La donna, personaggio assai trattato e discusso, fin dalla mitologia greca assume una particolare e rilevante importanza nelle opere dei più svariati autori. Quelle di Ennio ed Euripide ne costituiranno un valido esempio, ponendo come fulcro delle vicende narrate una figura femminile, quella di Medea. Secondo il mito tradizionale Medea è figlia di Eete, re della Colchide, ed Idia. Il suo nome deriva dal greco e significa “astuzie, scaltrezze”; al suo personaggio sono inoltre attribuiti poteri magici (si dice, infatti, che fosse nipote di Elio, il sole, e della maga Circe). Diversi autori proposero versioni “alternative” del mito sorto intorno alla figura di Medea. Tra queste la più celebre è sicuramente la tragedia di Euripide (intitolata appunto “Medea”), oltre a quelle di Ennio, Ovidio, Seneca e Draconzio. Secondo la tradizione, Medea si invaghì di Giasone, giunto in Colchide con gli Argonauti per trovare il Vello d’oro, che in seguito divenne suo sposo. Pur di aiutarlo nella sua ricerca, uccise il fratello e, spargendone le membra dietro di sé per distrarre e tenere occupato suo padre, si imbarcò sulla nave Argo e partì con gli Argonauti verso Corinto. Dopo dieci anni Creonte, re della città, voleva dare sua figlia Glauce in sposa a Giasone, che non seppe rinunciare alla possibilità di salire al trono, ripudiando la povera Medea. L’incuranza di quello verso la sua disperazione contribuì a inasprire la reazione della donna che, apparentemente rassegnata, inviò alla promessa sposa un mantello avvelenato, provocando la morte di lei e del padre Creonte. Per assicurarsi che Giasone non avesse una discendenza uccise poi i figli avuti dall’uomo e fuggì ad Atene. Qui sposò Egeo, re della città, dal quale ebbe un figlio, Medo, che intendeva porre sul trono di Atene. Finì per essere ripudiata anche da Egeo, che riconobbe Teseo suo figlio, stroncando ogni progetto di gloria che Medea aveva fatto per Medo. Fece ritorno dunque in Colchide, dove si riappacificò con il padre Eete. Il mito di Euripide La tragedia “Medea” di Euripide si distacca ben poco dal mito tradizionale. Il tragediografo, infatti, descrive più minuziosamente architettata ulteriormente da l’astuta Medea, sulle e crudele evitando vicende di vendetta soffermarsi successive che la riguardano. Nella sua opera Medea, frustrata e piena di rancore per il ripudio di Giasone, sfoga il suo dolore con alcune donne corinzie e Creonte, sospettando una sua probabile vendetta, decide di allontanare lei e i suoi figli da Corinto. Ella tuttavia riesce abilmente a ottenere un ultimo giorno in città e invia in dono alla principessa Glauce una veste e una ghirlanda avvelenate, determinando la sua morte e quella del padre Creonte, accorso per aiutarla. Giasone tenta invano di salvare almeno la sua discendenza ma trova Medea che, sul carro del Sole, gli mostra i cadaveri dei suoi figli, che ella stessa, pur dolorosamente, ha ucciso. La donna, infine, vola via trionfante verso Atene sul carro divino, lasciando Giasone a maledirla, straziato dal dolore. La figura di Medea Nella versione di Medea proposta da Euripide emerge con maggior evidenza il conflitto interiore che distrugge la donna. Ella è infatti continuamente combattuta fra la razionalità e l’istinto, che quasi sempre finisce per prevalere. Giasone, infatti, in “Medea” la definisce “leonessa”, alludendo al suo animo feroce e spietato, tale da indurla ad uccidere i suoi stessi figli, sebbene pare che avesse avuto qualche ripensamento prima di giungere al tragico gesto. La figura di Medea è ,dunque, alquanto complessa e ricca di sfaccettature che rendono assolutamente difficile riuscire a comprenderne la personalità. Ella è una donna forte perché determinata a non accettare rifiuti, né a subire passivamente delusioni e sofferenze; tuttavia non è affatto indifferente o noncurante di aver procurato la morte dei suoi figli ma, sebbene se ne addolori, la sua indole vendicativa vince persino sull’amore materno. Pare inoltre che il motivo della sua violenta reazione non sia tanto il dolore di essere abbandonata dal marito ma il fatto di essere ridicolizzata dal suo matrimonio con Glauce; ella preferisce, infatti, guadagnarsi la fama di spietata assassina piuttosto che di amante rifiutata. REA SILVIA Rea Silvia, chiamata anche Ilia nelle opere di Ennio e Nevio, è un'altra importante donna all'interno della mitologia. Di Rea silvia ci sono fornite notizie da alcuni storici dell'antichità: Tito Livio, Ennio e Quinto Fabio Pittore. Ella era figlia di Numitore, re di Albalonga, considerato discendente di Enea. Numitore fu spodestato da suo fratello minore Amulio che, pur di mantenere intatto il suo trono, uccise tutti i figli del fratello e costrinse l'unica figlia, Rea Silvia, a diventare una sacerdotessa della dea Vesta; le vestali, infatti, avevano l'obbligo di castità per trent'anni. La più grande paura di Amulio era la vendetta di una futura prole di quest'ultima. Il dio Marte se ne innamorò perdutamente, seducendola in un bosco, e la rese madre di due gemelli: Romolo e Remo. Secondo la tradizione Rea Silvia fu incarcerata, dopo il parto, da Amulio per essere liberata molti anni dopo. Si dice che la donna meritasse la morte in seguito allo stupro del Dio Marte. Rea Silvia aveva violato il suo voto legato alla condizione di vestale. Secondo alcune fonti è stata salvata dalla figlia del re Amulio, Anto, che sacrificò la propria libertà in cambio di quella della giovane madre. Secondo le più accreditate, invece, si crede che Rea Silvia fu sepolta viva ed altre accennano ad una morte lenta e atroce in carcere oppure molti ritengono che morì annegata. Amulio, dunque, temendo disperatamente una futura vendetta dei gemelli, ordinò ai servi di ucciderli e gettarli nel fiume Tevere ma i servi ne ebbero pietà e il fato volle che la cesta si fermasse a riva dove venne trovata da una candida lupa che allattò i due neonati. Faustolo, un pastore, osservata la scena decise insieme a sua moglie Larenzia di allevare i piccoli gemelli. A questo episodio è possibile comprendere che i popoli antichi, in seguito ad antiche tradizioni, si ritenevano discendenti di importanti divinità; in questo caso Romolo e Remo erano discendenti di Marte, dio della guerra. La fonte storiografica che tramanda questo episodio è Livio il quale ha trattato questo episodio nel primo libro dell'opera Ab urbe condita libri. Egli elenca le fasi principali del racconto mitico connesso alla figura di Rea Silvia. Un altro autore che parla della figura di Rea Silvia è Ennio nel primo libro degli Annales. Rea Silvia, figlia di Enea e della sua sposa latina, racconta alla sorella un sogno profetico che le rivela com'ella sarà sedotta da Marte e alla salvezza che il fiume Tevere apporterà a lei e ai gemelli.