La dottrina sociale della Chiesa
Bartolomeo Sorge S.I.
Nel contesto culturale secolarizzato di oggi prevale una diffusa «indifferenza etica
e religiosa», i cui aspetti più importanti sono «la separazione tra etica e politica e la
convinzione che le questioni etiche non possano aspirare a uno statuto pubblico»,
poiché sarebbero «espressioni di scelte individuali, addirittura private» (MARTINO
R. R., «Compendio della dottrina sociale della Chiesa», in Aggiornamenti Sociali,
12 [2004] 808). Sono comprensibili quindi le difficoltà che possono nascere nei
confronti dei pronunciamenti del Magistero in materia sociale. Dal canto suo, la
Chiesa ritiene suo diritto-dovere annunciare la dottrina sociale come «parte
essenziale del messaggio cristiano» (GIOVANNI PAOLO II, Centesimus annus
[1991],
n.
5).
Assume quindi un rilevante valore, quale strumento di formazione etico-sociale
all’interno della comunità cattolica e di dialogo con il mondo esterno, la recente
pubblicazione del Compendio della dottrina sociale della Chiesa (25 ottobre 2004)
[d’ora in poi CDS], elaborato, su espresso incarico del Santo Padre, dal Pontificio
Consiglio della Giustizia e della Pace. Esso — come afferma il suo Presidente —
«offre un quadro complessivo delle linee fondamentali del corpus dottrinale
dell’insegnamento sociale cattolico» (MARTINO R. R., «Compendio», cit., 805).
Rinviando ad altra occasione l’esame dei contenuti del Compendio, ci proponiamo
qui — nei limiti di un editoriale — di precisare la nozione di dottrina sociale della
Chiesa quale emerge dal documento; e, per meglio coglierne il senso,
richiameremo la evoluzione che questa nozione ha compiuto nei documenti ufficiali
da
Giovanni
XXIII
a
oggi.
1.
La
nozione
di
dottrina
sociale
della
Chiesa
Nell’esporre la nozione di dottrina sociale della Chiesa, il Compendio si rifà ai
documenti del Concilio Vaticano II, alle encicliche sociali, ad alcune istruzioni di
Congregazioni vaticane e al Catechismo della Chiesa Cattolica (1992). Queste
fonti vengono citate indifferentemente, a prescindere dal loro diverso valore
dottrinale, come rileva il Compendio stesso: «le citazioni dei testi del Magistero
sono tratte da documenti di diversa autorità», quindi «il lettore deve essere
consapevole che si tratta di livelli diversi di insegnamento» (CDS, n. 8).
Per chiarire dunque la nozione di «dottrina sociale della Chiesa», il Compendio
inizia col sottolineare che l’espressione risale a Pio XI e «designa il “corpus”
dottrinale riguardante temi di rilevanza sociale», sviluppatosi da Leone XIII in poi
(CDS, n. 87). Quindi puntualizza: «La dottrina sociale non è stata pensata da
principio come un sistema organico, ma si è formata nel corso del tempo,
attraverso i numerosi interventi del Magistero sui temi sociali. Tale genesi rende
comprensibile il fatto che siano potute intervenire alcune oscillazioni circa la
natura, il metodo e la struttura epistemologica della dottrina sociale della Chiesa»
(CDS, n. 72). Per quanto riguarda i soggetti che l’hanno elaborata, il Compendio
spiega che elaborare la dottrina sociale della Chiesa «non è prerogativa di una
componente del corpo ecclesiale, ma della comunità intera […]. Tutta la comunità
ecclesiale — sacerdoti, religiosi, laici — concorre a costituire la dottrina sociale,
secondo la diversità di compiti, carismi e ministeri al suo interno» (CDS, n. 79).
Tuttavia i diversi contributi «sono assunti, interpretati e unificati dal Magistero, che
promulga l’insegnamento sociale come dottrina della Chiesa. Il Magistero compete,
nella Chiesa, a coloro che sono investiti del munus docendi, ossia del ministero di
insegnare nel campo della fede e della morale con l’autorità ricevuta da Cristo. La
dottrina sociale non è solo il frutto del pensiero e dell’opera di persone qualificate,
ma
è
il
pensiero
della
Chiesa»
(ivi).
Con altrettanta forza, il Compendio ribadisce poi che la dottrina sociale è parte
dell’insegnamento morale della Chiesa e perciò «riveste la medesima dignità ed ha
la stessa autorevolezza di tale insegnamento. Essa è Magistero autentico, che
esige l’accettazione e l’adesione dei fedeli»; ma — aggiunge — «il peso dottrinale
dei diversi insegnamenti e l’assenso che richiedono vanno valutati in funzione della
loro natura, del loro grado di indipendenza da elementi contingenti e variabili e
della
frequenza
con
cui
sono
richiamati»
(CDS,
n.
80).
Infine — sottolinea il Compendio — attraverso la dottrina sociale la Chiesa «non
offre soltanto significati, valori e criteri di giudizio, ma anche le norme e le direttive
d’azione che ne derivano». E tuttavia «non persegue fini di strutturazione e
organizzazione della società, ma di sollecitazione, indirizzo e formazione delle
coscienze» (CDS, n. 81). In altre parole: la Chiesa rimane sul proprio piano
specifico, che è di ordine religioso e morale; nondimeno la dottrina sociale,
attingendo alla rivelazione e alla ragione (le sue due fonti principali) e giovandosi
dei contributi conoscitivi da qualunque sapere provengano, ha una dimensione
interdisciplinare. Quindi riflette il triplice livello dell’insegnamento teologico-morale:
«quello fondativo delle motivazioni; quello direttivo delle norme del vivere sociale;
quello deliberativo delle coscienze, chiamate a mediare le norme oggettive e
generali nelle concrete e particolari situazioni sociali» (CDS, n. 73).
Ecco dunque gli aspetti principali della nozione di dottrina sociale, messi in luce dal
Compendio, del quale — precisa il card. Martino — il Pontificio Consiglio della
Giustizia e della Pace «porta la piena responsabilità» (cfr MARTINO R. R.,
«Compendio», cit., 804). Riassumendo: la dottrina sociale della Chiesa è un
corpus dottrinale unico e organico; è parte integrante della teologia morale
cattolica; contiene non solo valori e principi, ma pure direttive d’azione, che i fedeli
laici sono tenuti a seguire, interpretandole e mediandole attraverso la loro
coscienza
in
funzione
della
realtà
concreta
in
cui
operano.
2.
Da
Giovanni
XXIII
a
Giovanni
Paolo
II
A questo punto, per meglio comprendere il significato e la portata della nozione di
dottrina sociale della Chiesa, ci sembra utile richiamare le principali tappe che essa
ha percorso durante l’ultimo quarantennio (da Giovanni XXIII a oggi), in dialogo
con la progressiva maturazione della riflessione teologica e con i problemi che
andavano via via emergendo dall’evoluzione della realtà sociale.
È noto, anzitutto, che i Padri conciliari non vollero usare l’espressione «dottrina
sociale». Tant’è vero che questa si trova una sola volta, quasi per caso, nei
documenti ufficiali (Gaudium et spes, n. 76). Il Concilio preferì piuttosto parlare di
«insegnamento sociale», perché — spiega la nota n. 1 della Gaudium et spes —
«la materia esaminata alla luce dei principi dottrinali non è tutta costituita da
elementi immutabili, ma contiene pure elementi contingenti». Il concetto di
«dottrina», cioè, ha in sé un certo aspetto di fissità e di staticità, che lo rende meno
adatto a esprimere la dinamicità del Magistero sociale e la sua necessaria
evoluzione,
collegata
alla
mutabilità
degli
eventi
sociali.
Lasciando cadere l’espressione «dottrina sociale», i Padri conciliari erano coscienti
di operare una innovazione, se non una rottura, nei confronti della tradizione
precedente, pur nella continuità dell’insegnamento. Infatti, da Leone XIII a Pio XII,
la dottrina sociale era stata presentata come una «terza via», dedotta dai principi
immutabili della rivelazione e del diritto naturale, posta in mezzo tra le due vie
opposte
del
capitalismo
e
del
socialismo.
In pratica, superando questa concezione, il Concilio portava a compimento la
«svolta» iniziata da Giovanni XXIII il quale, pur mantenendo l’espressione «dottrina
sociale», per primo introdusse un metodo nuovo, in qualche modo induttivo, nel
Magistero sociale: «Nel tradurre in termini di concretezza i principi e le direttive
sociali si passa di solito attraverso tre momenti: rilevazione delle situazioni;
valutazione di esse nella luce di quei principi e di quelle direttive; ricerca e
determinazione di quello che si può e si deve fare per tradurre quei principi e
quelle direttive nelle situazioni, secondo modi e gradi che le stesse situazioni
consentono o reclamano. Sono i tre momenti che si sogliono esprimere nei tre
termini: [I] vedere, [II] giudicare, [III] agire» (Mater et magistra [1961], n. 217).
Dunque, secondo Giovanni XXIII, il riferimento alla Parola di Dio e al Magistero
rimane essenziale nell’approccio alle questioni sociali, ma non è più considerato il
punto di partenza da cui dedurre a priori il modello di società; il confronto con i
principi perenni della rivelazione e della ragione viene dopo la rilevazione della
situazione storica, e serve a interpretarla al fine di compiere le scelte operative più
opportune.
Certamente questo metodo è autorevolmente suggerito anche ai fedeli laici,
affinché agiscano «con prudenza»: «La prudenza — commenta il Compendio — si
articola in tre momenti: chiarifica la situazione e la valuta, ispira la decisione e dà
impulso all’azione. Il primo momento è qualificato dalla riflessione e dalla
consultazione per studiare l’argomento richiedendo i necessari pareri; il secondo è
il momento valutativo dell’analisi e del giudizio sulla realtà alla luce del progetto di
Dio; il terzo momento, quello della decisione, si basa sulle precedenti fasi, che
rendono possibile il discernimento tra le azioni da compiere» (CDS, n. 547).
Questo stesso metodo è usato pure dal Magistero successivo, come appare
visibilmente dalla impostazione dei documenti sociali che hanno fatto seguito alla
svolta iniziata da Giovanni XXIII con la Mater et magistra (1961) e con la Pacem in
terris (1963), dove per la prima volta si parla esplicitamente dei «segni dei tempi».
Dopo la costituzione pastorale Gaudium et spes del Concilio Vaticano II, anche
Paolo VI fece sua questa svolta metodologica: «Spetta alle comunità cristiane:
analizzare obiettivamente la situazione del loro Paese [I. vedere: ndr], chiarirla alla
luce delle parole immutabili del Vangelo, attingere principi di riflessione, criteri di
giudizio e direttive di azione nell’insegnamento sociale della Chiesa [II. giudicare:
ndr] […]; individuare — con l’assistenza dello Spirito Santo, in comunione coi
vescovi responsabili, e in dialogo con gli altri fratelli cristiani e con tutti gli uomini di
buona volontà — le scelte e gli impegni che conviene prendere per operare le
trasformazioni sociali, politiche ed economiche [III. agire: ndr]» (Octogesima
adveniens
[1971],
n.
4).
E affinché non vi fossero dubbi, Paolo VI premise di suo pugno allo stesso
paragrafo n. 4 una affermazione teologicamente impegnativa: «Di fronte a
situazioni tanto diverse, Ci è difficile pronunciare una parola unica e proporre una
soluzione di valore universale. Del resto non è questa la nostra ambizione e
neppure la nostra missione». Principio che ritorna implicitamente al paragrafo n.
50: «Nelle situazioni concrete e tenendo conto delle solidarietà vissute da
ciascuno, bisogna riconoscere una legittima varietà di opzioni possibili. Una
medesima fede cristiana può condurre a impegni diversi». Certamente non è il
medesimo linguaggio dei documenti del Magistero sociale preconciliare.
Giovanni Paolo II adopera nuovamente la formula «dottrina sociale». Anzi,
nell’enciclica Laborem exercens (1981), il Papa torna a usare anche il metodo
deduttivo. Ciononostante, nella enciclica successiva Sollicitudo rei socialis [1987],
affrontando esplicitamente il tema della dottrina sociale, al n. 41 ne dà una nozione
perfettamente in linea con la svolta iniziata da Giovanni XXIII e proseguita con il
Concilio e con Paolo VI. Infatti, anche Giovanni Paolo II ribadisce che «la dottrina
sociale della Chiesa non è una “terza via” tra capitalismo liberista e collettivismo
marxista, e neppure una possibile alternativa per altre soluzioni meno radicalmente
contrapposte: essa costituisce una categoria a sé». Quindi spiega che essa è, in
primo luogo, «l’accurata formulazione dei risultati di un’attenta riflessione sulle
complesse realtà dell’esistenza dell’uomo, nella società e nel contesto
internazionale, alla luce della fede e della tradizione ecclesiale» [I. vedere]. In
secondo luogo, «suo scopo principale è di interpretare tali realtà, esaminandone la
conformità o difformità con le linee dell’insegnamento del Vangelo sull’uomo e sulla
sua vocazione terrena e insieme trascendente» [II. giudicare]. Infine, questa lettura
della situazione storica alla luce del Vangelo e del Magistero deve portare a
«orientare il comportamento» [III. agire]. Proprio per questo — conclude Giovanni
Paolo II —, si deve ritenere che la dottrina sociale della Chiesa «appartiene […]
non al campo dell’ideologia, ma a quello della teologia e specialmente della
teologia
morale».
Solo se si tengono presenti le diverse fasi di questa evoluzione, è possibile capire
che oggi la dottrina sociale della Chiesa, pur presentata ancora come un corpus di
insegnamenti organicamente strutturato, non è più quella tendenzialmente
ideologica dei documenti del Magistero anteriori a Giovanni XXIII e al Concilio.
3.
La
dottrina
sociale,
parte
della
teologia
morale
Certo, di fronte al dilagare del relativismo etico, è ancora più urgente che la Chiesa
ribadisca profeticamente i principi e valori fondamentali, derivati dalla rivelazione e
dalla ragione, a cui ispirare le scelte sociali, giuridiche, economiche e politiche. E il
Compendio lo mette chiaramente in luce. Non basta, però, riaffermarli in via
teorica; occorre poi trovare la strada per mediare culturalmente quei valori, renderli
per quanto possibile comprensibili e accettabili a tutti, contrastandone
interpretazioni
riduttive
o
distorte.
Come
fare?
L’unica strada è la valorizzazione della «laicità». Pertanto, se è giusta la
preoccupazione di escludere «la prospettiva di una laicità intesa come autonomia
dalla legge morale» (CDS, n. 571), è però doveroso ribadire che la laicità (che il
Concilio fonda sulla teologia delle realtà terrestri) è da ritenere un valore e una
dimensione intrinseca dell’identità cristiana (cfr Gaudium et spes, n. 36). Il
Compendio ribadisce questo dato conciliare specialmente in riferimento
all’«impegno politico dei cattolici», dove la «laicità» va intesa come «distinzione tra
la sfera politica e quella religiosa»: distinzione che «è un valore acquisito e
riconosciuto
dalla
Chiesa»
(CDS,
n.
571).
Perciò, mentre la Chiesa annuncia profeticamente la sua dottrina sociale, occorre
che — nello stesso tempo — questa venga applicata laicamente alle situazioni
concrete, attraverso il dialogo tra saperi e culture diversi, alla ricerca di un ethos
comune condiviso. Il rapporto inscindibile tra fede e regole etiche di
comportamento non pregiudica per nulla il valore fondamentale della laicità, il fatto
cioè che l’etica appartiene propriamente al piano dell’agire umano razionale, al
quale la fede offre un orizzonte di riferimento, di luce e di senso, attivando la
responsabilità e la libera ricerca razionale e laica dell’uomo. Forse, la difficoltà
maggiore che oggi la Chiesa incontra nel comporre profezia e situazioni storiche
concrete sta proprio in questa necessaria ma difficile opera di mediazione
antropologico-etica.
4.
Il
ruolo
dei
fedeli
laici
A questo punto si apre il discorso sul rapporto tra i fedeli laici e la dottrina sociale:
«Dai sacerdoti i laici si aspettino luce e forza spirituale — dice la Gaudium et spes,
n. 43 —. Non si aspettino, però, che i loro pastori siano sempre esperti a tal punto
che a ogni nuovo problema che sorge, anche a quelli gravi, possano avere pronta
una soluzione concreta o che proprio a questo li chiami la loro missione: assumano
invece essi, piuttosto, la propria responsabilità, alla luce della sapienza cristiana e
prestando
rispettosa
attenzione
alla
dottrina
del
Magistero».
I laici, cioè, non sono esecutori passivi delle direttive della Gerarchia in campo
sociale, ma spetta a essi mediarle coerentemente nelle scelte che devono fare
insieme con gli altri cittadini, nel rispetto delle regole democratiche e della laicità.
Senza pretendere di tradurre i principi etici assoluti immediatamente in scelte
politiche, «il fedele laico è chiamato a individuare, nelle concrete situazioni
politiche, i passi realisticamente possibili per dare attuazione ai principi e ai valori
morali
propri
della
vita
sociale»
(CDS,
n.
568).
In conclusione: l’assimilazione della dottrina sociale deve «far maturare personalità
credenti autentiche» e ispirarle a «essere testimoni credibili, capaci di modificare i
meccanismi della società attuale col pensiero e con l’azione» (MARTINO R. R.,
«Compendio», cit., 810). La stessa nozione di «testimonianza» dei laici viene così
ad acquisire una dimensione sociale: «La testimonianza personale, frutto di una
vita cristiana “adulta”, profonda e matura, non può non cimentarsi anche con la
costruzione di una nuova civiltà, in dialogo con le discipline del sapere umano, in
dialogo con le altre religioni e con tutti gli uomini di buona volontà per la
realizzazione di un umanesimo integrale e solidale» (ivi), perché venga la «civiltà
dell’amore».