La dottrina sociale della Chiesa

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AS 01 [2005] 5-10
Editoriale
Bartolomeo Sorge S.I. *
La dottrina sociale
della Chiesa
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N
el contesto culturale secolarizzato di oggi
prevale una diffusa «indifferenza etica e
religiosa», i cui aspetti più importanti sono
«la separazione tra etica e politica e la convinzione che le questioni etiche non
possano aspirare a uno statuto pubblico», poiché sarebbero «espressioni di
scelte individuali, addirittura private» (MARTINO R. R., «Compendio della dottrina sociale della Chiesa», in Aggiornamenti Sociali, 12 [2004] 808). Sono
comprensibili quindi le difficoltà che possono nascere nei confronti dei pronunciamenti del Magistero in materia sociale. Dal canto suo, la Chiesa ritiene
suo diritto-dovere annunciare la dottrina sociale come «parte essenziale del
messaggio cristiano» (GIOVANNI PAOLO II, Centesimus annus [1991], n. 5).
Assume quindi un rilevante valore, quale strumento di formazione
etico-sociale all’interno della comunità cattolica e di dialogo con il mondo
esterno, la recente pubblicazione del Compendio della dottrina sociale
della Chiesa (25 ottobre 2004) [d’ora in poi CDS], elaborato, su espresso
incarico del Santo Padre, dal Pontificio Consiglio della Giustizia e della
Pace. Esso — come afferma il suo Presidente — «offre un quadro complessivo delle linee fondamentali del corpus dottrinale dell’insegnamento sociale
cattolico» (MARTINO R. R., «Compendio», cit., 805). Rinviando ad altra occasione l’esame dei contenuti del Compendio, ci proponiamo qui — nei limiti di
un editoriale — di precisare la nozione di dottrina sociale della Chiesa quale
emerge dal documento; e, per meglio coglierne il senso, richiameremo la evoluzione che questa nozione ha compiuto nei documenti ufficiali da Giovanni
XXIII a oggi.
1. La nozione di dottrina sociale della Chiesa
Nell’esporre la nozione di dottrina sociale della Chiesa, il Compendio si
rifà ai documenti del Concilio Vaticano II, alle encicliche sociali, ad alcune
* Direttore di «Aggiornamenti Sociali».
© FCSF - Aggiornamenti Sociali
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istruzioni di Congregazioni vaticane e al Catechismo della Chiesa Cattolica
(1992). Queste fonti vengono citate indifferentemente, a prescindere dal loro
diverso valore dottrinale, come rileva il Compendio stesso: «le citazioni dei
testi del Magistero sono tratte da documenti di diversa autorità», quindi «il lettore deve essere consapevole che si tratta di livelli diversi di insegnamento»
(CDS, n. 8).
Per chiarire dunque la nozione di «dottrina sociale della Chiesa», il Compendio inizia col sottolineare che l’espressione risale a Pio XI e «designa il
“corpus” dottrinale riguardante temi di rilevanza sociale», sviluppatosi da
Leone XIII in poi (CDS, n. 87). Quindi puntualizza: «La dottrina sociale non è
stata pensata da principio come un sistema organico, ma si è formata nel corso
del tempo, attraverso i numerosi interventi del Magistero sui temi sociali. Tale
genesi rende comprensibile il fatto che siano potute intervenire alcune oscillazioni circa la natura, il metodo e la struttura epistemologica della dottrina
sociale della Chiesa» (CDS, n. 72). Per quanto riguarda i soggetti che l’hanno
elaborata, il Compendio spiega che elaborare la dottrina sociale della Chiesa
«non è prerogativa di una componente del corpo ecclesiale, ma della comunità
intera […]. Tutta la comunità ecclesiale — sacerdoti, religiosi, laici — concorre a costituire la dottrina sociale, secondo la diversità di compiti, carismi e ministeri al suo interno» (CDS, n. 79). Tuttavia i diversi contributi «sono
assunti, interpretati e unificati dal Magistero, che promulga l’insegnamento
sociale come dottrina della Chiesa. Il Magistero compete, nella Chiesa, a
coloro che sono investiti del munus docendi, ossia del ministero di insegnare
nel campo della fede e della morale con l’autorità ricevuta da Cristo. La dottrina sociale non è solo il frutto del pensiero e dell’opera di persone qualificate, ma è il pensiero della Chiesa» (ivi).
Con altrettanta forza, il Compendio ribadisce poi che la dottrina sociale è
parte dell’insegnamento morale della Chiesa e perciò «riveste la medesima dignità ed ha la stessa autorevolezza di tale insegnamento. Essa è Magistero autentico, che esige l’accettazione e l’adesione dei fedeli»; ma —
aggiunge — «il peso dottrinale dei diversi insegnamenti e l’assenso che
richiedono vanno valutati in funzione della loro natura, del loro grado di indipendenza da elementi contingenti e variabili e della frequenza con cui sono
richiamati» (CDS, n. 80).
Infine — sottolinea il Compendio — attraverso la dottrina sociale la
Chiesa «non offre soltanto significati, valori e criteri di giudizio, ma anche le
norme e le direttive d’azione che ne derivano». E tuttavia «non persegue fini di
strutturazione e organizzazione della società, ma di sollecitazione, indirizzo e
formazione delle coscienze» (CDS, n. 81). In altre parole: la Chiesa rimane sul
proprio piano specifico, che è di ordine religioso e morale; nondimeno la dottrina sociale, attingendo alla rivelazione e alla ragione (le sue due fonti principali) e giovandosi dei contributi conoscitivi da qualunque sapere provengano,
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ha una dimensione interdisciplinare. Quindi riflette il triplice livello dell’insegnamento teologico-morale: «quello fondativo delle motivazioni; quello direttivo delle norme del vivere sociale; quello deliberativo delle coscienze, chiamate a mediare le norme oggettive e generali nelle concrete e particolari situazioni sociali» (CDS, n. 73).
Ecco dunque gli aspetti principali della nozione di dottrina sociale, messi
in luce dal Compendio, del quale — precisa il card. Martino — il Pontificio
Consiglio della Giustizia e della Pace «porta la piena responsabilità» (cfr
MARTINO R. R., «Compendio», cit., 804). Riassumendo: la dottrina sociale
della Chiesa è un corpus dottrinale unico e organico; è parte integrante della
teologia morale cattolica; contiene non solo valori e principi, ma pure direttive
d’azione, che i fedeli laici sono tenuti a seguire, interpretandole e mediandole
attraverso la loro coscienza in funzione della realtà concreta in cui operano.
2. Da Giovanni XXIII a Giovanni Paolo II
A questo punto, per meglio comprendere il significato e la portata della
nozione di dottrina sociale della Chiesa, ci sembra utile richiamare le principali tappe che essa ha percorso durante l’ultimo quarantennio (da Giovanni
XXIII a oggi), in dialogo con la progressiva maturazione della riflessione teologica e con i problemi che andavano via via emergendo dall’evoluzione della
realtà sociale.
È noto, anzitutto, che i Padri conciliari non vollero usare l’espressione
«dottrina sociale». Tant’è vero che questa si trova una sola volta, quasi per caso,
nei documenti ufficiali (Gaudium et spes, n. 76). Il Concilio preferì piuttosto
parlare di «insegnamento sociale», perché — spiega la nota n. 1 della Gaudium et spes — «la materia esaminata alla luce dei principi dottrinali non è
tutta costituita da elementi immutabili, ma contiene pure elementi contingenti».
Il concetto di «dottrina», cioè, ha in sé un certo aspetto di fissità e di staticità,
che lo rende meno adatto a esprimere la dinamicità del Magistero sociale e
la sua necessaria evoluzione, collegata alla mutabilità degli eventi sociali.
Lasciando cadere l’espressione «dottrina sociale», i Padri conciliari erano
coscienti di operare una innovazione, se non una rottura, nei confronti della
tradizione precedente, pur nella continuità dell’insegnamento. Infatti, da
Leone XIII a Pio XII, la dottrina sociale era stata presentata come una «terza
via», dedotta dai principi immutabili della rivelazione e del diritto naturale,
posta in mezzo tra le due vie opposte del capitalismo e del socialismo.
In pratica, superando questa concezione, il Concilio portava a compimento
la «svolta» iniziata da Giovanni XXIII il quale, pur mantenendo l’espressione
«dottrina sociale», per primo introdusse un metodo nuovo, in qualche modo
induttivo, nel Magistero sociale: «Nel tradurre in termini di concretezza i principi e le direttive sociali si passa di solito attraverso tre momenti: rilevazione
delle situazioni; valutazione di esse nella luce di quei principi e di quelle
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direttive; ricerca e determinazione di quello che si può e si deve fare per tradurre quei principi e quelle direttive nelle situazioni, secondo modi e gradi che
le stesse situazioni consentono o reclamano. Sono i tre momenti che si sogliono
esprimere nei tre termini: [I] vedere, [II] giudicare, [III] agire» (Mater et
magistra [1961], n. 217). Dunque, secondo Giovanni XXIII, il riferimento alla
Parola di Dio e al Magistero rimane essenziale nell’approccio alle questioni
sociali, ma non è più considerato il punto di partenza da cui dedurre a priori il
modello di società; il confronto con i principi perenni della rivelazione e della
ragione viene dopo la rilevazione della situazione storica, e serve a interpretarla al fine di compiere le scelte operative più opportune.
Certamente questo metodo è autorevolmente suggerito anche ai fedeli
laici, affinché agiscano «con prudenza»: «La prudenza — commenta il Compendio — si articola in tre momenti: chiarifica la situazione e la valuta, ispira
la decisione e dà impulso all’azione. Il primo momento è qualificato dalla
riflessione e dalla consultazione per studiare l’argomento richiedendo i necessari pareri; il secondo è il momento valutativo dell’analisi e del giudizio sulla
realtà alla luce del progetto di Dio; il terzo momento, quello della decisione, si
basa sulle precedenti fasi, che rendono possibile il discernimento tra le azioni
da compiere» (CDS, n. 547). Questo stesso metodo è usato pure dal Magistero
successivo, come appare visibilmente dalla impostazione dei documenti sociali
che hanno fatto seguito alla svolta iniziata da Giovanni XXIII con la Mater et
magistra (1961) e con la Pacem in terris (1963), dove per la prima volta si
parla esplicitamente dei «segni dei tempi».
Dopo la costituzione pastorale Gaudium et spes del Concilio Vaticano II,
anche Paolo VI fece sua questa svolta metodologica: «Spetta alle comunità
cristiane: analizzare obiettivamente la situazione del loro Paese [I. vedere:
ndr], chiarirla alla luce delle parole immutabili del Vangelo, attingere principi
di riflessione, criteri di giudizio e direttive di azione nell’insegnamento sociale
della Chiesa [II. giudicare: ndr] […]; individuare — con l’assistenza dello Spirito Santo, in comunione coi vescovi responsabili, e in dialogo con gli altri fratelli cristiani e con tutti gli uomini di buona volontà — le scelte e gli impegni
che conviene prendere per operare le trasformazioni sociali, politiche ed economiche [III. agire: ndr]» (Octogesima adveniens [1971], n. 4).
E affinché non vi fossero dubbi, Paolo VI premise di suo pugno allo stesso
paragrafo n. 4 una affermazione teologicamente impegnativa: «Di fronte a situazioni tanto diverse, Ci è difficile pronunciare una parola unica e proporre una
soluzione di valore universale. Del resto non è questa la nostra ambizione e
neppure la nostra missione». Principio che ritorna implicitamente al paragrafo
n. 50: «Nelle situazioni concrete e tenendo conto delle solidarietà vissute da
ciascuno, bisogna riconoscere una legittima varietà di opzioni possibili. Una
medesima fede cristiana può condurre a impegni diversi». Certamente non è il
medesimo linguaggio dei documenti del Magistero sociale preconciliare.
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Giovanni Paolo II adopera nuovamente la formula «dottrina
sociale». Anzi, nell’enciclica Laborem exercens (1981), il Papa torna a usare
anche il metodo deduttivo. Ciononostante, nella enciclica successiva Sollicitudo rei socialis [1987], affrontando esplicitamente il tema della dottrina
sociale, al n. 41 ne dà una nozione perfettamente in linea con la svolta iniziata da Giovanni XXIII e proseguita con il Concilio e con Paolo VI. Infatti,
anche Giovanni Paolo II ribadisce che «la dottrina sociale della Chiesa non è
una “terza via” tra capitalismo liberista e collettivismo marxista, e neppure
una possibile alternativa per altre soluzioni meno radicalmente contrapposte:
essa costituisce una categoria a sé». Quindi spiega che essa è, in primo luogo,
«l’accurata formulazione dei risultati di un’attenta riflessione sulle complesse
realtà dell’esistenza dell’uomo, nella società e nel contesto internazionale, alla
luce della fede e della tradizione ecclesiale» [I. vedere]. In secondo luogo,
«suo scopo principale è di interpretare tali realtà, esaminandone la conformità
o difformità con le linee dell’insegnamento del Vangelo sull’uomo e sulla sua
vocazione terrena e insieme trascendente» [II. giudicare]. Infine, questa lettura
della situazione storica alla luce del Vangelo e del Magistero deve portare a
«orientare il comportamento» [III. agire]. Proprio per questo — conclude Giovanni Paolo II —, si deve ritenere che la dottrina sociale della Chiesa «appartiene […] non al campo dell’ideologia, ma a quello della teologia e specialmente della teologia morale».
Solo se si tengono presenti le diverse fasi di questa evoluzione, è possibile
capire che oggi la dottrina sociale della Chiesa, pur presentata ancora come un
corpus di insegnamenti organicamente strutturato, non è più quella tendenzialmente ideologica dei documenti del Magistero anteriori a Giovanni XXIII e al
Concilio.
3. La dottrina sociale, parte della teologia morale
Certo, di fronte al dilagare del relativismo etico, è ancora più urgente che
la Chiesa ribadisca profeticamente i principi e valori fondamentali, derivati
dalla rivelazione e dalla ragione, a cui ispirare le scelte sociali, giuridiche,
economiche e politiche. E il Compendio lo mette chiaramente in luce. Non
basta, però, riaffermarli in via teorica; occorre poi trovare la strada per mediare
culturalmente quei valori, renderli per quanto possibile comprensibili e accettabili a tutti, contrastandone interpretazioni riduttive o distorte. Come fare?
L’unica strada è la valorizzazione della «laicità». Pertanto, se è giusta la
preoccupazione di escludere «la prospettiva di una laicità intesa come autonomia dalla legge morale» (CDS, n. 571), è però doveroso ribadire che la laicità
(che il Concilio fonda sulla teologia delle realtà terrestri) è da ritenere un
valore e una dimensione intrinseca dell’identità cristiana (cfr Gaudium et spes,
n. 36). Il Compendio ribadisce questo dato conciliare specialmente in riferi-
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mento all’«impegno politico dei cattolici», dove la «laicità» va intesa come
«distinzione tra la sfera politica e quella religiosa»: distinzione che «è un
valore acquisito e riconosciuto dalla Chiesa» (CDS, n. 571).
Perciò, mentre la Chiesa annuncia profeticamente la sua dottrina sociale,
occorre che — nello stesso tempo — questa venga applicata laicamente alle
situazioni concrete, attraverso il dialogo tra saperi e culture diversi, alla
ricerca di un ethos comune condiviso. Il rapporto inscindibile tra fede e
regole etiche di comportamento non pregiudica per nulla il valore fondamentale della laicità, il fatto cioè che l’etica appartiene propriamente al piano dell’agire umano razionale, al quale la fede offre un orizzonte di riferimento, di
luce e di senso, attivando la responsabilità e la libera ricerca razionale e laica
dell’uomo. Forse, la difficoltà maggiore che oggi la Chiesa incontra nel comporre profezia e situazioni storiche concrete sta proprio in questa necessaria
ma difficile opera di mediazione antropologico-etica.
4. Il ruolo dei fedeli laici
A questo punto si apre il discorso sul rapporto tra i fedeli laici e la dottrina sociale: «Dai sacerdoti i laici si aspettino luce e forza spirituale — dice
la Gaudium et spes, n. 43 —. Non si aspettino, però, che i loro pastori siano
sempre esperti a tal punto che a ogni nuovo problema che sorge, anche a quelli
gravi, possano avere pronta una soluzione concreta o che proprio a questo li
chiami la loro missione: assumano invece essi, piuttosto, la propria responsabilità, alla luce della sapienza cristiana e prestando rispettosa attenzione
alla dottrina del Magistero».
I laici, cioè, non sono esecutori passivi delle direttive della Gerarchia in
campo sociale, ma spetta a essi mediarle coerentemente nelle scelte che
devono fare insieme con gli altri cittadini, nel rispetto delle regole democratiche e della laicità. Senza pretendere di tradurre i principi etici assoluti immediatamente in scelte politiche, «il fedele laico è chiamato a individuare, nelle
concrete situazioni politiche, i passi realisticamente possibili per dare attuazione ai principi e ai valori morali propri della vita sociale» (CDS, n. 568).
In conclusione: l’assimilazione della dottrina sociale deve «far maturare
personalità credenti autentiche» e ispirarle a «essere testimoni credibili,
capaci di modificare i meccanismi della società attuale col pensiero e con l’azione» (MARTINO R. R., «Compendio», cit., 810). La stessa nozione di «testimonianza» dei laici viene così ad acquisire una dimensione sociale: «La
testimonianza personale, frutto di una vita cristiana “adulta”, profonda e
matura, non può non cimentarsi anche con la costruzione di una nuova civiltà,
in dialogo con le discipline del sapere umano, in dialogo con le altre religioni
e con tutti gli uomini di buona volontà per la realizzazione di un umanesimo
integrale e solidale» (ivi), perché venga la «civiltà dell’amore».
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