"L`imperialismo" Alla fine dell`800 si assiste ad uno degli episodi più

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"L'imperialismo"
Alla fine dell’800 si assiste ad uno degli episodi più rilevanti della storia dell’espansionismo nazionale. Anche se il
colonialismo è un fenomeno presente nei secoli precedenti, senza dubbio l’età dell’imperialismo costituisce una forte
accelerazione che porta le potenze europee ad ampliare enormemente i propri possedimenti nel giro di pochi
decenni, tanto da poter parlare di "spartizione" coloniale del globo terrestre.
In questo caso il superamento del confine (Limes), rappresentato dalla penetrazione in territori poco conosciuti o
addirittura inesplorati, è coinciso con il tracciare una moltitudine di nuovi confini in luoghi spesso abitati da
popolazioni culturalmente estranee all’idea di nazione, di stato e di frontiera.
A partire da questo momento tuttavia, i destini dei dominatori e dei dominati, seppure in modo diseguale, saranno
legati strettamente e questo legame avrà un peso rilevante nei nuovi conflitti mondiali, nella divisione del globo in
sfere di influenza, nel processo di decolonizzazione, nella ricerca di modelli di sviluppo diversi da quelli proposti dagli
ex colonizzatori e nelle forme attuali di integrazione dell’economia a livello mondiale.
Sicuramente questo sforzo di espansione è collegato alle trasformazioni economiche di quel periodo, ma anche a
fattori politici, ideologici, strategici e militari, spesso diversi a seconda della situazione del paese colonizzatore e dei
luoghi da colonizzare.
Per questo dopo una prima parte dedicata a definire i termini e a descrivere gli eventi principali, si cercherà di
affrontare la complessità delle cause e delle conseguenze del fenomeno attraverso alcuni documenti e grazie
all’interpretazione che ne hanno dato gli storici.
definizione e distinzioni
Per età dell'imperialismo si intende all’incirca il periodo 1870-1914.
Con il termine imperialismo si indica la spartizione del mondo in possessi coloniali e zone di influenza delle grandi
potenze in connessione con lo sviluppo internazionale del capitalismo.
Il controllo da parte dei paesi imperialisti nei confronti degli altri territori può essere politico od economico, ma i due
aspetti sono quasi sempre in stretta relazione fra loro:
politico: lo stato dominante controlla le attività di governo del paese subordinato creando leggi, imponendo
tasse, assumendo il comando dell'esercito (controllo diretto), ma questo dominio può anche presentarsi in
forma meno evidente, attraverso influenze esercitate sui governi locali e/o sugli abitanti, oppure attraverso una
serie di trattati che non implicano, almeno formalmente, la perdita di sovranità dello stato subordinato
(controllo indiretto); questo secondo tipo di controllo politico è in gran parte derivato dal potere economico dello
stato dominante e viene spesso definito "neocolonialismo".
Controllo diretto ð sovranità sul territorio ð colonie
Controllo indiretto ð trattati politici ed economici ð protettorati
economico: Lo stato dominante controlla l'economia dello stato assoggettato in funzione dei propri interessi
(utilizzo di materie prime, utilizzo di manodopera a basso costo, apertura di nuovi mercati per vendere merci
prodotte nella madrepatria, investimento di capitali in attività locali, ecc.); questo rapporto economico è di fatto
uno "scambio diseguale" poiché produce una totale dipendenza dei paesi assoggettati (che, ad esempio,
producono merci pregiate destinate all'esportazione al posto di beni di prima necessità utili al consumo locale)
nei confronti degli stati imperialisti.
Nella maggior parte dei casi l’imperialismo si distingue dal colonialismo perché non comporta una vera e propria
colonizzazione (con flussi migratori di grandi proporzioni), ma un’estensione del potere politico sui territori
assoggettati
L’imperialismo, contrariamente alla tradizionale idea di "impero" (antica e medievale), che è associata ad un potere
unificante in senso sovra-nazionale, nasce dall’accentuarsi del nazionalismo e del potere politico ed economico degli
"stati nazionali".
Giovanni Arrighi, "Imperialismo"
L’uso del termine "imperialismo" cominciò a diffondersi nella seconda metà dell'Ottocento per designare sia i
tentativi di alcuni Stati europei (la Francia in primo luogo) di risuscitare l'idea di "Impero", sia le tendenze
espansionistiche di questi stessi Stati e di altri. Tale uso si prestava a una serie di equivoci sui quali, più o meno
apertamente, giocava la propaganda imperialista dell'epoca. L'idea di "Impero", infatti, era stata tradizionalmente
associata a quella di un "ordine gerarchico" tra Stati (lo stesso Stato imperiale configurandosi come uno Stato al di
sopra degli altri), "garante della pace universale". [ ... 1
L'ascesa del nazionalismo aveva segnato il progressivo declino di quegli Stati imperiali che ancora si ponevano al di
sopra delle emergenti nazionalità: i tentativi di realizzare l'idea di Impero erano risultati sempre più parziali e
abortivi, dissolvendosi in un rafforzamento e diffusione delle tendenze nazionalistiche in atto. Questi tentativi, infatti,
riuscivano in genere solo quando si fondavano su sentimenti nazionali in ascesa. Ma, a lungo andare, se lo Stato
imperiale aveva una debole base nazionale (come l'Impero asburgico), si indeboliva nei confronti del nazionalismo
che autonomamente emergeva nelle sue province. Se invece aveva urla forte base nazionale (come l'Impero
napoleonico), finiva col propagare e rafforzare, sia al suo interno sia al suo esterno, le tendenze nazionalistiche
emergenti o già consolidate. [...]
L'espansionismo non veniva giustificato solo in termini di una funzione/missione pacificatrice, ma anche in termini di
una funzione/missione civilizzatrice strettamente connessa alla prima. [...]
Il primo studioso che tentò di eliminare questi equivoci, ponendo l'analisi dell'imperialismo su basi scientifiche, fu
Hobson. Al fine di precisare il significato del "nuovo imperialismo" rispetto a quello di epoche anteriori, Hobson lo
distingueva innanzitutto dal colonialismo poiché, nella generalità dei casi non comportava l'effettiva espansione di
una nazione/civiltà quanto l'"espansione del suo potere politico" sul territorio vicino o lontano di popoli troppo diversi
per poter essere assorbiti e troppo compatti per poter essere permanentemente schiacciati
All'assenza di una effettiva colonizzazione/civilizzazione corrispondeva l'assenza di un'effettiva funzione pacificatrice.
[...] Ben più grave e significativo, tuttavia, era l'antagonismo che il nuovo imperialismo generava tra le nazioni
metropolitane in quanto scatenava tra loro una "concorrenza politico militare " per la conquista di territorio da
annettere al proprio Stato. [...] Il significato del nuovo imperialismo era pertanto l'opposto di quello dell'idea di
Impero. In un mondo dominato dal nazionalismo, qual era quello della fine dell'Ottocento, l'espansione del potere
politico al di fuori dei confini nazionali non avrebbe in nessun caso realizzato un ordine gerarchico tra Stati, garante
della pace universale. Al contrario, poteva significare soltanto "anarchia nei rapporti tra Stati, tendente a una guerra
universale".
[da G. Arrighi, Imperialismo, in Enciclopedia, Einaudi, Torino 1979, vol. VII, pp 157-159]
eventi
Tra il 1870 e l'inizio della Prima Guerra Mondiale, vasti territori e interi continenti (come l'Africa), che avevano avuto
contatti molto limitati con l'Europa, vengono esplorati e conquistati. L'occupazione delle aree coloniali viene
legittimata nella Conferenza di Berlino (1884-85) alla quale partecipano le principali potenze europee con l'intento di
pianificare per via diplomatica la spartizione imperialista.
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La spartizione dell'Africa
La colonizzazione dell'Africa avviene con relativa facilità in quanto, se si escludono gli stati del Nord, la maggior
parte dell'immenso territorio è abitato da tribù prive di un'organizzazione politica e militare paragonabile a quella
degli stati moderni.
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Le prime conquiste avvengono tuttavia negli stati nordafricani: la Francia, che aveva già occupato l'Algeria nel 1830,
si insedia in Tunisia (1881) e l'Inghilterra in Egitto (1882).
Leopoldo II del Belgio finanzia l'esplorazione e (nel 1881) la conquista del Congo che diviene proprietà personale del
re, mentre la Nigeria diviene colonia inglese.
Dall'Algeria e dal Senegal i francesi penetrano nella zona del Sahara, mentre la Germania, che inizia tardivamente
l'espansione coloniale, si insedia in Africa sud-occidentale (1884), nel Togo, nel Camerun e in Africa Orientale
(1885); gli inglesi continuano l'occupazione dell'Africa orientale e della parte meridionale del continente entrando in
contatto con una colonna militare francese a Fashoda e combattendo una sanguinosa guerra contro i boeri
(discendenti degli antichi coloni olandesi) in Sudafrica (1899-1902).
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Anche l'Italia partecipa alla conquista dell'Africa, seppure in una zona povera di ricchezze naturali e subendo frequenti
sconfitte militari: dopo l'acquisto della baia di Assab (1882) viene occupata l'Eritrea ed ottenuto un protettorato sulla
Somalia (e temporaneamente anche sull'Etiopia). Più tardi si aggiungerà la Libia, conquistata nel 1912.
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L'espansione europea in Asia e Oceania
Diversamente dall'Africa, in Asia esistevano importanti insediamenti coloniali: olandesi in Indonesia, portoghesi a
Macao e Goa, spagnoli nelle Filippine, e inglesi in India, dove, dopo lo scioglimento della Compagnia delle Indie nel
1858, il controllo del Paese viene assunto direttamente dal governo di Londra che amplia ulteriormente i confini della
colonia.
All'occupazione francese della penisola indocinese (1883-85) la Gran Bretagna risponde con l'annessione della
Birmania, della penisola di Malacca e di parte del Borneo (1885-87), mentre ad occidente l'imperialismo inglese
entra in conflitto con l'espansione della Russia.
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In Oceania la Gran Bretagna , che dominava già l'Australia e la Nuova Zelanda, occupa diversi arcipelaghi nel
Pacifico e divide la Nuova Guinea con la Germania.
Cina e Giappone
In Asia esistevano però anche due imperi di antica formazione: la Cina ed il Giappone.
Il Giappone conosce nella seconda metà dell'ottocento una profonda modernizzazione istituzionale ed un'impetuosa
industrializzazione che lo spinge ad inserirsi nella gara espansionistica avviata dalle potenze europee e a muovere
vittoriosamente guerra contro la Cina e la Russia, assicurandosi il controllo della Manciuria e della Corea.
L'impero cinese invece non mostra uno sviluppo simile a quello giapponese e rischia di venire distrutto dalla
pressione esterna (esercitata dal Giappone e anche dalle potenze europee desiderose di spartirsi quell'immenso
territorio) e dai contrasti interni (in particolare fra le forze che spingono verso l'occidentalizzazione del Paese e
quelle conservatrici e nazionaliste).
Gli Stati uniti
Gli Stati Uniti sono l'unica potenza extraeuropea in grado di inserirsi in modo determinante nella spartizione del
mondo organizzata dagli stati europei. L'espansione demografica ed economica interna procede nel corso
dell'ottocento ad un ritmo elevatissimo, creando le condizioni per una politica imperialista.
Pur vincendo due battaglie importanti contro la Spagna per il possesso di Cuba e delle Filippine nel 1898, gli Stati
Uniti non prediligono la conquista militare, ma una politica di penetrazione economica che nel corso degli anni
assicura agli USA il controllo dell'America centro-meridionale.
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cause e condizioni
Le cause dell'imperialismo sono di varia natura e al tempo stesso strettamente intrecciate tra loro. Trattandosi
di un evento di portata mondiale vi sono anche numerose differenze a seconda delle situazioni e dei luoghi in
cui avviene la conquista oltre che delle politiche adottate dai paesi imperialisti.
Nonostante questo, gli storici sono concordi nel riconoscere alcuni fattori comuni, anche se poi (come vedremo
nella lezione 5) esistono divergenze nell'attribuire a questi fattori il ruolo di vere e proprie "cause" (cioè
elementi determinanti e necessari al prodursi del fenomeno) o di semplici "condizioni" (cioè elementi che
possono favorire il verificarsi del fenomeno, ma non essenziali).
Le cause e le condizioni dell'imperialismo possono essere raggruppate secondo tre aspetti principali:
1.
2.
3.
fattori economici
fattori politici
fattori culturali ed ideologici
Fattori economici
Ricerca di materie prime a basso costo per alimentare le industrie europee.
Ricerca di nuovi mercati, accentuata dalla svolta protezionistica sui mercati europei che impone nuovi
sbocchi commerciali per i prodotti delle industrie
Ricerca di investimenti finanziari indirizzata verso l'estero per impiegare l'eccedenza di capitali .
Osserva la tabella sull'aumento demografi
co
Osserva la tabella sulla produzione industriale
Osserva la tabella sulla produzione di metalli
Osserva la tabella sugli investimenti di capitali all'estero
Osserva la tabella sull'esportazione di manufatti
Fattori politici
Gli interessi nazionali e statali si identificano sempre più con quelli delle grandi industrie che determinano
l'andamento dell'economia degli stati europei.
L'espansionismo politico-militare delle grandi potenze non sembra trovare sbocchi in Europa e si indirizza verso i
paesi extraeuropei.
Il timore di essere esclusi dalla spartizione del globo che avviene negli accordi tra gli stati europei (vedi ad es. la
Conferenza di Berlino) favorisce la conquista anche di aree economicamente insignificanti per impedire squilibri
e per una successiva contrattazione diplomatica con gli altri stati.
I governi cercano di controllare le rivendicazioni sociali delle classi più povere attraverso le promesse connesse
all'espansione coloniale presentata come un vantaggio per tutti e come valvola di sfogo per la popolazione
europea eccedente.
Fattori culturali ed ideologici
L'ideologia della nazione, spesso cresciuta con le lotte per la libertà e l'indipendenza nazionale, diviene
strumento di dominio oltre confine ed elemento di unità interna contro le divisioni e le rivendicazioni di classe.
Il razzismo distingue i popoli "superiori", anche biologicamente, destinati a dominare e i popoli inferiori che
necessitano di "civilizzazione".
L' "evoluzionismo sociale" applica alla società umana le teorie di Darwin sulla "lotta per la vita" e sulla
"sopravvivenza del più adatto" trasformandole in una giustificazione della "legge del più forte" (individuo o
popolo).
Jules Ferry, "Discorso al parlamento francese (1885)"
JULES FERRY: "Per i Paesi destinati dalla natura stessa della loro industria a una forte esportazione, come è appunto
il caso della nostra industria, la questione coloniale si identifica con quella degli sbocchi.
Da questo punto di vista, lo ripeto, la fondazione di una colonia equivale alla creazione di uno sbocco. [...] Signori,
da questo punto di vista particolare, ma della più decisiva importanza, nell'epoca in cui viviamo e nella crisi che tutte
le industrie europee attraversano, la fondazione di un colonia costituisce la creazione di uno sbocco. Si è rilevato
infatti, e gli esempi abbondano nella storia economica dei popoli moderni, che basta l'esistenza di un legame
coloniale fra la madre patria che produce e le colonie da essa fondate a far si che la preminenza economica
accompagni, in certo qual modo, l'egemonia politica e ne subisca l'influsso. [...]
"Signori, esiste un secondo punto, un secondo ordine d'idee, che devo pure toccare, il più rapidamente possibile,
siatene certi: si tratta dell'aspetto umanitario e civilizzatore della questione. Questo punto ha provocato i motteggi
dell'on. Pelletan; con lo spirito e la finezza che lo distinguono non ha risparmiato i suoi frizzi all’indirizzo di questa
concezione della politica coloniale, da lui condannata; ecco gli argomenti illustrati dal mio onorevole collega: "In
cosa consiste questa vantata civiltà che viene imposta a colpi di cannone? Cos'è, se non una nuova forma di
barbarie? Questi popoli di razza inferiore non hanno forse altrettanti diritti quanto Voi? Non sono essi padroni in casa
propria? Vi chiamano forse? Penetrate nei loro territori contro la loro volontà, li violentate, ma non li incivilite".
Questa, Signori, la tesi; non esito però ad affermare che queste considerazioni non rientrano nell'ambito della
politica, né in quello della storia; si tratta di metafisica politica...
Voce a sinistra: "Esattamente".
JULES FERRY: "... e Vi sfido - permettetemi di sfidarVi, Onorevole collega Pelletan, a sostenere fino alla fine la
Vostra tesi; che s’impernia sull'uguaglianza, la libertà, l'indipendenza delle razze inferiori. Voi non la sosterrete fino
alle sue estreme conseguenze, perché, come il Vostro collega e amico, l'onorevole Georges Perin, siete fautore
dell'espansione coloniale, quando essa si effettui mediante i traffici e il commercio".
ON. CAMILLE PELLETAN: "Sì".
JULES FERRY: "[...] chi può dire che, a un dato momento, le popolazioni indigene non abbiano ad assalire le nostre
colonie? Cosa farete allora? Non Vi comporterete diversamente da tutti gli altri popoli civili e non sarete per questo
meno civili; resisterete opponendo la forza alla forza e Vi vedrete costretti a imporre, a quelle popolazioni primitive
ribelli, il Vostro protettorato, per garantire la Vostra sicurezza. Signori, occorre avere il coraggio di parlare a voce
alta e più sinceramente. Bisogna affermare apertamente che le razze superiori hanno effettivamente dei diritti nei
confronti di quelle inferiori... (Rumori da parecchi banchi dell'estrema sinistra)".
ON. JULES MAIGNE: "Come potete osare esprimerVi in tal modo nel Paese in cui furono solennemente proclamati i
diritti dell'uomo?".
ON. DE GUILLOTET: "Quanto afferma l'on. Ferry non è altro che una giustificazione della schiavitù e della tratta dei
negri! ".
JULES FERRY "Se l'on. Maigne ha ragione, se la dichiarazione dei diritti dell'uomo fu redatta anche per i negri
dell'Africa equatoriale, allora in base a quale diritto potrete imporre loro gli scambi e i traffici? Essi non Vi
chiamano... (Interruzioni all'estrema sinistra e a destra. "Benissimo! Benissimo! Benissimo!" da diversi banchi a
sinistra)".
ON. RAOUL DUVAL: "Noi non vogliamo affatto imporli loro; Voi li imponete loro! ".
ON. JULES MAIGNE: "Esiste una bella differenza fra proporre e imporre! ".
ON. GEORGES PERIN: "Non potete tuttavia istituire degli scambi forzati".
JULES FERRY: "Ripeto che compete alle razze superiori un diritto, cui fa riscontro un dovere che loro incombe: quello
di civilizzare le razze inferiori... (Segni di approvazione dagli stessi banchi a sinistra, nuove interruzioni all'estrema
sinistra e a destra)".
"Signori, nell'Europa quale è attualmente costituita, in questa concorrenza di tanti Stati rivali che vediamo
ingrandirsi intorno a noi, gli uni grazie al perfezionamento dei mezzi militari o marittimi di cui dispongono, gli altri
per il prodigioso sviluppo di una popolazione in continuo aumento, in un'Europa, o meglio in un mondo così
costituito, una politica di raccoglimento o di astensione rappresenta semplicemente la strada maestra della
decadenza! Le nazioni, al tempo nostro, non sono grandi che per l'attività che svolgono; al giorno d’oggi la loro
grandezza non è dovuta al pacifico splendore delle istituzioni... (Interruzioni all'estrema sinistra e destra)".
ON. PAUL DE CASSAGNAC: "Ce ne ricorderemo: questa non è altro che l'apologia della guerra". [...]
JULES FERRY: "Occorre che il nostro Paese si metta in grado di fare quanto fanno tutti gli altri e, dato che la politica
coloniale è l'elemento propulsore che trascina, attualmente, tutte le potenze europee, bisogna prendere una
decisione; in caso diverso accadrà... oh! non certo a noi che non assisteremo a tali avvenimenti, ma ai nostri figli e
ai nostri nipoti, accadrà ciò che è accaduto ad altre nazioni che hanno avuto una parte di primo piano nella storia
europea tre secoli fa, e che oggi sono discese al terzo o al quarto rango, per quanto grandi e potenti esse siano
state in passato. (Interruzioni).
Cit. in H. Brunschwig, Miti e realtà del colonialismo francese, Cappelli, Bologna 1964, PP. 103-108
conseguenze
Le conseguenze dell'imperialismo sono vaste e complesse quanto l'evento storico che le ha provocate. Esse
riguardano le nazioni che hanno partecipato alla conquista, ma soprattutto i popoli delle aree colonizzate, per i quali
le nuove dinamiche economiche mondiali hanno significato il radicale cambiamento di abitudini e di equilibri che si
erano affermati nel corso dei secoli.
E' difficile valutare se un impatto meno violento e più graduale tra le società industrializzate e le popolazioni non
ancora colonizzate avrebbe evitato gli squilibri politici ed economici che si sono verificati, ma è certo che, nonostante
il processo di decolonizzazione avvenuto dopo la Seconda Guerra Mondiale, il divario tra i paesi "ricchi" e quelli
cosiddetti "sottosviluppati" è molto lontano dall'essere colmato.
Conseguenze sui popoli assoggettati
Le conquiste coloniali sono innanzitutto legate all'uso, a volte anche crudele, della forza contro le popolazioni
indigene. Data l'enorme superiorità tecnologica degli europei, spesso le rivolte e i conflitti militari si sono conclusi
con autentici massacri.
Le guerre, il lavoro obbligato, le carestie e la diffusione di malattie infettive (dovute all'aumento degli spostamenti
umani) portano ad una diminuzione demografica. In regioni dove esistevano piccoli villaggi vengono costruite città
destinate a crescere enormemente e a popolarsi di gruppi eterogenei, frequentemente in lotta tra loro.
Vengono creati nuovi stati secondo linee di spartizione artificiali, spesso in contrasto con le unità etniche ed
economiche locali.
L'introduzione dell'economia di mercato sconvolge l'assetto economico precoloniale con la creazione di nuovi poli
commerciali e di imprese per lo sfruttamento intensivo delle risorse; vengono costruiti porti artificiali e create
infrastrutture; si introducono nuove tecniche agricole e colture prima inesistenti come il cotone nel Congo, il caffè in
Kenya e in Tanganyka, il cacao in Camerun e piantagioni di caucciù in Indocina.
La trasformazione economica mette in moto un processo di sviluppo che mostra anche aspetti positivi rispetto al
sistema basato sull'economia di sussistenza e sull'autoconsumo, ma questo sviluppo è finalizzato agli interessi dei
colonizzatori (e in seguito anche di ristrette elités locali assoggettate al potere straniero), per cui i paesi colonizzati
entrano a far parte del mercato mondiale in una posizione dipendente, passando così dalla povertà al
"sottosviluppo".
L'effetto prodotto dalla conquista sulla cultura e sulle tradizioni locali è altrettanto sconvolgente, ma con differenze
più marcate a seconda delle situazioni: le società più organizzate e con alle spalle una solida tradizione (come quelle
asiatiche) oppongono all'inizio maggiore resistenza alla penetrazione della cultura europea e poi ne assimilano alcuni
elementi; nei casi delle società arcaiche (come quelle della maggior parte dell'Africa) basate sulla comunità del
villaggio o della tribù (dove i concetti di stato, di proprietà terriera e di lavoro salariato sono sconosciuti), le
trasformazioni economiche e la devastazione del territorio portano alla dissoluzione non solo del delicato equilibrio
tra indigeni e ambiente naturale, ma anche dell'assetto sociale (il sistema di relazioni, gli stili di vita, ecc.) e di
quello culturale (riti, costumi, credenze religiose e sistema di valori).
Conseguenze in Europa
La gara imperialista crea una crescente tensione tra le potenze europee e se all'inizio sembra trasferire i conflitti
lontano dall'Europa, in seguito sarà uno dei motivi che porteranno allo scoppio della prima Guerra Mondiale.
Questa competizione economica, politica e militare tra gli stati conduce:
a riforme istituzionali che rafforzano l'autorità dello Stato e del governo (che detiene il potere esecutivo) rispetto agli
organi rappresentativi (cioè il parlamento)
all'ulteriore affermarsi del nazionalismo che rivendica la supremazia di una cultura e di una identità etnica sulle altre,
arrivando in alcuni casi al concetto di superiorità razziale, per cui sono giustificate sia le aggressioni ad altre nazioni
che i soprusi nei confronti delle minoranze etniche (come nel caso degli ebrei e degli armeni).
alla stipulazione di alleanze per creare blocchi militari a scopo precauzionale e all'aumento degli armamenti. Anche
se nel periodo 1870-1914 l'Europa (fatta eccezione per la penisola balcanica) non è teatro di conflitti militari, si
tratta di una situazione che è stata definita di "pace armata".
interpretazioni
Storici, politici ed economisti hanno iniziato già durante l'età dell'imperialismo ad analizzare il fenomeno e le sue
cause. In un certo senso già nel 1848 Marx ed Engels nel Manifesto del partito comunista hanno tracciato le linee di
un'interpretazione economica dell'imperialismo scrivendo: "Il bisogno di sbocchi più estesi spinge la borghesia per
tutto il globo terrestre. Dappertutto essa deve infilarsi, dappertutto insediarsi, dappertutto stringere legami. I prezzi
delle sue merci sono l'artiglieria pesante con cui essa abbatte tutte le muraglie cinesi e con cui costringe a capitolare
il più testardo odio dei barbari per lo straniero".
L'importanza fondamentale delle cause economiche emerge anche nel primo studio approfondito sull'imperialismo,
compiuto dal liberale inglese John Hobson nel 1902. Dietro alle imprese coloniali degli stati egli vede gli interessi
industriali privati tesi alla ricerca di sbocchi per il surplus di merci e di capitali da investire.
John Hobson, "Imperialismo" (1902)
L'imperialismo aggressivo, che costa così caro al contribuente, che è di così scarso valore al produttore e al
commerciante, che è causa di così gravi e incalcolabili pericoli per i cittadini, è invece una fonte di grandi guadagni
per l'investitore che non riesce a trovare in patria impieghi profittevoli per il suo capitale e insiste che il governo lo
aiuti per poter fare investimenti redditizi e sicuri all'estero. E se ora, avendo in mente le enormi spese per gli
armamenti, le guerre rovinose, l'impudenza o la frode diplomatica con cui i governi moderni cercano di estendere il
loro potere territoriale, poniamo la semplice e pratica domanda: cui bono? [a chi giova?], la prima e più ovvia
risposta è: l'investitore. [...] Gli investitori, che hanno collocato il loro denaro in terre straniere a condizioni che
tengono pieno conto dei rischi connessi con la situazione politica del Paese in cui investono, desiderano però usare le
risorse del nostro governo per minimizzare questi rischi e aumentare così il valore del capitale e gli interessi sui loro
investimenti privati. Non solo, la classe degli investitori e degli speculatori in generale desidera anche che la Gran
Bretagna prenda altre terre straniere sotto la sua bandiera in modo da assicurarsi nuove aree per investimenti e
speculazioni profittevoli.
Se è probabile che gli interessi particolari dell'investitore si scontrino con l'interesse pubblico e portino a una politica
rovinosa, ancor più pericolosi a questo riguardo sono gli interessi particolari del finanziere, cioè di chi compra e
vende i titoli di investimento. […] La ricchezza di queste aziende finanziarie, l'ampiezza delle loro operazioni e la loro
organizzazione cosmopolita fa di loro i principali determinanti della politica imperialista. Essi hanno gli interessi
maggiori negli affari economici dell'imperialismo, e hanno anche i mezzi per piegare al loro volere la politica della
nazione.
Se si considera la parte che fattori non-economici come il patriottismo, lo spirito d'avventura, le imprese militari,
l'ambizione politica e la filantropia giocano nell'espansione imperiale, potrebbe sembrare che la nostra tesi di
attribuire ai finanzieri un'influenza politica così grande sia viziata da una visione della storia orientata troppo
strettamente dai fatti economici. Ed è vero che la forza motrice dell’imperialismo non è principalmente finanziaria; la
finanza piuttosto è ciò che guida il motore imperiale, capace di dirigerne le energie e di determinarne il
funzionamento, ma non è il carburante del motore, né è essa che ne sprigiona la forza meccanica. La finanza
manipola le forze patriottiche di politici, soldati filantropi e agenti di commercio: l'entusiasmo per l'espansione che
proviene da queste fonti, per quanto forte e genuino, è anormale e cieco; mentre l'interesse finanziario ha quelle
qualità di concentrazione e di previsione di calcolo che sono necessarie per far funzionare l'imperialismo. Uno
statista ambizioso, un soldato di frontiera, un missionario pieno di zelo, un commerciante intraprendente possono
suggerire o perfino iniziare un passo di espansione imperiale, possono collaborare per istruire l'opinione pubblica
patriottica sull'urgente bisogno di un nuovo avanzamento; ma la decisione finale rimane al potere finanziario.
Questa è la rassegna delle forze economiche che vogliono l’imperialismo: un ampio gruppo di attività economiche e
professionali in cerca di affari vantaggiosi e di occupazioni lucrose tramite l'espansione dell'esercito e della
burocrazia, le spese per le operazioni militari, l'apertura di nuovi tratti di territorio e dei commerci che ciò favorisce,
e tramite la fornitura del nuovo capitale che queste operazioni richiedono; tutte queste forze trovano il loro
principale elemento di guida e di direzione nel potere dell'alta finanza,
Il gioco di queste forze non appare apertamente. Esse sono essenzialmente parassiti del patriottismo e trovano
protezione dietro la sua bandiera. In bocca al loro rappresentanti vi sono nobili frasi, che esprimono il desiderio di
estendere l'area della civiltà, stabilire il buon governo, convertire alla cristianità, estirpare la schiavitù ed elevare le
razze inferiori. Alcuni di questi uomini d'affari che parlano un tale linguaggio possono avere un genuino desiderio,
che tuttavia di solito è assai vago, di ottenere questi scopi; ma essi sono principalmente occupati nei loro affari, e
non ignorano l'utilità di avere dalla loro parte forze disinteressate per far avanzare i loro fini.
da A. Hobson, L'imperialismo, Isedi, Milano 1974, pp.50-55
Successivamente Lenin, politico marxista protagonista della Rivoluzione Sovietica, approfondisce la tesi di Hobson,
mostrando il nesso tra l'imperialismo e la fase raggiunta dal capitalismo verso la fine dell'ottocento. La
concentrazione dei capitali nei grandi monopoli e la fusione del capitale bancario con quello industriale sono i motivi
che spingono verso un'espansione economica senza precedenti. La conquista militare ed il controllo politico dei paesi
assoggettati sono da considerarsi elementi secondari, spesso necessari solo quando si incontrano difficoltà nel
realizzare il predominio economico.
Lenin, "L'imperialismo, fase suprema del capitalismo" (1917)
Il capitalismo divenne imperialismo capitalistico soltanto a un determinato e assai alto grado del suo sviluppo,
allorché alcune qualità fondamentali del capitalismo cominciarono a mutarsi nel loro opposto, quando pienamente si
affermarono e si rivelarono i sintomi del trapasso a un più elevato ordinamento economico e sociale. In questo
processo vi è di fondamentale, nei rapporti economici, la sostituzione dei monopoli capitalistici alla libera
concorrenza. La libera concorrenza è l'elemento essenziale del capitalismo e della produzione mercantile in generale;
il monopolio è il diretto contrapposto della libera concorrenza. Ma fu proprio quest'ultima che cominciò, sotto i nostri
occhi, a trasformarsi in monopolio, creando la grande produzione, eliminando la piccola industria, sostituendo alle
grandi fabbriche altre ancor più grandi, e spingendo tanto oltre la concentrazione della produzione e del capitale, che
da essa sorgeva e sorge il monopolio, cioè i cartelli, i sindacati, i trust, fusi con il capitale di un piccolo gruppo, di
una decina di banche che manovrano miliardi. Nello stesso tempo i monopoli, sorgendo dalla libera concorrenza, non
la eliminano ma coesistono, originando così una serie di aspre e improvvise contraddizioni, di attriti e conflitti. Il
sistema dei monopoli è il passaggio del capitalismo a un ordinamento superiore nell'economia.
Se si volesse dare la definizione più concisa possibile dell'imperialismo, si dovrebbe dire che l'imperialismo è lo
stadio monopolistico del capitalismo. […] Ma tutte le definizioni troppo concise sono bensì comode, come quelle che
compendiano l'essenziale del fenomeno in questione, ma si dimostrano tuttavia insufficienti, quando da esse
debbono dedursi i tratti essenziali del fenomeno da definire. Quindi noi - senza tuttavia dimenticare il valore
convenzionale e relativo di tutte le definizioni, che non possono mai abbracciare i molteplici rapporti, in ogni senso,
del fenomeno in pieno sviluppo - dobbiamo dare una definizione dell'imperialismo, che contenga i suoi cinque
principali contrassegni, e cioè:
1.
la concentrazione della produzione e del capitale, che ha raggiunto un grado talmente alto di sviluppo
da creare i monopoli con funzione decisiva nella vita economica;
2.
la fusione del capitale bancario col capitale industriale e il formarsi, sulla base di questo "capitale
finanziario", di un'oligarchia finanziaria;
3.
la grande importanza acquistata dall'esportazione di capitale in confronto con l'esportazione di merci;
4.
il sorgere di associazioni monopolistiche internazionali di capitalisti, che si ripartiscono il mondo;
5.
la compiuta ripartizione della Terra tra le più grandi potenze capitalistiche.
L'imperialismo è dunque il capitalismo giunto a quella fase di sviluppo, in cui si è formato il dominio dei monopoli e
del capitale finanziario, l'esportazione di capitale ha acquistato grande importanza, è cominciata la ripartizione del
mondo tra i trust internazionali, ed è già compiuta la ripartizione dell'intera superficie terrestre tra i più grandi Paesi
capitalistici.
da Lenin, L'imperialismo fase suprema del capitalismo, Editori Riuniti, Roma 1970, pp. 127-129
queste interpretazioni, che potremmo definire "economiciste", si contrappongono altre letture dell'imperialismo che,
pur non escludendo le implicazioni economiche, danno maggiore importanza ad altri fattori.
E' il caso del saggio di Joseph Schumpeter (di poco successivo a quello di Lenin) che riconduce l'imperialismo
all'istinto di dominio che ha da sempre caratterizzato la storia delle società umane, fin dai tempi più antichi. Dunque
una spinta irrazionale che per molti aspetti è addirittura contraria allo spirito del capitalismo, che cerca invece di
massimizzare i profitti razionalizzando le risorse ed evitando gli sprechi (tra cui le guerre).
Joseph Schumpeter, "Sociologia dell'imperialismo" (1919)
Dalla nostra analisi della documentazione storica risulta:
1) il fatto incontestabile che nella storia del genere umano recitano una parte notevole tendenze "prive di oggetto"
all'espansione violenta, ignara di limiti utilitaristicamente definiti - cioè inclinazioni arazionali e irrazionali, puramente
istintive, alla guerra e alla conquista: per quanto possa sembrare un paradosso, innumerevoli guerre, forse la
maggioranza, sono state scatenate e sostenute senza "ragion sufficiente" - non dal punto di vista morale, ma da
quello di interessi ragionati e razionalmente comprensibili - sacrificando in tal modo le più preziose energie dei
popoli;
2) la spiegazione dì questo bisogno funzionale aggressivo, di questa volontà di guerra; spiegazione che, lungi
dall'essere esaurita dal puro e semplice rinvio a "impulsi" od "istinti", risiede nelle necessità vitali di situazioni che
hanno plasmato popoli e classi, costringendoli, se non volevano estinguersi, a diventar bellicosi; e nel fatto che
disposizioni psichiche e strutture sociali acquisite in tali situazioni in un passato lontano tendono, una volta
consolidatesi, a perpetuarsi e ad essere operanti molto tempo dopo che hanno perduto il loro senso e la loro
funzione di preservazione della vita;
3) l'esistenza di fattori sussidiari che facilitano la sopravvivenza di tali disposizioni e strutture, fattori che si possono.
suddividere in due gruppi: da un lato, l'inclinazione alla guerra viene essenzialmente alimentata e promossa dagli
interessi di, politica interna dei ceti dominanti: dall'altro, cospira a mantenerla viva l'influenza di tutti coloro che si
attendono da una politica bellicista vantaggi individuali sul piano economico o sociale. A questi due gruppi di fattori
si intreccia in generale una grande varietà di elementi non solo di fraseologia politica, ma di motivazione psicologica.
Per quanto diversi nei particolari, tutti gli imperialismi hanno in comune questi tratti generali, che per la sociologia
fanno di essi un unico fenomeno.
L'imperialismo è una forma di atavismo. Esso rientra nel vasto gruppo di quelle sopravvivenze di epoche remote,
che hanno una parte così importante in ogni situazione sociale concreta; di quegli elementi di ogni situazione sociale
concreta che si spiegano con le condizioni di vita non già del presente, ma del passato, e quindi, dal punto di vista
dell’interpretazione economistica della storia, con modi di produzione, non attuali ma trascorsi. E’ un atavismo della
struttura sociale e, insieme, delle abitudini psichiche e individuali di reazione emotiva. Poiché le esigenze vitali che
l'hanno generato si sono per sempre esaurite, anch'esso deve a poco a poco scomparire […]
In tutto il mondo del capitalismo, e fra gli elementi della vita sociale moderna da esso forgiati, si è venuta
determinando un’ostilità di principio alla guerra, all'espansione, alla diplomazia segreta, agli armamenti, e agli
eserciti di mestiere […] ne segue che il capitalismo è per essenza antimperialistico, e che non possiamo dedurne
senz'altra mediazione le tendenze imperialistiche che effettivamente oggi persistono; anzi, possiamo intenderle
soltanto come elementi estranei, introdotti nel suo mondo dall'esterno, poggianti su fattori non-capitalistici della vita
moderna.
da J. Schumpeter, Sociologia dell’imperialismo, Laterza, Bari 1972
Tra gli storici contemporanei è ancora aperto il dibattito sulle cause dell'imperialismo: in alcuni casi si tratta di
precisazioni di tesi già espresse in precedenza, in altri di prospettive nuove che danno maggior importanza a fattori
poco considerati, come le esigenze di politica interna (G. Carocci) o di politica estera (D. Fieldhouse).
La tesi economicista, ad esempio, viene ripresa e modificata da E. Hobsbawm che non ritiene fondamentale la
ricerca di materie prime o di nuovi investimenti di capitali all'estero, ma la necessità di smaltire la sovrapproduzione
europea attraverso l'apertura, anche forzata, di nuovi mercati.
Eric Hobsbwam, "L'età degli imperi" (1987)
La crescente importanza economica di queste aree [extraeuropee] per l'economia mondiale non spiega perché
dovesse esserci, fra le altre cose, una corsa dei principali Stati industriali a ritagliare il globo in colonie e sfere
d'influenza. L'analisi antimperialista dell'imperialismo ha proposto varie ragioni per dimostrare che questa corsa era
inevitabile. La più nota, la spinta del capitale in cerca di investimenti più proficui di quelli realizzabili in patria, e al
sicuro dalla rivalità del capitale straniero, è la meno convincente. Dato che le esportazioni britanniche di capitale
ebbero un'espansione enorme nell'ultimo terzo del secolo, e anzi il reddito di questi investimenti diventò essenziale
per la bilancia dei pagamenti britannica, era abbastanza naturale collegare il "nuovo imperialismo" con le
esportazioni di capitale come fece J. A. Hobson. Ma è impossibile negare che ben poco di questo flusso massiccio
andò nei nuovi Imperi coloniali. […]
Più convincente, come movente generale dell'espansione coloniale, è la ricerca di mercati. Il fatto che questa fosse
spesso delusa è irrilevante. L'idea che la crisi di "sovrapproduzione" della grande depressione potesse essere risolta
con una forte spinta alle esportazioni era diffusa. Gli uomini d'affari, sempre inclini a riempire di potenziali clienti gli
spazi vuoti della mappa del commercio mondiale, guardavano naturalmente a queste aree non sfruttate: una di
quelle che assillava la fantasia dei commercianti era la Cina; l'Africa, il continente sconosciuto, era un'altra. Le
Camere di commercio inglesi, nel clima di depressione dei primi anni 1880, si indignavano al pensiero che i negoziati
diplomatici potessero precludere ai loro membri l'accesso al bacino del Congo, che si credeva offrisse smisurate
prospettive di vendita; tanto più che il suo "sviluppo" era curato da un uomo d'affari con tanto di corona, re
Leopoldo Il del Belgio. (In realtà, il metodo di sfruttamento prediletto da questo sovrano, a base di lavoro forzato,
non era fatto per promuovere un alto livello di acquisti pro capite; anche quando non riduceva addirittura il numero
dei potenziali clienti con la tortura e i massacri.)
Ma il nodo della situazione economica globale era che una serie di economie sviluppate sentivano simultaneamente
lo stesso bisogno di nuovi mercati. Se queste economie erano abbastanza forti, il loro ideale era la "porta aperta" sul
mercato del mondo sottosviluppato; ma, se non lo erano, speravano di ritagliarsi una fetta di territori che in virtù del
diritto di proprietà dessero agli imprenditori nazionali una posizione di monopolio, o almeno un sostanziale
vantaggio. La spartizione delle zone non occupate del Terzo Mondo fu la logica conseguenza; derivata, in un certo
senso, dal protezionismo che dal 1879 aveva guadagnato terreno quasi dappertutto. "Se voi non foste così
ostinatamente protezionisti", disse il premier britannico, nel 1897, all'ambasciatore francese, "non ci vedreste così
smaniosi di annettere territori". In questa misura il "nuovo imperialismo" fu il sottoprodotto di un'economia
internazionale basata sulla rivalità di varie economie industriali concorrenti, intensificata dalle tensioni economiche
degli anni i 880.
[E. Hobsbawm, L'età degli imperi, Laterza, Roma-Bari 1987, pp. 77-78
Per lo storico inglese David Fieldhouse, invece, le interpretazioni tradizionali soffrono di una prospettiva troppo
"eurocentrica", cioè attenta esclusivamente alla situazione degli stati imperialisti e poco a quella delle colonie. Per
capire la specificità dell'imperialismo, cioè la differenza rispetto al colonialismo precedente, bisogna analizzare i
problemi sorti nelle periferie degli imperi, perché sono quei problemi (di natura diversa a seconda dei casi) che
hanno spinto i paesi europei ad intervenire politicamente e militarmente in modo così deciso.
David Fieldhouse, "L'età dell'imperialismo" (1975)
L'influenza europea col tempo venne a concretarsi nell'instaurazione di colonie in quasi tutte le regioni dell'Africa,
dell'Asia e del Pacifico. Perché, però, ciò si verificò, e perché solo in alcune zone e non in altre? Ci sono due modi di
affrontare il problema. Uno è quello di chiedersi se la "supremazia di fatto" finì, col tempo, col dimostrarsi
insoddisfacente per gli europei attivi alla periferia, che richiesero un controllo politico più diretto per difendere i
propri interessi, economici o extraeconomici, L'altro è di vedere invece se le cose alla periferia si deteriorarono in
misura tale da costringere i governi europei ad affrontare crisi incipienti o effettive, quale che fosse l'atteggiamento
che si erano prefissi di assumere. […]
Commercianti che non avevano mai ritenuto prima che le colonie tropicali potessero essere particolarmente
importanti sul piano commerciale potevano così assumere atteggiamenti imperialistici quando i loro mercati africani
o asiatici, esistenti o potenziali, venivano minacciati da ostacoli frapposti dai governi locali o da altri Stati europei. I
capitalisti europei, che guardavano alle possibilità di investimento in tutto il mondo in base a considerazioni non
politiche potevano poi richiedere interventi politici, e perfino l'annessione coloniale, se un governo indigeno non
onorava i prestiti ottenuti da banche europee. Gli imprenditori attivi all'estero potevano anch'essi gradire interventi
imperialistici se non erano altrimenti in grado di ottenere condizioni politiche soddisfacenti per le loro piantagioni,
miniere e così via. Ciò è molto diverso dal dire che i commercianti o i capitalisti volevano le colonie perché
rappresentavano una condizione necessaria per l'espletamento delle loro attività; ma mette in luce come il mondo
degli affari potesse in certe circostanze preferire l'instaurazione di colonie al mero controllo di fatto. Considerazioni
analoghe possono aver influenzato statisti o nazionalisti europei. Anche se dapprima forse non entusiasti per
l'espansione coloniale essi potevano poi ritenere che le mutevoli condizioni alla periferia minacciassero interessi
nazionali, reali o presunti. In breve, e senza valutare ora le ipotesi sulle quali si basano, si possono rivalutare alcuni
elementi nella maggior parte delle spiegazioni "eurocentriche" dell’imperialismo ribaltando i loro presupposti. Si può
spiegare l'imperialismo europeo come una reazione di commercianti, banchieri, uomini di Stato e fanatici nazionalisti
ai mutamenti periferici che resero difficile o addirittura impossibile conservare un controllo solo di fatto di certe aree
negli ultimi decenni dell'Ottocento. […]
E’ evidente che verso il 1880 numerosi problemi periferici, scaturenti tutti da condizioni locali e dissimili, richiesero
contemporaneamente l'intervento o decisioni delle potenze europee interessate. Il fatto importante è che, per la
prima volta nella storia moderna, questi problemi locali erano così diffusi e le potenze europee interessate così
numerose, che collettivamente rappresentarono una crisi generale nei rapporti tra Europa e il mondo meno
sviluppato.
Intorno al 1880 c'era uno squilibrio fondamentale tra l'Europa e la maggior parte delle aree del mondo meno
sviluppato. Mai nessun continente aveva avuto un vantaggio così immenso nei rapporti di forza con gli altri, né
aveva avuto contatti così stretti con loro. 1 due poli non potevano non generare una nuova sintesi. Sarebbe errato
sostenere che questa avrebbe necessariamente dovuto essere l’imposizione di colonie: in realtà una tutela di fatto
basata su trattati rappresentò una soddisfacente alternativa permanente in molte parti del mondo, e venne
sperimentata in varie zone che divennero più tardi dipendenze in senso proprio. Ma ciò richiedeva circostanze
particolarmente favorevoli. Quando queste non esistevano -per esempio quando gli Stati indigeni erano troppo
deboli per assicurare un quadro soddisfacente all'attività europea e quando la rivalità tra Stati europei era eccessiva
l'annessione unilaterale sembrava la soluzione migliore e forse l'unica soddisfacente. […]
Se adottiamo questa interpretazione generale c'è poco da discutere sulla relativa importanza causale dei fattori
"eurocentrici" o "periferici" nel produrre l'espansione coloniale. Anche se gli atteggiamenti europei vennero spesso
influenzati da forze interne, i fatti suggerirono che gli interventi di solito iniziarono piuttosto come reazione a
problemi o occasioni determinatisi alla periferia, che non come il risultato di una deliberata politica imperialistica.
da D. Fieldhouse, L'età dell'imperialismo, Laterza, Bari-Roma 1975, pp 94-95, 539-542
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