il fatto, il commento Legge «Harlem», l’autarchia in cucina D Anna Casella Paltrinieri Docente di Antropologia culturale presso le varie sedi dell’Università Cattolica, ha svolto ricerche e viaggi in diversi Paesi dell’America meridionale. Dal 2009 cura su Popoli una rubrica di etnogastronomia. etta così può anche sembrare una buona mossa. Parliamo della legge «Harlem» (chiamata anche legge anti-kebab) approvata il 14 febbraio dalla Giunta regionale lombarda (poi impugnata dal governo italiano davanti alla Corte costituzionale) e che vorrebbe, con precise norme, impedire il sorgere di quartierighetto nelle nostre città. Giusto. Poi, però, sorge il sospetto. E allora si scopre che la legge pensa di impedire la formazione di ghetti limitando l’apertura dei locali di ristorazione etnici. Vale a dire quei locali che non servono la cotoletta alla milanese o il risotto allo zafferano, ma, magari, involtini primavera o kebab. La ragione? Dipende se si è di destra o di sinistra. Perché nei Comuni italiani (e sono tanti) che hanno già adottato misure anologhe le spiegazioni sono di due tipi e distinguono equamente tra destra e sinistra. Per cui, il rottamatore sindaco di Firenze, il quale pare abbia bloccato la concessione di nuove licenze per fast food, Internet point e negozi etnici, ha in mente il decoro della sua italianissima città (e per questo motivo, vorrebbe anche far sparire i gadget prodotti in Cina), quello di Forte dei Marmi tira in ballo il genius loci per vietare sul lungomare qualsiasi ristorante che non sia «locale». Invece la Giunta lombarda, di centro-destra, pensa piuttosto alla sicurezza dei cittadini e al degrado ambientale, come quella di Bergamo che parla di «difesa dell’ordine pubblico» e lotta al degrado. Siamo di fronte, non c’è dubbio, a una versione popolare e militante dei dottissimi dibattiti sull’identità. Identità che si sente minacciata, a quanto pare, dagli involtini, o dai sushi, per trovare riposo, invece, sulla cassoela o sulla ribollita, o magari sul caciucco alla livornese. Che la cucina sia un confine difficile da attraversare ormai lo si sa da tempo. Un conto è fare incursioni in campo «nemico», magari per provare il kebab su una spiaggia mediorientale, sempre con la riserva mentale di trovarlo inferiore ai propri spaghetti. Da queste incursioni vacanziere, infatti, si può sempre recedere, non mettono in discussione nulla, ci si può anche pentire o, magari, servirsene per dimostrare la propria onestà intellettuale. Ma permettere che nei luoghi-simbolo, come il centro storico, si insedi stabilmente un avamposto culinario, questo appare come una capitolazione, un Decidere che il fast food cinese stona con il Castello Sforzesco comporta il pensare a una comunità finta, un palcoscenico nel quale si recita un’Italia che non c’è più. La legge «Harlem» non salva neppure il senso del ridicolo rinnegare l’atavica «identità». E allora, ecco la ragione di queste singolari restrizioni ed ecco pronte le giustificazioni: per il decoro o per la sicurezza, per il made in Italy o per il degrado. Ci si aspetterebbe dai nostri amministratori più senso storico. La cucina è sempre, e da sempre, meticciata. E non solo perché le materie prime vengono spesso da lontano (come si sarebbero chiamati gli uomini del Nord prima dell’arrivo del mais per la polenta?), ma anche perché le ricette sono tutto un copiare gli uni dagli altri e, infine, perché sempre i commerci sono fioriti perché le comunità dipendevano da prodotti che non trovavano in casa, che fosse il pepe o lo zenzero o la patata. L’autarchia in cucina pare proprio un’invenzione. Il fatto è, però, che l’universo della cucina assorbe tutti i significati: gli odori separano, le ritualità separano, la distinzione tra commestibile e non commestibile separa. Però, decidere che il fast food cinese stona con il profilo del Castello Sforzesco comporta il pensare a una comunità finta, una sorta di palcoscenico nel quale si recita una Italia che non c’è più. La legge «Harlem» non salva neppure il senso del ridicolo. Una ciotola e due bacchette giapponesi.