“GIORNATA DI CONSAPEVOLEZZA EUROPEA” Roma, 10 dicembre 2013 Tavola rotonda “2014: Verso l’unità politica dell’Europa? Il ruolo della società civile in vista delle elezioni europee e del semestre di presidenza italiana dell’UE”. Intervento di Luciano Monti L’unità politica dell’Europa passa per la soluzione del generation divide e l’avvio di una politica economica e sociale intergenerazionale, con il ruolo centrale dei processi educativi. La recessione, in quanto sistemica, colpisce tutte le sfere della società e, se da un lato ha dimostrato tutti i limiti previsivi dei modelli economici sino ad oggi elaborati, dall’altro ha portato allo scoperto la grande frattura, venutasi a creare in numerosi Paesi, tra coloro che hanno beneficiato dell’incremento della ricchezza, dei consumi e degli standard di sicurezza sociale e coloro che solo oggi si confrontano con il mondo del lavoro e uno Stato senza strumenti economici adeguati a fronteggiare il ciclo recessivo. Una frattura che rischia di lasciare una cicatrice indelebile sulle attuali fasce giovanili e che, se non immediatamente suturata, potrebbe minare la crescita delle generazioni future e dare origine a pericolose tensioni sociali. L’Europa non ha mai conosciuto tassi di disoccupazione giovanile e inoccupazione così elevati e si può a pieno titolo parlare di generation divide. Nei miei primi lavori dedicati alla frattura “intergenerazionale”, che vede opposte le giovani generazioni, senza lavoro o sottoccupate, alle generazioni più mature, che hanno invece beneficiato (e ancora beneficiano) del precedente sviluppo economico, ho sempre utilizzato il termine “divario generazionale” o “generation gap”1. Successivamente, mi sono però convinto che questo non rappresenti con compiutezza la dinamica in atto. Il termine “divario” o “gap”, infatti, esprime un concetto di distanza, di incomunicabilità tra due mondi. Questo sicuramente è un fenomeno rilevabile tra differenti generazioni, ma è anche il frutto di una contrapposizione storica tra culture e forme di pensiero in costante evoluzione, tanto che tale distanza o gap tra padri e figli la si riscontrava anche nell’antichità. Certamente, il rapido sviluppo delle tecnologie e il conseguente cambiamento dei nostri stili di vita hanno messo in luce ancora di più queste diverse attitudini e modi di approcciare il mondo che contraddistinguono i giovani dai più maturi, ma questo non basta a spiegare la profondità e le ragioni dell’attuale disagio. La frattura intergenerazionale, in sostanza, ha una connotazione statica, perché rileva le differenze e i divari in un dato momento, utilizzando indicatori come il coefficiente di Gini e il calcolo delle mediane su indici quali il tasso di disoccupazione, il tasso di inoccupazione e altri. Tutto ciò non basta a spiegare la condizione dei giovani, i quali, non solo sono pregiudicati nell’immediato, ma rischiano di esserlo in via permanente se non addirittura in modo irreversibile. Non sono solo la frattura e la sua profondità a preoccupare, quanto le implicazioni sullo sviluppo di tale generazione e di quelle successive, in forte debito con il Pianeta e con le generazioni che dovranno sostenere (i loro padri) ed educare (i loro figli). Per tale ragione, ho ritenuto che questo stretto percorso possa essere definito “ritardo generazionale” o “generation divide” e in questa accezione voglio farvi riferimento. Tale questione, quindi, deve essere presa in considerazione in un’ottica dinamica, con l’esame dei fattori che hanno generato gli attuali disequilibri e della consistenza delle barriere che possono ostacolare una 1 MONTI L., “Spunti per una politica di solidarietà generazionale”, in Amministrazione in Cammino, Roma, giugno 2013. crescita sostenibile sotto il profilo dell’equità intergenerazionale. Se è vero, infatti, che nel concetto di sostenibilità è insita l’attenzione al benessere e alla qualità della vita delle generazioni future, è anche vero che la concentrazione e la contestualizzazione dei costi per assicurare tale sostenibilità potrebbero condurre, anzi conducono già, a ineguaglianze tra le generazioni che se ne fanno carico e quelle che non li hanno sostenuti, causando così forti disequilibri. Accennando alle origini di quello che voglio dunque definire “ritardo generazionale” o “generation divide” e alla evidente inadeguatezza degli attuali sistemi di rilevazione del fenomeno e dei disequilibri intergenerazionali venutisi a creare (attenzione, non si tratta di inadeguatezza degli strumenti di rilevazione del fenomeno, ma di miopia, più o meno voluta), mi voglio limitare alla realtà europea, in quanto i mercati del Vecchio Continente presentano dinamiche differenti rispetto al resto del mondo, anche perché il modello di Welfare dei Paesi dell’Unione e il processo di integrazione europea costituiscono non solo una opportunità, ma anche un vincolo per una crescita sostenibile sotto il profilo intergenerazionale. Tra i principali pilastri sui quali poggiare l’unità politica dell’Europa, si deve quindi prevedere una politica economica e sociale volta a ridurre il ritardo generazionale e ad evitare che si ricrei per le future generazioni. E’ peraltro evidente come le soluzioni che si possono prospettare potranno essere efficacemente attuate solo in chiave europea e non possono certo essere realizzate da un singolo paese membro. Solo in tale ambito credo sia possibile concepire processi educativi volti ad accompagnare le nuove generazioni all’adattamento alla multiculturalità e all’invecchiamento della popolazione, ai mutamenti climatici e alle politiche energetiche ed ambientali atte a mitigarne gli effetti, alla fiscalità in grado di perequare gli squilibri creatisi tra le diverse generazioni e distribuire gli oneri di sostenibilità su più generazioni. Educazione che in senso più lato mira a ristabilire il senso civico: Stato e Paideia; Europa e democrazia. L’obiettivo a breve è quello di ridurre la frattura intergenerazionale grazie alla ridistribuzione di risorse a favore dei più giovani. L’obiettivo nel lungo periodo, invece, è raggiungere una equità incentrata attorno al paradigma dello sviluppo equo sostenibile, tale da prevenire ulteriori futuri ritardi generazionali. Mi voglio in questa sede concentrare sul secondo tema. La definizione dei pilastri di una politica europea di coesione intergenerazionale presuppone una risposta. I grandi interrogativi circa la giustizia globale e la lettura dinamica dell’equità intergenerazionale conducono a ricercare pilastri che possano reggere anche in uno scenario di lungo periodo, idealmente atemporali. Pilastri che, proprio in considerazione dell’orizzonte temporale con il quale si devono confrontare, richiedono solide fondamenta che prescindano dalle urgenze e dagli orientamenti dettati dalla attuale congiuntura. L’approccio multidimensionale prescelto per la rilevazione della frattura e del ritardo generazionale spinge inoltre a preferire politiche economiche ad ampio raggio e di respiro europeo, che vadano cioè a considerare non solo le dinamiche strettamente economiche, ma anche quelle sociali e di qualità della vita in una visione non esclusivamente antropocentrica. L’agire economico delle attuali generazioni, infatti, dovrebbe tenere in debito conto non solo le esigenze (o diritti) delle generazioni future, ma anche la contestualizzazione dell’agire umano in un mondo fatto di risorse scarse, pesantemente influenzato dall’impronta ecologica lasciata dall’industrializzazione e soggetto a mutamenti inevitabili2 e alle dispersioni entropiche. Una prima direttrice di lavoro e riflessione è quella della costruzione di un pilastro che abbia come suo obiettivo l’educazione all’adattamento, anzi, per essere precisi, l’educazione del cittadino all’adattamento. 2 Per una compiuta riflessione su queste dinamiche vedi FITOUSSI J. P., LAURENT E., La nuova ecologia politica. Economia e sviluppo umano, Feltrinelli, Milano, 2009 (titolo originale: La nouvelle ècologie politique. Economie et développement humain, Seuil, Parigi, 2008). Il tema dell’istruzione e della conoscenza in senso lato non è nuovo all’esperienza europea. L’Unione Europea si affacciava infatti al nuovo millennio con progetti ambiziosi con sullo sfondo il sogno di diventare l’Economia più competitiva e dinamica del mondo. Una economia basata sulla conoscenza. Questo sogno veniva delineato in occasione del Consiglio europeo di Lisbona del 23 e 24 marzo 2000, che stabiliva l’obiettivo strategico per il decennio 2000-2010, nelle conclusioni del quale si affermava che “Le persone sono la principale risorsa dell'Europa e su di esse dovrebbero essere imperniate le politiche dell'Unione. Investire nelle persone e sviluppare uno Stato sociale attivo e dinamico sarà essenziale per la posizione dell'Europa nell'economia della conoscenza nonché per garantire che l'affermarsi di questa nuova economia non aggravi i problemi sociali esistenti rappresentati dalla disoccupazione, dall'esclusione sociale e dalla povertà”. Ora sappiamo che queste risorse sono anche il postulato per una Europa politica. Per ripartire con il piede giusto bisogna dunque fare prima un passo indietro e cercare di mettere bene a fuoco il concetto di educazione del cittadino. Si è dibattuto molto sulla origine naturale della democrazia e sia l’antropologia che la storiografia sembrano concordare nell’escluderIa. La democrazia, l’ordine civico, vanno inculcati nell’uomo con un processo educativo, sia di natura didattica che esemplificativa. Come ben diceva Cornelius Castoriadis, economista dell’OCSE ma anche filosofo e psicoanalista morto nel 1997, nel corso di un incontro con gli studiosi del MAUSS: “Nessuno nasce cittadino. Come lo si diventa? Imparando ad esserlo. Lo si impara, innanzi tutto, osservando la città in cui si trova, e non guardando la televisione come si fa oggi. Ebbene questo fa parte di un regime. Ci vuole quindi un regime educativo, così come ci vuole anche un regime economico. Se un Berlusconi là e un Bouygues (Francis Bouygues fondatore nel 1952 dell’omonimo gruppo attivo in molti settori tra i quali la telefonia mobile, successivamente guidato dal figlio Martin, nds) qui possiedono i mezzi di comunicazione di massa, ci si può chiedere che fine abbia fatto la libertà di informazione, se non si sia terribilmente ridotta. E questa non è messa sotto scacco dalla polizia ma da mezzi infinitamente più efficaci”3. Anche recentemente Salvatore Biasco ha scritto: “La democrazia non è un prodotto spontaneo della convivenza umana e del modo di produrre capitalistico, tanto meno lo è la democrazia economica e sociale. Questa ha progredito e si è radicata nel corpo sociale per l’azione e la presenza di gruppi sociali che l’hanno imposta attraverso il processo istituzionale”4. Il nuovo pilastro dell’educazione deve dunque basarsi su una solida base civica e sulla fiducia nelle istituzioni e da tali basi affrontare le dinamiche dell’adattamento a un clima più caldo, alla perdita di biodiversità, a un mondo densamente popolato e multirazziale e prevalentemente abitato da persone anziane, ma anche sostenere una battaglia sul piano culturale che evidenzi la condanna sociale a situazioni di grande diseguaglianza nei consumi e negli stili di vita. Accenno brevemente ai principali campi sul quali la nuova politica educativa deve concentrare i propri sforzi. Società multirazziale Le stime 5 prevedono che entro il 2050 la popolazione attiva dell’UE diminuirà di circa 68 milioni di unità: considerando che non tutti i potenziali immigrati sono economicamente attivi (si pensi ai minori, a molti congiunti e agli anziani) si dovrebbe prefigurare, per mantenere in equilibrio il tasso di occupazione, cioè il rapporto tra la forza lavoro e gli abitanti, di avere circa 100 milioni di nuovi ingressi da ora al 2050. Tali numeri sono probabilmente irrealizzabili e forse neppure auspicabili, tuttavia se ne può comprendere la rilevanza e quindi l’urgenza che il nuovo pilastro educativo prenda in serio esame anche l’accompagnamento all’inclusione di queste risorse e la qualificazione della loro offerta di lavoro. 3 4 5 CASTORIADIS C., Relativismo e democrazia. Dibattito con il MAUSS, a cura di ESCOBAR E., GONDICAS M., VERNAY P., Elèuthera, 2010 (titolo originale Démocratie et relativisme. Débat avec le MAUSS). BIASCO S., Ripensando il capitalismo, Luiss University Press, Roma, 2013, p. 23. Progetto Europa 2030, Sfide e opportunità, Relazione al Consiglio europeo del gruppo di riflessione sul futuro della UE 2030, maggio 2010. Invecchiamento della popolazione Basta prendere in esame le proiezioni fatte da Eurostat sull’orizzonte del 2030 e del 2050 per rendersi conto della gravità del fenomeno che investe l’Europa. Nel 2050 la popolazione attiva si sarà ridotta di oltre 10 punti percentuali, mentre la fascia più anziana raggiungerà la quota del 30% della popolazione, tanto che le parole della Agenda di Lisbona appaiono velleitarie. Nuova consapevolezza sulla urgenza di una riforma del sistema previdenziale la si ritrova invece nelle conclusioni del Consiglio Europeo del giugno 2010: “Il Consiglio europeo ha messo a punto, in data odierna, la nuova strategia dell'Unione europea per l'occupazione e una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva. La strategia aiuterà l'Europa a riprendersi dalla crisi e a uscirne rafforzata, a livello sia interno sia internazionale, incentivando la competitività, la produttività, il potenziale di crescita, la coesione sociale e la convergenza economica”6. Ottimi propositi ai quali tuttavia non fanno seguito le risorse finanziarie adeguate (meno dell’1% del PIL dei Paesi dell’UE27 per la politica comunitaria 2014-2020 e bilanci dei Paesi membri stretti tra le regole dell’Unione Europea Monetaria7). Il cittadino Nel credo comunitario, tra le competenze chiave del futuro cittadino europeo sono incluse quelle sociali e civiche. Le prime richiederebbero la consapevolezza di ciò che gli individui devono fare per conseguire una salute fisica e mentale ottimali, intese anche quali risorse per se stessi, per la propria famiglia e per l’ambiente sociale immediato di appartenenza e la conoscenza del modo in cui uno stile di vita sano vi può contribuire; le seconde basate sulla conoscenza dei concetti di democrazia, giustizia, uguaglianza, cittadinanza e diritti civili. Quest’ultima comprende la conoscenza delle vicende contemporanee nonché dei principali eventi e tendenze nella storia nazionale, europea e mondiale e anche la conoscenza degli obiettivi, dei valori e delle politiche dei movimenti sociali e politici8. Sempre secondo il dettato comunitario le auspicate abilità in materia di competenza civica riguarderebbero la capacità di impegnarsi in modo efficace con gli altri nella sfera pubblica, nonché di mostrare solidarietà e interesse per risolvere i problemi che riguardano la collettività locale e la comunità allargata. Ciò comporta una riflessione critica e creativa e la partecipazione costruttiva alle attività della collettività o del vicinato, come anche la presa di decisioni a tutti i livelli, da quello locale a quello nazionale ed europeo, in particolare mediante il voto. Le competenze chiave, comprese quelle qui richiamate, sono state sostanzialmente adottate anche dal Ministero per l’Istruzione Italiano9. Si tratta indubbiamente di belle parole da verificare poi sul campo dopo aver compreso quali saranno i mezzi e le risorse destinate a concretizzarle, ma voglio ritornare sulla educazione di base, quella civica, senza la quale questi orientamenti non suoneranno che come degli slogan. Il processo di adattamento, prima ancora che normativo (fissazione di nuove regole) è infatti educativo in senso lato (definizione di contenuti e mezzi che aiutino a comprendere questi mutamenti e a condividerne le regole di base per una migliore convivenza). Non è possibile, infatti, pensare a una politica efficace se la stessa non è sostenuta da un programma educativo che promuova il processo di comprensione delle regole imposte dall’adattamento. Un programma fatto di risorse economiche e risorse umane. 6 7 8 9 CONSIGLIO EUROPEO, Conclusioni, Bruxelles, 17 giugno 2010. Ne è la riprova il rapporto travagliato con il Parlamento Europeo che ha più volte bocciato le proposte della Commissione sul nuovo quadro finanziario. Vedi per esempio: PARLAMENTO EUROPEO, Risoluzione sull'accordo politico relativo al quadro finanziario pluriennale 2014-2020, 2012/2799-(RSP), 2012. COMMISSIONE EUROPEA - DG. Istruzione e cultura, Competenze chiave per l’apprendimento permanente. Un quadro di riferimento europeo, Lussemburgo, Ufficio delle pubblicazioni ufficiali delle Comunità europee, 2007. Si tratta di un allegato della Raccomandazione del Parlamento europeo e del Consiglio del 18 dicembre 2006, relativa a competenze chiave per l’apprendimento permanente, che è stata pubblicata nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea il 30 dicembre 2006/L394. In attuazione della legge 296 del 27 dicembre 2006, è stato adottato il Regolamento recante norme in materia di adempimento dell’obbligo di istruzione del 22 agosto 2007. Beninteso, educazione è conoscenza, non ideologia. Sono evidenti i rischi di una predeterminazione del benessere a livello oggettivo. Rischi analoghi li si possono correre quando si affrontano i programmi educativi, soprattutto nelle fasce più basse della popolazione studentesca. Estranea alle ideologie dunque, la conoscenza va intesa come conoscenza di sé e di quello che ci circonda. Insegnare a un bambino a non buttare la matita sino a quando non si è interamente consumata, a gettare la plastica nel contenitore della plastica, a non gettare nulla per terra è Educazione. Spiegare ai genitori che non è la divisa di una scuola privata che fa l’eccellenza della scuola stessa è Educazione. Spiegare che essere il primo della classe non è un onore ma un onere è Educazione. Sapersi rapportare con un coetaneo che non parla bene la tua lingua e compie gesti “non convenzionali” è Educazione. Poter ricordare ai bambini che se il mondo sta guarendo è grazie non solo alle nuove tecnologie ma anche alla buona volontà dei loro nonni, questa è Educazione. Insegnare ai nonni che i nipoti non sono giocattoli ma i primi destinatari delle loro conoscenze ed esperienze, questa è Educazione. Concentrare la propria competenza nei nuovi settori della mobilità intelligente ed ecocompatibile, nelle frontiere della telemedicina o dei servizi innovativi alla persona (solo per fare qualche esempio) è formazione. Se consideriamo che i due maggiori parametri per stabilire il grado di apprendimento nella scuola sono i test di matematica e di comprensione della lingua, ci rendiamo conto di quanto ci sia da lavorare su questo versante. Accogliendo questo approccio anche lo strumento emergenziale lanciato dall’Unione europea, cioè la Garanzia Giovani (Youth Guarantee) trova una sua giusta collocazione e può realmente svolgere quella funzione di volano che i suoi creatori hanno voluto attribuirle e che l’applicazione in salsa italiana rischia di snaturare. Non voglio dilungarmi sui profili di questo schema, ma sottolineare come lo stesso possa certamente contribuire a costruire il pilastro educativo che deve sorreggere il progetto europeo di solidarietà intergenerazionale. Vi sono però elementi che rischiano di trasformarlo nell’ennesimo spreco. Il primo elemento è che la somma prevista per i biennio rappresenta poco più del tre percento della somma stimata necessaria per fronteggiare il fenomeno della inoccupazione e disoccupazione giovanile e quindi nella migliore ipotesi finirà per essere destinata solo a pochi privilegiati e nella peggiore delle ipotesi (ma anche quella più realistica), a perdersi nei rivoli della formazione professionale che spesso offre prodotti avulsi dalle reali esigenze del mercato del lavoro al netto di pensantissime intermediazioni. Il secondo elemento è che lo strumento della Youth Guarantee non può essere, come ricordato, lo strumento panacea, ma uno strumento di sostegno alla crescita da inquadrare in una politica economica di rilancio ben più articolata. Il rischio altrimenti è che trascorso il periodo “di grazia” del biennio di attuazione (2014-2015), le risorse coinvolte si troveranno a fronteggiare lo stesso problema di oggi, che è quello di una mancanza di posti di lavoro e di reali opportunità di auto impiego in una economia recessiva senza stimoli reali10. Voglio dunque concludere ricordando che se da un lato appare oramai evidente che non è possibile più sostenere una Unione europea meramente economica, per contro, non è democratico accompagnare i cittadini verso una Unione Europea politica condivisa senza una politica economica e sociale che riduca preventivamente i divari. Diseguaglianza e rabbia non portano certo alla democrazia, né in Italia né tantomeno in Europa. 10 In tal senso mi sono già espresso. Vedi MONTI L., “Youth Guarantee, dal Governo troppo poco”, in www.Sbilanciamoci.info, 18 novembre 2013.