, Thomas Mann si riferiva a tale sintesi quando scrisse in Deutschland und die Deutschen che “questo appunto fu caratteristico e minaccioso del nazionalsocialismo: la miscela di una robusta modernità e di un'affermazione verso il progresso coi sogni del passato: un romanticismo altamente tecnologico”56. 0001000110 ‣ Sviluppi recenti: élites genocide e antisemitismo . Il saggio di Michael Wildt, Generation des Unbedingten: Das Führungskorps des Reichssicherheitshauptamtes, pubblicato nel 2003, ha segnato un notevole progresso nella ricerca dei nessi tra le correnti ideologiche degli anni Venti e i crimini degli anni Quaranta57. Wildt ha criticato i tentativi volti a includere i funzionari del RSHA in una categoria indifferenziata di “funzionari assassini” [desk murderers ] non ideologici, tecnocrati o burocrati, che furono così centrali nei lavori ormai classici di Raul Hilberg e Hannah Arendt o nei lavori successivi di Götz Aly e Suzanne Heim, secondo cui i problemi demografici ed economici avevano avuto un ruolo decisivo nella motivazione dei carnefici58. Come Dan Diner e altri hanno sottolineato, tali tentativi eludono la specificità storica e non riescono a spiegare perché l'Olocausto fu realizzato da questi funzionari, ma non dai burocrati, demografi ed economisti di altri paesi59. In ogni caso Wildt ha riconosciuto il contributo dello studio di Goldhagen I volonterosi carnefici di Hitler nell'avere nuovamente riportato la questione dell'antisemitismo al centro dell'attenzione dopo che essa era quasi del tutto scomparsa nelle analisi del potere tecnocratico e burocratico60. Wildt prese in esame un campione rappresentativo di 221 funzionari di alto rango del RSHA attivi tra il 1939 e il 1941, e ne ripercorse la carriera politica e ideologica, dall'adesione alla politica di destra durante gli studi universitari negli anni Venti (alcuni conseguirono il dottorato in materie umanistiche, in scienze sociali e in diritto) fino al loro coinvolgimento negli stermini di massa durante l'Olocausto. Wildt concluse che non vi era stato un tipo dominante di carnefice, ma un insieme eterogeneo di attori e istituzioni, ideologie e funzioni61. Inoltre, più che concentrarsi sulla psicologia individuale dei protagonisti, sul contesto sociologico della burocrazia o sulle teorie di modernizzazione che presentavano i criminali nazisti come “ingegneri sociali”, egli esaminò soprattutto “un processo di dinamica radicalizzazione di attori ideologicamente radicali, un'istituzione [l'RSHA] senza limiti, e pratiche di sterminio durante la guerra”62. Integrando gli aspetti dell'ideologia, le istituzioni e la guerra, e tracciando l'evoluzione di ufficiali di alto rango del RSHA, Wildt ha offerto un contributo rilevante alla comprensione dei rapporti tra le origini dell'ideologia nazista nel 1920 e le politiche criminali attuate durante l'Olocausto. Il suo lavoro esprime l'esigenza di sostituire un luogo comune ancora molto diffuso riguardante la “banalità del male” con una più complessa comprensione del processo di trasformazione che dalle origini dell'ideologia giunge fino alla pratica del genocidio. Non furono solo le ideologie della destra radicale degli anni Venti, ma la particolare istituzione del Reichssicherheitshauptamt e i suoi poteri illimitati a “creare i presupposti per la trasformazione delle nozioni relative all'ordine razziale della classe dirigente del RSHA in atti concreti”63. Tale classe dirigente si era formata all'interno delle università tedesche negli anni Venti. L'RSHA era “un'istituzione di arrampicatori sociali”, due terzi dei quali avevano studiato nell'università e un terzo aveva conseguito anche un dottorato; non era quindi costituito da accademici falliti e reietti ai margini della società, ma “da una élite borghese che aveva compiuto studi universitari”64. Più della metà aveva studiato legge e scienze politiche e più del 20% si era orientato verso la letteratura tedesca, la storia, la teologia, il giornalismo e la filologia. Gli studiosi di scienze naturali erano poco rappresentati: “Si supponeva la conoscenza delle leggi storiche, non delle leggi della natura che erano al centro del pensiero razziale”. La classe dirigente del RSHA considerava la razza soprattutto come una “missione storica” più che una definizione biologica65. Wildt concludeva che dall'ideologia sulla leadership e l'azione elaborata negli anni Venti si sviluppò un concetto di “assoluto” [Unbedingtheit ] e di obbedienza assoluta che si sostituì alle nozioni di leggi morali o norme e si tradusse nelle azioni criminali attuate dal 1939 al 1945. I dirigenti del RSHA non erano essenzialmente dei funzionari e burocrati assassini, ma uomini che si impegnarono in azioni criminali. Dopo la guerra, in diversi processi e azioni giudiziarie di denazificazione, gli uomini del RSHA – incluso Eichmann a Gerusalemme – spesso cercarono di descriversi come tecnocrati privi di un'ideologia, semplici esecutori di ordini. Secondo Wildt “la maschera dell'oggettività e della tecnocrazia” [Sachlichkeit ] nascondeva un'energia e un'esaltazione non del tutto corrispondenti all'immagine del burocrate assassino66. Il loro caso costituisce un capitolo nella storia di quegli intellettuali dell'Europa del XX secolo che cercarono di cooperare con il potere per costruire ciò che consideravano un mondo nuovo. Se il legame tra teoria e prassi è stato a lungo un tema centrale nella storia del marxismo e del comunismo, Wildt si dilungò finalmente, e a ragione, sul rapporto teoria-prassi nella storia dei perpetratori di alto livello dell'Olocausto. Inserendo quindi l'Olocausto nel contesto della moderna storia intellettuale e culturale, Wildt lo analizzò da una prospettiva nuova e interessante, dando un contributo significativo alla comprensione del rapporto tra le origini dell'ideologia e le pratiche criminali. A questo punto rimane da affrontare un'altra questione relativa ancora all'antisemitismo. In La Germania nazista e gli ebrei, Saul Friedländer ha preso in esame la traduzione dell'“antisemitismo redentivo” nelle politiche che hanno condotto alla negazione dei diritti di cittadinanza, alle espropriazioni, ai licenziamenti, alla ghettizzazione, alla discriminazione razziale sancita dalle leggi, alla violenza, alle reclusioni e all'emigrazione coatta67. Robert Wistrich e John Weiss hanno recentemente tracciato una sintesi dell'ampia letteratura sull'antisemitismo europeo, individuandone le origini nel cristianesimo e descrivendone l'evoluzione attraverso le ideologie razziste secolari del XIX e del XX secolo68. Le persecuzioni antisemite subite periodicamente dagli ebrei in Germania e in Europa in sei secoli di storia si radicalizzarono e intensificarono, con un ruolo decisivo dell'ideologia antiebraica nei primi sei anni del regime nazista, e con un'ulteriore escalation nei primi due anni della Seconda guerra mondiale. Ciononostante la ricerca storica non è stata in grado di fornire spiegazioni davvero soddisfacenti sul perché l'antisemitismo, che per secoli aveva causato “solo” la persecuzione, avrebbe dovuto per la prima volta determinare una mobilitazione finalizzata allo sterminio di tutti gli ebrei d'Europa. Daniel Goldhagen in I volonterosi carnefici di Hitler: i tedeschi comuni e l'Olocausto, uno dei libri oggi più letti sull'Olocausto, trova la risposta nelle radicate tradizioni dell'antisemitismo tedesco, ma non riesce a spiegare perché esso abbia prodotto un esito drammaticamente diverso tra il 1941 e il 1945. Il testo di Norman Cohn, Licenza per un genocidio, aveva offerto uno punto di partenza per comprendere il radicalizzarsi dell'antisemitismo. Una lettura attenta dell'ideologia nazista e della propaganda sugli ebrei durante l'Olocausto indica che il regime applicò una teoria paranoica del complotto agli eventi della Seconda guerra mondiale. Il ministero della Propaganda nazista diretto da Joseph Göbbels, l'Ufficio stampa del Reich guidato da Otto Dietrich, e soprattutto Hitler stesso, riproposero la teoria del complotto del potere del giudaismo internazionale, collegandolo a dei cospiratori presumibilmente impegnati in attività segrete a Londra, Mosca e Washington DC e incolpandoli di aver scatenato e inasprito la Seconda guerra mondiale. I propagandisti nazisti, iniziando da Hitler, ripresero la teoria del complotto nei discorsi più importanti, nei saggi e nei libri distribuiti in decine e centinaia di migliaia di copie, nelle disposizioni quotidiane e settimanali destinate alla stampa di regime e nelle migliaia di “giornali murali” e nei manifesti collocati ovunque negli interstizi della vita quotidiana. Sebbene la guerra fosse interamente determinata dalle decisioni di Hitler, la propaganda nazista la presentò come opera del giudaismo internazionale, il cui scopo era lo sterminio dei tedeschi. Senza neppure menzionare la “Soluzione finale” con questo nome o divulgare un solo evento relativo alla sua attuazione nei giornali tedeschi o nelle trasmissioni radiofoniche, il regime nazista asserì in termini generici che stava “sterminando” gli ebrei d'Europa come ritorsione per aver scatenato la guerra. Questa visione paranoica, alla base della propaganda antisemita che accompagnò e incitò allo sterminio di massa degli ebrei d'Europa, fu l'argomento decisivo atto a giustificare il passaggio dalla persecuzione antiebraica e dalla deportazione degli ebrei residenti in Germania e negli altri paesi europei alla politica di sterminio di tutti gli ebrei. L'immagine dell'ebreo potente e assassino, che risale all'accusa mossa dai cristiani di aver ucciso Gesù, trovò un'espressione moderna nell'idea di un giudaismo internazionale legato sia al comunismo sia al capitalismo. All'inizio della Seconda guerra mondiale, la vulgata antisemita del nazismo creò un insieme di profezie che progressivamente si autoavveravano. L'ossessione, gli stereotipi e le conseguenti narrazioni deliranti durante la Seconda guerra mondiale furono i puntelli ideologici costanti della “Soluzione finale”. La propaganda nazista offrì una risposta all'interrogativo sulle ragioni dell'alleanza tra capitalisti e democratici americani e inglesi da un lato e comunisti sovietici dall'altro: gli ebrei cospiratori erano il legame che creava e manteneva la più innaturale delle alleanze. Mentre gli eserciti alleati progressivamente annientavano gli eserciti tedeschi e l'aviazione alleata bombardava le città tedesche, la propaganda nazista accusava gli ebrei di aver seminato morte e distruzione in Germania. Mentre il regime sterminava gli ebrei europei indifesi, l'odio verso questi ultimi aumentava nella società tedesca, alimentato dalle affermazioni dei nazisti secondo i quali gli ebrei erano non solo la disgrazia del paese, ma anche la forza che li stava conducendo verso la loro stessa possibile estinzione. Questa paranoia ideologica produsse un resoconto apparentemente coerente, anche se folle, degli eventi contemporanei che giustificarono la strage di innocenti. Tale ideologia trasfigurò la realtà di una guerra che Hitler aveva a lungo pianificato e iniziato in un tempo e luogo scelti da lui stesso, guerra che era necessaria per realizzare il progetto ideologico di un Lebensraum a oriente, al quale sarebbe seguita l'egemonia universale69. 0001000110 ‣ Verso una visione integrata dell'ideologia nazista . Dagli anni Ottanta nella ricerca storica sono emersi segni di una progressiva integrazione. La biografia di Hitler realizzata da Ian Kershaw, così come gli studi di Shulamit Volkov sull'antisemitismo come codice culturale hanno offerto esempi dell'integrazione della storia sociale e culturale70. Il lavoro di Kershaw mostra come parti della società tedesca appoggiarono Hitler comprendendolo e sostenendolo molto più di quanto l'enfasi di Bracher sulla “sottovalutazione” del dittatore da parte delle élite e dell'opinione pubblica non lasciasse intendere. Come si è detto Wildt, da parte sua, ha colto il convergere dell'ideologia, degli individui e delle istituzioni dal 1920 agli anni dell'Olocausto. Il mio lavoro sulla propaganda nazista ha approfondito la tematica dell'evoluzione dell'ideologia antisemita che causò dapprima la persecuzione e infine la strage di massa71. Molti passi in avanti sono stati fatti per chiarire ulteriormente il passaggio dalle ideologie del XIX secolo alle politiche del regime nazista durante la Seconda guerra mondiale e l'Olocausto, e per stabilire un equilibrio ragionevole tra idee, eventi e circostanze. Quest'analisi dell'insieme degli studi sulle origini ideologiche del nazismo non può che concludersi con rispetto e ammirazione rinnovati per i risultati della ricerca raggiunti negli anni Sessanta. È auspicabile che il lettore sia incoraggiato a consultare direttamente le opere che abbiamo discusso: non vi troverà semplicemente una teleologia, un determinismo idealistico, una linea di continuità tra parole e azione, come i critici hanno troppo spesso lamentato. Sarà invece possibile rintracciare in esse una integrazione stimolante tra breve e lungo periodo, tra il peso della tradizione e il ruolo degli eventi contingenti, una spiegazione dei fatti storici e un'esposizione degli orientamenti alternativi che la Storia avrebbe potuto prendere. Naturalmente sappiamo bene che Hitler salì al potere, scatenò la Seconda guerra mondiale e l'Olocausto: i lavori esaminati qui offrono conoscenze indispensabili per iniziare a capire come tutto ciò sia stato possibile e perché ciò avvenne in momenti e in luoghi determinati. Note al saggio 1 - Fritz Stern, The Politics of Cultural Despair: A Study in the Rise of Germanic Ideology, Anchor Books, New York 1965 [ed. orig. University of California Press, Berkeley-Los Angeles 1961]; Kurt Sontheimer, Antidemokratisches Denken in der Weimarer Republik, DTV, München 1968 [ed. orig. Nymphenburger Verlagshandlung, München 1962]; Peter Pulzer, The Rise of Political AntiSemitism in Germany and Austria, John Wiley & Sons, New York 1964 [ed. riv. Harvard University Press, Cambridge MA 1988]; George L. Mosse, The Crisis of German Ideology: The Intellectual Origins of the Third Reich, Howard Fortig, New York 1964 [trad. it. Le origini culturali del Terzo Reich, il Saggiatore, Milano 19913]; Karl Bracher, Die Deutsche Diktatur: Entstehung, Struktur, Folgen des Nationalsozialismus, Kiepenheuer & Witsch, Köln-Berlin 1969 [trad. it. La dittatura tedesca. Origini, strutture, conseguenze del nazionalsocialismo, il Mulino, Bologna 1973.]; Eberhard Jäckel, Hitlers Weltanschauung: Entwurf einer Herrschaft, Rainer Wunderlich Verlag, Tübingen 1969 [trad. it. La concezione del mondo in Hitler: progetto di un dominio assoluto, Longanesi, Milano 1972].2 - Tra gli altri studiosi di questo periodo che pubblicarono opere importanti, ma che ebbero un impatto inferiore sulla storiografia, citiamo Léon Poliakov, Gerald Reitlinger e Josef Wulf.3 - La critica più influente è quella proposta da David Blackbourn e Geoff Eley, The Peculiarities of German History: Bourgeois Society and Politics in Nineteenth Century Germany, Oxford University Press, Oxford 1985.4 - Sulla peculiarità della storia tedesca dalla fine della Guerra dei Trent'anni a metà del XIX secolo cfr. Hajo Holborn, A History of Modern Germany, 1648-1840, Princeton University Press, Princeton 1964.5 - Leonard Krieger, The German Idea of Freedom, Beacon Press, Boston 1957.6 - Elie Kedourie, Nationalism, Hutchinson, London 1960; Hans Kohn, The Idea of Nationalism: A Study in its Origins and Background, Macmillan, New York 1967, 1944 [trad. it. L'idea del nazionalismo nel suo sviluppo storico, La Nuova Italia, Firenze 1956].7 - Friedrich Engels, Der deutsche Bauernkrieg Werke, Bd. 7, Berlin/DDR 1960 [trad. it. La guerra dei contadini in Germania, Editori Riuniti, Roma 1976]; cfr. anche l'interpretazione di Alexander Abusch influenzato dall'ideologia della Repubblica Democratica Tedesca in Der Irrweg einer Nation, Aufbau Verlag, Ostberlin 1951 [trad. it. Storia della Germania moderna, Einaudi, Torino 1951].8 - Helmut Plessner, Die Verspätete Nation: Uber die politische Verfuhrbarkeit burgerlichen Geistes, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1974.9 - Jürgen Kocka, Asymmetrical Historical Comparison: The Case of the German Sonderweg, in “History and Theory” (1999).10 - Cfr. Thomas Nipperdey, Deutsche Geschichte, 1866-1918, Beck, München 1990.11 - Cfr. Fritz Fischer, Assalto al potere mondiale: Germania nella guerra 1914-1918, a c. di Enzo Collotti, Einaudi, Torino, 1965 [tit. orig. Griff nach der Weltmacht; die Kriegszielpolitik des Kaiserlichen Deutschland, 1914-18, Droste, Düsseldorf 1967]; Hans-Ulrich Wehler, L'impero guglielmino, 1871-1918, prefazione di Pierangelo Schiera, De Donato, Bari 1981 [tit. orig. Das deutsche Kaiserreich, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1973].12 - Max Horkheimer, Theodor W. Adorno, Dialektik der Aufklärung, Philosophische Fragmente, Querido, Amsterdam 1947 [trad. it. Dialettica dell'illuminismo, Einaudi, Torino 1966]; Hannah Arendt, The Origins of Totalitarianism, Harcourt, Brace, New York 1951 [trad. it. Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità, Milano, 1967]; Franz Neumann, Behemoth: the Structure and Practice of National Socialism, Victor Gollancz, London 1942 [trad. it. Behemoth: Struttura e pratica del nazionalsocialismo, Feltrinelli, Milano 1977].13 - Ernst Nolte, Der Faschismus in seiner Epoche, Piper, München 1963 [trad. it. I tre volti del Fascismo, Sugar, Milano 1966].14 - Sulla Historikerstreit cfr. Charles Maier, The Unmasterable Past: History, Holocaust and German National Identity, Harvard University Press, Cambridge MA 1988.15 - Stern, The Politics of Cultural Despair cit., p. 2.16 - Ivi, p. 3.17 - Ivi, p. 4.18 - Ivi, p. 5.19 - Ivi, p. 350.20 - Steven Aschheim, The Nietzsche Legacy in Germany: 1890-1990, University of California Press, Berkeley 1992.21 - Stern, The Politics of Cultural Despair cit., p. 353 e passim.22 - Mosse, The Crisis of German Ideology cit., pp. 1-2 [ cfr. anche la trad. it. Le origini culturali del Terzo Reich, il Saggiatore, Milano, 19913, p. 10].23 - Werner Sombart, Die Juden und das Wirtschaftsleben, Duncker & Humblot, Leipzig 1911 (trad. it. Gli ebrei e la vita economica, Edizioni di Ar, Padova 1980).24 - Mosse, The Crisis of German Ideology cit., p. 18.25 - Ivi, p. 19 e passim.26 - Pulzer, The Rise of Political Anti-Semitism cit.27 - Ivi, p. 292.28 - Norman Cohn, Warrant for Genocide: The Myth of the Jewish World Conspiracy and the Protocols of the Elders of Zion, Harper & Row, New York 1967 [trad. it. Licenza per un genocidio. I Protocolli degli Anziani di Sion: storia di un falso, Einaudi, Torino 1969].29 - Karl Bracher, Die Deutsche Diktatur cit.30 - Ivi, trad. it. cit., pp. 1213.31 - Ivi, p. 17.32 - Sulla riluttanza mostrata da storici conservatori e funzionalisti nell'attribuire a questi temi la stessa importanza, cfr. il lavoro ben documentato di Nicolas Berg, Der Holocaust und der Westdeutschen Historiker: Erforschung und Erinnerung, Wallstein, Göttingen 2003. Sul nesso tra la realtà multietnica americana e l'inclusione nella storiografia professionale di storie di razzismo da parte dei bianchi, antisemitismo e della categoria di “genere”, cfr. Michael Novick, That Noble Dream: The Objectivity Question and the American Historical Profession, Cambridge University Press, New York 1988.33 - Bracher, Die Deutsche Diktatur cit., trad. it. cit., p. 21 e passim.34 - Per una più recente e ampia trattazione che si inserisce in questa prospettiva sul Sonderweg di questo periodo, cfr. Hans-Ulrich Wehler, Deutsche Gesellschaftsgeschichte, Beck Verlag, München 19872003, specialmente i volumi III e IV: Von der ``Deutschen Doppelrevolution'' bis zum Beginn des Ersten Weltkriegs, 1849-1914 [1987] e Von Beginn des Ersten Weltkriegs bis zur Gründung der beiden deutschen Staaten, 1914-1949 [2003].35 - Bracher, Die Deutsche Diktatur cit., trad. it. cit., p. 22.36 - Ivi, trad. it cit., p. 27.37 - Ivi, trad. it cit., p. 28.38 - Ivi, trad. it cit., p. 29.39 - Ivi, trad. it cit., p. 61.40 - Ivi, trad. it cit., p. 63.41 - Henry Ashby Turner Jr. sostiene questa tesi in Hitler's Thirty Days to Power, January 1933, Addison-Wesley, Reading MA 1996 [trad. it. I trenta giorni di Hitler: come il nazismo arrivò al potere, Mondadori, Milano 1998].42 - Cfr. Karl Bracher, The Role of Hitler: Perspectives of Interpretation, in Fascism: A Reader's Guide, a c. di Walter Laqueur, University of California Press, Berkeley-Los Angeles 1976, pp. 211-25 e Id., Probleme und Perspektiven der Hitler-Interpretation, in Zeitgeschichtliche Kontroversen: Um Faschismus, Totalitarismus, Demokratie, Piper, München 1976, pp. 80-101.43 - Alexis de Tocqueville, L'Ancien Régime et la Révolution, Lévy Frères, Paris 1856 [trad. it. L'antico regime e la rivoluzione, Il Solco, Città di Castello 1921]; Thomas Babington Macaulay, History of England, Porter & Coates, Philadelphia 1849 [trad. it. Storia d'Inghilterra: dall'avvenimento al trono di Giacomo II, Pomba, Torino 1852-1858].44 - In successivi saggi e dibattiti critici durante gli anni Settanta, Bracher difese la possibilità di avvalersi ancora del concetto di totalitarismo e criticò il valore del concetto di fascismo nei termini riproposti dalle discussioni marxiste in auge nella DDR e nella Repubblica Federale di Germania. Tali elaborazioni sul fascismo generalizzavano le esperienze proprie dell'Italia e della Germania in una critica indifferenziata del capitalismo, senza riuscire a cogliere l'impatto ideologico autonomo del culto pseudoreligioso del capo e della corrispondente ideologia. Cfr. Karl Dietrich Bracher, Zeitgeschichtliche Kontroversen: Um Faschismus, Totalitarismus, Demokratie, Piper, München 1984.45 - Jäckel, Hitlers Weltanschauung cit. [trad. ingl. Hitler's World View: a Blueprint for Power, Wesleyan University Press, Middletown CT 1972, Harvard University Press, Cambridge MA 1981].46 - Hermann Rauschning, Die Revolution des Nihilismus, Europa Verlag, Zürich-New York 1938 [trad. it. La rivoluzione del Nichilismo: apparenze e realtà del terzo Reich, Mondadori, Milano 1947]; Alan Bullock, Hitler. A Study in Tyranny, Harper & Row, New York 1952 [trad. it Hitler: Studio sulla tirannide, Mondadori, Milano 1965].47 - Jäckel, Hitler's World View cit., p. 39. Sulle origini ideologiche della politica nazista nell'Europa orientale cfr. anche Woodruff D. Smith, The Ideological Origins of Nazi Imperialism, Oxford University Press, New York 1986.48 - Ivi, p. 46. Cfr. Gerhard Weinberg, Germany, Hitler and World War II, Cambridge University Press, New York 1995; Adolf Hitler, Hitler's Second Book: The Unpublished Sequel to Mein Kampf, a c. di Gerhard Weinberg, Enigma Books, New York 2003; Hitlers Zweites Buch, Deutsche Verlags-Anstalt, Stuttgart 1961 [trad. it. Il libro segreto di Adolf Hitler, Longanesi, Milano 1962]; Andreas Hillgrüber, Deutschlands Rolle in der Vorgeschichte der beiden Weltkriege, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1967; Germany and the Two World Wars, trad. William C. Kirby, Harvard University Press, Cambridge MA 1981.49 - Jäckel cit. Ivi, p. 64.50 - Il cosiddetto “Secondo libro”, prosecuzione inedita del Mein Kampf, risalente al 1928 [N.d.T.].51 - Andreas Hillgrüber, Hitlers Strategie: Politik und Kriegsführung 1940-1941, Bernard & Graefe, München 1982, 1965 [trad. it. La strategia militare di Hitler, Rizzoli Milano 1986]. Purtroppo Hillgrüber è noto ai non esperti soprattutto in relazione all'Historikerstreit [la “controversia degli storici” tedeschi sulla revisione della storia recente della Germania, scoppiata a metà degli anni Ottanta, N.d.T.]. In realtà, più importante di quelle di alcuni suoi critici liberali e di sinistra, si tratta di un'opera giovanile dello storico tedesco, cruciale in quanto inserì le questioni del razzismo antisemita e antislavo nella narrazione degli eventi prinicipali della politica estera di Hitler. Per studi più recenti che si rifanno al lavoro pioneristico di Hillgrüber, cfr. i capitoli scritti da Jürgen Förster in Horst Boog et. al., Germany and the Second World War, IV: The Attack on the Soviet Union, trad. Ewald Osers, Oxford University Press, Oxford-New York 1998 [tit. orig. Der Angriff auf die Sowjetunion, Deutsche Verlags-Anstald, Stuttgart 1983].52 - Gerhard Weinberg, The Foreign Policy of Hitler's Germany: Diplomatic Revolution in Europe, 1933-36, University of Chicago Press, Chicago 1970. Dello stesso autore cfr. The Foreign Policy of Hitler's Germany: Starting World War II, 1937-1939, University of Chicago Press, Chicago 1980.53 - Lucy Dawidowicz, The War Against the Jews, 1933-1945, Holt, Rinehart & Winston, New York 1975.54 - Jeffrey Herf, Reactionary Modernism: Technology, Culture and Politics in Weimar and the Third Reich, Cambridge University Press, Cambridge 1986 [trad. it. Il modernismo reazionario: tecnologia, cultura e politica nella Germania di Weimar e del terzo Reich, il Mulino, Bologna 1988].55 - Ralf Dahrendorf, Society and Democracy in Germany, Anchor Books, New York 1966, pp. 381-86 [tit. orig. Gesellschaft und Demokratie in Deutschland, R. Piper, München 1968; trad. it. Sociologia della Germania contemporanea, trad. Giorgio Backhaus, il Saggiatore, Milano 1968, pp. 458-74].56 - Thomas Mann, Deutschland und die Deutschen, in Thomas Mann: Essays, Band 2, Politik, a c. di Herman Kurzke, Fischer, Frankfurt am Main 1977, p. 294 [cfr. anche la trad. it. La Germania e i tedeschi, in Scritti storici e politici, Mondadori, Milano 1957, p. 558].57 - Michael Wildt, Generation des Unbedingten. Das Führungskorps des Reichssicherheitshauptamtes, Hamburger Edition, Hamburg 2002.58 - Raul Hilberg, The Destruction of the European Jews, Quadrangle, Chicago 1961; ed. riv., Holmes & Meier, New York 1985 [trad. it. La distruzione degli Ebrei d'Europa, Einaudi, Torino 1999]; Hannah Arendt, Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil, Penguin Books, New York 1964 [trad. it. La banalità del male: Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano 1964]; Zygmunt Bauman, Modernity and the Holocaust, Cornell University Press, Ithaca NY 1989 [trad. it. Modernità e olocausto, il Mulino, Bologna 1992]; Götz Aly e Suzanne Heim, Vordenker der Vernichtung: Auschwitz und die deutschen Pläne für eine neue europäische Ordnung, Hoffmann und Campe, Hamburg 1991.59 - Cfr. Dan Diner, Rationalisierung und Metode: Zu einem neuen Erklärungsversuch der ``Endlösung'', in “Vierteljahrshefte für Zeitgeschichte”, 40, 1992, pp. 359-82, e On Rationality and Rationalization: An Economistic Explanation of the Holocaust, in Beyond the Conceivable: Studies on Germany, Nazism, and the Holocaust, University of California Press, Berkeley-Los Angeles 2000, pp. 138-59.60 - Daniel Goldhagen, Hitler's Willing Executioners: Ordinary Germans and the Holocaust, Knopf, New York 1996 [trad. it. I volenterosi carnefici di Hitler: i tedeschi comuni e l'Olocausto, Mondadori, Milano 1997].61 - Michael Wildt, Generation der Unbedingten cit., pp. 22-23.62 - Ivi, pp. 28-29.63 - Ivi, p. 847.64 - Ivi, p. 850.65 - Ivi, p. 851.66 - Ivi, pp. 867-68.67 - Saul Friedländer, Nazi Germany and the Jews: The Era of Persecution, HarperCollins, New York [trad. it. La Germania nazista e gli ebrei, trad. Sergio Minucci, Garzanti, Milano 1988].68 - Robert Wistrich, Antisemitism: the Longest Hatred, Pantheon Books, New York 1991; John Weiss, The Ideology of Death: Why the Holocaust Happened in Germany, Ivan Dee, Chicago 1996.69 - Cfr. Jeffrey Herf, ``The Jewish Enemy'': Nazi Propaganda During World War II and the Holocaust, in corso di pubblicazione presso la Harvard University Press, e The ``Jewish War'': Goebbels and the Antisemitic Campaigns of the Nazi Propaganda Ministry, in “Holocaust and Genocide Studies”, primavera 2005.70 - Ian Kershaw, Hitler: Hubris, 1889-1936; Nemesis, 1936-1945, Norton, New York 1999 e 2000 [trad. it. Hitler: 1889-1936, Bompiani, Milano 1999; Hitler, 1936-1945, Bompiani, Milano 2001]; Shulamit Volkov, Antisemitismus als kultureller Code, Beck, Müncken 2000.71 - Per una storia del periodo nazista fondata sulle teorie del totalitarismo e delle religioni politiche e che offre una sintesi della letteratura scientifica principale, cfr. Michael Burleigh, The Third Reich: A New History, Hill and Wang, New York 2003 [trad. it. Il Terzo Reich: una nuova storia, Rizzoli, Milano 2003].