TORRI, La visione orientalistica `classica` dell`India - origini

La visione orientalistica "classica" dell'India:
origini, caratteristiche e persistenza di un'ideologia
eurocentrica (*)
Michelguglielmo Torri
Le origini della visione orientalistica
A partire almeno dalla seconda metà del '700, le realtà diverse da quella occidentale sono state
sussunte sotto un'unica categoria - l'"Oriente" - ed analizzate in base ad un ben definito insieme di
presupposti ideologici e di strumenti scientifici. Queste conoscenze ed i presupposti ideologici e
metodologici che le informano hanno costituito una branca del sapere scientifico nota, in genere,
con il termine di "Orientalismo". L'Orientalismo ha prodotto un numero imponente di opere di
natura scientifica e ha esercitato un'enorme influenza sia sul modo in cui gli occidentali vedevano e tuttora vedono - i non occidentali, sia sul modo in cui i non occidentali interpretano e, di
conseguenza, costruiscono la propria identità ed il proprio passato (1).
L'Orientalismo occidentale è nato in India nella seconda metà del '700, e non per caso, dato che
l'India nord-orientale è stata - appunto nella seconda metà del '700 - il primo vasto territorio del
continente asiatico ad essere conquistato ed amministrato da europei. L'Orientalismo, quindi, ha
storicamente avuto origine come il tentativo di arrivare ad una comprensione non superficiale di
parti sempre più vaste del subcontinente indiano, in modo da poterle amministrare - e sfruttare - in
maniera efficiente ed economica (2). Inizialmente articolato a proposito dell'India, il discorso
orientalista è stato poi gradualmente esteso, con le modifiche del caso, alle altre grandi aree
geopolitiche e culturali che, nel corso dell'800, passarono sotto il dominio diretto o indiretto
dell'Occidente.
Il discorso orientalista, quindi, appare sostanzialmente diviso in due parti: un nucleo valido per
l'"Oriente" in generale ed una parte specifica, applicabile, a seconda dei casi, all'India,
all'"Islam" (3), alla Cina, o a qualsiasi altra "civiltà" o cultura non occidentale. Il nucleo generale
del discorso orientalista parte dalla divisione del mondo in due parti: Occidente e "Oriente" (dove,
sotto l'etichetta "Oriente", vengono raccolte aree geopolitiche e culturali che, fra loro, non hanno in
comune più di quanto ognuna di esse abbia con l'Occidente (4)). Occidente e "Oriente" sono poi
definiti in termini fra di loro antitetici: l'Occidente, come si è già ricordato, è il regno della storia e
della razionalità (o, se vogliamo, dell'emergere della razionalità nella storia); l'"Oriente", invece, è
un'area senza storia, nel senso che è dominato da tradizioni presenti da tempo immemorabile,
tradizioni che poco o nulla hanno a che vedere con la ragione. In altre parole, l'Occidente è il regno
della libertà e non è limitato e coartato nel suo sviluppo da una qualche "essenza" profonda (o, se
vogliamo, l'"essenza" profonda dell'Occidente è appunto rappresentata dalla sua capacità di
cambiare e svilupparsi lungo parametri razionali); viceversa, l'"Oriente" ha un'"essenza" profonda,
rappresentata dal fatto che, al posto della razionalità, esiste la tirannide del costume e l'irrazionalità
della religione.
Naturalmente, più che della divisione del mondo, si tratta della divisione dell'umanità in due parti.
Da un lato vi sono gli "Occidentali" razionali e dinamici, impegnati a modificare il mondo in modo
da ampliarne gli spazi di libertà e di ricchezza, dall'altro vi sono gli "Orientali", irrazionali o quanto
meno a-razionali, stolidamente prigionieri della tradizione, incapaci di ogni dinamismo ma proni ad
occasionali, imprevedibili e, soprattutto, irrazionali scoppi di violenza. Scoppi di violenza che si
verificano in particolare come reazione nei confronti dell'inarrestabile e benefica marcia
civilizzatrice dell'Occidente (5).
Quella appena riportata nei suoi tratti più generali è una visione dicotomica dell'umanità,
perfezionata e completata nel corso dell'800, cioè in un periodo in cui la cultura occidentale stava
impregnandosi in profondità di elementi di carattere razzistico (6). Quindi, e non a caso, quella
orientalistica è una visione intrinsecamente e profondamente razzista, predicata sulla convinzione
dell'irrimediabile non perfezionabilità culturale e umana di quella maggioranza della popolazione
mondiale che non ha la fortuna di essere di razza bianca. Si tratta di una visione che, nell'800 (anche
se non nel '700) e nella prima metà del '900, è stata francamente articolata in termini razziali, cioè
razzistici (7).
Dopo, però, la straordinariamente sanguinaria ed orrendamente devastatrice parabola del nazismo,
cioè di una dottrina quintessenzialmente razzista, qualsiasi ideologia articolata in termini razzisti è
diventata sospetta e ha perso di rispettabilità politica, ideologica e culturale. Da quel momento, il
lato razzista della visione orientalistica è stato abbandonato, o quanto meno nascosto, e vi è stato il
ritorno ad una spiegazione "culturale". In un certo senso si è trattato di un "ritorno alle origini", dato
che, al momento della sua formazione da parte di studiosi inglesi residenti in India, nella seconda
metà del '700, l'Orientalismo era articolato in termini culturali e, più che sulla dicotomia inferiore/
superiore, si basava sull'idea di differenza. Inoltre, ancora all'inizio dell'800, quando l'idea della
superiorità della cultura europea rispetto a quella indiana (e, più in generale, rispetto a quella
"orientale") venne articolata in maniera non ambigua, negli europei che si occupavano di India (sia
come studiosi, sia come governanti, sia come governanti e studiosi) rimase forte l'idea che la
superiorità dell'Occidente sull'"Oriente" fosse un fatto contingente, rimediabile da parte
dell'"Oriente" nel medio termine, grazie a cospicue iniezioni di cultura occidentale e di moralità
cristiana (in particolare protestante). Rispetto ad allora, però, il ritorno alla dimensione culturale del
discorso orientalista presenta una differenza di fondo. Negli ultimi decenni, infatti, è diventato
sempre più influente a livello scientifico, e sempre più diffusa nell'opinione pubblica occidentale,
l'idea che la "cultura" sia qualcosa caratterizzato da un'"essenza" profonda, sostanzialmente
immutabile. Di conseguenza, chi fa parte di una certa cultura non se ne può liberare ma, al limite,
può semplicemente arrivare a realizzare cambiamenti cosmetici che, come tali, sono assolutamente
superficiali, necessariamente temporanei e, in ogni caso, non in grado di cambiare l'essenza
profonda di quella determinata cultura (8).
In sostanza, quindi, come ogni osservatore spassionato può facilmente comprendere, il passaggio
dal concetto di razza a quello di cultura, realizzato al fine di mantenere una gerarchia fra le varie
civiltà e di spiegare l'irrimediabile immutabilità di tale gerarchia, è un'operazione di carattere
mimetico. Così come definire i ciechi "non vedenti" non cambia la sostanza della realtà descritta, la
spiegazione "culturale" dell'Orientalismo, oggi così in voga, non ne cambia la sostanza
discriminatoria e razzista.
La visione orientalistica dell'India: le tre componenti
fondamentali
Quelle fin qui descritte sono le caratteristiche generali dell'Orientalismo. Ma, come si è ricordato,
accanto a questo nucleo fondamentale, ogni diversa branca dell'Orientalismo ha costruito una
precisa visione del suo specifico oggetto di ricerca: l'islàm, l'India, la Cina, il Giappone, e così via.
A questo punto è quindi necessario ricapitolare i tratti essenziali della visione orientalistica
dell'India.
I tratti essenziali di questa visione sono riconducibili all'idea che l'"essenza" della società indiana è
data, storicamente, da tre istituzioni sociali fondamentali: il sistema castale, un'economia di
sussistenza basata su villaggi autosufficienti e, per finire, l'induismo (come religione e come modo
di vita). Si tratta, inoltre, di tre istituzioni fra loro strettamente interconnesse: l'una giustifica e rende
possibile le altre. Fra queste, il prius è rappresentato dal sistema delle caste (9).
Le caste sono gruppi sociali caratterizzati da endogamia e commensalità, disposti secondo un
preciso ordine gerarchico, legato a criteri di purezza e di mancanza di purezza. Il principio
endogamico fa sì che qualsiasi individuo nasca e viva all'interno di una determinata casta che, a sua
volta, ha una precisa collocazione nella scala sociale. L'appartenenza di un individuo ad una
determinata casta non può essere mutata; o, per meglio dire, l'abbandono della propria casta
d'appartenenza (o l'espulsione da essa) comporta il passaggio allo status di fuoricasta, cioè la
posizione più bassa e più discriminata della società indiana. Ciascuna casta ha un proprio dharma: i
suoi membri, cioè, hanno il dovere di seguire una certa attività sociale, tipica appunto di quella
determinata casta. D'altra parte, ciascun individuo nasce in una casta pura o impura, alta o bassa,
come effetto della legge del karma. Secondo tale legge, le anime individuali passano attraverso una
serie potenzialmente infinita di nascite e di morti e la posizione sociale del singolo (cioè la
collocazione castale) in ogni successiva rinascita è determinata dal karma positivo o negativo
accumulato nelle vite precedenti. A sua volta, il karma è positivo o negativo nella misura in cui,
nella vita precedente, si è seguito, correttamente o meno, il proprio dharma (in altre parole, ci si è
attenuti ai doveri sociali imposti dall'appartenenza ad un certo gruppo castale).
In sostanza, quindi, non solo l'ordinamento sociale è immutabile e la collocazione in esso degli
individui prefissata al momento della nascita, ma sia l'ordinamento sociale nel suo complesso, sia il
suo funzionamento, sia il ruolo dei singoli individui hanno precise giustificazioni e sanzioni di
ordine religioso. A sua volta, questo sistema sociale può essere mantenuto con facilità proprio
perché la popolazione è, in misura preponderante, distribuita in villaggi economicamente
autosufficienti. Non solo, quindi, l'unità sociale di base - cioè il villaggio - è sufficientemente
piccola perché la comunità nel suo complesso possa controllare da vicino il comportamento dei
singoli, ma l'infrazione dei costumi castali comporta sanzioni irresistibili. In un contesto dove la
collaborazione socio-economica fra i gruppi castali del villaggio è indispensabile alla sopravvivenza
dei singoli, infatti, la possibilità di sfidare i costumi sociali prevalenti è di fatto nulla: la struttura
sociale, quindi, è in effetti immutabile.
L'insieme sociale risultante dall'interrelazione fra sistema castale, induismo e villaggi
autosufficienti ha, poi, due caratteristiche di fondo. La prima è che si tratta di un organismo
politicamente fragile, data la suddivisione del corpo sociale in caste. Ma, l'altra faccia della stessa
medaglia è che, per quanto fragile a livello politico, tale organismo è sostanzialmente immutabile a
livello socio-economico. L'India, storicamente, è diventata preda di invasori stranieri; monarchie e
imperi si sono succeduti o hanno convissuto in modo convulso, precario e caleidoscopico. Ma si è
trattato di processi di mutamento che hanno coinvolto solo gli strati superficiali della società
indiana. A livello profondo, cioè a livello delle piccole comunità autosufficienti di villaggio - il cui
unico rapporto con il mondo esterno è dato dal pagamento delle imposte richieste dal potere politico
- nulla o pochissimo è mutato da tempo immemorabile. O, quanto meno, quei mutamenti che si
sono verificati hanno incominciato a manifestarsi in seguito all'impatto della dominazione europea
o, addirittura, dopo il raggiungimento dell'indipendenza. Secondo una bella e fuorviante metafora,
la storia indiana, quindi, è simile ad un oceano in tempesta: mentre la superficie (cioè le istituzioni
politiche) sono sconvolte dai venti e dai marosi (le invasioni straniere, il succedersi di regni e di
imperi), le acque a pochi metri sotto la superficie (cioé la società indiana nel suo complesso)
rimangono immote.
Si tratta di una visione che comporta un corollario. Questo è che, se la società indiana è sempre
uguale a se stessa, è possibile fotografarla e, a qualsiasi epoca risalga la fotografia, essa rimane
sostanzialmente identica alla fotografia presa in un'epoca diversa. Di fatto, secondo gli orientalisti,
questa fotografia è rappresentata dai Dharma Shastra, un insieme di raccolte di leggi, poste per
iscritto nel III e nel IV secolo d.C. Ciò che è mirabile - e che rappresenta la controprova della
correttezza della visione orientalistica - è il fatto che, come afferma un illustre antropologo francese,
Louis Dumont, qualora si osservi la realtà dei villaggi indiani di oggi (dove, dopo tutto, vive ancora
la maggioranza assoluta della popolazione indiana), vi è una chiara corrispondenza fra le pratiche
sociali individuate dalla moderna ricerca antropologica e quelle codificate nei testi canonici della
tradizione sanscrita (10). Come spiegheremo qui di seguito, però, a differenza di ciò che pensano
Dumont e coloro che condividono le sue idee, questa corrispondenza non è frutto del permanere
attraverso i secoli di una società immutabile, bensì una delle conseguenze di un insieme di politiche
messe in atto dallo stato coloniale, soprattutto nel periodo fra la fine del '700 e la prima metà
dell'800 (11).
Al di là della visione orientalistica della storia indiana
La visione orientalistica è stata e continua spesso ad essere enormemente influente. Ma, negli ultimi
decenni, la ricerca storica, valendosi anche degli apporti di una serie di altre discipline, in
particolare dell'archeologia, ha demolito o radicalmente messo in discussione tutti gli elementi
fondanti della visione orientalistica (12). Qui di seguito circoscriveremo il nostro discorso all'Asia
Meridionale, ma molto di quanto diremo è riferibile, mutatis mutandis, agli altri "Orienti", in
particolare a quello formato dal mondo islamico (se non altro, per il semplice fatto che mondo
islamico e Asia Meridionale sono due insiemi che, in parte, si sovrappongono).
In primo luogo, l'idea stessa che è alla base della visione orientalistica dell'India, cioè che la società
indiana - almeno fino alla conquista coloniale - sia stata una società immobile, è dimostrabilmente
falsa. Allo stesso modo è dimostrabilmente falsa l'idea che questa società immobile fosse basata su
un sistema di villaggi autosufficienti.
Una serie di fonti - fra cui, per i periodi più antichi, rivestono particolare importanza quelle di tipo
archeologico - ha dimostrato che, storicamente, la civiltà indiana, lungi dall'essere caratterizzata
dalla presenza pressoché esclusiva di villaggi autosufficienti e dalla virtuale assenza di città
(almeno di città che fossero qualcosa di diverso da centri religiosi o sedi di corti), ha visto lo
sviluppo, il declino e la ripresa di fiorenti civiltà urbane.
Con "civiltà urbana" intendiamo società che, pur essendo preindustriali, erano caratterizzate dalla
presenza di un consistente ed esteso tessuto di centri urbani di varia grandezza. Tali centri urbani,
lungi dall'essere esclusivamente luoghi di culto o sedi di corti (cioè, di fatto, accampamenti militari
permanenti), erano centri di varia grandezza, sede di una serie complessa di attività economiche ed
amministrative. Di conseguenza, tali centri urbani erano caratterizzati dalla presenza di
demograficamente consistenti e socialmente importanti strati sociali intermedi, impegnati nella
gestione di tali attività.
A livello economico avevano particolare importanza i commerci. Questi erano non erano solo
commerci locali, ma di media distanza (estesi cioè all'hinterland della città, hinterland che, in certi
casi, comprendeva parti piuttosto estese del subcontinente (13)) e di lunga distanza (cioè estesi al di
fuori del subcontinente, e non solo nel resto dell'Asia). Un'importanza analoga aveva la produzione
di beni destinati ad alimentare tali commerci. Infine vi era la gestione di una serie di pratiche
amministrative, volte non solo a drenare il surplus agricolo prodotto nel settore rurale, ma a
commercializzarlo, trasformandolo in metallo prezioso. Questo metallo prezioso, oltre ad
alimentare il "consumo vistoso" delle classi dirigenti (il cui strato superiore viveva nelle città), era
destinato ad alimentare il commercio di media e di lunga distanza e le attività produttive ad esso
legate.
I commerci di media e di lunga distanza - e la produzione delle merci che andavano ad alimentarli sembrano essere stati trainati dalla necessità di procurarsi due beni "strategici", non disponibili nel
subcontinente. Il primo (cioè quello la cui richiesta risale più indietro nel tempo, essendo ben
visibile già in era antica) è il metallo prezioso. Quest'ultimo era necessario per rendere possibile la
circolazione monetaria (attestata da fonti sia amministrative, sia archeologiche). Il secondo, la cui
richiesta è documentata quanto meno dalla metà del XIII secolo, è rappresentato dai cavalli da
guerra.
L'importazione di metallo prezioso presupponeva una rete complessa di interscambi economici a
livello intercontinentale. Infatti, i metalli preziosi circolanti in India non erano prodotti localmente
ma avevano la loro sorgente in aree geografiche al di fuori dell'Asia. Ad esempio, nell'era antica
l'oro circolante in India proveniva dall'impero romano; nell'era moderna (cioè a partire dal '500),
gran parte dell'argento circolante in India aveva la sua fonte originaria nelle miniere sudamericane).
L'immissione di questi metalli preziosi nel subcontinente presupponeva, ovviamente, un flusso in
senso contrario di merci prodotte in India, da scambiare con tali metalli preziosi.
Sicuramente a partire dal '600, accanto all'argento coniato, vi erano, poi, altri strumenti di scambio,
usati soprattutto per le attività economiche quotidiane. Questi strumenti includevano un particolare
tipo di conchiglia proveniente dalle Maldive, un particolare tipo di mandorla non commestibile
proveniente dalla Persia e, soprattutto, monetine di rame, cioè un metallo importato dal Giappone
(14). Di nuovo, tutto ciò presuppone non solo una fiorente economia monetaria in India e flussi
commerciali che unissero l'India al resto dell'Asia, ma l'esistenza di strati sociali specializzati nella
produzione delle merci scambiate con le conchiglie maldive, le mandorle iraniane ed il rame
nipponico.
Una parte maggioritaria dei beni prodotti in India, destinati non solo al consumo locale ma anche
all'esportazione, consisteva in manufatti tessili di cotone o di cotone misto a seta. La produzione di
questi manufatti presupponeva un'organizzazione complessa. Questa comprendeva almeno tre tipi
di operatori. In primo luogo vi erano i gruppi castali specializzati in una particolare fase della
lavorazione complessiva. Poi vi erano piccoli mercanti-prestatori di denaro che commissionavano e
raccoglievano le merci, in genere pagando in anticipo le merci richieste. Infine vi erano gruppi
ristretti di grandi mercanti e finanziari (che agivano in partnership), che erano coloro che
acquistavano i beni commercializzati dai piccoli mercanti-finanziatori, in certi casi pagando almeno
in parte in anticipo le merci richieste. Quest'ultimo gruppo svolgeva anche il ruolo di
intermediazione nei confronti dei grandi mercanti impegnati nei commerci di lunga distanza.
Ovviamente, in alcuni casi, i grandi intermediari ed i mercanti di lunga distanza erano le stesse
persone. Dato che una parte consistente del commercio di lunga distanza si svolgeva via mare, i
grandi mercanti erano spesso anche armatori (15).
Nel complesso, si trattava di strati sociali presenti sia nelle grandi città, sia - nel caso dei piccoli
mercanti e degli artigiani - soprattutto in piccoli centri urbani o in villaggi. Questi ultimi, però,
erano lungi dall'essere autosufficienti ed isolati; al contrario, non potevano non essere parte di un
sistema economico di grandi dimensioni (tali, in effetti, da estendersi oltre i confini del
subcontinente).
Per quanto riguarda le monte da guerra, queste furono uno degli strumenti fondamentali nel
garantire la rapida conquista della Valle Gangetica da parte dei turco-afghani nel periodo a cavallo
fra il XII ed il XIII secolo e la conseguente creazione del sultanato di Delhi. A partire dal XIII e dal
XIV secolo, anche le monarchie del Deccan e dell'Estremo Sud, ancora indipendenti dal sultanato di
Delhi, si resero conto della necessità di dotarsi di una cavalleria adeguata. Il problema era, però, che
le monte da guerra allevate in India, per ragioni a quanto pare climatiche, erano di razza inferiore.
Era quindi imperativo importare monte adeguate dal Medio Oriente (dove si allevavano i famosi
purosangue arabi). Ma importare cavalli da guerra per equipaggiare gli eserciti di una serie di stati
(alcuni dei quali, come il sultanato di Delhi o l'impero di Vijayanagara, di grandi dimensioni)
comportava l'impegno di un volume di ricchezza veramente considerevole. In ogni caso, era
necessario produrre ed esportare una quantità di merci in grado di controbilanciare l'importazione
delle monte da guerra.
Nelle città, soprattutto in quelle di grandi dimensioni, esistevano strati sociali specializzati nel
finanziare tutte le attività sopra descritte. In certi casi questi strati sociali erano formati da persone
che, in contemporanea, gestivano attività commerciali; in altri casi da operatori che si erano ormai
specializzati in attività finanziare e, per i quali, i rapporti commerciali, se pur venivano ancora
gestiti, rivestivano un ruolo del tutto subordinato.
Al pari della civiltà occidentale, quella indiana non fu sempre caratterizzata dalla presenza di un
fiorente sistema urbano. Alla graduale espansione dell'epoca antica, infatti, fece seguito un processo
di contrazione che incominciò già in era tardo-antica (III secolo d.C.) e culminò nella prima fase del
periodo medievale (VI-X secolo). Con il 1000 o subito dopo, tale processo subì un'inversione che
vide il rifiorire della civiltà urbana nel subcontinente indiano, come, del resto, in Europa ed in altre
parti del Vecchio Continente. Sappiamo, inoltre, che, fin da periodi molto antichi, le varie aree
urbanizzate del mondo civile, in Asia Meridionale ed altrove, erano collegate fra di loro da fiorenti
commerci di lunga distanza.
In effetti, il parallelismo dello sviluppo urbano in Asia Meridionale ed in Europa (ma anche fra
l'Asia Meridionale e altre parti dell'Eurasia) fa pensare all'esistenza di un unico sistema economico
che abbracciava un'area che andava dalla Cina all'Europa Occidentale. Questo sistema, come si è
appena detto, era caratterizzato dall'esistenza di importanti flussi commerciali di lunga distanza e, a
quanto pare, da un processo di scambio di idee filosofico-religiose (16).
Tutto questo significa, fra le altre cose, che ciò che caratterizzò l'economia di una serie di zone
chiave, in Asia Meridionale come altrove, fu la stretta integrazione del settore rurale e di quello
urbano e l'inserimento di entrambi i settori in un circuito commerciale che, come si è detto,
abbracciava larghe parti del continente antico. In questo contesto, non è che villaggi autosufficienti
o quasi non esistessero; essi, però, rappresentavano la parte meno vitale - e, soprattutto, quella meno
importante - del sistema economico. Già di per sé questo pone logicamente in dubbio che il sistema
castale potesse avere la capacità di controllo, teoricamente possibile in centri piccoli ed isolati, le
cui componenti sociali fossero interdipendenti.
È bensì vero che le caste avevano una presenza pervasiva nella società indiana, tanto che esse si
trovavano non solo fra coloro che appartenevano alla tradizione indù, ma anche fra i musulmani e i
cristiani indiani. Ma non è assolutamente vero che la società indiana nella sua realtà storica sia mai
stata organizzata secondo i principî gerarchici indicati nei Dharma Shastra, se non, forse, nel
periodo gupta (IV-V secolo d.C.). La posizione effettiva delle caste, infatti, era legata alla ricchezza
economica ed al potere politico dei loro membri. In altre parole, i brahmani formavano
effettivamente il vertice della società solo in quelle zone ed in quei periodi storici in cui, per ragioni
che poco o nulla avevano a che fare con la "purezza" della loro casta, controllavano la politica e/o
l'economia a livello locale. Le caste stesse, poi, lungi dall'essere fisse e immutabili, continuarono a
modificarsi nel corso della storia, in rapporto all'evoluzione dell'economia e della politica. In altre
parole, il manifestarsi di nuove necessità economiche, politiche o militari portava al parallelo
sorgere di caste prima inesistenti, che, ora, si specializzavano nelle nuove funzioni richieste dalla
società. In parallelo, il venir meno di certe necessità sociali (per esempio, la scomparsa dei
commerci di lunga distanza all'inizio del Medio Evo indiano) poteva comportare il cambio di
funzione di una certa casta (che passava da una professione castale ad un'altra) e, se la nuova
funzione era più umile di quella che era stata in passato, lo spostamento verso il basso della
posizione dell'intera casta nella gerarchia castale (17).
Infine, l'endogamia, che avrebbe dovuto essere il criterio fondamentale, caratterizzante
l'appartenenza castale, non era sempre rispettata. Quando le circostanze richiedevano una crescita
demografica rapida della casta, i matrimoni da parte di un uomo di quella determinata casta con una
donna di una casta diversa erano accettati come perfettamente legittimi ed i rampolli dell'unione in
questione erano considerati come appartenenti alla casta del padre.
A parte questo, vi è un altro elemento che bisogna sottolineare. Questo è che, prima dell'era
coloniale, le caste non svolgevano alcuna funzione organizzativa e di controllo né dal punto di vista
economico, né da quello politico, ma, al più, dal punto di vista sociale (soprattutto in quanto reti di
scambio di partner matrimoniali (18)). Si prenda ad esempio il caso delle due grandi caste guerriere
per eccellenza: i rajput ed i maratha. Anche se, occasionalmente, tutti i rajput o tutti i maratha
unirono le loro forze nel perseguimento di un progetto politico comune, storicamente questi
momenti unitari rappresentano l'eccezione, non la regola. Lo stesso vale per le grandi caste
mercantili. Nonostante il tentativo di certi storici di scoprire organizzazioni che raccogliessero e
organizzassero politicamente ed economicamente i membri delle grandi caste mercantili, sembra
assodato come tali organizzazioni, quando esistevano, avessero un ruolo puramente sociale (19).
Diversa sembra essere la situazione nel caso delle confraternite contadine impegnate nell'opera di
dissodamento di terre vergini. Qui l'interdipendenza delle caste e la capacità di regolamentazione
sociale del sistema castale sembrano essere state alte. Ma si trattava pur sempre di un'area
marginale della società indiana, quella, cioè, che si collocava, geograficamente e socialmente, nelle
aree di frontiera.
Anche la realtà castale, quindi, come quella rappresentata dai villaggi autosufficienti, sembra avere
avuto caratteristiche completamente diverse da quelle imputatele dall'Orientalismo (20). Lo stesso
vale per il terzo degli elementi chiave della visione orientalistica, cioè l'idea che esistesse una
singola e ben determinata religione, chiamata "induismo". La ricerca storica degli ultimi decenni ha
ormai dimostrato che l'induismo non era (e non è) un'unica religione, bensì una tradizione religiosa
o, se vogliamo, un insieme di religioni che condividono una serie di elementi comuni più o meno
importanti (21). Insomma, dire che l'induismo è una religione - come fecero gli Orientalisti e come,
sulla loro scia, fa una corrente di pensiero indiana che ha incominciato a diventare influente a
partire dagli anni '20 del secolo appena concluso - è come affermare che esiste una religione
"abramica", formata dall'ebraismo, dal cristianesimo e dall'islàm. Ebraismo, cristianesimo ed islàm,
infatti, sono tutte religioni monoteistiche che condividono la tradizione profetica del vecchio
testamento. In realtà, quindi, le religioni semitiche hanno, fra di loro, almeno altrettanti elementi
comuni quanto quelli esistenti fra le varie forme di induismo (alcune delle quali, in definitiva, non
sono, a differenza di altre, strettamente monoteistiche; così come alcune delle quali non hanno, a
differenza di altre, una visione gerarchica dell'umanità).
Storicamente, quindi, la tradizione induista è stata percorsa da una serie di correnti, anche
considerevolmente diverse fra di loro. Alcune di queste correnti ipotizzavano l'esistenza di una
società castale gerarchica, in cui le caste più alte (in quanto ritualmente più pure) erano le caste
brahmaniche. Ma altre correnti svalutavano completamente l'importanza della gerarchia castale,
arrivando in certi casi a negare completamente lo stesso ordinamento castale. Quindi, le idee che
oggi ci appaiono come tipiche dell'induismo (cioè la visione dell'umanità come articolata in un
ordine castale gerarchico, sanzionato da criteri religiosi) sono, in realtà, tipiche di un certo tipo di
induismo. Si tratta anche di un certo tipo di induismo che, per le ragioni che indicheremo fra poco,
diventò particolarmente influente in epoca coloniale. Esso faceva riferimento soprattutto ai Dharma
Shastra, cioè - come si è già ricordato - a raccolte di leggi codificate e messe per iscritto
presumibilmente fra il III ed il V secolo d.C. (il periodo coincidente con quello che in Europa aveva
visto l'ultima fase dell'impero romano). Questi codici - che registravano l'ideale brahmanico di
come la società indiana avrebbe dovuto essere organizzata, ma, con ogni probabilità, non l'effettivo
funzionamento di leggi concretamente applicate - descrivevano un sistema sociale rigidamente
organizzato in caste, disposte secondo un preciso ordine gerarchico di natura rituale, santificato e
reso immutabile dai precetti dell'induismo. In altre parole, i Dharma Shastra non solo davano
l'impressione che in India esistesse e fosse sempre esistita una società gerarchica, ma che questa
fosse giustificata da una religione, che, molto tempo dopo, gli europei avrebbero chiamato
"induismo".
Il fatto che l'induismo gerarchico dei brahmani fosse accolto nel periodo coloniale come il "vero"
induismo - e tale, da allora, abbia finito per essere considerato anche dalla maggioranza di coloro
che si riconoscono nella tradizione religiosa indù - non dovrebbe, però, oscurare il fatto che,
storicamente, esso fu tutt'altro che l'unica forma di induismo (e tale, nonostante tutto, rimane la
situazione ancora oggi). Senza soffermarci su un tema assai complicato, vale tuttavia la pena di
ricordare, quanto meno, che, in era medievale, l'induismo fu attraversato da importanti movimenti
mistici che, a livello teorico e nella prassi, svalutarono in maniera radicale l'importanza delle caste
o, addirittura, la legittimità della divisione degli esseri umani secondo regole castali (22). Inoltre,
anche in periodo coloniale, nonostante l'appoggio dato dallo stato alla visione gerarchica
dell'induismo, questo vide il sorgere di importanti movimenti di riforma che negavano ogni validità
alle divisioni castali (23).
Infine, l'enfasi sull'induismo come la religione dell'India - un'enfasi così tipica dell'Orientalismo
(anche se poi accettata da molti indù) - oscura un'altra realtà storica della massima importanza.
Questa è che, in India, con l'induismo hanno convissuto - e tuttora convivono - altre tradizioni
filosofico-religiose che sono tanto indiane quanto l'induismo. Questo vale in particolare (anche se
non esclusivamente) per l'islàm e per il cristianesimo. L'islàm e il cristianesimo, infatti, arrivarono
in India praticamente in contemporanea alla creazione delle due rispettive religioni (24).
In conclusione, quindi, differentemente da quanto argomentato dall'Orientalismo:
• la società indiana non è mai stata una società immobile;
•
il sistema dei villaggi autosufficienti era una parte - e, per lunghi periodi storici, la parte
meno importante - dell'economia indiana;
•
il sistema castale aveva caratteristiche completamente diverse da quelle che gli sono state
attribuite e, in molti casi, sembra essere stato assai meno importante di quanto sostenuto
dall'Orientalismo;
•
l'induismo non è, in primis, una religione unificata, con le caratteristiche attribuitegli
dall'Orientalismo, bensì un fascio di religioni anche considerevolmente diverse; e, per finire,
•
l'induismo, per quanto la tradizione religiosa maggioritaria, è ben lungi dall'essere l'unica
tradizione religiosa presente in India.
Quando si tiene presente tutto quanto è stato fin qui detto, la conclusione a cui non si può fare a
meno di arrivare è che i modelli interpretativi basati sull'Orientalismo hanno un rapporto con la
realtà effettuale decisamente tenue. Un rapporto così tenue, in effetti, che un uso acritico dei
modelli orientalisti, come unico strumento - o anche solo come strumento privilegiato - attraverso il
quale interpretare la realtà indiana non può che essere fuorviante.
La visione orientalistica dell'India: da chi è stata creata e
come
Se, quindi, l'Orientalismo ha un così scarso rapporto con la realtà effettuale, diviene imperativo
chiedersi per quale ragione e come esso venne elaborato, perché divenne così influente e perché,
nonostante tutto, continui a rimanere tale. La visione orientalistica dell'India, mirabile nella sua
armonia, eleganza ed onnicomprensività, venne formulata nella seconda metà del '700 e nel corso
dell'800. I suoi creatori furono essenzialmente funzionari britannici della Compagnia inglese delle
Indie Orientali e missionari europei. Entrambi questi gruppi - divisi in certi periodi da reciproche
tensioni, ma uniti in altri da rapporti di collaborazione - ebbero come fine quello di cercare di
comprendere una realtà immensa, multiforme, rutilante e complessa. Gli amministratori
perseguirono questa conoscenza per poter governare in maniera più efficiente; i missionari, al fine
di portare la luce della Cristianità a popolazioni "barbare e ottenebrate". Gli uni e gli altri, per
realizzare questo loro progetto di comprensione della società indiana, non poterono fare a meno di
ricorrere alla collaborazione di dotti indigeni. Da questo punto di vista, il tipo di collaboratori scelti
da amministratori e missionari fu cruciale nella creazione della visione orientalistica dell'India. Tali
collaboratori, infatti, appartenevano in misura dominante alle caste brahminiche indù e, in
proporzione minore, erano dottori della legge musulmani. Nell'uno e nell'altro caso si trattava di
specialisti nelle scienze religiose "alte", profondi conoscitori dei rispettivi testi canonici (25).
Nell'uno e nell'altro caso, poi, si trattava di persone appartenenti a categorie che non erano state
intimamente legate alle classi dirigenti degli stati precoloniali (occupando, se mai, i gradini
subordinati della burocrazia).
In altre parole, gli intellettuali indiani con cui collaborarono gli amministratori britannici e i
missionari cristiani, soprattutto nel periodo sotteso fra la metà del '700 e la metà dell'800,
rappresentavano solo una parte dell'intellettualità indigena dell'epoca e, senza alcun dubbio, la parte
culturalmente e socialmente più conservatrice. La sezione culturalmente più vivace e socialmente
progressista dell'intellettualità indigena, infatti, era rappresentata soprattutto dai circoli dirigenti
delle corti degli stati successori dell'impero moghul. Si trattava, cioè, di persone appartenenti ad un
ambiente sociale caratterizzato da un clima che oggi si definirebbe multiculturale, i cui membri
appartenevano a religioni diverse, erano di regola poliglotti e, come formazione, erano, in linea di
massima, non teologi o giuristi, ma amministratori e storici. Come tali, essi erano perfettamente
coscienti sia della varietà, dell'indeterminatezza e della porosità delle differenti tradizioni culturali e
costumi sociali che caratterizzavano l'India, sia dei processi di mutamento che ne attraversavano la
società (26).
Per ovvie ragioni, la collaborazione con questo tipo di intellettuali venne evitata sia dagli
amministratori della nuova potenza imperiale - la Compagnia inglese delle Indie Orientali - sia dai
missionari cristiani. Gli uni e gli altri preferirono stabilire un rapporto con quegli intellettuali che
non erano parte delle vecchie classi dirigenti e che vedevano il proprio mondo articolato secondo
criteri religiosi rigidi ed immutabili. Ovviamente, gli amministratori della nuova potenza imperiale
trovarono politicamente più opportuno marginalizzare gli strati sociali che avevano detenuto il
potere nel periodo precoloniale, promuovendone altri, che, per ciò stesso, risultassero legati al
nuovo sistema di potere. D'altro canto, i missionari, per la loro formazione religiosa, trovarono più
facile confrontarsi con altri religiosi, legati ad un'interpretazione "ortodossa" della religione di
appartenenza, piuttosto che con intellettuali che sembravano muoversi con estrema facilità fra
"religioni" che, dal punto di vista dell'alta teologia, erano radicalmente differenti (come appunto
induismo ed islàm). Certamente, il fatto che un indù potesse avere un maestro spirituale
musulmano, o che un musulmano potesse avere un maestro spirituale indù, o che indù e musulmani
venerassero le tombe degli stessi sant'uomini, o che monarchi indù facessero da patroni a istituzioni
religiose musulmane e, viceversa, monarchi musulmani facessero da patroni a istituzioni religiose
indù erano cose profondamente sconcertanti per i buoni missionari cristiani (in genere protestanti)
che operarono in India fra la metà del '700 e la metà dell'800 (cioè il periodo formativo
dell'Orientalismo). Non stupisce più di tanto, quindi, che questi ultimi cercassero un rapporto
intellettuale con seri e dotti teologi - fossero essi musulmani o indù - che, se non altro, avessero le
idee chiare sul fatto che, in questo mondo, vi sono religioni diverse e che ognuna di esse è
rigorosamente separata dalle altre da una serie di dogmi fondanti.
La costruzione di una certa visione dell'India - una costruzione che divenne paradigmatica non solo
per l'Indologia ma per l'Orientalismo nel suo complesso - non fu quindi (solo) l'imposizione da
parte degli Europei di una certa visione dell'India - e dell'"Oriente" - nei confronti delle popolazioni
indigene, ma fu frutto di un rapporto dialogico con certi settori della società indigena (27).
Naturalmente, questi settori della società indigena operarono attivamente per rimodellare la società
indiana secondo le proprie idee, modificando in maniera radicale la realtà effettuale fin lì esistente.
Furono soprattutto i pandit (esperti nei testi canonici sanscriti) ad ottenere un immenso successo,
convincendo amministratori e missionari che la "vera" India, l'India autentica e immutabile, era
quella rappresentata in testi come i Dharma Shastra.
Come il regime coloniale diede sostanza ai fantasmi
dell'Orientalismo
Il successo di questo particolare processo dialogico - che vide impegnati, da un lato, amministratori
e missionari europei e, dall'altro, intellettuali indiani (sia indù, sia musulmani), che erano teologi e,
spesso, anche giuristi - ebbe poi uno sbocco politico di cruciale importanza nell'opera legislativa da
parte della nuova potenza imperiale. Il potere coloniale britannico, infatti, realizzò codici legislativi
che recepivano le direttive fondamentali di leggi religiose, sia indù sia musulmane. Si trattava di
direttive religiose che raramente o mai erano state parte della prassi giuridica degli stati
precoloniali, in particolare nei due secoli e mezzo precedenti la conquista europea (28).
In sostanza, in India, il risultato socialmente più rilevante del processo di modernizzazione
rappresentato dall'introduzione - a partire dalla fine del '700 - di codici legislativi di tipo europeo fu,
quindi, quello di dare l'appoggio della legge a ideologie religiose conservatrici (indù e musulmane)
che, fino a quel momento, non avevano potuto contare, se non raramente, sul sostegno del potere
statale. Una delle conseguenze di questa decisione politica fu la "brahmanizzazione" della società
indiana: i fantasmi ideologici dei teologi, con l'appoggio potente delle leggi coloniali, assunsero una
sempre maggior concretezza. Se il diritto coloniale distribuiva le ricchezze guadagnate dal singolo
secondo il "tradizionale" diritto di famiglia indù (per cui la ricchezza guadagnata dal singolo era in
effetti proprietà della famiglia estesa ed era amministrata dal patriarca che ne era a capo), è chiaro
che l'evoluzione verso la famiglia nucleare non poteva che essere bloccata o rovesciata. Di nuovo,
se il diritto coloniale limitava la possibilità di svolgere certe attività economiche in base
all'appartenenza castale, è chiaro che la casta assumeva un'importanza che prima non aveva mai
avuto (29).
Ma né la creazione di un'ideologia, né l'introduzione di nuove leggi basate su tale ideologia sono di
per sé sufficienti ad imbrigliare lo sviluppo di una società, in particolare in un'area geograficamente
estesa e demograficamente densa come il subcontinente indiano. Il problema fu che, mentre
amministratori e missionari europei, in collaborazione con teologi e giuristi indiani, elaborarono la
visione "orientalistica" dell'India, e mentre quegli stessi amministratori idearono quei codici
legislativi in cui si rispecchiava tale visione dell'India, il concreto funzionamento del sistema
coloniale creò - soprattutto nella prima metà dell'800 - quella stessa realtà sociale che gli orientalisti
andavano descrivendo.
Ancora alla vigilia della conquista coloniale, infatti, la società indiana era politicamente,
economicamente e socialmente dinamica. La disgregazione dell'impero moghul aveva portato
all'emergere di una serie di stati, molti dei quali apparivano più centralizzati - e più efficienti - di
quanto fosse stato l'impero che li aveva preceduti. Questi stati, per quanto in guerra perenne fra di
loro - come, del resto, i contemporanei stati europei - sembravano evolversi - di nuovo come gli
stati europei - verso un sistema di equilibrio politico a livello continentale. Nonostante una crisi
commerciale di grandi proporzioni (che, nel '700, coinvolse tutta la parte occidentale dell'Oceano
Indiano e che non mancò, nella seconda metà del secolo, di influire negativamente sulle stesse
fortune economiche della Compagnia inglese delle Indie Orientali), e nonostante le distruzioni
legate alla guerra nell'alta vallata gangetica, nel XVIII secolo l'economia indiana attraversò, nella
maggior parte del subcontinente, una fase di crescita. Ancora nella seconda metà del '700, i tessuti
di cotone o di cotone misto a seta prodotti in India erano concorrenziali sul mercato mondiale. A
parte questo - e a parte alcune zone geografiche, sfavorite dalle vicende politico-militari - il settore
agricolo continuò a crescere, in genere sia sotto la spinta delle esigenze di consumo degli stati
indigeni, sia sotto quella della domanda internazionale di prodotti quali i tessili e la seta grezza
(quest'ultima prodotta in Bengala) (30). A livello sociale, nonostante la persistenza o il riemergere
di correnti intellettuali che dividevano gli esseri umani in base alla loro appartenenza religiosa, la
cultura egemonica era chiaramente basata sulla convivenza e sulla ricerca degli elementi comuni fra
le varie tradizioni religiose. Il sistema castale, infine, appariva fluido e aperto. Alcune delle caste
più importanti (ad esempio i maratha) si erano formate in tempi relativamente recenti, attraverso il
confluire in un unico gruppo sociale di appartenenti a caste diverse, uniti dal fatto di aver acquisito,
attraverso il mestiere delle armi, rispettabilità sociale e agiatezza economica (l'una e l'altra
esemplificate dalla concessione del godimento di terre esentasse). Inoltre, in particolare le caste più
importanti ricorrevano normalmente alla cooptazione di individui che tecnicamente, secondo le
regole dei Dharma Shastra, avrebbero dovuto essere considerati fuoricasta. In altre parole, come si è
già ricordato, i rampolli di unioni con donne appartenenti a caste diverse e ritualmente inferiori
rispetto a quella del padre, venivano considerati membri a tutti gli effetti della casta di quest'ultimo.
Inoltre - come del resto era stato spesso il caso nella storia indiana fin dai tempi più antichi l'appartenenza ad una determinata casta non preveniva l'ascesa ai pinnacoli del potere politico ed
economico (31).
Tutto ciò cambiò in maniera drammatica nella prima metà dell'800, in coincidenza con l'estensione
dell'egemonia inglese a tutto il subcontinente e con l'aumento di efficienza e di onestà della
macchina statale creata dalla Compagnia inglese delle Indie Orientali. Questo aumento di efficienza
e di onestà, avviato dalle riforme di Lord Cornwallis alla fine del '700, è in genere visto come il
momento in cui si concluse la fase in cui il governo della Compagnia era stato poco più di una
maschera legale per le attività predatorie dei suoi funzionari (che, valendosi del potere politico della
Compagnia, avevano, fino a quel momento, perseguito come loro fine primario il proprio
arricchimento personale).
Questo tipo di analisi ha però sempre trascurato il fatto che il tanto lodato aumento di efficienza e di
onestà avviato dalle riforme di Cornwallis era finalizzato al perseguimento di obiettivi che nulla
avevano a che vedere con il benessere dell'India. La Compagnia delle Indie rimaneva una
gigantesca società per azioni, il cui obiettivo ultimo era quello di pagare dividendi ai suoi azionisti
in Gran Bretagna, non certo quello di aumentare il benessere collettivo dei suoi sudditi indiani.
Direttamente legato a questo obiettivo primario, ve ne erano poi altri due, di uguale importanza:
mantenere alto il livello del proprio apparato militare in India, in modo da proteggere e da
espandere i propri dominî in loco; attuare una politica economica che proteggesse la Compagnia
dalle gelosie di quella parte maggioritaria della borghesia britannica che non aveva la fortuna di far
parte del circolo di azionisti della Compagnia (e che, di conseguenza, era esclusa dal godimento dei
vantaggi derivanti dallo sfruttamento dell'India).
Soprattutto il primo e l'ultimo di questi obiettivi (il pagamento dei dividendi agli azionisti, cioè il
trasferimento di ricchezza dall'India all'Inghilterra, e il perseguimento di politiche economiche che
non entrassero in competizione con gli interessi della borghesia britannica) si tradussero in una
politica di spietato sfruttamento dell'economia indiana. Questa politica comportò, fra l'altro, la
ristrutturazione dei traffici internazionali dell'India e la contrazione della spesa pubblica (una spesa
pubblica che era stata parte integrante degli obblighi dei prìncipi indiani e che, ora, venne
radicalmente ridimensionata al fine di realizzare economie che, a loro volta, permettessero
l'accumulo di ricchezza da trasferire in Inghilterra). Il risultato ultimo di queste politiche - che, nei
loro effetti negativi, furono rafforzate da un'avversa congiuntura internazionale - fu una catastrofica
depressione che portò alla contrazione ed alla dislocazione delle attività artigianali, alla scomparsa
di una serie di attività commerciali di lunga distanza, al venir meno dell'economia monetaria in
ampie zone del subcontinente ed al declino economico di un numero considerevole di città (anche
se quest'ultimo processo fu in parte controbilanciato dalla crescita dei tre centri di irradiazione del
nuovo potere coloniale: Calcutta, Bombay e Madras) (32). In sostanza, quindi, in vaste parti
dell'India - precedentemente caratterizzate da una fiorente economia mercantile - vi fu l'emergere di
un'economia dominata dalla presenza di villaggi con scarsi contatti con il mondo esterno, che, al
loro interno, funzionavano in base all'interscambio - non mediato dal nesso monetario - di attività
lavorative (33). Questa stessa realtà, descritta dagli studiosi dell'epoca coloniale, venne vista non
come il prodotto di una congiuntura recente, in misura dominante determinata dall'azione del
governo coloniale, ma come la manifestazione delle caratteristiche di fondo di una società
ristagnante e senza storia.
La diffusione e la persistenza dell'Orientalismo nel pensiero
occidentale
Si è già accennato al fatto che l'Orientalismo, nel periodo della sua prima elaborazione, cioè nella
seconda metà del '700, era una visione che, più che sul criterio di inferiorità/superiorità, si basava
sul criterio di diversità. L'"Oriente", cioè, era visto come diverso dall'Occidente, non
necessariamente come inferiore. Anzi, in molti dei pensatori illuministi contemporanei dei primi
orientalisti vi era stato un considerevole rispetto verso le civiltà orientali; un rispetto che, nel caso
particolare della Cina, era spesso sfociato in esplicita ammirazione (34).
Tutto ciò cambiò all'inizio dell'800. Sintomaticamente, questo mutamento si verificò nel momento
in cui divenne chiaro che il rapporto di forza militare fra Occidente e "Oriente" si era ormai
radicalmente spostato a favore del primo. In effetti, i nuovi rapporti di forza erano tali da far
ritenere ormai imminente la rapida conquista di tutto l'"Oriente" da parte dell'Occidente (una
conquista presagita da quella inglese di gran parte del subcontinente indiano, negli anni a cavallo
fra '700 e '800). Dall'inizio dell'800, l'"Oriente" venne categorizzato non solo come diverso, ma
anche come "barbaro" ed "irrimediabilmente inferiore". Fu una copernicana rivoluzione intellettuale
esemplificata - e, al medesimo tempo, incoraggiata - da un'opera storica destinata a diventare
enormemente influente. Intendiamo parlare della History of British India di James Mill, pubblicata
nel 1817 a Londra, e destinata a diventare, nei centocinquant'anni circa successivi alla sua
pubblicazione, in assoluto il più influente libro sull'India in circolazione.
Ma, in definitiva, la visione orientalistica dell'India in particolare e dell'"Oriente" in generale
rimaneva una branca specializzata, per definizione "esotica", del pensiero europeo. Tuttavia, nel
corso dell'800, l'Orientalismo divenne parte integrante della Weltanschauung europea, permeando di
sé anche elaborazioni intellettuali che, a prima vista, poco o nulla avevano a che vedere con la
tradizione intellettuale orientalistica. Questo filtrare dell'Orientalismo nel senso comune occidentale
fu dovuto alla mediazione di una serie di grandi maître à penser, impegnati, in prima istanza nel
costruire una visione nuova del mondo in cui vivevano. Pensatori come Georg Wilhelm Friedrich
Hegel, Karl Marx e Max Weber (solo per ricordare alcuni dei più influenti fra di loro) sono
giustamente ricordati come giganti intellettuali. Ma, nelle loro elaborazioni, Hegel, Marx e Weber
(e non solo loro) - parlando dell'"Asia", o dell'"Oriente", o dell'"India" - si servirono delle
conoscenze del loro tempo, irrimediabilmente inficiate dall'Orientalismo (35). Nel far ciò, questi
pensatori spesso usarono l'esotico mondo orientale costruito dagli Orientalisti come il contraltare in
base al quale definire tutto ciò che - a parer loro - vi era di buono e di valido in Occidente. L'utilizzo
dei loro schemi interpretativi, per quanto innovativi fossero, portò all'accettazione, in genere
inavvertita (ciò che, di fatto, rese la cosa più grave), della dimensione orientalista del pensiero di
questi autori. In questo modo l'Orientalismo "filtrò" nel senso comune degli europei, in particolare
degli europei colti e, spesso, progressisti.
Oggi, i lavori di Hegel, Marx e Weber continuano ad essere assai più ampiamente e diffusamente
letti - come è giusto che sia - che non quelli degli storici all'avanguardia nello studio delle varie
realtà in cui si articola l'"Oriente". Ne consegue che la visione che gli occidentali hanno del "non
Occidente" continua ad essere profondamente permeata di idee che, come è stato dimostrato dalla
ricerca storica degli ultimi quarant'anni, hanno una corrispondenza scarsa o nulla con la realtà.
Ma la persistente vitalità della visione orientalistica non è solo un caso di "blocco intellettuale"
spontaneo e di mancata diffusione dei risultati della ricerca più recente. Dopo tutto, l'Orientalismo
nacque per controllare politicamente e per sfruttare economicamente il mondo non occidentale,
giustificando e legittimando intellettualmente questo stato di cose. Oggi, anche se il vecchio mondo
coloniale è ormai tramontato, il "valoroso nuovo mondo" in cui viviamo continua ad essere
caratterizzato da un ordine internazionale gerarchico ed ingiusto. Si tratta di un ordine che, per
mantenersi, non può basarsi esclusivamente sull'uso della forza, ma deve ricorrere a varie forme di
legittimazione. E, ovviamente, l'Orientalismo, sia nella sua versione "classica", sia in versioni
nuove, ha continuato ad essere una delle più influenti fra queste forme di legittimazione.
!
Note
*. Il presente scritto è apparso in Elisabetta Basile e Michelguglielmo Torri (a cura di), Il
subcontinente indiano verso il terzo millennio. Tensioni politiche, trasformazioni sociali ed
economiche, mutamento culturale, Centro Studi per i popoli extraeuropei Cesare Bonacossa
dell'Università di Pavia/Franco Angeli, Milano 2002. Ringraziamo l'autore e l'editore per la gentile
concessione.
1. La critica dell'Orientalismo fatta da chi scrive nelle pagine che seguono è stata influenzata da due
importanti lavoridi Edward W. Said, Orientalism, Vintage Books, New York 1979, e Culture and
Imperialism, Vintage Books, New York 1994, nonché dalla critica in chiave marxista del primo dei
due lavori citati, contenuta in Aijaz Ahmad, In theory: classes, nations, literatures, Verso, Londra e
New York 1992. Tuttavia, l'influenza delle idee di Said e di Ahmad è stata soprattutto quella di
aiutare chi scrive a mettere a fuoco ed a comprendere appieno la valenza delle tesi dei world
historians della scuola di Chicago. Sono stati, quindi, i lavori di William H. McNeill e Marshall
G.S. Hodgson (questi ultimi mediati anche dalle riflessioni di Edmund Burke III) ad avere un ruolo
decisivo nella concezione critica dell'Orientalismo di chi scrive. Da questo punto di vista, ha avuto
un ruolo decisivo la lettura dei seguenti lavori: William H. McNeill, The Rise of the West. A History
of the Human Community, University of Chicago Press, Chicago 1990 (1ª ed. 1963); Marshall G.S.
Hodgson, The Venture of Islam. Conscience and History in a World Civilization (3 voll.), The
University of Chicago Press, Chicago 1974 [ed edizioni successive]; id. Rethinking World History.
Essays on Europe, Islam, and World History (a cura di Edmund Burke III), Cambridge University
Press, Cambridge 1993. Si vedano anche: Edmund Burke III, Islam and World History: The
contribution of Marshall Hodgson, in "Radical History Review, 39, 1987, pp. 117-123, e una
recente traduzione in francese di una serie di saggi di Hodgson, cioè: Marshall G.S. Hodgson,
L'Islam dans l'histoire mondiale (a cura di Abdesselam Cheddadi), Sindbad/Acte Sud, Arles 1998.
2. L'opera fondamentale su questo argomento è quella di David Kopf, British Orientalism and the
Bengal Renaissance. The Dynamics of Indian Modernization, 1773-1835, University of California
Press, Berkeley 1969. Si veda anche, dello stesso autore, Hermeneutics versus History, in "Journal
of Asian History", 39, 3, maggio 1980, pp. 495-506. Letta in controluce, l'opera di Kopf è,
probabilmente, la più chiara e convincente critica fin qui comparsa del carattere ideologico
dell'Orientalismo. fin qui comparsa. Un giudizio che rimane valido anche se lo steso Kopf non
sempre (si veda in particolare il suo Hermeneutis versus History cit.) sembra rendersi conto delle
implicazioni ultime del suo stesso lavoro di ricerca. Oltre ai contributi del Kopf, sono poi di grande
interesse per l'analisi del pensiero orientalista a proposito dell'India i saggi raccolti in Carol A.
Breckenridge e Peter van der Veer (a cura di), Orientalism and the Postcolonial Predicament,
University of Pennsylvania Press, Philadelphia 1993.
3. In questo testo si usa il termine "Islam" [fra virgolette e maiuscolo] per indicare la visione
orientalistica della civiltà islamica. Invece, per indicare in modo neutro la civiltà islamica, si userà il
termine islàm [senza virgolette, minuscolo e con accento grafico].
4. Questa è la ragione per cui mettiamo fra virgolette il termine "Oriente", ma non il termine
"Occidente". Mentre, infatti, si può legittimamente sostenere che l'Occidente sia caratterizzato da
un'unità culturale di fondo, lo stesso è assolutamente falso nel caso dell'"Oriente". Questo, come si è
appena detto, è articolato in una serie di civiltà diverse che, in definitiva, sono tanto lontane fra di
loro, quanto lo sono dalla civiltà occidentale. Questo, ovviamente, non significa che non vi siano
interrelazioni fra queste varie civiltà e fra queste e quella occidentale, significa solo che l'unico
comune denominatore che distingua le civiltà orientali, ponendole a parte dalla civiltà occidentale, è
quello - in definitiva taitologico - che esse non sono Occidente. Quindi, parlare dell'"Oriente" come
di un'entità con caratteristiche a sé stanti significa già accettare le categorie interpretative
dell'Orientalismo. Se mai, si può legittimamente parlare di una serie di Orienti diversi.
5. È una tesi, questa, che continua ad essere riproposta soprattutto per il mondo islamico. Si veda,
ad es., Bernard Lewis, The Roots of Muslim Rage. Why so many Muslims deeply resent the West,
and why their bitterness will not easily be mollified, in "The Atlantic Monthly", settembre 1990.
Ma, mutatis mutandis, le medesime tesi sono state applicate anche ad altre civiltà non occidentali.
Per una rivendicazione del dinamismo delle civiltà asiatiche si veda Kishore Mahbubani, Can
Asians Think?, Key Porter Books, Toronto 2001. Mahbubani è un nativo di Singapore, la cui
famiglia, come rivela il nome, è originaria del Sind.
6. Per il persistente razzismo degli inglesi in India durante il periodo coloniale è sufficiente leggere
i libri di memorie da essi lasciatici o i romanzi e le novelle di argomento indiano di autori
britannici, da Kipling agli ormai dimenticati autori di letteratura popolare (in proposito si veda, ad
es., Allen J. Greenberger, The British Image of India. A Study in the Literature of Imperialism,
Oxford University Press, Londra 1969). Per un'analisi del razzismo, spesso nascosto ma sempre
presente, che caratterizzò tanta parte della cultura europea dell'800, si veda Said, Culture and
Imperialism cit., passim.
7. Per una paradigmatica rivendicazione della superiorità razziale dei britannici nei confronti degli
indiani si veda quella fatta da sir James Fitzjames Stephen nell'articolo The Foundations of the
Government of India, in "Nineteenth Century", ottobre 1883 [ristampato in C. H. Philips (a cura di),
The Evolution of India and Pakistan, 1858-1947. Selected Documents, Oxford University Press,
Londra 1962, pp. 57-60]. Sir James fu Legal Member del governo dell'India (1869-72) e giudice
dell'Alta Corte indiana (1879-91).
8. In proposito si veda l'importante monografia di Aziz Al-Azmeh, Islams and Modernities, Verso,
Londra 1996 (1ª ed. 1993), in particolare il prologo, Muslim "Culture" and the European Tribe.
9. A parte queste tre idee fondamentali ve ne sono altre, che, anche se strategicamente meno
importanti, rimangono rilevanti. In particolare vi sono l'idea di "dispotismo orientale" e quella
secondo cui, in "Oriente" (almeno in India e nel mondo islamico), non esisteva la proprietà privata
della terra. Ma, nel caso dell'India, esistono concezioni assolutamente contrapposte su cosa
costituisse il "dispotismo orientale". Secondo alcuni autori si trattava di una sorta di regime
totalitario, dove tutti i poteri erano concentrati nelle mani del monarca; ma, secondo altri, si trattava
di un regime dove il monarca aveva in realtà un potere scarsissimo, dato che questo era
formalmente limitato dal costume e, di fatto, parcellizzato e distribuito fra le varie componenti della
classe dirigente. In altre parole, si tratta di visioni mutualmente contraddittorie, il cui unico
elemento comune è dato dal giudizio di valore negativo, cioè l'insistenza sul fatto che il "dispotismo
orientale", in qualsiasi cosa consistesse, fosse qualcosa di profondamente negativo ed antitetico al
progresso (si noti che in Occidente, le monarchie assolute - che di fatto coincidono con una delle
due versioni appena ricordate di "dispotismo orientale" - sono invece considerate dalla critica
storica come la fase di congiunzione, inevitabile e storicamente benefica, fra il regime feudale e lo
stato moderno). Una discussione del problema del "dispotismo orientale" in questa sede è, quindi,
sembrata superflua. Chi volesse approfondire il soggetto, può consultare Ronald B. Inden,
Imagining India, Indiana University Press, Bloomington 2000 (1ª ed.1990). Sulla questione della
proprietà della terra in India si veda, invece, Michelguglielmo Torri, Storia dell'India, Laterza, Bari
2000, spec. pp. 365-70.
10. Louis Dumont, Homo hierarchicus. Le système des castes et ses implications, Gallimard, Parigi
1979 (1ª ed. 1966), passim.
11. Su questo problema, oltre a quanto detto qui di seguito, si veda anche Peter van der Veer, The
Foreign Hand, in Breckenridge e van der Veer, Orientalism and the Postcolonial Predicament cit.,
pp. 24-44. Come ricorda il van der Veer, Louis Dumont, ponendo in luce la correlazione esistente
fra l'organizzazione dei gruppi castali da lui studiati e quelle caratteristiche sociali che sono
descritte come importanti nei testi canonici sanscriti, ha osservato come ciò non potesse avvenire
per "pura coincidenza". In tal modo, l'antropologo francese sottintendeva la permanenza di un
ordinamento castale sostanzialmente immutato da tempo immemorabile. Ma, sempre il van der Veer
sottolinea come la "configurazione sociale indiana degli anni '50 (del '900), che [Dumont] descrive
come etnografo postcoloniale, non è affatto il prodotto di una semplice coincidenza ma di una
specifica ideologia orientalistica [a specific orientalist discourse] all'interno della storia coloniale".
E, continua, "mentre Dumont pensa di aver scoperto l''India tradizionale' attraverso il suo lavoro sul
campo, egli, in realtà, ha trovato il prodotto della storia coloniale". Ibidem, pp. 27-28.
12. La critica della visione orientalistica dell'India, portata avanti nei seguenti paragrafi, può essere
considerata come una sinossi delle idee alla base del volume di Michelguglielmo Torri, Storia
dell'India cit. Ad esso si rimanda per ulteriori approfondimenti, anche bibliografici.
13. Per un caso particolare, quello della grande città portuale di Surat nella seconda metà del '700
(ma i dati sono validi per tutto il periodo successivo al collasso del potere moghul nel Deccan, cioè
a partire dagli anni '20 di quel secolo), si rimanda a Michelguglielmo Torri, In the Deep Blue Sea:
Surat and its merchant class during the dyarchic era (1759-1800), in "The Indian Economic and
Social History Review", Vol. XIX, nn. 3-4, 1982, pp. 267-299; e id., The Hindu Bankers of Surat
and their business world in the second half of the 18th century, in "Modern Asian Studies", 25, 2,
1991, pp. 367-401.
14. Su questo argomento, rimane di fondamentale importanza il saggio di Frank Perlin, Protoindustrialization and Pre-colonial South Asia, in "Past and Present", 83, febbraio 1983.
15. Questa descrizione è basata, fra l'altro, sull'analisi in profondità, condotta da chi scrive, dei
documenti della East India Company relativi alla presidenza di Bombay e all'insediamento di Surat
nel periodo dagli anni '20 del '700 fino all'anno 1800. Per una discussione del valore di questa
documentazione, si rimanda a Michelguglielmo Torri, Surat, its hinterland and its trade, c.
1740-1800: The British documents, in "Moyen Orient et Océan Indien", 10, 1998, pp. 35-56.
16. Per un approfondimento di queste tesi si rimanda in particolare a McNeill, The Rise of the West
cit.; Janet L. Abu-Lughod, Before European Hegemony. The World System A.D. 1250-1350, Oxford
University Press, Oxford 1989; André Gunder Frank, ReOrient. Global Economy in the Asian age,
University of California Press, Berkeley 1998. Si veda anche Torri, Storia dell'India cit., passim.
17. Per un'analisi di fondamentale importanza sul mutamento del sistema castale nel periodo fra la
fine dell'era antica e l'inizio del Medio Evo, si veda l'articolo di R. S. Sharma, Problem of
Transition from Ancient to Medieval in Indian History, in "The Indian Historical Review", I, 1,
marzo 1974.
18. Ma anche questa, come si è appena ricordato, non era una funzione che venisse svolta sempre.
19. Su questo problema si veda, ad es., Michelguglielmo Torri, A Loch Ness monster? The
Mahajans of Surat during the second half of the 18th century in "Studies in History", 13, 1, n.s.,
1997, pp. 1-18.
20. Per un approfondimento dell'intero problema dell'evoluzione reale del sistema castale, si
rimanda all'articolo di Dhirubhai L. Sheth, Caste e classi in India: realtà sociale e rappresentazioni
politiche, in AA.VV. L'India contemporanea. Dinamiche culturali e politiche, trasformazioni
economiche e mutamento sociale, Fondazione Giovanni Agnelli, Torino 1998, pp. 21-48, ed alla
bibliografia in esso indicata.
21. Per una discussione di questo problema si rimanda a Richard King, Orientalism and Religion.
Postcolonial Theory, India and 'The Mystic East', Routledge, Londra 1999.
22. Per un approfondimento di questo tema si veda Torri, Storia dell'India cit., spec. pp. 240-246.
23. Ibidem, pp. 418-23, 451-61.
24. Secondo la tradizione, la prima moschea indiana venne fondata nel Kerala da un abitante del
luogo che, durante un suo soggiorno in Arabia, era stato convertito dallo stesso profeta Muhammad.
Dal canto loro, i cristiani "vecchi" del Kerala fanno risalire la propria conversione alla predicazione
dell'apostolo Tommaso. Ovviamente si tratta di tradizioni il cui fondamento storico non può essere
stabilito con alcuna certezza. Ma le ricerche più recenti tendono a dimostrare che il cristianesimo si
insediò stabilmente in India nei primi secoli della nostra era e che l'opera di apostolato dei
missionari shiiti e dei sufi sunniti si svolse indipendentemente e, in alcuni casi, precedette il
processo di conquista del subcontinente da parte prima degli arabi e poi dei turco-afghani.
25. Kopf, British Orientalism cit., passim.
26. Per un'elaborazione di questi punti si veda Torri, Storia dell'India cit., pp. 377-380.
27. Il concetto di rapporto dialogico fra colonizzatori e gruppi di intellettuali indigeni nel
"costruire" la visione orientalistica dell'India è mutuata da Eugene F. Irschick, Dialogue and
History. Constructing South India 1795-1859, University of California, Berkeley 1994.
28. Con la parziale eccezione dell'operato del padishah moghul Aurangzeb (1658-1707).
29. David Washbrook, Law State and Agrarian Society in Colonial India, in "Modern Asian
Studies", 15, 3, 1981, pp. 649-721.
30. Sull'importanza della seta grezza e dei tessili bengalesi nell'economia indiana ed internazionale
fra '600 e '700 si vedano Om Prakash, The Dutch East India Company and the Economy of Bengal
1630-1720, Princeton University Press, Princeton 1985, e il dibattito fra Sushil Chaudhuri e Om
Prakash in "Modern Asian Studies", 27, 2, maggio 1993, pp. 321-356. Sempre sul medesimo
argomento, si veda Sushil Chaudhury, International Trade in Bengal Silk and The Comparative
Role of Asians and Europeans, circa. 1700-1757, in "Modern Asian Studies", 29, 2, maggio 1995,
pp. 373-386.
31. Per un approfondimento di queste tesi si rimanda a Torri, Storia dell'India cit., pp. 314-323. Si
tratta di tesi che - oltre che sullo spoglio, compiuto da chi scrive, delle fonti primarie inglesi
concernenti Surat ed il suo hinterland nella seconda metà del '700, ed oltre che sul saggio di Perlin,
Proto-industrialization and Pre-colonial South Asia cit. - sono basate su C.A. Bayly, Rulers,
Townsmen and Bazaars. North Indian society in the age of British expansion, 1770-1870,
Cambridge University Press, Cambridge 1983; id., Indian Society and the Making of the British
Empire, Cambridge University Press, Cambridge 1988; Stewart Gordon, The Marathas 1600-1818,
Cambridge University Press, Cambridge 1993; id., Marathas, Marauders, and State Formation in
Eighteenth-Century India, Oxford University Press, Delhi 1994.
32. Per un approfondimento delle argomentazioni sul collasso dell'economia indiana in
corrispondenza del sorgere del colonialismo si rimanda a Torri, Storia dell'India cit., pp. 389-394,
397-408. Si tratta di tesi largamente basate sulla reinterpretazione dei dati presentati nelle due opere
di C.A. Bayly citate nella nota precedente e sullo studio, condotto da chi scrive, del mutamento dei
rapporti commerciali fra il Bengala e Surat nella seconda metà del '700. Su quest'ultimo punto si
veda Torri, The Hindu Bankers of Surat and their business world cit., passim.
33. Solo in un secondo tempo, nel Nord dell'India questo interscambio di beni e di servizi fra i vari
gruppi sociali che formavano un villaggio venne legittimato in base ad obbligazioni di carattere
rituale e religioso, dando origine al cosiddetto sistema jajmani. Per quanto indicato dagli
antropologi del '900 come un sistema di "grande antichità" (cioè come un'altra delle manifestazioni
dell'immutabilità della società indiana), il sistema jajamani nacque, quindi, solo nel tardo '800.
Sulla questione, si veda Peter Mayer, Inventing Village Tradition: The Late 19th Century Origins of
the North Indian 'Jajmani System', in "Modern Asian Studies", 27, 2, maggio 1993, pp. 357-365.
34. Sulla "sinofilia" europea nel '700, si veda Giorgio Borsa, La nascita del mondo moderno in Asia
Orientale, Rizzoli, Milano 1977, pp. 81-99.
35. Su un caso specifico, quello rappresentato dal concetto di "modo di produzione asiatico",
elaborato da Karl Marx, si veda la seconda parte di questo saggio introduttivo, scritta da Elisabetta
Basile.
Jura Gentium, Rivista di filosofia del diritto internazionale e della politica globale, ISSN 1826-8269