dottorato di ricerca titolo tesi

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Università degli Studi di Cagliari
DOTTORATO DI RICERCA
DIRITTO DEI CONTRATTI
Ciclo XXVIII
TITOLO TESI
LA CAUSA NEI CONTRATTI DERIVATI
Settori scientifico disciplinari di afferenza
IUS/01 - IUS/04
(settore ulteriormente interessato IUS/18)
Presentata da:
Federico Loche
Coordinatore Dottorato
Prof.ssa Valeria Caredda
Tutor
Prof. Francesco Sitzia
Esame finale anno accademico 2014 – 2015
Abstract.
In recent years there have been intense and fast changes in the economy and on the
markets. In this context an economic model strongly marked by liberalism which has been
the beginning of the phenomenon known as globalization has been implemented. A market
free from state intervention (including rules) encourages the access of some people such as
individuals and unskilled operators in general in particularly insidious market sectors. At
the same time the contracts practice has been enriched by different and diverse models of
contracts that have raised and continues to raise several legal problems. Among these
figures are “derivatives” which are financial instruments whose circulation is still «one of
the main factors of amplification of the crisis» of a market which is already deregulated
and globalized. A crisis which in turn is the effect of various systemic risks that the various
institutions (political and economic) are struggling to govern.
This thesis is structured in three chapters. In the first chapter social and economics
problems posed by derivatives are discussed. The most relevant sources of law are listed
and the different approaches adopted by the doctrine has been examinated to try to define a
model which introduces a novelty in the law of contracts. The second chapter speaks about
the presence of a “multi-level” regulation which is still being formed and in which the
«customer interest» and the «integrity of markets» are not opportunely reconciled.
Inevitably this has an impact on the individual dealing with derivatives (especially
derivatives “over the counter” trading) with respect to which the particular situation of
conflict between the interests of the intermediary and the customer assumes very often
pathological character. In the third chapter the strictly civil issues that are raised by
derivative contracts have been elaborated. These are issues that come into tension with the
whole system of contract law and still are not definitively overcome. For this reason it was
decided to set the examination of various issues in a systematic and historical perspective.
In particular the main themes that have been discussed in this chapter are: the notion of
«alea» and the category of «aleatory contracts», the consideration («causa») of contracts
in general, and of the derivative contracts in particular and lastly the object («oggetto») of
derivative contracts.
LA CAUSA NEI CONTRATTI DERIVATI
Abstract
Capitolo I
I DERIVATI FINANZIARI: GENERALITÀ
1. L’emersione dei derivati finanziari nel contesto economico contemporaneo………………………………..
5
1.2. Le origini storiche dei derivati finanziari……………………………………………………………………..
8
2. La nozione di derivazione……………..……………………………………………………………………………........ 12
2.1. Il dato normativo…………………………………………………………………………………………………… 14
2.2. «Contratti derivati»: categoria unitaria o espressione che indica fenomeni eterogenei? …...…….. 18
2.2.1. «Contratti derivati» come categoria unitaria………………………………………………….……... 19
2.2.2. «Contratti derivati» come espressione che indica fenomeni eterogenei…………..…………... 23
2.2.3. «Contratti derivati» come locuzione funzionale…………………………………..………………... 23
3. Archetipi di contratti derivati………………………………………………………………………………..………….. 30
3.1. Futures…………………………………………………………………………………………………………........... 30
3.2. Options………………………………………………………………………………………………………….......... 33
3.3. Swaps……………………………………………………………………………………………………………......... 37
4. Contratti derivati e fattispecie affini ………………………………………………………...…………..……………. 41
Capitolo II
CONTRATTI DERIVATI E AUTONOMIA NEGOZIALE
1. Premessa………………………………………………………………………………………………………..……………. 49
2. Derivati standardizzati…………………..………………………………………………………………………………... 50
3. Derivati over the counter (otc)………………………………………...………………………………………..……… 56
3.1. (Segue) La normativa macroeconomica dei derivati otc.………………………………………….……… 58
4. La normativa microeconomica dei derivati……………………………………………………..…………..….......... 64
5. Profili di criticità delle normative sui derivati. In particolare, il conflitto di interessi……………...……... 67
5.1. Il conflitto di interessi tra regole di comportamento e regole di validità…………………….………... 71
5.2. L’interferenza tra le regole di comportamento e le regole di validità nella prospettiva della
causa in concreto……………………………………………………………………………………………........... 76
I
Capitolo III
ALEATORIETÀ, RAZIONALITÀ E ASTRATTEZZA
DEI DERIVATI FINANZIARI
1. Introduzione………………………………………………………………………………………………………………….
85
2. I derivati come «contratti aleatori»…………………………………………………………………………………….
86
2.1. Il «contratto aleatorio» e la nozione di «alea»……………………………………………………………….
90
2.1.1. I «contratti aleatori» come «categoria contrattuale»……………………………………………...
98
2.1.2. La negoziabilità dell’alea naturale……………………………………………………………………... 108
2.1.3. I contratti «aleatori per natura» (o «essenzialmente aleatori»)………………………………… 121
2.1.4. I contratti «aleatori per volontà delle parti»………………………………………………………… 126
2.1.4.1. (Segue) La vendita di cosa futura e la cosiddetta «emptio spei» nel diritto
romano; la futurità come «assenza» della res…………………………………………... 130
2.1.4.2. (Segue) La vendita di cosa futura nel codice civile; la futurità come
«inesistenza» della cosa……………………………………………………………………… 154
2.1.5. La disciplina civilistica sugli effetti dei contratti aleatori………………………………………… 197
2.2. La distinzione tra «alea unilaterale» e «alea bilaterale»: irrilevanza giuridica……………………… 210
3. L’alea tra oggetto e causa del contratto; la causa e l’oggetto dei contratti derivati…………………………. 228
4. Causa del contratto e causa dei derivati: premessa…………………………………………………………………. 231
4.1. Le funzioni dei contratti derivati e il problema della qualificazione…………………………………….
250
4.1.1. La tesi soggettiva: il derivato come contratto «naturalmente» di copertura suscettibile
di essere alterato in senso speculativo………………………………………………………………… 255
4.1.2. La tesi oggettiva: i derivati come contratti sinallagmatici. L’irrilevanza della
funzione………………………………………………………………………………………………………
259
4.1.3. La tesi semi-oggettiva: la connessione tra il rapporto sottostante e il contratto
derivato nella prospettiva della causa concreta……………………………………………………... 265
4.1.4. (Segue) La qualificazione dei contratti derivati nella prospettiva della causa in
concreto «può rivelarsi sfuggente»………………………………………………….…………………
270
4.2. La disciplina civilistica del giuoco e della scommessa: cenni introduttivi……………………………..
282
4.2.1. La regola generale della «denegatio actionis»: fondamento e ambito di applicazione…….. 286
4.2.2. I controversi rapporti tra i contratti derivati e la scommessa…………………...………………...
307
4.2.3. I contratti derivati come «scommesse legalmente autorizzate» ex artt. 1 e 23, comma
5, tuf…………………………………………………………………………………………………………… 350
5. L’alea razionale………………………………………………...…………………………………………………………… 368
6. L’oggetto dei contratti derivati…………………………………...……………………………………………………... 379
II
6.1. (Segue) Considerazioni a margine dell’oggetto del contratto; il problema dei cosiddetti
«costi impliciti»………………………………………………………………………………………..…………….. 390
7. Il «nesso di derivazione» tra «finanziarietà» e «astrattezza pura»………………...…………………………… 396
Bibliografia……………………………………………………………………….…………...………………………………
III
407
Capitolo I
I DERIVATI FINANZIARI: GENERALITÀ
SOMMARIO: 1. L’emersione dei derivati finanziari nel contesto economico contemporaneo. – 1.2. Le
origini storiche dei derivati finanziari. – 2. La nozione di derivazione. – 2.1. Il dato normativo. – 2.2.
«Contratti derivati»: categoria unitaria o espressione che indica fenomeni eterogenei? – 2.2.1. «Contratti
derivati» come categoria unitaria. – 2.2.2. «Contratti derivati» come espressione che indica fenomeni
eterogenei. – 2.2.3. «Contratti derivati» come locuzione funzionale. – 3. Archetipi di contratti derivati – 3.1.
Futures – 3.2. Options – 3.3. Swaps – 4. Contratti derivati e fattispecie affini.
1. L’emersione dei derivati finanziari nel contesto economico
contemporaneo.
Negli ultimi anni si è assistito ad una vivace e rapida evoluzione dell’economia e dei
mercati.
Tra i fattori di sviluppo è sicuramente da annoverare l’emersione delle nuove
tecnologie1, sia nel campo delle telecomunicazioni2 – circostanza che ha agevolato
l’incontro tra gli operatori del mercato finanziario –, sia nel settore dei mezzi di pagamento
in generale: si pensi, ad esempio, al ricorso sempre più frequente alla moneta elettronica
nell’ambito del cosiddetto e-commerce3.
1
F. ANNUNZIATA, La disciplina del mercato mobiliare4, Torino, 2008, p. 1; S. BO – C. VECCHIO, Il
rischio giuridico dei prodotti derivati, Milano, 1997, p. 7; G. OPPO, Principi, in Trattato di diritto
commerciale, a cura di V. Buonocore, Torino, 2001, pp. 31 ss.
2
«I progressi delle tecnologie della comunicazione e dell’informazione sono stati le condizioni decisive
per la crescita dei mercati finanziari globali, per la strutturabilità dei gruppi transazionali e per il decollo
delle “tigri asiatiche”, le quali producono gran parte della componentistica dei computer. Internet, che solo
dalla metà degli anni Novanta è uno spazio virtuale puramente privato “senza censura” e accessibile a tutti,
è più una metafora che una causa della connessione in rete tramite l’elaborazione di dati e i media
elettronici. La messa in rete elettronica del mondo non si è comunque diffusa “capillarmente”, ma ha fatto
sorgere un nuovo “dislivello digitale” tra coloro che sono connessi alla rete e coloro che non lo sono». J.
OSTERHAMMEL – N. P. PETERSSON, Storia della globalizzazione. Dimensioni, processi, epoche, Bologna,
2005, p. 121.
3
Quando si parla di sviluppo tecnologico, ci si vuol riferire non solo al progresso tecnico in campo
informatico, ma anche all’elaborazione di nuove tecniche giuridiche. Al riguardo, M. R. FERRARESE, Le
istituzioni della globalizzazione: diritto e diritti nella società transnazionale, Bologna, 2002, p. 107.
5
A tali fattori va aggiunta l’affermazione di un modello economico fortemente
improntato al liberismo, il quale ha costituito l’avvio4 del più ampio fenomeno meglio noto
come globalizzazione5.
Un mercato libero dall’intervento dello Stato, e quindi dalle regole, incoraggia
l’accesso di alcuni soggetti – singoli individui e operatori non qualificati in generale – a
settori del mercato particolarmente insidiosi6.
Tali fattori, insieme, hanno portato da un lato all’abbattimento dei costi legati alle
transazioni7; dall’altro hanno condotto la ricchezza a circolare fuori dai suoi confini statali;
dall’altro ancora hanno reso particolarmente instabili i mercati finanziari.
In tale contesto, la prassi degli operatori del settore si è arricchita di varie ed
eterogenee fattispecie contrattuali che hanno sollevato, e tuttora sollevano, diversi
problemi giuridici.
Tra queste figure rientrano i contratti derivati, strumenti finanziari la cui circolazione
ancora oggi costituisce «uno dei principali fattori di amplificazione della crisi»8 di un
mercato, appunto, ormai deregolamentato e globalizzato; crisi che, a sua volta, altro non è
4
«In un’economia chiusa gli investimenti totali sono pari al risparmio interno. Per le economie aperte,
invece, i mercati finanziari mondiali sono un’altra fonte di fondi di investimento e un altro sbocco per il
risparmio interno». P. A. SAMUELSON – W. NORDHAUS, Economia17, Milano, 2002, p. 628.
5
«L’integrazione dei mercati finanziari è dovuta principalmente all’abolizione delle restrizioni ai flussi
di capitali da un Paese all’altro, alla riduzione dei costi e alle innovazioni nei mercati finanziari, in
particolare per quanto riguarda l’uso di nuovi tipi di strumenti finanziari». P. A. SAMUELSON – W.
NORDHAUS, Economia, cit., p. 32. È appena il caso di rilevare che alcuni studiosi del settore distinguono
l’internazionalizzazione, concetto con cui si identifica l’apertura dell’economia di un Paese all’interazione
con l’estero, dalla globalizzazione, intesa come quel generale fenomeno dell’integrazione tra gli apparati
produttivi dei paesi avanzati e tra paesi avanzati e meno sviluppati. G. MESCHINO, Le politiche di
internazionalizzazione, in Finanziamento e internazionalizzazione di impresa, a cura di A. Berlinguer,
Torino, 2006, pp. 415 ss. Sul tema della globalizzazione, in generale, v. M. R. FERRARESE, Le istituzioni
della globalizzazione, cit., e, sempre dello stesso Autore, Il diritto al presente: globalizzazione e tempo delle
istituzioni, Bologna, 2002.
6
«In un sistema di mercato i cittadini agiscono volontariamente e principalmente per il vantaggio
economico e la soddisfazione personale. Le imprese acquistano i fattori e realizzano i prodotti, scegliendo
gli uni e gli altri in modo da massimizzare i profitti; i consumatori forniscono fattori di produzione e
acquistano beni di consumo per massimizzare la propria soddisfazione. Gli accordi sulla produzione e sul
consumo vengono effettuati volontariamente e con l’impiego di denaro, a prezzi determinati in mercati liberi
e sulla base di accordi tra venditori e acquirenti. Benché i singoli cittadini differiscano notevolmente tra
loro in termini di potere economico, i rapporti tra i singoli individui e le imprese sono orizzontali per
natura, essenzialmente volontari e non gerarchici». P. A. SAMUELSON – W. NORDHAUS, Economia, cit., p.
587. V. anche G. DI GASPARE, Teoria e critica della globalizzazione finanziaria. Dinamiche del potere
finanziario e crisi sistemiche, Padova, 2012.
7
S. BO – C. VECCHIO, Il rischio giuridico dei prodotti derivati, cit., p. 7.
8
Così il punto 97 dello «schema di regolamentazione internazionale per il rafforzamento delle banche
e dei sistemi bancari» (d’ora innanzi «Basilea III»), per l’esame del quale si rinvia a quanto si dirà infra.
6
che l’effetto dei vari rischi sistemici9 che le diverse istituzioni (politiche ed economiche)
stentano a governare10.
Invero, i derivati finanziari non sono ontologicamente tossici11: diventano tali in
relazione alla funzione concreta che vengono chiamati ad assolvere12.
Più esattamente, tale qualifica sarebbe da riservare ad alcuni strumenti finanziari
derivati speculativi, posto che quelli aventi finalità di copertura non solleverebbero
particolari problemi13.
Cionondimeno, il suddetto assunto è valido solo in linea teorica, posto che gli
strumenti derivati, quand’anche non possano ritenersi aprioristicamente “tossici”,
presentano elevati profili di ambiguità.
In questo senso, a fronte della cosiddetta cartolarizzazione del rischio di credito14,
risulta particolarmente complesso comprendere e distinguere dove finisca la funzione
protettiva e inizi quella speculativa.
Infine, deve essere altresì osservato che le criticità sollevate dal gioco15 in cui sono
implicati i derivati finanziari vengono ulteriormente acuite e amplificate dalla peculiare
9
Sul concetto di «rischio sistemico», v. infra.
«Nel nuovo contesto del mercato dei derivati sono apparsi rischi sistemici generati dalla
deregolamentazione ed integrazione delle attività finanziarie». G. DI GASPARE, Diritto dell’economia e
dinamiche istituzionali, Padova, 2002.
11
La tossicità dei titoli dipende dal fatto che i titoli stessi «costituiscono un costo incalcolabile: non si
sa per quanto tempo si dovrà tenerli e a quale prezzo sarà possibile rivenderli». M AMATO – L. FANTACCI,
Fine della finanza, Roma, 2009, p. 99.
12
«Sarebbe sbagliato, tuttavia, imputare la virulenza della crisi unicamente al proliferare di strumenti
finanziari innovativi, la cui tossicità si sarebbe nascosta sotto acronimi spesso indecifrabili perfino per i
dirigenti di banche che li trattavano»: così, M. AMATO – L. FANTACCI, Fine della finanza, cit., p. 102.
13
Significativo, al riguardo, quanto affermato dall’ex Governatore della Banca d’Italia Mario Draghi
(attualmente Presidente della Banca Centrale Europea) nel corso dell’assemblea ordinaria dell’ABI dell’11
luglio 2007: «le banche forniscono un servizio importante alle imprese se le assistono nella scelta degli
strumenti adatti alle loro caratteristiche. La finalità deve essere la copertura del rischio, non altra. Spingere
i clienti ad assumere rischi finanziari anziché a coprirli accresce il rischio di controparte, con possibili
perdite cospicue; fa emergere rischi legali e di reputazione, che minano le prospettive di sviluppo
dell’intermediario, possono giungere a metterne in discussione la stabilità». Il testo integrale dell’intervento
è reperibile all’indirizzo internet bancaditalia.it/pubblicazioni/interventigovernatore/integov2007/abi_11_07
.pdf.
14
«Il sistema bancario […] scopre il vantaggio di mettersi in sicurezza con il nuovo metodo
dell’esternalizzazione del rischio di credito, tramite la cartolarizzazione. I diritti di credito nascenti da
sottostanti contratti sono cartolarizzati e sono distribuiti come prodotti derivati nel mercato finanziario
OTC. L’idea di trasferire il rischio, guadagnandoci, è geniale e al contempo semplice, inoltre è
apparentemente priva di controindicazioni, perlomeno per le banche». G. DI GASPARE, Teoria e critica, cit.,
p. XXIII. Sul punto, v. anche F. MERUSI, Per un divieto di cartolarizzazione del rischio di credito, in Banca,
borsa, tit. cred., 2009, 3, pp. 253 ss.
10
7
fisionomia che connota il contesto economico contemporaneo16, sempre più evanescente17
e distante dall’economia reale18.
1.2. Le origini storiche dei derivati finanziari.
Tra le figure che vengono tradizionalmente ricomprese nella fattispecie del derivato
finanziario, quella denominata future è sicuramente la più elementare19: per questa ragione,
un’indagine storica del fenomeno non può che partire da essa.
15
Il riferimento è alla cosiddetta «teoria dei giochi», sviluppata nel 1944 da J. von Neumann e O.
Morgenstern nella celebre pubblicazione Theory of Games and Economic Behavior. Al riguardo, v. P. A.
SAMUELSON – W. NORDHAUS, Economia, cit., p. 192 e pp. 213-221: «il mondo degli affari è ricco di
interazioni strategiche tra i concorrenti, e per analizzarne i risultati gli economisti si basano su
un’affascinante area della teoria economica, nota come teoria dei giochi, che consiste nell’analisi di
situazioni riguardante due o più “giocatori” che devono prendere decisioni e hanno obbiettivi contrastanti».
Invero, alcuni studiosi del fenomeno osservano che «i giochi di economia e politica raramente sono giochi
con informazione completa. Persino con le migliori analisi preliminari, è impossibile individuare in maniera
capillare tutte le possibilità delle tecnologie e dei processi decisionali degli avversari – talvolta sono
dissimulati persino i loro valori. Non abbiamo quindi nulla su cui basarci quando prepariamo la tabella del
gioco»: così, L. MÉRÖ, Calcoli morali. Teoria dei giochi, logica e fragilità umana, Bari, 2000, p. 131.
Sempre sul punto, appare significativa l’equiparazione dell’attuale sistema capitalistico ad un casinò, avente
cioè le caratteristiche proprie di un «gioco nervoso e veloce, teso prevalentemente ai risultati nel breve
termine». M. R. FERRARESE, Le istituzioni della globalizzazione, cit., p. 37.
16
Una critica al complessivo sistema socio-economico contemporaneo proviene dall’ex Ministro delle
Finanze della Grecia, Stato che – com’è noto – sta attualmente attraversando una profonda crisi economicofinanziaria: «la verità è che le nostre società non sono semplicemente ingiuste: sono spaventosamente
inefficaci nella misura in cui disperdono le nostre potenzialità di produrre vera ricchezza». Y. VAROUFAKIS,
È l’economia che cambia il mondo: quando la disuguaglianza mette a rischio il nostro futuro, Milano, 2015.
17
«È, infatti, quella odierna un’economia caratterizzata dall’“incontro ravvicinato” tra tecnica della
finanza e tecnica giuridica, il cui esito è la “creazione” quasi alchemica di prodotti finanziari, di ricchezza
dematerializzata circolante». E. PANZARINI, Il contratto di opzione. Vol. I – Struttura e funzioni, Milano,
2007, p. XXIII. V. anche M. R. FERRARESE, Il diritto al presente, cit.; S. CIPOLLINA, I confini giuridici nel
tempo presente: il caso del diritto fiscale, Milano, 2003; G. SOROS, L’alchimia della finanza, Firenze, 1998;
M. COSSU e P. SPADA, Dalla ricchezza assente alla ricchezza inesistente. Divagazioni del giurista sul
mercato finanziario, in Banca, borsa, tit. cred., 2010, 4, pp. 401 ss. e in iusexplorer.it.
18
«La storia delle dinamiche della globalizzazione e delle sue crisi sistemiche coincide con quella della
progressiva, crescente emancipazione della speculazione finanziaria dai vincoli dell’economia reale e dalle
sue regole di stabilità economica […]. La borsa, pensata in effetti per far incontrare il risparmio con gli
investimenti dell’economia reale gira secondo regole poco adatte alla finanza speculativa. Ma, soprattutto,
risente di un limite strutturale per cui la crescita delle azioni è intrinsecamente condizionata dal riferimento
ad asset di imprese dell’economia reale […]. La speculazione ha bisogno di titoli diversi dalle azioni e di un
mercato più congeniale, ove possa espandersi senza le anguste paratie e recidendo i legami del mercato
azionario con l’economia reale». G. DI GASPARE, Teoria e critica, cit., pp. IX-XXIII.
19
«Il future rappresenta l’archetipo primigenio, la forma più elementare di contratto derivato. Esso
esprime, in una certa misura, la meccanica fondamentale di ogni altro strumento derivato. Nessun derivato,
pur nelle innumerevoli varianti e nella peculiarità del suo essere, prescinde dagli elementi minimi del
future». E. GIRINO, I contratti derivati, Milano, 2010, p. 55.
8
Non è certamente possibile sapere a quando risalgano le prime vendite a termine20,
ma, per quanto interessa in questa sede, la loro presenza è sicura nella vigenza del diritto
romano, posto che già in tale sistema giuridico si faceva ricorso a quell’elemento negoziale
accessorio oggi chiamato termine (dies)21.
Il termine, allora come ora, consiste in una clausola, che le parti possono inserire in un
contratto, contenente l’indicazione del momento – una data o un evento futuro, ma
comunque certo – nel quale si produrranno gli effetti del contratto22. Pertanto, la
produzione dell’effetto rimane incerta in ordine al quando, ma non anche all’an: «[il
termine] crea un’incertezza limitata, che investe non il “se” degli effetti (che sicuramente
si produrranno o cesseranno), ma solo il “quando” della loro produzione o cessazione»23.
È quindi sicuro che i romani avessero già consapevolezza delle potenzialità derivanti
dalla modulazione negoziale del fattore tempo, posto che si avvalevano di esso nell’ambito
delle loro contrattazioni.
Ciò appare confermato, altresì, dal ricorso, nell’ambito della vendita di cosa futura
(emptio rei speratae)24, alla cosiddetta emptio spei25.
20
E. GIRINO, I contratti derivati, cit., p. 31.
21
G. PUGLIESE, (con la collaborazione di F. SITZIA e L. VACCA), Istituzioni di diritto romano. Sintesi2,
Torino, 1998, p. 94.
22
Nello specifico, con l’apposizione di un termine iniziale, indicante cioè il momento a partire dal
quale gli effetti verranno a prodursi, le parti vogliono «differire l’operatività del contratto»: così V. ROPPO,
Il contratto2, in Trattato di diritto privato, diretto da G. Iudica e P. Zatti, Milano, 2011, pp. 601-602. Si badi,
inoltre, che le parti sono in ogni caso vincolate alla «forza di legge» del contratto anche prima dello spirare
del termine. Deve poi essere ulteriormente precisato che il termine del contratto è un concetto che va tenuto
distinto da quello di termine dell’obbligazione. Apporre un termine al contratto, infatti, significa subordinare
la produzione degli effetti contrattuali (ad esempio, la nascita di un’obbligazione) alla sua scadenza. Diverso
è invece il termine dell’obbligazione: in questo caso, l’obbligazione (effetto di altre fattispecie, v. art. 1173
c.c.) è già sorta e il termine, pertanto, agisce sul tempo dell’adempimento (cosiddetta esigibilità). Oltre ad
avere una certa importanza concettuale, tale rilievo ha anche notevoli risvolti pratici: ad esempio, un credito
sottoposto a termine ben potrà essere oggetto di cessione, ex. artt. 1260 s.s. c.c., in quanto già venuto ad
esistenza, posto che il termine concerne soltanto il summenzionato profilo relativo al tempo
dell’adempimento. B. TROISI, Diritto civile (Lezioni)4, Napoli, 2004, p. 113; M. ASTONE, L’aspettativa e le
tutele. Contributo allo studio degli effetti preliminari nelle situazioni di pendenza, Milano, 2006, p. 125.
23
V. ROPPO, Il contratto, cit., p. 603.
24
Con tale espressione ci si riferisce genericamente alla vendita di cosa futura, oggi disciplinata dal
nostro codice civile all’art. 1472. In questo caso, ora come allora, l’obbligazione di pagare il prezzo in capo
al compratore (e, nel diritto romano, anche l’obbligazione di trasferire il diritto in capo al venditore, essendo
la compravendita romanistica ad effetti obbligatori, laddove nell’attuale compravendita – ad effetti reali – il
trasferimento del diritto avverrà invece recta via con la venuta ad esistenza della cosa) sorgerà nel momento
in cui la cosa verrà ad esistenza. Cfr. G. PUGLIESE, Istituzioni, cit., p. 430; A. LUMINOSO, La
compravendita5, Torino, 2008, pp. 60 ss.
9
Al di là degli aspetti strettamente connessi alla compravendita, qui rileva che le parti
ricollegano l’esistenza e, soprattutto, il contenuto della loro obbligazione – e quindi di un
credito e di un correlativo debito – non già alla loro volontà, bensì al verificarsi di eventi
naturali o casuali26.
In particolare, nel caso dell’emptio spei il compratore dovrà pagare in ogni caso una
cifra certa a fronte di una controprestazione dal contenuto incerto.
Per fare un esempio, l’acquirente può obbligarsi a pagare 100 a fronte di uno stock di
beni dal contenuto incerto: ciò significa che il debitore dovrà pagare quella cifra sia che lo
stock contenga 20 beni, sia che ne contenga 150, sia che non ne contenga affatto. Pertanto,
quel che egli acquista è la speranza di acquistare uno stock contenente il maggior numero
di beni possibile, posto che in ogni caso dovrà pagare 100.
Una diversa consapevolezza, e quindi un diverso utilizzo, della suddetta situazione di
lucro sperato si ha però solo nel XVII secolo: è infatti a tale periodo che risalgono le prime
operazioni paragonabili a quelli che oggi chiamiamo future27.
In alcune zone del Giappone iniziarono a circolare, alla stregua di una moneta, delle
ricevute (rice tickets) vendute dai mercanti di riso al fine di ottenere liquidità, relative ad
una certa quantità di riso immagazzinato all’inizio dell’anno28: quel che circola non è
quindi il bene in sé (in questo caso il riso), bensì l’aspettativa di ottenere una certa quantità
di riso in un momento successivo.
In Europa, l’emersione dei future viene ricollegata a quella che viene definita la prima
bolla speculativa29 della storia: ci si riferisce alla cosiddetta febbre dei tulipani.
25
Letteralmente si traduce come «vendita di speranza». «L’esempio riportato dai giuristi classici è
quello dell’emptio in blocco di quanto si riuscirà a pescare, di tutti gli uccelli che si riusciranno a catturare
[…]. In questo caso i giuristi ammettono che sorga l’obbligazione di pagare il prezzo indipendentemente
dall’esistenza concreta della cosa, in quanto oggetto della compravendita sarebbe non la res sperata, ma
l’alea, la speranza cioè di ottenere un vantaggio”. G. PUGLIESE, Istituzioni, cit., p. 430. Più o meno
altrettanto accade anche ai giorni nostri, in riferimento alla vendita di cosa futura con carattere aleatorio e in
cui l’alea copre il deterioramento o il perimento della cosa per caso fortuito (posto che, essendo la vendita di
cosa futura una vendita cosiddetta obbligatoria, il trasferimento del diritto e del rischio in capo al compratore
non è ancora avvenuto). In sostanza, si tratta di una deroga al principio di cui all’art. 1465 c.c. (res perit
domino), per la quale il compratore si obbliga a pagare incondizionatamente, accollandosi il rischio del
perimento per caso fortuito. V. A. LUMINOSO, La compravendita, cit., pp. 66-67. Cfr. però quanto sarà
specificato infra, nel capitolo III, § 2.1.4.
26
G. PUGLIESE, Istituzioni, cit., p. 430.
27
M. MANGIA, Covered warrant e certificates. Una guida pratica ai securitised derivatives, Milano,
2006, p. 14.
28
M. MANGIA, Covered warrant e certificates, cit., p. 14.
29
«Quando l’eccitazione assale il mercato può determinare bolle speculative e crolli. Le prime si
verificano quando i prezzi aumentano perché i cittadini pensano che in futuro i titoli saliranno […]. Una
10
Nell’Olanda del 1600 ci fu un’enorme richiesta di bulbi di tulipani: la compravendita di
tali fiori passò dall’essere pattuita per numero di piante e soltanto d’estate, all’essere
contrattata sulla base del peso dei suoi bulbi e durante tutto l’anno, e quindi anche quando
il fiore non era ancora venuto ad esistenza. Al termine di questa seconda modalità di
contrattazione della compravendita veniva rilasciata una promissory note, ossia un
documento attestante la somma che l’acquirente si impegnava a pagare, il peso e la data di
estrazione del bulbo.
Anche qui, come nel caso del rice ticket, la promissory note iniziò a circolare,
divenendo essa stessa – e non già il fiore – oggetto di successive alienazioni.
In questo contesto si sviluppò anche un imponente meccanismo speculativo: chi
acquistava la promissory note sperava che il valore dei fiori al momento della raccolta
fosse maggiore rispetto al prezzo dei bulbi riportato nella nota stessa; speranza fondata sul
presupposto che la domanda di tulipani in quel momento risultasse essere assai alta. Il
sistema operò per qualche anno, ossia finché il prezzo dei tulipani non crollò, dando luogo
ad un evento diametralmente opposto rispetto a quello auspicato dagli acquirenti delle
promissory note: a causa dell’improvviso calo della domanda, il prezzo del fiore risultò
notevolmente inferiore rispetto a quello dei bulbi, cosicché la nota stessa venne
integralmente privata del suo valore30.
Nel corso dei secoli a seguire si assistette ad un progressivo incremento del ricorso ai
derivati finanziari, il quale si accompagnò allo sviluppo dell’economia e dei mercati. La
loro diffusione raggiunse dimensioni via via sempre più ragguardevoli, finché a metà
dell’800 fu creata la prima borsa dedicata appositamente ai derivati, ossia il Chicago
Board of Trade (C.B.O.T.)31.
Va inoltre rilevato che se fino a quel momento alla base di tali operazioni vi era
sempre stato il valore delle merci (commodities), è solo dalla prima metà del secolo appena
bolla speculativa mantiene le promesse: se i cittadini comprano perché ritengono che le azioni saliranno,
l’atto di acquisto farà salire i prezzi inducendo gli investitori a comprare ancora di più e innescando così
una spirale vertiginosa. Ma a differenza di chi gioca a carte o a dadi, apparentemente nessuno perde quello
che guadagnano i vincitori. Naturalmente i prezzi sono tutti sulla carta e perderebbero qualsiasi consistenza
se tutti cercassero di incassarli […]. Le bolle speculative provocano sempre crolli e a volte scatenano il
panico»; «gli economisti e i professori di finanza studiano da tempo i prezzi dei mercati speculativi come
quelli delle azioni e di merci quali il grano […]. Le moderne teorie economiche sulle quotazioni azionarie
sono riunite sotto il nome di teoria dei mercati efficienti; il loro principio fondamentale può essere riassunto
come segue: non si può superare in astuzia il mercato». P. A. SAMUELSON – W. NORDHAUS, Economia, cit.,
pp. 525 e 527.
30
M. MANGIA, Covered warrant e certificates, cit., p. 15.
31
E. GIRINO, I contratti derivati, cit., p. 34.
11
trascorso che comparvero nel mercato finanziario anche i derivati relativi ad entità
finanziarie, come ad esempio un titolo azionario o valori mobiliari in genere, valute, tassi
di interesse, indici finanziari o misure finanziarie, e così via32.
Per completezza, merita infine di essere segnalata una suggestiva ricostruzione
dottrinale secondo la quale il fenomeno dei contratti derivati contemporanei costituirebbe
una assoluta novità dell’attuale contesto giuridico-economico, priva di qualsiasi
antecedente storico specifico33.
2. La nozione di derivazione.
Occorre ora comprendere cosa debba intendersi esattamente con la locuzione
contratto derivato.
Il termine derivato – che, a partire dagli anni ottanta, ha iniziato ad accompagnare,
nella prassi degli operatori finanziari34, il sostantivo contratto – costituisce la traduzione
letterale dell’aggettivo inglese derivative35.
Preliminarmente, occorre sgomberare il campo da qualsiasi equivoco che potrebbe
sorgere sul piano semantico.
Una parte della dottrina, infatti, rileva che la locuzione contratto derivato non sarebbe
completamente sconosciuta ai nostri giuristi36: l’aggettivo derivato è stato invero utilizzato
per indicare quelle ipotesi in cui un contratto, per volontà delle parti, assume rilevanza in
relazione ad un altro contratto.
32
E. GIRINO, I contratti derivati, cit., p. 14.
«Del resto, se la storia è sempre fondamentale per l’interpretazione dei fenomeni del diritto – perché
il diritto è storia – la nostra storia non inizia con la Bibbia, con gli Ittiti, né con olandesi e tulipani. […] Ha
invece inizio quando sul terreno dei rapporti con funzione finanziaria, ovvero nel mercato della ricchezza
assente, si fa strada l’idea che caratteristica di tali rapporti non è la funzione, appunto, di finanziamento –
esplicativa del rapporto tra ricchezza presente e ricchezza assente ovvero nesso imprescindibile di
collegamento tra economia finanziaria ed economia reale – ed è invece unicamente il denaro quale
prestazione esclusiva, iniziale e finale. […] Quando si completa il capovolgimento dei rapporti di forza tra
economia reale ed economia finanziaria e quest’ultima, da mero strumento, diviene elemento dominante». R.
DI RAIMO, Dopo la crisi, come prima e più di prima (il derivato finanziario come oggetto e come operazione
economica), in Swap tra banche e clienti. I contratti e le condotte, a cura di D. Maffeis, Milano, 2014, pp.
43-44. Sui concetti di ricchezza assente e di ricchezza inesistente, cfr. P. SPADA, Introduzione al diritto dei
titoli di credito, Torino, 1994, e M. COSSU e P. SPADA, Dalla ricchezza assente alla ricchezza inesistente, cit.
34
F. CAPUTO NASSETTI, Profili civilistici dei contratti “derivati” finanziari, Milano, 1997, p. 2.
35
E. GIRINO, I contratti derivati, cit., p. 9.
36
F. CAPUTO NASSETTI, Profili civilistici, cit., p. 3.
33
12
Emerge, quindi, una certa affinità rispetto alle fattispecie del collegamento negoziale e
del contratto accessorio37.
Tuttavia, se il collegamento negoziale e l’accessorietà danno luogo ad una
interferenza38 costante tra i due rapporti, ciò che invece caratterizza i contratti derivati è
proprio la loro autosufficienza rispetto al parametro da cui derivano.
Non solo. Mentre l’accessorietà presuppone, di regola, il collegamento ad un
precedente contratto (ad esempio, un sub-appalto è collegato ad un appalto; una sublocazione è collegata ad una locazione; etc.), per quanto invece riguarda la derivazione ciò
costituisce solo una possibile eventualità: come si è infatti già sopraccennato, i derivati
possono essere riferiti anche al valore di merci (commodities derivatives)39 o ad entità
finanziarie (financial derivatives), come ad esempio un titolo azionario o valori mobiliari
in genere, valute, tassi di interesse, indici finanziari o misure finanziarie, etc.
In base a quanto finora si è detto, si può, per il momento, affermare che si definiscono
contratti derivati quei contratti atipici con i quali le parti, nell’ambito della loro autonomia
privata, conferiscono autosufficienza giuridica40 ad un valore differenziale, il quale deriva,
appunto, dal raffronto del prezzo di un’entità di riferimento considerata in due momenti
diversi41.
37
M. FRANZONI, Il contratto e i terzi, in I contratti in generale, tomo II, a cura di E. Gabrielli, nel
Trattato dei contratti2, diretto da P. Rescigno, Torino, 2006, p. 1242.
38
M. FRANZONI, Il contratto e i terzi, cit., p. 1242.
39
«I derivati su merci e variabili meteorologiche cominciano ad interessare la dottrina. Non si
rinvengono, invece, precedenti giurisprudenziali». D. MAFFEIS, L’ufficio di diritto privato dell’intermediario
e il contratto derivato over the counter come scommessa razionale, in Swap tra banche e clienti. I contratti e
le condotte, a cura di D. Maffeis, Milano, 2014, p. 15.
40
Nei contratti derivati sono infatti le parti ad eleggere il differenziale ad oggetto, autosufficiente e
autonomo rispetto all’entità da cui deriva. Ciò significa che una volta che il valore differenziale è stato
individuato ed isolato dalle parti stesse, questo diventa giuridicamente indipendente ed è destinato a circolare
con regole sue proprie; l’unico legame che il differenziale mantiene con l’entità da cui origina è di tipo
economico, in quanto la misura del valore del primo è indissolubilmente legato alla sorte (economica) della
seconda. Sul punto, cfr. E. GIRINO, I contratti derivati, cit., p. 13.
41
La definizione, volutamente rielaborata in termini più ampi, trae spunto dalle varie proposte avanzate
dalla dottrina nel corso dell’ultimo ventennio. Ex multis: «la categoria dei derivati ricomprende tutti quei
contratti di natura finanziaria consistenti nella negoziazione a termine di un’entità economica e nella
relativa valorizzazione autonoma del differenziale emergente dal raffronto fra il “prezzo” dell’entità al
momento della stipulazione e il suo valore alla scadenza pattuita per l’esecuzione», E. GIRINO, I contratti
derivati, cit., pp. 8-9; «si definiscono “contratti derivati” quei contratti il cui valore deriva dal prezzo di
un’attività finanziaria sottostante, ovvero dal valore di un parametro finanziario di riferimento (indice di
borsa, tasso di interesse, cambio)», F. CAPUTO NASSETTI, Profili civilistici, cit., p. 2; «I contratti “derivati”
sono così chiamati perché “derivano” da un’attività sottostante (sia essa finanziaria o reale)», S. BO – C.
VECCHIO, Il rischio giuridico dei prodotti derivati, cit., p. 7.
13
2.1. Il dato normativo.
Invero, quel che pone maggiori difficoltà all’interprete è la questione relativa alla
identificabilità dei caratteri ontologici che contraddistinguono l’essenza del fenomeno
della derivazione42.
Cronologicamente, il primo dato a venire in rilievo in tal senso proviene dalla Banca
d’Italia, la quale rileva che i derivati finanziari sono «i contratti che insistono su elementi
di altri schemi negoziali, quali titoli, valute, tassi di interesse, tassi di cambio e indici di
borsa. Il loro valore deriva da quello degli elementi sottostanti»43.
La Banca d’Italia, pertanto, in primo luogo afferma espressamente che i derivati
finanziari sono «contratti».
In secondo luogo, deve essere osservato che la nostra banca centrale tende più ad
individuare i caratteri salienti dei derivati finanziari, anziché darne una definizione44.
Pertanto, attribuire a quest’enunciazione il valore di una definizione potrebbe essere
fuorviante: infatti, se è vero che viene esaltata la dimensione economica dei derivati
finanziari, è altrettanto vero che non vi è alcuna indicazione sulla loro natura e struttura
giuridica, limitandosi il suddetto enunciato a fare riferimento all’incidenza «su elementi di
altri elementi negoziali»45.
Sempre cronologicamente, il secondo dato a venire in rilievo proviene dal legislatore,
il quale all’art. 1, comma 3, del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 («Testo Unico della
Finanza», d’ora in poi «tuf») – come modificato dal d.lgs. n. 164 del 17 settembre 200746,
42
F. CAPRIGLIONE, I prodotti “derivati”: strumenti per la copertura dei rischi o per nuove forme di
speculazione finanziaria?, in Banca, borsa, tit. cred., 1995, I, p. 361.
43
Art. 3, aggiornamento n. 112 del 23 giugno 1994 alla Circolare Banca d’Italia n. 4 del 29 marzo
1988. Sito internet: http://www.bancaditalia.it.
44
Tale definizione appare coerente con quanto già è stato affermato in materia dalla dottrina
anglosassone, puntualmente ripresa da quella italiana, secondo la quale la peculiarità di queste fattispecie
risiederebbe proprio nella determinazione contrattuale di un flusso di cassa basato su un sottostante bene
(asset). In questi prospettiva, pertanto, il termine derivative non si dovrebbe tradurre in senso letterale – ossia
“derivato” –, bensì sarebbe più opportuno attribuirgli il significato tecnico di dipendenza: i contratti in
questione si caratterizzerebbero, cioè, per la dipendenza del loro valore da un’attività sottostante. In sostanza,
si dovrebbe parlare di contratti che “insistono su” un’entità sottostante, e non che “derivano da” essa. F.
CAPRIGLIONE, I prodotti “derivati”, cit., p. 361; E. GIRINO, I contratti derivati, cit., pp. 8 ss.
45
E. GIRINO, I contratti derivati, cit., p. 9.
46
Attuazione della direttiva 2004/39/CE relativa ai mercati degli strumenti finanziari, che modifica le
direttive 85/611/CEE, 93/6/CEE e 2000/12/CE e abroga la direttiva 93/22/CEE.
14
il quale recepisce la Dir. 2004/39/CE (nota come «direttiva MiFID»)47 – dispone che «per
“strumenti finanziari derivati” si intendono gli strumenti finanziari previsti dal comma 2,
lettere d), e), f), g), h), i) e j), nonché gli strumenti finanziari previsti dal comma 1-bis,
lettera d)»48.
A differenza di quanto è stato enunciato nella menzionata Circolare della Banca
d’Italia, per il legislatore sembrano essere derivati non i contratti, bensì gli strumenti
finanziari: sarebbe quindi lo strumento che deriva dal contratto49.
Tuttavia, se si considerano le lettere richiamate dallo stesso comma 3 dell’art. 1 citato,
queste fanno tutte riferimento a contratti derivati: la norma andrebbe quindi letta come se
dicesse che i contratti derivati sono a loro volta strumenti finanziari50 derivati.
Diversamente da quanto sostiene una parte della dottrina51, si dovrebbe pertanto
ritenere che è ben possibile riferire l’aggettivo derivato anche al contratto, e che tale
aggettivo venga ripetuto dalla norma accanto al sostantivo strumento solamente per
evidenziarne l’origine.
In altri termini, da un contratto derivato discenderebbe uno strumento derivato.
Inoltre, ciò non significherebbe che si sarebbe innanzi a due entità diverse – ossia il
contratto e lo strumento52 –, bensì darebbe a intendere che l’entità è sempre una: il
contratto.
Tale affermazione appare corroborata da due argomentazioni.
In primo luogo, quello che deriva da un contratto di riferimento è il valore
differenziale, il quale a sua volta diventa autonomo oggetto di distinte e successive
contrattazioni: sarebbero quindi derivati quei contratti che programmano un differenziale.
47
La direttiva 2004/39/CE (cosiddetta. “MiFID”, ossia Markets in Financial Instruments Directive)
riguarda i mercati degli strumenti finanziari e si inserisce nel più ampio Piano di Azione per i Servizi
Finanziari, operante su scala comunitaria. Al riguardo, R. COSTI, Il mercato mobiliare, Torino, 2008, p. 120.
48
Al riguardo, v. R. COSTI, Il mercato mobiliare, cit., p. 120.
49
E. GIRINO, I contratti derivati, cit., p. 10.
50
V. art. 1, comma 2, d.lgs. 24 febbraio 1992, n. 58.
51
«Il secondo e più pregnante significato del termine “derivato” starebbe dunque ad indicare il
processo genetico grazie al quale dalla base negoziale origina (appunto “deriva”) lo strumento finanziario
corrispondente. In definitiva, dunque, l’espressione derivati mal s’accompagna a quella di contratti.
Derivato è piuttosto lo strumento finanziario “che deriva” dal contratto. La conciliazione dei due termini
potrebbe aver luogo utilizzando una più ampia perifrasi quale: contratto da quale deriva uno strumento
finanziario»: E. GIRINO, I contratti derivati, cit., p. 10. Per una più puntuale ricostruzione della questione, v.
A. PIRAS – E. PIRAS, Il ricorso agli strumenti finanziari derivati da parte degli enti pubblici locali,
Dolianova, 2012, pp. 106-111.
52
F. CAPRIGLIONE, Gli swaps come valori mobiliari, in Banca, borsa, tit. cred., 1991, I., 795.
15
In secondo luogo, come verrà meglio chiarito in seguito, i derivati finanziari originano
dalla prassi: sono i soggetti privati che hanno scelto spontaneamente, nell’esercizio della
loro autonomia privata, di contrattare su una nuova entità economica – il differenziale
appunto – attraverso l’utilizzo del contratto, limitandosi il legislatore a recepire (tra l’altro
con ampio ritardo) il fenomeno.
Pertanto, si ritiene che il termine derivato possa e debba continuare ad adoperarsi
accanto al sostantivo contratto, in quanto è indicativo del meccanismo giuridico che sta
sullo sfondo di tali operazioni – ossia, l’elezione ad oggetto del contratto, ad opera delle
parti, di un valore differenziale53 –.
Infine, per mera completezza, è opportuno menzionare la definizione di strumento
finanziario derivato contenuto nei principi contabili internazionali IAS54.
Orbene, il paragrafo 9 del principio contabile IAS 39 definisce il derivato come
«strumento finanziario o altro contratto che rientra nell’ambito di applicazione del
presente Principio con le tre seguenti caratteristiche: a) il suo valore cambia in relazione
al cambiamento in un tasso di interesse, prezzo di uno strumento finanziario, prezzo di una
merce, tasso di cambio in valuta estera, indice di prezzi o di tassi, merito di credito
(rating) o indici di credito o altra variabile, a condizione che, nel caso di una variabile
non finanziaria, questa non sia specifica di una delle parti contrattuali; b) non richiede un
investimento netto iniziale o richiede un investimento netto iniziale che sia minore di
quanto sarebbe richiesto per altri tipi di contratti da cui ci si aspetterebbe una risposta
simile a cambiamenti di fattori di mercato; c) è regolato a data futura».
Ciò detto, giova preliminarmente chiarire la natura dei «principi» appena citati.
In generale, essi costituiscono un sistema di regole contabili per la redazione dei
bilanci societari, applicate appunto a livello internazionale55.
Nella prospettiva comunitaria, al fine di assicurare un maggior livello di trasparenza e
di omogeneità informativa delle società quotate nei mercati regolamentati dell’Unione
53
La problematica fin qui esaminata riveste un’importanza centrale rispetto a tutta la materia dei
contratti derivati, soprattutto per quanto riguarda il profilo causale.
54
Gli IAS (International Accounting Standards), e le relative interpretazioni, le Standing
Interpretations Boards, sono stati adottati dall’International Accounting Standards Board (IASB). Sul punto,
v. G. CORASANITI, Il contratto derivato finanziario tra bilancio e fisco, in Swap tra banche e clienti. I
contratti e le condotte, a cura di D. Maffeis, 2014, Milano, pp. 313 ss.
55
G. CORASANITI, Il contratto derivato finanziario tra bilancio e fisco, cit., 315.
16
Europea, è stata emanata dapprima la Dir. 2001/65/CE del 27 settembre 200156 (cosiddetta
«direttiva sul fair value57»), poi il Reg. CE n. 1606/2002, con il quale sono stati
disciplinati l’adozione e l’utilizzo dei sopraccitati principi contabili internazionali.
L’ordinamento italiano si è poi adeguato al processo di armonizzazione contabile
comunitario in più fasi.
In particolare, il legislatore nazionale:
−
per il recepimento della Dir. 2001/65/CE, ha emanato il d.lgs. 30 dicembre
2003, n. 39458 e introdotto nel codice civile gli artt. 2427-bis (rubricato «informazioni
relative al valore equo fair value degli strumenti finanziari») e l’art. 2428, comma 3, n. 6bis59;
−
in attuazione dell’art. 25 della L. 31 ottobre 2003, n. 306 (Legge Comunitaria
2003), ha emanato il d.lgs. 28 febbraio 2005, n. 3860;
−
con il d.l. 29 dicembre 2010, n. 225 (cosiddetto “decreto Milleproroghe”),
convertito con modificazioni in legge 26 febbraio 2011, n. 10, ha integrato la disciplina
contenuta nel d.lgs. 28 febbraio 2005, n. 38, prevedendosi un nuovo meccanismo di
recepimento dei principi contabili internazionali che saranno adottati successivamente al
31 dicembre 201061.
56
«Direttiva 2001/65/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 settembre 2001 che modifica
le direttive 78/660/CEE, 83/349/CEE e 86/635/CEE per quanto riguarda le regole di valutazione per i conti
annuali e consolidati di taluni tipi di società nonché di banche e di altre istituzioni finanziarie».
57
Il paragrafo 9 del principio contabile internazionale IAS 39 definisce il fair value come «il
corrispettivo al quale un’attività potrebbe essere scambiata, o una passività estinta, in una libera
transazione fra parti consapevoli e indipendenti».
58
«Attuazione della direttiva 2001/65/CE che modifica le direttive CEE 78/660, 83/349 e 86/635, per
quanto riguarda le regole di valutazione per i conti annuali e consolidati di taluni tipi di società, nonché di
banche e di altre istituzioni finanziarie».
59
La nuova disposizione prevede che dalla relazione sulla gestione che deve corredare il bilancio deve
in ogni caso risultare: «in relazione all'uso da parte della società di strumenti finanziari e se rilevanti per la
valutazione della situazione patrimoniale e finanziaria e del risultato economico dell'esercizio: a) gli
obiettivi e le politiche della società in materia di gestione del rischio finanziario, compresa la politica di
copertura per ciascuna principale categoria di operazioni previste; b) l'esposizione della società al rischio
di prezzo, al rischio di credito, al rischio di liquidità e al rischio di variazione dei flussi finanziari».
60
«Esercizio delle opzioni previste dall'articolo 5 del regolamento (CE) n. 1606/2002 in materia di
principi contabili internazionali».
61
In estrema sintesi, le modifiche normative da ultimo menzionate hanno determinato il passaggio da
un modello di recepimento dei principi IAS tendenzialmente immediato e automatico (self executing) – per
l’esame del quale si rinvia a A. ANTONUCCI, Diritto delle banche4, Milano, 2009, pp. 240-242 – ad un
sistema in cui si prevede la possibilità per il ministro della Giustizia, di concerto con il Ministro
dell’Economia e delle Finanze, acquisito il parere dell’Organismo Italiano di Contabilità (OIC) e sentiti la
Banca d’Italia, la Consob e l’Ivass (l’ex Isvap), di emanare un decreto attuativo finalizzato a coordinare i
principi internazioni e la disciplina del bilancio contenuta nel codice civile (cfr. Decreto Ministro
17
Orbene, deve ora essere rilevato che il principio contabile IAS 39 sopraccitato,
nonostante la perentorietà della rubrica del paragrafo 9 («definizione di un derivato»), non
contiene affatto una definizione della fattispecie qui esaminata, limitandosi invero ad
indicare le caratteristiche che qualificano uno strumento finanziario derivato62.
Anche a fini contabili, pertanto, dovrà farsi riferimento alla definizione normativa «di
tipo casistico»63 di cui al citato art. 1, comma 3, tuf, nonostante la stessa sconti alcune
lacune destinate a ripercuotersi sul piano operativo64: ciò a ulteriore conferma della
«scarsa qualità definitoria del legislatore (comunitario e nazionale)»65.
2.2. «Contratti derivati»: categoria unitaria o espressione che indica
fenomeni eterogenei?
Nonostante il dato normativo debba ritenersi inidoneo, per i motivi appena richiamati,
ad identificare una fattispecie astratta66, l’espressione contratti derivati ha trovato
diffusione al punto che in dottrina si è formata l’opinione secondo la quale i contratti
derivati costituirebbero una nuova categoria giuridica67 (rectius: giuridicamente rilevante).
dell’Economia e delle Finanze 8 giugno 2011). G. CORASANITI, Il contratto derivato finanziario tra bilancio
e fisco, cit., 317.
62
A. IANNUCCI, IAS 39: strumenti finanziari derivati, in Guida alla contabilità e bilancio, 2007, 10, p.
61.
63
Così G. CORASANITI, Il contratto derivato finanziario tra bilancio e fisco, cit., p. 330.
64
«Tale definizione risulterebbe difficilmente applicabile alla disciplina delle rilevazioni in
bilancio/contabili in quanto non comprenderebbe i crediti, debiti e contratti derivati su crediti che invece
rientrano nei principi contabili internazionali e che la normativa domestica richiama (art. 2427-bis c.c.);
inoltre, è stato osservato che la definizione del T.u.f. non ha portata generale in quanto non include i titoli di
pagamento ed inoltre che tale articolo dà per scontata l’esistenza di più ampie definizioni di strumenti
finanziari e strumenti finanziari derivati». G. CORASANITI, Il contratto derivato finanziario tra bilancio e
fisco, cit., pp. 331-332; sul punto, v. anche S. BATTASTINI, Gli strumenti finanziari derivati nel diritto
positivo italiano: analisi dei principali lineamenti giuridici e delle maggiori problematiche di tassazione, in
Il fisco, 2004, XIV, pp. 2085 ss.; M. CARATOZZOLO, L’introduzione del “fair value” nella IV e VII direttiva
comunitaria: una prima valutazione, in Riv. Le Società, 2002, pp. 1342 ss.; G. STRAMPELLI e S. SCETTRI, Gli
oneri informativi ex art. 2427-bis, in Obbligazioni. Bilancio, a cura di M. Notari e L. A. Bianchi, Milano,
2006, pp. 573 ss.
65
In questi termini, E. BARCELLONA, Strumenti finanziari derivati: significato normativo di una
«definizione», in Banca, borsa, tit. cred., 2012, V, pp. 541 ss., e in iusexplorer.it.
66
E. BARCELLONA, Strumenti finanziari derivati, cit.
67
Nel linguaggio comune, con il termine categoria si intende la partizione nella quale si comprendono
individui o cose di una medesima natura o di un medesimo genere. Così, nel linguaggio giuridico con la
locuzione categoria giuridica ci si vuol riferire, in generale, a quel concetto o termine giuridico atto a
definire un determinato ambito di applicazione normativa, soggettivamente e oggettivamente delineato: in
questi termini, B. GRANDI, Fatti, categorie e diritti nella definizione del lavoratore dipendente tra common
law e civil law, Torino, 2013, p. 186, in nota; sul punto, v. anche A. FALZEA, Il diritto europeo dei contratti
18
È opportuno, pertanto, verificare se tale affermazione sia corretta e se la locuzione
citata sia effettivamente in grado di descrivere una categoria unitaria, idonea a
ricomprendere una serie di fenomeni negoziali sviluppatisi nella pratica68, o se invero si
debbano seguire altre impostazioni tassonomiche.
2.2.1. «Contratti derivati» come categoria unitaria.
Come si è già avuto modo di rilevare, l’art. 1, comma 3, tuf dispone che la locuzione
«strumenti finanziari derivati» debba essere riferita, in generale, ai contratti di opzione, ai
futures (chiamati «contratti finanziari a termine standardizzati»), agli swaps e agli accordi
per scambi futuri di tassi di interesse, nonché agli altri contratti derivati, i quali possono
essere riferiti alle entità più varie (valori mobiliari, valute, tassi di interesse o rendimenti, o
ad altri strumenti derivati, indici finanziari o misure finanziarie; merci; variabili
climatiche, tariffe di trasporto, quote di emissione, tassi di inflazione o altre statistiche
economiche ufficiali); a questi vanno poi aggiunti gli strumenti derivati per il trasferimento
del rischio di credito (lett. h), i contratti finanziari differenziali (lett. i) e, infine, «qualsiasi
altro titolo che comporta un regolamento in contanti determinato con riferimento ai valori
mobiliari […], a valute, a tassi di interesse, a rendimenti, a merci, a indici o a misure»
(comma 1-bis lett. d).
d’impresa, in Riv. Dir. Civ., 2005, I, p. 7; V. BUONOCORE, Contrattazione d’impresa e nuove categorie
contrattuali, Milano, 2000, pp. 183 ss. e, ID., Le categorie contrattuali alla luce della disciplina comunitaria,
in Diritto privato europeo e categorie civilistiche, Napoli, 1988, p. 133, dove la specifica nozione di
categoria contrattuale viene definita come «un modo di essere della realtà, cui è legata una funzione logica
e ontologica, e non una struttura del nostro intelletto strumentale alla conoscenza della realtà».
68
Sul punto, giova menzionare le riflessioni svolte da FALZEA sulla nozione di contratti di impresa,
posto che anche quest’ultima pone problemi definitori non dissimili da quelli esaminati in questa sede. In
particolare, l’Autore afferma che la locuzione contratti d’impresa costituirebbe «una figura categoriale
empirica e convenzionale, ma di una convenzione costruita dalla prassi giuridica e fissata dal diritto
positivo con la sua ricostruzione e la sua regolamentazione. […] Ogni categoria è fondata su un nucleo
centrale di valori;[…] a supporto del valore centrale possono costituirsi situazioni di valore aggiunto che
hanno, rispetto al valore centrale, sia un ruolo integrativo – e quindi rafforzativo – sia un ruolo specificativo
– e quindi aggregativo –. […] Come il semplice riferimento all’attività, e non anche, agli interessi ad essa
sottostanti – non valeva a configurare gli atti di commercio quale categoria negoziale, non appare
sufficiente alla configurazione di un tipo contrattuale il riferimento alla qualità imprenditoriale di uno o di
entrambi i contraenti. È necessario, al fine di costruire una categoria dogmatica dei contratti di impresa,
spiegare e dimostrare come l’interesse della parte imprenditrice si traduce in una componente della causa
del contratto di impresa, così come sarebbe necessario, per configurare una categoria dei contratti dei
consumatori, verificare come l’interesse di questi soggetti valga a integrare una specifica componente della
causa della relativa fattispecie negoziale». A. FALZEA, Ricerche di teoria generale del diritto e di dogmatica
giuridica, Vol. III – Scritti d’occasione, Milano, 2010, pp. 489-490.
19
Secondo l’impostazione unitaria69 – seguita, almeno sino a pochi anni fa, dalla
dottrina prevalente –, con l’elenco appena richiamato il legislatore, anziché fornire una
definizione di «contratto derivato», si sarebbe limitato a conglobare diverse fattispecie
contrattuali già note alla prassi70, rispondendo in tal modo anche ad esigenze di
razionalizzazione71.
Tuttavia, proprio in quanto originano dalla prassi – e quindi risentono necessariamente
dell’influenza degli interessi perseguiti dalle parti –, i contratti derivati non hanno un
modello astratto72 di riferimento con cui confrontarsi73.
L’assenza, a livello normativo, di un derivato finanziario «allo stato puro»74, pone
quindi notevoli difficoltà all’interprete che voglia individuare, in primo luogo, i caratteri
minimi e comuni a qualsiasi contratto derivato75 e, in secondo luogo, il criterio-guida per
procedere alla specificazione delle varie sottocategorie76.
69
Parla di orientamento unitario, contrapposto a quello antiunitario (sul quale v. infra), E.
BARCELLONA, Strumenti finanziari derivati, cit.
70
«Il nostro legislatore (sulla scorta del legislatore comunitario) ha optato per la tecnica della mera
elencazione di molteplici figure, lasciando all’interprete il compito della eventuale reductio ad unum. E si
dice “eventuale”, giacché non è neanche certo che una simile reductio ad unum sia realmente possibile». E.
BARCELLONA, Contratti derivati puramente speculativi: fra tramonto della causa e tramonto del mercato, in
Swap tra banche e clienti. I contratti e le condotte, a cura di D. Maffeis, Milano, 2014, pp. 109-110. V.
anche G. GALASSO, Options e contratti derivati, in Contr. impr., 1999, II, 1269; R. AGOSTINELLI, Le
operazioni di swap e la struttura contrattuale sottostante, in Banca, borsa, tit. cred., 1997, I, p. 113.
71
«Il dilemma del legislatore stava, pertanto, nel dover scegliere se optare per una tipizzazione
puntuale e particolareggiata delle singole fattispecie, col connesso pericolo di non riuscire ad offrire una
definizione in grado di abbracciare tutte le varianti sviluppate dagli operatori; oppure, viceversa, se fornire
definizioni più sfumate le quali, pur scongiurando il rischio derivante dalla prima alternativa, avrebbero
potuto prestare il fianco ad un’altra critica, altrettanto fondata: quella incentrata sull’indeterminatezza di
un dettato normativo vago, con ovvi riflessi sotto il profilo della certezza del diritto»: così, A. PIRAS – E.
PIRAS, Il ricorso agli strumenti finanziari derivati, cit., p. 60. Sul punto, v. anche G. GALASSO, Options e
contratti derivati, cit., p. 1271.
72
«Il legislatore attuale che, occorre precisarlo, è un legislatore comunitario, prima ancora che
nazionale, ha perso integralmente, e parrebbe averlo fatto scienter, ogni aspirazione a quella che (si
insegnava un tempo) costituiva il quid della attività normativa soprattutto al di qua del canale della Manica:
l’astrazione. E cioè la capacità di enucleare, o se si vuole, distillare, gli elementi essenziali idonei a definire
una fattispecie». E. BARCELLONA, Strumenti finanziari derivati, cit.
73
R. AGOSTINELLI, Le operazioni di swap, cit., p. 113. Nell’ambito degli orientamenti unitari, giova
segnalare l’opinione di chi – muovendo da premesse metodologiche diametralmente opposte a quelle
osservate in questa sede – ritiene «accettabile» l’impostazione adottata dal legislatore alla luce della
«intenzione di includere le novità che emergono nella prassi a rendere preferibile l’adozione di formule
prive di rigide definizioni»: A. PIRAS – E. PIRAS, Il ricorso agli strumenti finanziari derivati, cit., p. 66.
74
In questi termini, con specifico riferimento agli swaps, R. AGOSTINELLI, Le operazioni di swap, cit.,
p. 113.
75
E. GIRINO, I contratti derivati, cit., p. 52.
76
R. AGOSTINELLI, Le operazioni di swap, cit., p. 113.
20
Così, la dottrina che si è preoccupata di individuare un criterio unificante si è mossa in
diverse direzioni.
In primo luogo, viene in rilievo quella parte della dottrina che ha puntualizzato gli
elementi costanti che nel corso degli ultimi decenni sono emersi dallo studio di queste
fattispecie77.
In particolare, sotto il profilo strutturale si segnalano la bilateralità e la
sinallagmaticità delle prestazioni78, nonché la loro esecuzione necessariamente differita
(contratti a termine)79.
Questi elementi strutturali minimi accomunerebbero i tre modelli generali, ossia, i
futures, le options e gli swaps.
Nondimeno, va ribadito che anche questi modelli generali non hanno alcun referente
normativo e sono pur sempre il risultato di un’elaborazione dottrinale. Quest’ultima, a sua
volta, individua in ciascuna specie di contratto derivato vari gruppi e sottogruppi,
identificabili secondo un criterio-guida normalmente di tipo oggettivo80. Gli swaps, ad
esempio, si contraddistinguono per essere la categoria di derivati finanziari più articolata
(interest rate swap; interest rate and currency swap; debt to equity swap; amortizing swap;
diff swap; escalating swap; etc.81; tuttavia, viene osservato che le variazioni sono talmente
marginali da non alterare la struttura di base82, cioè quella di contratto bilaterale aleatorio
ad esecuzione differita83.
Un secondo approccio, invece, si basa sulla specificazione della caratteristica
predominante delle operazioni qui esaminate, trattandosi cioè di scegliere se assuma un
rilievo prevalente l’aleatorietà oppure il loro carattere differenziale84.
Nella prima prospettiva si colloca quella parte della dottrina che tiene in debita
considerazione la funzione astratta dei contratti differenziali, configurandoli come modelli
aleatori85 attraverso i quali le banche e le imprese gestiscono i propri rischi finanziari86.
77
E. GIRINO, I contratti derivati, cit., p. 52; M. LEMBO, La rinegoziazione dei contratti derivati: brevi
note sulle problematiche civilistiche e fallimentari, in Dir. fall., 2005, I, p. 354.
78
M. LEMBO, La rinegoziazione dei contratti derivati, cit., p. 354.
79
E. GIRINO, I contratti derivati, cit., p. 52; M. LEMBO, La rinegoziazione dei contratti derivati, cit., p.
354.
80
R. AGOSTINELLI, Le operazioni di swap, cit., p. 113.
81
F. CAPUTO NASSETTI, Profili civilistici, cit., passim; E. GIRINO, I contratti derivati, cit., p. 111.
82
E. GIRINO, I contratti derivati, cit., p. 112; R. AGOSTINELLI, Le operazioni di swap, cit., p. 113.
83
E. GIRINO, I contratti derivati, cit., p. 53; A. PIRAS, Contratti derivati: principali problematiche al
vaglio della giurisprudenza, in Resp. civ. prev., 2008, 11, p. 2220.
84
F. CAPRIGLIONE, I prodotti “derivati”, cit., p. 360.
21
Nella seconda, invece, si situa quella corrente dottrinale che individua il quid
proprium dei derivati finanziari nel differenziale, ossia il risultato del raffronto del valore
di un bene in tempi diversi, il quale assumerebbe una rilevanza autonoma in seguito
all’interevento dell’autonomia privata (art. 1322 c.c.): in altri termini, con i derivati
finanziari le parti starebbero creando un valore, autonomo dai beni di riferimento e
distintamente circolabile87.
Infine, un ulteriore approccio è quello di chi ritiene di poter esaminare la questione
alla luce della distinzione tra profilo economico e profilo giuridico.
La dottrina che ritiene solo il profilo economico un possibile indice unificante,
escludendo quindi per il medesimo fine quello giuridico, oltre a riscontrare che la
terminologia adoperata a proposito di questi contratti sia mutuata prevalentemente dal
settore economico-finanziario88, rileva che le singole fattispecie costituiscono operazioni
finanziarie89.
In tal senso non può non ravvisarsi una certa contiguità rispetto alla sopraccitata
dottrina che privilegia il profilo funzionale astratto dei derivati finanziari: non è infatti un
caso che anche questa impostazione venga confutata – argomentando, essenzialmente, sul
profilo attinente all’accordo (art. 1321 c.c.) – da parte di chi sostiene che un approccio
meramente economico al fenomeno in esame sarebbe inidoneo a cogliere l’essenza
giuridica dei derivati finanziari90.
85
P. CORRIAS, Garanzia pura e contratti di rischio, Milano, 2006, p. 277, e, sempre dello stesso
Autore, I contratti derivati finanziari nel sistema dei contratti aleatori, in Swap tra banche e clienti. I
contratti e le condotte, a cura di D. Maffeis, Milano, 2014, pp.174 ss.
86
R. CAVALLO BORGIA, Le operazioni su rischio di cambio, in I contratti del commercio, dell’industria
e del mercato finanziario, diretto da Galgano, Torino, 1995, p. 2396.
87
E. GIRINO, I contratti derivati, cit., p. 17.
88
«Options, futures, swaps, per citare i più conosciuti e diffusi – presentano un aspetto unitario che
giustifica la costruzione di una categoria; ma altrettanto non può dirsi sotto il profilo giuridico». G.
GALASSO, Options e contratti derivati, cit., p. 1278. V. anche A. PIRAS, Contratti derivati, cit., p. 2219 e E.
GIRINO, I contratti derivati, cit., p. 10.
89
G. GALASSO, Options e contratti derivati, cit., p. 1278. «Si definiscono operazioni finanziarie gli
scambi di flussi monetari contro flussi monetari che si protraggono in successivi istanti di tempo. Esse si
distinguono in: operazioni finanziarie certe, in cui i flussi e le epoche sono assegnati; operazioni finanziarie
aleatorie, in cui lo scambio di importi monetari si protrae in successivi istanti di tempo essendo gli importi
e/o gli istanti aleatori». A. TRUDDA, Sostenibilità e adeguatezza: il trade-off del sistema previdenziale
italiano, Torino, 2012, p. 139.
90
E. GIRINO, I contratti derivati, cit., p. 10.
22
2.2.2. «Contratti derivati» come espressione che indica fenomeni
eterogenei.
Invero, nell’ambito di quelle impostazioni dottrinali che ritengono di dover
privilegiare il profilo economico della fattispecie in esame, giova dar conto
dell’impostazione secondo la quale la locuzione «contratti derivati» sarebbe inidonea ad
identificare una fattispecie unitaria e, tantomeno, una nuova categoria giuridica91.
Tale orientamento – rimasto sostanzialmente isolato in dottrina – muove dal
presupposto che i termini tecnici del settore finanziario, con i quali vengono identificate le
relative operazioni (ad es., “swap”), non siano idonei ad identificare fattispecie giuridiche
omogenee92.
Ciò significa che l’espressione «contratti derivati» avrebbe «soltanto una valenza
finanziaria» mentre, sul piano giuridico, identificherebbe «una categoria di negozi
giuridici diversi non accomunati in un genus giuridico»93.
A ben vedere, l’impostazione anti-unitaria non nega che i derivati possano costituire
una categoria94: afferma, molto più semplicemente, che gli elementi che connotano i
contratti derivati non possano essere ricondotti ad unità sul piano giuridico.
2.2.3. «Contratti derivati» come locuzione funzionale.
La dottrina più recente ha preso atto dei limiti delle impostazioni sin qui descritte95,
osservando che «il problema interpretativo, per il giurista, non è mai quello puramente
“definitorio” (= identificazione della “essenza in sé” dello strumento finanziario
91
«Prima di cedere alla tentazione di risolvere sommariamente il problema, avallando l’opinione che
considera i contratti derivati una categoria giuridica ben definita, è necessario procedere con cautela»; così,
F. CAPUTO NASSETTI, Profili civilistici, cit., p. 2.
92
F. CAPUTO NASSETTI, Profili civilistici, cit., p. 10.
93
F. CAPUTO NASSETTI, Profili civilistici, cit., p. 3.
94
Invero, sembrerebbe che l’Autore da ultimo citato utilizzi il concetto di «categoria» in senso
atecnico; al riguardo, v., supra, note nn. 55 e 56.
95
«In realtà, il limite comune ad entrambe le posizioni, è, a nostro sommesso avviso, esattamente lo
stesso a dispetto della diversità delle conclusioni concretamente raggiunte: quello di muovere da una
concezione non del tutto appropriata del conoscere giuridico. L’una e l’altra dottrina muovono, invero,
dall’analoga premessa secondo cui conoscere il “derivato” equivarrebbe a scoprirne l’essenza in sé
(potremmo dire: un’essenza in sé pre-giuridica). È, infatti, su questa premessa comune, che la prima ritiene
possibile pervenire a questa conoscenza (il derivato è il contratto teso all’acquisizione del differenziale),
mentre l’altra lo ritiene impossibile (il derivato non è predicabile di un’essenza unitaria)». E. BARCELLONA,
Strumenti finanziari derivati, cit.
23
derivato), bensì quello “funzionale” (= identificazione della logica che ha indotto il
legislatore ad assoggettare una certa fattispecie ad una certa disciplina)»96.
Pertanto, al di là degli aspetti strutturali e sistematici, ciò che accomunerebbe le varie
tipologie di contratto derivato sarebbe – come si avrà modo di chiarire ampiamente nel
prosieguo – la funzione che questo viene chiamato a svolgere, e per comprendere appieno
quale essa sia, in termini astratti, è necessario muovere da alcune premesse logicoeconomiche fondamentali.
Quando un soggetto (creditore) finanzia un altro soggetto (debitore), si espone al
cosiddetto rischio di credito97: ad esempio, si pensi all’ipotesi di un contratto di mutuo98,
tipico contratto di credito, in cui ad una banca (mutuante), dopo che questa ha consegnato
ad un altro soggetto (mutuatario) una determinata somma di denaro, non venga restituita
quella stessa somma.
Orbene, qualora il soggetto mutuatario non adempia la sua obbligazione di restituire il
tantundem, se è vero che il contraente fedele – ossia, la banca mutuante – viene tutelato in
sede giurisdizionale (ex artt. 1218 e 2740 c.c.), è altrettanto vero che dal punto di vista
economico rimane comunque esposto ad una diminuzione patrimoniale99, ancorché
momentanea.
Ciò è ancor più verosimile qualora le parti ricorrano a contratti a termine, posto che la
parte fedele dovrà sopportare, oltre al rischio dell’inadempimento, anche i rischi connessi
al modificarsi delle condizioni – sia personali della controparte, sia del mercato – rispetto
al momento in cui i contraenti decisero di concludere il contratto100.
Il rischio di credito, così com’è appena stato descritto, è sempre stato fonte di
preoccupazione per gli operatori economici e per il legislatore; il nostro codice civile, ad
esempio, contempla diversi istituti che consentono di regolare e disciplinare le
96
E. BARCELLONA, Contratti derivati puramente speculativi, cit., p. 111. Nel caso di specie, l’Autore
riassume il problema nel seguente quesito: «quali sono i “caratteri comuni” degli strumenti finanziari
derivati che hanno indotto il legislatore a richiamare, per renderla inapplicabile a tale fattispecie, la
disciplina di “gioco e scommessa”?».
97
A. PERRONE, Gli accordi di close-out netting, in Banca, borsa, tit. cred., 1998, I, p. 51.
98
R. TETI, Il mutuo, in Trattato di diritto privato2, diretto da P. Rescigno, Vol. XII, Tomo IV, Torino,
2007, pp. 589 ss.
99
A. PERRONE, Gli accordi di close-out netting, cit., p. 51.
100
B. INZITARI, Swap (contratto di), in Contr. impr., 1988, p. 597.
24
conseguenze di tali rischi (si pensi, ad esempio, alla risoluzione del contratto per eccessiva
onerosità)101.
Sotto questa prospettiva, si comprende quale sia la funzione primordiale – e astratta –
dei derivati finanziari, ossia quella protettiva102 o «di copertura» (hedging), da intendersi
come controllo, gestione o neutralizzazione dei rischi legati alle fluttuazioni del mercato
finanziario o valutario103.
Ad esempio, si pensi ad una piccola impresa che, al fine di salvaguardare il proprio
debito da un innalzamento del tasso d’interesse – e quindi per evitare, tra l’altro,
un’oscillazione in peius dell’ammontare delle rate per il rimborso del finanziamento,
salvaguardando così anche il cosiddetto flusso di cassa104 –, decida di sottoscrivere un
contratto di swap105. Orbene, in tal modo le perdite derivanti dal suddetto innalzamento dei
101
B. INZITARI, Swap (contratto di), cit., p. 597. Tra gli strumenti generali per la limitazione del rischio
potrebbe essere ricompreso anche l’istituto della condizione, nella forma della cosiddetta condizione di
adempimento: l’adempimento di una delle parti viene sospensivamente condizionato all’adempimento
dell’altra. Autorevole dottrina ritiene che quest’atto dispositivo degli effetti contrattuali sia senz’altro
ammissibile, sul presupposto che ciascuna parte è arbitra dei propri vincoli, portandosi quindi al di fuori della
logica delle condizioni meramente potestative (nulle): cfr. V. ROPPO, Il contratto, cit., pp. 581 ss. Tuttavia,
pare che questa costruzione possa funzionare, in linea di principio, solo nei contratti sinallagmatici, in cui le
due prestazioni sono tra loro interdipendenti: si pensi ad una vendita in cui l’efficacia traslativa venga
condizionata al pagamento del prezzo. Non appare invece suscettibile di essere adoperata in contratti
bilaterali ma non sinallagmatici, come appunto il mutuo: le obbligazioni sono due, e rispettivamente quella a
carico del mutuante (consegna del denaro, che funge anche da momento perfezionativo del contratto) e
quella a carico del mutuatario (restituzione del tantundem), ma non sono tra loro in un rapporto di
corrispettività. Ciò significa che: a) essendo il mutuo un contratto reale, prima della consegna della somma
non vi sarà alcun effetto da condizionare; b) in capo al mutuante, l’obbligo di restituire il tantundem sorge
nel momento stesso in cui riceve la somma (che è , appunto, il momento in cui il contratto produce i suoi
effetti, e quindi anche l’obbligo stesso). In questi termini, è del tutto evidente che condizionare gli effetti di
un contratto reale all’adempimento dell’obbligo di restituzione costituisce un’assurdità logica e giuridica.
102
E. GIRINO, I contratti derivati, cit., pp. 24 ss.
103
A. PIRAS, Contratti derivati, cit., p. 2225; R. AGOSTINELLI, Le operazioni di swap, cit., p. 114; R.
CAVALLO BORGIA, Le operazioni su rischio di cambio, cit., p. 2396; P. CORRIAS, Garanzia pura e contratti
di rischio, cit., p. 277.
104
Il flusso di cassa (cash flow) indica la capacità operativa e di crescita di un’impresa nel lungo
periodo: più è alto il flusso di cassa e maggiori saranno le possibilità per un’impresa di ottenere la fiducia, e
quindi i finanziamenti, da parte di azionisti e investitori, necessari per lo svolgimento dell’attività. Al
riguardo, F. PEDRIALI, Metodi di valutazione: il modello dei flussi di cassa, in Analisi finanziaria e
valutazione aziendale: la logica applicativa con i nuovi principi contabili internazionali, a cura di F.
Pedriali, Milano, 2006, p. 91.
105
S. TORELLI, Gli strumenti derivati e i rapporti tra gli operatori finanziari e i clienti, in Derivati e
swap. Responsabilità civile e penale, a cura di A. Sirotti Gaudenzi, Rimini, 2009, p. 22.
25
tassi di interesse verrebbero riequilibrate, tramite una sorta di compensazione106
economica, dal lucro (ossia, il differenziale) scaturente dal contratto derivato citato107.
È appena il caso di rilevare che, alla luce della finalità di copertura fin qui illustrata,
secondo una parte della dottrina108 e della giurisprudenza109 i derivati finanziari
corrisponderebbero, sotto il profilo funzionale, al modello assicurativo.
Invero, i contratti derivati, pur essendo nati come mezzi di copertura, sono
progressivamente divenuti strumenti aventi finalità speculativa in senso tecnico e di
arbitraggio110.
Occorre innanzitutto precisare che i due termini non sono sinonimi, in quanto mentre
la speculazione in senso tecnico si basa sul profitto ricavabile attraverso l’utilizzo del
fattore tempo, quello realizzato mediante l’arbitraggio poggia invece sul fattore spazio.
In particolare, la speculazione consiste nel profitto ricavato da una serie di
compravendite a termine: lo speculatore, in sostanza, nello stesso momento in cui acquista
pensa già a quale potrà essere il momento più opportuno per rivendere. L’arbitraggio,
invece, consiste nel guadagno ricavabile dalla differenza di prezzo di uno stesso bene
presente in mercati diversi: ad esempio, se un bene costa 100 a Roma e 150 a Milano, e
considerato che il trasporto da un luogo all’altro costa 10, l’arbitraggista comprerà il bene
a Roma (pagandolo 100) per trasportarlo a Milano (pagando 10 per il trasporto), lucrando
così una differenza pari a 40, data dal raffronto del costo complessivo dell’operazione
(110) con il costo di quello stesso bene a Milano (150)111.
Tuttavia, quando si parla di funzione speculativa (trading)112 si fa riferimento, in
generale, ad entrambe le finalità (speculazione in senso tecnico e arbitraggio).
106
La compensazione, in questo caso solo economica, è da intendersi in senso atecnico, non avendo
niente a che fare con quella disciplinata dal c.c. agli artt. 1241 ss. B. INZITARI, Swap (contratto di), cit., p.
602.
107
In particolare, quello considerato nell’esempio è un Interest Rate Swap. V. anche B. INZITARI, Swap
(contratto di), cit., 602; P. CORRIAS, Garanzia pura e contratti di rischio, cit., p. 277 e A. PIRAS, Contratti
derivati, cit., p. 2225, i quali svolgono considerazioni analoghe sul currency swap.
108
E. GIRINO, I contratti derivati, cit., pp. 25 ss.; B. INZITARI, Swap (contratto di), cit., p. 617.
109
La giurisprudenza di merito, in relazione ad una fattispecie inquadrabile nel contratto di swap (e, in
particolare, di un interest rate swap), ha affermato che tale figura configurerebbe una «forma di
assicurazione, che il cliente stipula, per coprirsi dal rischio che un eccessivo rialzo dei tassi incida troppo
sul mutuo esistente, costringendolo a pagare interessi troppo elevati e da lui non sopportabili». Trib.
Lanciano, 6 dicembre 2005, in Giur. comm., 2007, 1, p. 131, con nota di S. GILOTTA.
110
E. FERRERO, Profili civilistici dei nuovi strumenti finanziari, in Riv. dir. comm., 1992, p. 629.
111
P. A. SAMUELSON – W. NORDHAUS, , Economia, cit., p. 206.
112
R. AGOSTINELLI, Le operazioni di swap, cit., p. 114.
26
Protezione (hedging) e speculazione (trading) possono coesistere all’interno della
medesima operazione, così come può sussistere anche soltanto una di queste funzioni113: la
scelta è rimessa all’autonomia privata e, pertanto, non sempre risulta agevole distinguere
nitidamente le due funzioni114.
Come si è sopraccennato, infatti, il fenomeno in esame nasce dalla prassi115, per cui è
muovendo dall’osservazione di questa che occorre proseguire e sviluppare l’indagine,
costituendo essa la prospettiva privilegiata dalla quale il giurista contemporaneo è
chiamato ad osservare i nuovi strumenti del mercato116.
L’interprete deve allora rivolgere la propria attenzione alla cosiddetta lex mercatoria,
ossia all’insieme delle regole (scritte e non scritte) proprie della società mercantile117 – o,
secondo una terminologia più in linea con i tempi, della business community118 –,
nell’ambito della quale si possono individuare quelli che una parte della dottrina chiama
«principi degli atti commerciali»119.
Da questa prospettiva, emergono in modo chiaro le divergenze metodologiche tra le
precedenti impostazioni (teoria unitaria e anti-unitaria) e quella attuale, che pare appunto
privilegiare l’analisi della prassi.
113
114
E. GIRINO, I contratti derivati, cit., pp. 26 ss.
E. GIRINO, I contratti derivati, cit., p. 27; M. LEMBO, La rinegoziazione dei contratti derivati, cit., p.
355.
115
G. ALPA, voce Prassi, in Digesto, disc. Priv., sez. civ., Torino, 1996, pp. 138 ss.
S. BO – C. VECCHIO, Il rischio giuridico dei prodotti derivati, cit., p. 27. Autorevole dottrina
afferma che «la ricerca non va fatta solo sulla legge scritta. Se con l’autonomia normativa del diritto
commerciale sono caduti i principi relativi alle fonti, non si è certo esaurita la funzione dell’uso, fonte
regolatrice diversa dalla legge ma legittimata dalla legge […]. L’operatività dell’uso si realizza soprattutto
nella materia dei rapporti economici, configurando allora usi speciali». G. OPPO, Principi, cit., pp. 29 ss.
Cfr. anche G. ALPA, voce Prassi, cit., p. 142, il quale menziona la distinzione tra prassi, uso e consuetudine
operata da J. Ghestin nella sua relazione di sintesi al congresso internazionale sul Ruolo della pratica nella
formazione del diritto, tenutosi nel 1983 a Losanna per l’Associazione H. Capitant: «la prassi è un “modo di
agire”, l’uso è un modo di agire antico, costante, notorio e generale, la consuetudine implica la vincolatività
dell’osservanza».
117
In generale, il termine lex mercatoria può essere inteso in due sensi: 1) come concetto che «si
caratterizza unicamente per la specificità della materia cui inerisce e per il dato esteriore di una certa
uniformità a livello internazionale»; 2) come insieme di principi e regole che «costituirebbero niente meno
che un sistema o ordinamento giuridico sopranazionale a sé stante, distinto ed indipendente sia rispetto agli
ordinamenti statali sia rispetto a quello internazionale pubblico […], grazie al quale gli operatori economici
impegnati negli scambi commerciali internazionali riuscirebbero, volendo, a disciplinare i loro rapporti
d’affari indipendentemente dai diritti nazionali». M. J. BONELL, voce Lex mercatoria, in Digesto, disc. Priv.,
sez. comm., Torino, 1996, p. 11.
116
118
119
V. ROPPO, Il contratto del duemila2, Torino, 2005, p. 6.
G. OPPO, Principi, cit., pp. 25 ss.
27
Più esattamente, mentre le prime sono accomunate dal fatto di essere teoriche – e, in
quanto tali, sono funzionali all’astrazione –, la seconda privilegia l’analisi della fattispecie
concreta120, ossia del singolo affare121.
In questo senso, sul presupposto che «il contratto si fa prassi; la prassi genera l’uso;
e l’uso crea la norma», Autorevole dottrina parla di norme create «a colpi di schemi
contrattuali sempre pronti a essere modificati, in un processo di adeguamento serrato e
veloce, secondo le mutevoli esigenze delle imprese predisponenti»122.
Orbene, in primo luogo, se i derivati finanziari affondano le loro radici nella prassi
commerciale, non si dovrebbe allora negare che anche per questi valgano le stesse
considerazioni di ordine sistematico che la dottrina ha già svolto relativamente ai
cosiddetti contratti nuovi (leasing, franchising, factoring, forfaiting, engineering, etc.),
socialmente tipici ma non ancora completamente tipizzati in ambito normativo123.
Questa peculiare forma di tipizzazione costituisce invero un ostacolo foriero di non
poche difficoltà per chi voglia procedere ad un incasellamento sistematico dei contratti
derivati; difficoltà che scaturiscono dal dover preliminarmente vagliare la compatibilità di
modelli sviluppatisi in sistemi di common law con un ordinamento “di diritto scritto” quale
quello italiano124.
In secondo luogo, deve essere rilevato che i tentativi di definizione della fattispecie
più sopra esaminati «si limitano esclusivamente a fornire le ragioni e l’origine della
120
«Nel linguaggio comune l’espressione “prassi” è sinonimo di “pratica” e significa,
riassuntivamente, complesso di pratiche osservate da operatori; è contrapposta a “teoria”, che invece
significa complesso di elaborazioni concettuali e astratte; sicché la prassi, oltre che comportamento
osservato, significa anche tecnica impiegata da operatori, cioè da chi applica le teorie nella vita concreta
(per l’appunto il “pratico”)». G. ALPA, voce Prassi, cit., p. 139.
121
«Un affare è certamente un insieme di atti collegati da un nesso funzionale». G. MIGNONE,
L’associazione in partecipazione, in Il codice civile – commentario, diretto da F. D. Busnelli, Milano, 2008,
p. 65; v. anche, ex multis, Cass. civ., Sez. III, 20 ottobre 2004, n. 20549, la quale, in materia di mediazione
(artt. 1754 ss c.c.) ha precisato tra le altre cose che «il diritto alla provvigione consegue alla conclusione
dell’affare, inteso come qualsiasi operazione di natura economica generatrice di un rapporto obbligatorio
tra le parti».
122
V. ROPPO, Il contratto del duemila, cit., p. 6.
123
«Sono esempi di prassi negoziali introdotte per colmare le lacune del diritto interno le operazioni
economiche tratte da esperienze straniere: sono i cosiddetti “nuovi contratti”, che si individuano, spesso,
con espressioni in lingua straniera; invalsi nell’uso, i nuovi tipi contrattuali ricevono poi correzioni,
adattamenti, variazioni che ne sottolineano o conformano il contenuto assecondando le esigenze del mercato
nazionale […]. Rispondono alla medesima esigenza i nuovi “prodotti finanziari”, come futures, collars,
swaps, ecc.». G. ALPA, voce Prassi, cit., p. 143. Dello stesso Autore, v. anche I nuovi contratti, in Istituzioni
di diritto privato12, a cura di M. Bessone, Torino, 2005, p. 861.
124
Cfr. G. DE NOVA, Il contratto alieno, Torino, 2010, pp. 47 ss.
28
denominazione dello strumento in esame, senza con ciò nulla chiarire a proposito delle
dinamiche contrattuali»125: tale rilievo, si badi, vale sia nei confronti delle definizioni
legislative (art. 1, comma 3, tuf), sia rispetto a quelle tecnico-specialistiche afferenti al
settore bancario (art. 3, Circ. Banca d’Italia 29 marzo 1988, n. 4 e s.m.i.) e contabile
(principio contabile IAS 39, par. 9).
La dottrina più recente ha quindi preso atto che un approccio costruttivo al complesso
tema dei derivati finanziari non può che prescindere da una impostazione fondata sulla
mera analisi etimologica del nomen contrattuale126; ciò è tanto più vero se si considera che
all’interno di tale nozione, come si è sopra rilevato, vengono ricomprese figure contrattuali
che, in concreto, svolgono funzioni assai diverse tra loro.
Appurata quindi la scarsa utilità127 di un approccio sistematico incentrato sulle analisi
delle varie definizioni (e, in particolare, delle definizioni legislative) della fattispecie,
occorre quindi attribuire un peculiare rilievo alla funzione che i derivati sono chiamati ad
assolvere in concreto128.
Inquadrata in questi termini la questione, deve poi essere ulteriormente ribadito che il
contratto derivato, sempre in termini concreti, può anche svolgere soltanto una delle
funzioni sopradescritte in astratto (ossia, quella di copertura e quella speculativa).
Tale assunto risulta di estrema rilevanza.
Infatti, se una finalità esclusivamente protettiva non solleva, in linea di massima, alcun
dubbio sulla liceità o sulla meritevolezza di tutela dell’operazione129, altrettanto non può
invece dirsi per il contratto derivato che persegua finalità meramente speculative130.
125
A. ZUCCARELLO, In nota alla recente giurisprudenza in materia di contratti derivati: il concetto di
“alea razionale” quale criterio di valutazione della validità della causa, in Riv. dir. banc., 3, 2014, p. 3.
126
Sempre rispetto ai cosiddetti contratti nuovi, è stato osservato che «la traduzione del nomen in
lingua italiana spesso dà luogo a semplificazioni riduttive o a sovrapposizioni di antiche tradizioni ai nuovi
fenomeni». G. ALPA, voce Prassi, cit., p. 143. V. anche G. DI GASPARE, Teoria e critica, cit., p. 163: «sullo
sfondo, una neolingua si impone ai media ed è dagli stessi assimilata e promossa con i suoi neologismi
semplificanti».
127
A. PIRAS, Contratti derivati, cit., p. 2225.
128
Lo stesso problema si è presentato rispetto al contratto di leasing. In particolare, «il leasing è stato
tradotto con “locazione finanziaria”, ma questa traduzione mette in rilievo un sotto-tipo di leasing, quello
appunto che ha funzione (o causa) di finanziamento, mentre tiene in ombra il leasing diretto alla
acquisizione di un prodotto (c.d. leasing operativo)».G. ALPA, voce Prassi, cit., p. 143.
129
L’affermazione si fonda sulla considerazione che le parti, attraverso uno schema atipico, starebbero
perseguendo una causa tipica – e quindi già reputata lecita e meritevole di tutela da parte del legislatore –,
ossia quella assicurativa di cui agli artt. 1882 ss. c.c. Al riguardo, B. INZITARI, Swap (contratto di), cit., 620;
E. FERRERO, Contratto differenziale, in Contr. impr., 1992, p. 489.
130
In particolare, CAPRIGLIONE, riferendosi ai titoli sintetici, afferma che «colui che tratta le note
sintetiche per solito è mosso dalla volontà di speculare ed utilizza detti strumenti per assumere rischi, spesso
29
In generale, la finalità speculativa solleva sia problemi di liceità, in relazione alla
pericolosità di tali operazioni131, sia questioni attinenti alla meritevolezza di tutela: ciò
impone di confrontare la fattispecie dei derivati finanziari esclusivamente speculativi con
quella tipica del giuoco e della scommessa (artt. 1933-1935 c.c.)132.
In questa prospettiva, ha suscitato particolare interesse in dottrina la pronuncia della
Corte d’Appello di Milano del 18 settembre 2013, n. 3459, secondo cui «nel derivato [...],
l’oggetto del contratto è costituito da uno scambio di differenziali a determinate scadenze,
mentre la sua causa risiede in una scommessa che entrambe le parti assumono e nello
scambio di rischi conseguente».
Tali questioni saranno ampiamente esaminate nei capitoli successivi.
3. Archetipi di contratti derivati.
Come si è già avuto modo di rilevare, nel diritto positivo è attualmente assente una
normativa specifica in materia di contratti derivati; in particolare, l’art. 1, comma 3, tuf,
nulla dice sulla effettiva fisionomia giuridica della fattispecie qui esaminata, limitandosi
detto articolo a richiamare figure negoziali eterogenee nate e sviluppatesi nella prassi.
Cionondimeno, la dottrina ha cercato di individuare i caratteri essenziali minimi dei
principali archetipi133 di contratto derivato, ossia il future, l’option e lo swap; giova quindi
dare ora conto delle peculiarità che contraddistinguerebbero la struttura e i meccanismi
negoziali di ciascuna delle figure di contratto derivato appena citate.
3.1. Futures.
Si è già avuto modo di chiarire che il future sarebbe la figura di contratto derivato più
risalente nel tempo134; e ciò, verosimilmente, anche in ragione della sua semplicità
strutturale135.
preclusi da disposizioni di diritto interno o da circoscritte deleghe di poteri». F. CAPRIGLIONE, I prodotti
“derivati”, cit., p. 365.
131
A. PIRAS, Contratti derivati, cit., p. 2225.
132
Ex multis, P. CORRIAS, Garanzia pura e contratti di rischio, cit., p. 282.
133
Cfr. F. VITELLI, Contratti derivati e tutela dell’acquirente, Torino, 2013, p. 79: «nell’universo delle
varie tipologie di derivati e delle numerose combinazioni che in questi ultimi anni sono state create dagli
analisti finanziari attraverso tecniche di ingegneria finanziaria, è comunque possibile individuare alcuni
modelli, dei cosiddetti archetipi di contratti derivati, i quali costituiscono la base di ogni successiva
elaborazione».
134
V., supra, in questo Cap., § 1.2.
30
Secondo l’opinione più accreditata, il future consiste in un contratto a termine con il
quale le parti si obbligano, rispettivamente, a comprare e a vendere un certo quantitativo di
beni ad una scadenza determinata e ad un prezzo predefinito136.
Per comprendere appieno la struttura del future e i relativi meccanismi negoziali giova
muovere da un esempio137.
Si consideri la seguente ipotesi: A vuole comprare il titolo x, che attualmente vale 100,
sulla personale convinzione che, trascorso un termine di tre mesi, il titolo varrà 120; al
contrario, B, possessore di un titolo x del valore attuale pari a 100, vuole venderlo, in
quanto teme che fra tre mesi quello stesso titolo varrà 90. I due soggetti si incontrato e
convengono di stipulare una compravendita a termine, in cui A assume la posizione di
acquirente e B quella di venditore, avente ad oggetto il titolo x e fissando
convenzionalmente un prezzo pari a 105138.
Orbene, alla scadenza del termine di tre mesi, possono verificarsi tre eventualità:
1) se il titolo vale, ad esempio, 120 e B si è obbligato a vendere il titolo ad A per 105,
mentre il venditore B perde 15, il compratore A, al contrario, lucra sulla differenza
tra prezzo effettivo (120) e prezzo pattuito (105), guadagnando appunto 15;
2) al contrario, se il titolo vale 95 e A si è obbligato ad acquistare il titolo da B per
105, il lucro pari a 10 (dato dalla differenza tra il prezzo pattuito, 105, e il prezzo
attuale, 95) in tal caso andrà a vantaggio del venditore B e a discapito del
compratore A;
3) se il titolo vale 105, nessuna delle parti guadagna o subisce perdite, in quanto il
prezzo fissato nel contratto corrisponde a quello effettivo.
È appena il caso di notare che l’esempio è stato costruito su un future avente ad
oggetto un titolo; nondimeno, occorre precisare che la dottrina139 individua e specifica due
species nell’ambito del più ampio genus del future, distinguendo tra quello avente ad
oggetto commodities (materie prime, prodotti agricoli o altri beni fungibili) e quello avente
135
F. CAPUTO NASSETTI, Profili civilistici, cit., p. 175.
L. VALLE, Contratti futures, in Contr. impr., 1996, p. 308; E. GIRINO, I contratti derivati, cit., p. 54.
137
L’esempio riprende quello proposto da E. GIRINO in I contratti derivati, cit., pp. 54-55.
138
Tale importo costituisce un punto d’incontro tra le previsioni delle parti, influenzato dalla forza
contrattuale di ciascun contraente. Si badi che le aspettative antitetiche delle parti vengono cristallizzate nella
determinazione convenzionale del prezzo.
139
F. CAPUTO NASSETTI, Profili civilistici, cit., p. 175; L. VALLE, Contratti futures, cit., p. 316; L.
CAPELLINA, I futures, in Amm. e finanza-oro, 1998, 4-bis, p. 14; E. FERRERO, Profili civilistici dei nuovi
strumenti finanziari, cit., p. 629.
136
31
ad oggetto uno strumento finanziario (cosiddetto financial future)140; a sua volta, il
financial future vede variare la sua denominazione a seconda dello strumento finanziario
cui si riferisce, il quale può consistere in titoli a tasso fisso (interest rate futures), valute
(currency futures) o indici azionari (stock index futures)141.
A tale diversità oggettiva, tuttavia, non corrisponde una divergenza funzionale: infatti
il future, sia esso commodity o financial, viene utilizzato – come si è potuto constatare
dall’esempio supra – per fissare anticipatamente il prezzo142 del bene oggetto della
compravendita a termine143.
La possibilità di predeterminare il prezzo dell’attività sottostante consente quindi alle
parti di soddisfare le loro esigenze o di copertura (hedging) o meramente speculative
(trading).
Più esattamente, per quanto riguarda la funzione naturale144 del future, ossia quella
protettiva, tale contratto consentirebbe agli operatori di preservarsi dall’andamento
sfavorevole del mercato, in relazione ad investimenti già effettuati o ancora da svolgere145.
Nell’ambito di tale prospettiva, la dottrina146 suole distinguere tra diverse tipologie di
copertura realizzabili attraverso il future: ad esempio, si pensi a chi possiede un bene nel
mercato “a pronti” e lo vende nel mercato future per cautelarsi rispetto ad una diminuzione
futura dei prezzi (short hedge)147; oppure, a chi, al contrario, acquista nel mercato future
per evitare che un successivo acquisto “a pronti” risulti troppo oneroso (long hedge)148. Va
140
F. CAPUTO NASSETTI, Profili civilistici, cit., p. 176.
Ex multis, E. FERRERO, Profili civilistici dei nuovi strumenti finanziari, cit., p. 629; L. VALLE,
Contratti futures, cit., p. 320.
142
Per quanto riguarda i principi che presidiano la determinazione del prezzo del future, L. CAPELLINA,
I futures, cit., p. 8. In particolare, secondo l’Autore «il principio di “non arbitraggio” è l’ipotesi base su cui
si fonda la derivazione del prezzo di un generico futures. Tale principio afferma che, in equilibrio, il profitto
generato da un’operazione finanziaria priva di rischio deve essere nullo. In base a questo criterio il prezzo
del futures è determinato correttamente, se non è possibile ricavare un profitto da operazioni sul mercato a
pronti su quello a termine».
143
F. CAPUTO NASSETTI, Profili civilistici, cit., p. 178.
144
M. COSSU, Domestic curency swap e disciplina applicabile ai contratti su strumenti finanziari.
Brevi note sul collegamento negoziale, nota a App. Milano, 29 giugno 2004, in Banca borsa tit. cred., 2006,
2, II, p. 168, la quale, trattando di un contratto swap, definisce appunto “naturale” la funzione di hedging.
145
L. VALLE, Contratti futures, cit., p. 314.
146
L. VALLE, Contratti futures, cit., p. 314.
147
Nell’esempio supra, versa in tale situazione B.
148
L. VALLE, Contratti futures, cit., p. 314. Sempre rinviando all’esempio di cui sopra, ciò corrisponde
alla posizione di A.
141
32
inoltre segnalato che la copertura perfetta (perfect hedge)149, ossia quella che importa
l’eliminazione completa del rischio, costituisce una rarità150.
Diversamente, qualora l’operatore non sia titolare di alcuna posizione da proteggere –
e cionondimeno decida di accedere comunque al mercato dei futures – il suo intento sarà
verosimilmente di tipo speculativo (trading)151.
In tale secondo caso, lo speculatore acquista un contratto future mosso soltanto da una
stima previsionale, del tutto personale, nella speranza che la propria valutazione si riveli
corretta, consentendogli perciò di lucrare la differenza tra i prezzi del mercato “a pronti” e
“a termine”152.
A prescindere dall’intento delle parti, da quanto si è sin qui ricostruito è possibile
cogliere la peculiarità che connota l’oggetto dei contratti derivati, ossia la cosiddetta
«astrazione del valore fondamentale»153: alla scadenza del termine, in favore della parte la
cui previsione si sia poi in concreto rivelata corretta, verrà infatti liquidato soltanto il
valore del differenziale, senza che vi sia anche la materiale consegna del titolo154.
3.2. Options.
L’option è il contratto mediante il quale una parte acquista il diritto, dietro il
pagamento di un premio, di comprare (call) o vendere (put) un determinato quantitativo di
beni ad una scadenza determinata e ad un prezzo predefinito (cosiddetto “prezzo di
esercizio” o strike price)155.
Anche in questo caso, per comprendere le dinamiche proprie del contratto di option,
può essere utile muovere da un esempio concreto156.
A e B vogliono compravendere un titolo x “a pronti”; tuttavia, sono mossi da interessi
contrapposti e antitetici. Infatti, mentre l’intenzione di A è quella di lucrare la differenza
149
Tale ipotesi coincide con la terza eventualità vista sopra, ossia quella in cui il prezzo pattuito nel
future coincide con il prezzo reale.
150
L. CAPELLINA, I futures, cit., pp. 10-11; E. FERRERO, Profili civilistici dei nuovi strumenti finanziari,
cit., pp. 630-631.
151
L. VALLE, Contratti futures, cit., p. 315.
152
E. FERRERO, Profili civilistici dei nuovi strumenti finanziari, cit., p. 631.
153
E. GIRINO, I contratti derivati, (ed. 2001), cit., p. 48.
154
R. COSTI, Il mercato mobiliare, cit., p. 149.
155
E. GIRINO, I contratti derivati, cit., pp. 55 ss.; E. FERRERO, Profili civilistici dei nuovi strumenti
finanziari, cit., p. 632; S. BO – C. VECCHIO, Il rischio giuridico dei prodotti derivati, cit., p. 8; A. BERARDI –
L. PELIZZON, Le opzioni, in Amm. e finanza-oro, 1998, 4-bis, p. 24.
156
E. GIRINO, I contratti derivati, cit., p. 56.
33
tra prezzo “a pronti” e prezzo futuro, sul presupposto che allo spirare di un termine il titolo
da lui comperato avrà un valore maggiore rispetto a quello del momento d’acquisto, B,
all’opposto, teme di perdere quello stesso valore differenziale, in quanto paventa che in un
momento successivo il prezzo del titolo da lui posseduto diminuirà.
In questo caso, i due soggetti convengono di stipulare una compravendita a termine –
come nel caso del future –, con la particolarità che ad una delle parti viene attribuito
dall’altra solo il diritto, e non anche l’obbligo, di acquistare o vendere il titolo x ad una
scadenza prefissata.
La differenza tra la fattispecie del future e quella dell’option qui esaminata risiede
perciò sul piano degli effetti: infatti, mentre il future obbliga direttamente a vendere e a
comprare, con l’option l’acquisto o la vendita del bene ad una scadenza prestabilita
(expiration date) divengono facoltativi157.
In sostanza, se il future attribuisce alle parti un diritto soggettivo pieno, cui
corrisponde un correlativo obbligo, l’option attribuisce un mero diritto potestativo158 –
collegato alla contrapposta situazione di soggezione –, il quale non conferisce di per sé un
risultato finale, ma vincola le parti al contenuto di un eventuale contratto finale159.
Pertanto, allo spirare del termine fissato nel contratto di opzione, la parte in capo alla
quale sorge il diritto avrà la facoltà di concludere la compravendita oppure di
rinunciarvi160.
La possibilità di lucrare o di perdere il differenziale tra prezzo “a pronti” e prezzo
futuro, in questo caso, viene poi parametrato non solo ad un prezzo prestabilito – come nel
future –, bensì anche al costo del diritto di opzione (cosiddetto premio): in altri termini, il
premio costituisce il prezzo dell’opzione, ossia il corrispettivo del diritto di acquistare o
vendere ad un determinata data un certo quantitativo di beni161.
Ciò premesso, una prima considerazione deve essere ora svolta in relazione alle
evidenti similitudini che intercorrono tra il contratto di option e l’opzione come modalità
157
E. GIRINO, I contratti derivati, cit., p. 56; E. FERRERO, Profili civilistici dei nuovi strumenti
finanziari, cit., p. 632.
158
G. GABRIELLI, Opzione, in Enc. Giur Treccani, XXI, Roma, 1990, p. 5.
159
G. GABRIELLI, Opzione, cit., p. 3.
160
E. GIRINO, I contratti derivati, cit., p. 56. In merito all’esercizio del diritto di opzione, la dottrina
distingue tra options europee, nel caso in cui l’opzione possa essere esercitata solo alla scadenza del termine,
e options americane, qualora la facoltà di acquisto o di rinuncia possa essere esercitata in qualsiasi momento.
E. FERRERO, Profili civilistici dei nuovi strumenti finanziari, cit., p. 632; A. BERARDI – L. PELIZZON, Le
opzioni, cit., p. 24.
161
E. GIRINO, I contratti derivati, cit., p. 61.
34
di conclusione del contratto, disciplinata dall’art. 1331 c.c.162 (tant’è che una parte della
dottrina reputa l’opzione codicistica come l’antecedente storico del contratto di option)163.
Orbene, com’è noto i tratti essenziali dell’opzione prevista e disciplinata dal nostro
codice civile sono i seguenti: quest’ultima, come si è appena accennato, consiste in una
tecnica di formazione del contratto che si presta ad essere adoperata in qualsiasi
regolamento negoziale, sia esso traslativo o obbligatorio, definitivo o preparatorio164; può
poi assumere la dimensione di una clausola aggiunta ad un regolamento contrattuale
oppure di negozio autonomo165; tra il soggetto attivo (opzionario) e passivo (oblato) si
instaura un rapporto tra situazioni giuridiche soggettive riconducibili, rispettivamente, a
quella del diritto potestativo e della soggezione166.
Invero, quelle appena menzionate sono caratteristiche presenti anche nell’option–
derivato finanziario; non sarebbe quindi irragionevole affermare che quest’ultima figura
sia un contratto che presenta notevoli punti di contatto con l’opzione ex art. 1331 c.c.,
senza tuttavia coincidere mai completamente con essa.
Tale ultima affermazione appare corroborata dal fatto che entrambe le fattispecie
sembrerebbero accomunate dalla medesima ratio, ossia quella di prestarsi come uno
strumento che si adegua alle sempre più complesse pratiche commerciali167; tuttavia,
mentre l’opzione costituisce uno strumento di carattere generale, utilizzabile cioè in
qualsiasi contrattazione, l’option si distinguerebbe dalla prima in ragione della sua
funzione specificamente finanziaria168.
162
E. GIRINO, I contratti derivati, cit., p. 56.
G. GALASSO, Options e contratti derivati, cit., pp. 1274. Tale opinione muove dalla considerazione
che l’opzione, assente nel codice di commercio del 1882, appare per la prima volta nel codice del ’42, al fine
di «disciplinare tecniche di formazione del contratto adeguate alla diffusione e allo sviluppo nelle relazioni
commerciali e in generale economiche». Al riguardo, v. anche G. GABRIELLI, Opzione, cit., p. 1.
164
E. CESARO, Opzione nel contratto, in Enc. Dir., XXX, Milano, 1980, p. 564.
165
G. GABRIELLI, Opzione, cit., p. 2-3.
166
G. GABRIELLI, Opzione, cit., p. 4-5.
167
G. GALASSO, Options e contratti derivati, cit., pp. 1274; A. DI MAJO, Vincoli, unilaterali e
163
bilaterali, nella formazione del contratto, in Istituzioni di diritto privato12, a cura di M. Bessone, Torino,
2005, p. 541.
168
E. GIRINO, I contratti derivati, cit., p. 62. Giova tuttavia tener conto che quanto appena segnalato
costituisce un dato assai controverso in dottrina. Va tra l’altro rilevato che alcuni Autori, anziché limitarsi ad
escludere o ammettere completamente l’assimilazione dell’option con l’opzione di cui all’art. 1331,
preferiscono operare delle distinzioni. In particolare, CAPUTO NASSETTI ritiene che non sia opportuno
distinguere tra l’opzione civilistica e l’opzione finanziaria in esame, qualora quest’ultima abbia ad oggetto
un future su Buoni decennali del Tesoro: in tal caso, infatti, il contratto di option si pone come preparatorio
rispetto ad un secondo contratto, il quale produrrà gli effetti definitivi, così come avviene nella fattispecie
descritta dall’art. 1331 c.c. (contratto attributivo di un diritto potestativo). Al contrario, l’assimilazione tra le
35
Occorre poi rilevare come nel contratto option, e ciò a differenza del future, la
distribuzione del rischio di mercato tra le parti sarebbe connotato da una spiccata
asimmetria169: infatti, mentre il beneficiario dell’option ha un completo controllo del
mercato170 e una perfetta conoscenza della possibile perdita171 – corrispondente al prezzo
dell’opzione, nel caso in cui risulti più conveniente rinunciare piuttosto che stipulare la
compravendita –, il concedente del diritto di opzione resta invece esposto alla facoltà
dell’opzionario di concludere l’affare o di rinunciare all’operazione, a fronte della certezza
di un profitto minimo (il premio)172.
A questo punto si può ben comprendere la centralità del contratto option nella gestione
strategica del rischio di mercato da parte delle banche e delle imprese173, sia per soddisfare
esigenze di copertura, sia per realizzare vantaggi meramente speculativi174.
due fattispecie è da escludersi nel caso in cui l’option abbia ad oggetto tassi di interesse, in quanto in tale
ipotesi il contratto è di per sé perfetto e non si pone come atto prodromico rispetto a un successivo contratto
produttivo di effetti finali: in sostanza, qui le parti si promettono «di pagare una o più somme al verificarsi
di certe variazioni del tasso di interessi». F. CAPUTO NASSETTI, Profili civilistici, cit., pp. 257 e 258; v.
anche G. GALASSO, Options e contratti derivati, cit., pp. 1274; A. PIRAS, Contratti derivati, cit., p. 2218.
169
E. FERRERO, Profili civilistici dei nuovi strumenti finanziari, cit., p. 633; S. BO – C. VECCHIO, Il
rischio giuridico dei prodotti derivati, cit., p. 8.
170
E. FERRERO, Profili civilistici dei nuovi strumenti finanziari, cit., p. 633.
171
E. GIRINO, I contratti derivati, cit., p. 61.
172
Si supponga che il titolo x, al momento della stipula del contratto di opzione, valga 100 e che questo
sia anche il prezzo fissato nel contratto; l’opzione, inoltre, viene prevista a favore del potenziale acquirente
A, il quale ha pagato a tal fine un premio pari a 10:
a) se alla scadenza del termine fissato nel contratto di options il titolo vale, ad esempio, 120, ad A
converrà concludere la compravendita con B. Infatti, l’opzionario A potrà acquistare per 110 – prezzo
ottenuto dalla somma tra quello convenuto nel contratto (100) e il premio (10) – un titolo x che sul mercato
vale 120, lucrando così la differenza tra prezzo del contratto e prezzo di mercato (differenza pari a 10), la
quale, al contrario, per il venditore B costituirà una perdita. Si badi che qualora l’aumento di valore di
mercato del titolo sia pari al valore dell’operazione complessiva (ossia, 110), A non avrà un lucro, e
ciononostante sarà per lui preferibile concludere la compravendita del titolo, essendo comunque obbligato a
pagare il premio (pari a 10);
b) al contrario, se il titolo vale 95, per A sarà più conveniente rinunciare a stipulare la compravendita
con B. Infatti, qualora decidesse di acquistare il titolo, subirebbe una perdita pari a 15, in quanto pagherebbe
110 (dato dalla somma tra il prezzo fissato nel contratto con il prezzo di opzione) un titolo che sul mercato
vale 95. Al contrario, B avrebbe in tale circostanza un lucro pari a 5: difatti, è vero che il titolo da lui
posseduto ha subito un deprezzamento (in quanto il valore è passato da 100 a 95), ma a questo va aggiunto il
prezzo dell’opzione (10), il quale si andrà a sommare al valore di mercato del titolo (95);
c) infine, qualora la perdita di valore di mercato sia invece tale da non poter essere recuperata nemmeno
attraverso il prezzo di opzione, ad esempio 80, tale svalutazione andrà a discapito di entrambi: A molto
probabilmente rinuncerà alla conclusione della compravendita, nonostante sia comunque tenuto al
pagamento del premio (10), mentre B in ogni caso non riuscirà a recuperare la perdita del valore del titolo da
lui detenuto, in quanto possiede un titolo dal valore comunque più basso (90) rispetto al momento della
stipula dell’opzione (100).
173
A. BERARDI – L. PELIZZON, Le opzioni, cit., p. 24.
36
Sotto la prima prospettiva, ossia quella di hedging, le options consentono di limitare il
rischio
delle
perdite
determinate
dai
ribassi
del
mercato,
alla
stregua
di
un’assicurazione175; per quanto invece riguarda le dinamiche speculative, o di trading,
l’investitore può trarre dei vantaggi dalla mera movimentazione dei prezzi combinata con
il valore del premio, senza dovere anche acquistare o vendere necessariamente l’attività
sottostante176.
Ciò detto, deve ora essere precisato che anche nell’ambito delle options si possono
operare diverse distinzioni in sottocategorie, la più rilevante delle quali sembra essere
quella fondata sulla natura dell’attività sottostante: nell’ambito del più generico modello
option, è infatti possibile individuare le commodities options, qualora la compravendita su
cui insiste l’opzione abbia ad oggetto materie prime, prodotti agricoli o altri beni fungibili,
e le financial options, assai più frequenti, le quali possono avere ad oggetto valute, tassi di
interesse177, obbligazioni, azioni o indici azionari178.
Va infine segnalato che nel corso degli ultimi anni, nell’ambito del mercato dei
prodotti derivati, le options – e, come si vedrà subito infra, anche gli swaps – sono quelli
che, al fine di soddisfare le svariate esigenze degli operatori, hanno raggiunto notevoli
livelli di complessità: il riferimento, in particolare, è alle cosiddette “opzioni esotiche”179,
per la comprensione delle quali è il più delle volte necessaria una preparazione tecnica che
va ben oltre i normali standards richiesti ad un operatore di media esperienza.
3.3. Swaps.
Il termine swap (letteralmente «scambio») designa un insieme di operazioni
finanziarie tra loro molto diverse180, accomunate dal fine di governare gli effetti negativi
delle fluttuazioni del mercato finanziario181.
174
E. FERRERO, Profili civilistici dei nuovi strumenti finanziari, cit., p. 633.
A. BERARDI – L. PELIZZON, Le opzioni, cit., pp. 36-37.
176
A. BERARDI – L. PELIZZON, Le opzioni, cit., p. 37
177
F. CAPUTO NASSETTI, Profili civilistici, cit., pp. 193 ss.
178
A. BERARDI – L. PELIZZON, Le opzioni, cit., pp. 31; v. anche E. GIRINO, I contratti derivati, cit., pp.
76 ss.
179
A. BERARDI – L. PELIZZON, Le opzioni, cit., p. 36.
180
F. CAPUTO NASSETTI, Profili civilistici, cit., p. 10; R. CAVALLO BORGIA, Le operazioni su rischio di
cambio, cit., p. 2403.
181
B. INZITARI, Swap (contratto di), cit., p. 597; R. CAVALLO BORGIA, Le operazioni su rischio di
cambio, cit., p. 2397.
175
37
In generale, con tale vocabolo ci si riferisce a quei contratti sinallagmatici, ad effetti
obbligatori e sottoposti a termine, con cui le parti neutralizzano o limitano gli effetti delle
variazioni dei tassi di cambio o di interesse182.
In questo caso, a differenza del future e dell’option, il tratto saliente del contratto è
individuabile non già nell’obbligo (future) o nel diritto (option) di vendere o acquistare,
bensì nello scambio delle rispettive situazioni giuridiche soggettive allo scadere di un
termine avente rilevanza finanziaria, come sono appunto le modificazioni delle valute e dei
tassi di interesse183.
Orbene, come si è accennato, gli swaps si contraddistinguono per essere la categoria di
derivati finanziari più articolata: interest rate swap, interest rate and currency swap, debt
to equity swap, amortizing swap, diff swap, escalating swap, solo per citarne alcuni184.
Tuttavia, la dottrina maggioritaria185 individua le operazioni più importanti di swap in
quelle aventi ad oggetto tassi di interesse (interest rate swap, noto anche con l’acronimo
“IRS”) o valute (currency swap).
In particolare, nello swap di interessi le parti si obbligano a scambiarsi i rispettivi tassi
d’interesse,
relativi
alla
loro
posizione
debitoria
derivante
da
un
contratto
finanziamento186.
Ad esempio187, A e B sono entrambi indebitati per 100; al debito di A è applicato un
tasso fisso del 14%, mentre al debito di B è applicato un tasso variabile, che al momento
del contratto si aggira intorno al 12%. Osservando l’andamento del mercato dei tassi di
182
P. CORRIAS, Garanzia pura e contratti di rischio, cit., p. 277; B. INZITARI, Swap (contratto di), cit.,
p. 603; F. CAPRIGLIONE, Gli swaps come valori mobiliari, cit., p. 792; M. C. MALANDRUCCO, Rischio
finanziario e contratti di swap: la Hammersmith rule (in margine ad un caso recente), in Dir. ed ec.
dell’ass., 1992, 471; E. FERRERO, Profili civilistici dei nuovi strumenti finanziari, cit., p. 634.
183
P. CORRIAS, Garanzia pura e contratti di rischio, cit., p. 277.
184
F. CAPUTO NASSETTI, Profili civilistici, cit., passim; E. GIRINO, I contratti derivati, cit., (ed. 2001),
p. 108 e 121.
185
F. CAPUTO NASSETTI, Profili civilistici, cit., p. 11; R. CAVALLO BORGIA, Le operazioni su rischio di
cambio, cit., p. 2404; E. FERRERO, Profili civilistici dei nuovi strumenti finanziari, cit., p. 636; B. INZITARI,
Swap (contratto di), cit., p. 601 e 609. Inoltre, alcuni Autori affiancano allo swap di interessi e di valute
anche quello su merci (commodities), ossia l’operazione negoziale con cui le parti si scambiano le differenze
di prezzo sulle merci. Tuttavia, il commodities swap viene pur sempre accostato all’interest rate swap, in
virtù dell’analogia strutturale delle operazioni citate. Al riguardo, v. R. AGOSTINELLI, Le operazioni di swap,
cit., p. 118.
186
E. GIRINO, I contratti derivati, cit., (ed. 2001), p. 121; E. FERRERO, Profili civilistici dei nuovi
strumenti finanziari, cit., p. 636; R. AGOSTINELLI, Le operazioni di swap, cit., p. 114; M. BOLDRIN, Gli swap,
cit., p. 41; M. C. MALANDRUCCO, Rischio finanziario e contratti di swap, cit., p. 473.
187
E. GIRINO, I contratti derivati, cit., p. 110.
38
interesse, le parti pervengono a due opposte conclusioni: A prevede che fra 6 mesi i tassi di
interesse scenderanno al 12%, mentre B teme che saliranno al 16%.
Orbene, concludendo un contratto di swap, A e B si scambiano le rispettive condizioni
debitorie, obbligandosi a versare l’uno a favore all’altro la differenza tra il tasso scambiato
e il tasso d’interesse presente in quel momento.
Pertanto:
a) se alla scadenza del termine fissato nel contratto di swap i tassi d’interesse sono
scesi al 12%, lo scambio andrà a favore di A, prima indebitato al 14%, e a
svantaggio di B, il quale, in virtù dello scambio, risulta ora indebitato ad un tasso
fisso pari a 14%. Per concretizzare questo vantaggio, B dovrà corrispondere ad A il
valore monetario equivalente al differenziale tra i due tassi d’interesse (ossia, il
2%), dato dalla differenza tra il tasso fisso del 14% e il tasso attuale del 12%;
b) al contrario, se i tassi d’interesse aumentano del 16%, lo scambio andrà in tal caso a
favore di B: infatti, mentre A (originariamente indebitato a tasso fisso) si trova ora
esposto ad un tasso variabile proprio in ragione dello swap, B ha la certezza di non
trovarsi indebitato per un tasso d’interesse superiore al 14%. In questo caso sarà A,
quindi, a dover versare la l’equivalente monetario pari alla differenza tra i tassi
d’interesse (il 2%) a favore di B.
Va segnalato che il mutuante – e, più in generale, il finanziatore – resta totalmente
estraneo al contratto di swap: infatti, lo scambio interviene solo tra le parti che concludono
il derivato in esame – che possono anche coincidere con le parti del contratto di
finanziamento, ma il discorso non muta – e ha ad oggetto solo il pagamento del
differenziale in favore della parte che ha correttamente previsto l’andamento dei tassi
d’interesse; in altri termini, lo scambio dei tassi di interesse non produce alcun effetto
diretto sul contratto di finanziamento che sta a monte dello swap, posto che quest’ultimo
troverà appunto attuazione attraverso il mero pagamento, previa liquidazione, del
differenziale tra i tassi d’interesse scambiati188.
188
Sul punto, v. infra, cap. III, § 3.1. V. anche M. C. MALANDRUCCO, Rischio finanziario e contratti di
swap, cit., p. 474; E. FERRERO, Profili civilistici dei nuovi strumenti finanziari, cit., p. 636. V. anche E.
GIRINO, I contratti derivati, cit., pp. 55 e 109, il quale tra le altre cose osserva che la versione primigenia
dello swap coinciderebbe con quella dell’accollo interno. Com’è noto, l’accollo – contratto che intercorre tra
un terzo accollante e il debitore accollato con il quale il primo si assume il debito che il secondo ha nei
confronti del creditore accollatario, ex art. 1273 c.c. – è interno qualora il creditore (terzo rispetto al contratto
di accollo) non aderisce alla stipulazione tra il terzo accollante e il debitore. In tale circostanza, non si
verifica l’effetto che la legge ricollega specificamente all’adesione del creditore accollatario (ossia,
l’irrevocabilità dell’accollo nei suoi confronti) e il contratto di accollo resterà efficace solo tra le parti,
39
Pare opportuno ribadire la finalità specifica dell’interest rate swap, ossia quella di
evitare o, quantomeno, limitare gli effetti negativi derivanti dalle fluttuazioni dei tassi di
interesse (e ciò a prescindere dall’internazionalità degli scambi)189.
Per quanto invece riguarda lo swap di valute, il meccanismo è sostanzialmente
coincidente con quello appena esaminato190: anche nel currency swap, pertanto, si avrà
uno scambio di due misure omogenee realizzato attraverso la liquidazione del
differenziale191.
Tuttavia, le peculiarità di tale seconda ipotesi sono individuabili nella specificità
dell’oggetto dello scambio e nella finalità perseguita.
Sotto il primo profilo, l’oggetto di questa tipologia di swap consiste anche in questo
caso nello scambio ad una scadenza prestabilita di un differenziale, ma quest’ultimo – a
differenza dello swap su tassi di interesse – viene ottenuto dalla messa in relazione di
capitali di eguale ammontare espressi in valute diverse192.
In altri termini, il regolamento contrattuale programma il trasferimento di una somma
di denaro di ammontare pari al differenziale determinato dalle fluttuazioni delle valute
contemplate nel contratto di swap193.
In questa prospettiva, inoltre, si può comprendere anche quale sia la finalità specifica
del currency swap rispetto a quella dell’interest rate swap, ossia il controllo, la gestione e
l’azzeramento del cosiddetto rischio di cambio194.
obbligando così il terzo accollante soltanto ad assumersi il debito dell’accollato. A ben vedere, l’assonanza
tra lo swap e l’accollo sussiste proprio sul contenuto dell’obbligo di assunzione di un debito altrui; obbligo
che si concretizza nel tenere indenne un soggetto (il debitore accollato nel contratto di accollo; il contraente
favorito dallo scambio nello swap) dal peso economico del debito, fornendogli, ad esempio, i mezzi il
pagamento. Per quanto riguarda l’accollo, v. P. PERLINGIERI, Soggetti e situazioni soggettive2, Napoli, 2000,
p. 272, e B. INZITARI, Le obbligazioni, in Istituzioni di diritto privato12, a cura di M. Bessone, Torino, 2005,
p. 482.
189
B. INZITARI, Swap (contratto di), cit., p. 609. Come si vedrà subito infra, ciò costituisce un elemento
distintivo rispetto al currency swap.
190
R. AGOSTINELLI, Le operazioni di swap, cit., p. 105; M. C. MALANDRUCCO, Rischio finanziario e
contratti di swap, cit., p. 474; E. FERRERO, Profili civilistici dei nuovi strumenti finanziari, cit., p. 636; R.
CAVALLO BORGIA, Le operazioni su rischio di cambio, cit., p. 2403; E. GIRINO, I contratti derivati, cit., p.
109; M. BOLDRIN, Gli swap, cit., p. 42. Invero, la dottrina non è unanime sul punto: v., ad esempio, F.
CAPUTO NASSETTI, Profili civilistici, cit., p. 14, il quale – in relazione al domestic swap e agli IRS – sostiene
che «trattasi a ben vedere di due contratti assai diversi non solo nelle origini storiche e per i fini pratici che
soddisfano, ma anche per la struttura operativa e legale».
191
E. GIRINO, I contratti derivati, cit., p. 66; M. C. MALANDRUCCO, Rischio finanziario e contratti di
swap, cit., p. 474.
192
E. FERRERO, Profili civilistici dei nuovi strumenti finanziari, cit., p. 636.
193
R. CAVALLO BORGIA, Le operazioni su rischio di cambio, cit., p. 2406.
40
Deve infine osservarsi che lo swap, in generale, è il contratto derivato che ha avuto
maggior successo e diffusione, proprio in quanto si presta a soddisfare molteplici esigenze
e finalità195. In particolare, consente di coprire varie tipologie di rischi, specialmente –
come si è potuto constatare – quelli relativi alle fluttuazioni dei cambi (currency) e degli
interessi (interest rate); può accompagnarsi a diverse forme di finanziamento; permette di
conseguire una riduzione dell’esposizione debitoria; si presta, infine, per realizzare attività
di trading196. È appena il caso di rilevare, inoltre, che le problematiche relative ai derivati
finanziari che sono state recentemente affrontate dalla dottrina e dalla giurisprudenza
riguardano prevalentemente proprio il contratto swap.
4. Contratti derivati e fattispecie affini.
Infine, è opportuno procedere all’individuazione dei confini che separano i contratti
derivati da altre fattispecie che presentano profili di somiglianza.
Una delle prime fattispecie esaminate a tal proposito dalla dottrina197 è quella dei
cosiddetti titoli sintetici198.
In generale, i contratti derivati vengono accostati ai titoli sintetici in quanto ambedue
sarebbero caratterizzati da un collegamento ad altre operazioni sottostanti199. In
particolare, in entrambe le figure il valore dello strumento dipende da un parametro o
indice esterno200; tuttavia, la dottrina201 osserva che mentre nei titoli sintetici le parti si
194
«Il rischio di cambio è il rischio sostenuto da ogni operatore che sia parte di una transazione
commerciale internazionale ed è determinato dalle variazioni intervenute nel rapporto tra valuta nazionale e
valuta straniera in pendenza del rapporto contrattuale». R. CAVALLO BORGIA, Le operazioni su rischio di
cambio, cit., p. 2397.
195
F. CAPUTO NASSETTI, Profili civilistici, cit., pp. 7-9; R. CAVALLO BORGIA, Le operazioni su rischio
di cambio, cit., p. 2403; E. GIRINO, I contratti derivati, cit., p. 55.
196
R. CAVALLO BORGIA, Le operazioni su rischio di cambio, cit., p. 2403; v. anche M. BOLDRIN, Gli
swap, in Amm. e finanza-oro, 1998, 4-bis, pp. 40-41.
197
E. GIRINO, I contratti derivati, cit., p. 11; F. CAPRIGLIONE, I prodotti “derivati”, cit., p. 365.
198
Con tale termine ci si riferisce a quelle «attività finanziarie che, attraverso l’abbinamento di due o
più strumenti finanziari (di cui solitamente almeno uno derivato), consentono di ottenere un’altra tipologia
di strumenti finanziari. Ad esempio, un titolo di debito a tasso fisso abbinato ad uno swap […] consente di
riprodurre per sintesi un titolo di debito a tasso variabile». P. BIFFIS, Il settore bancario2, Venezia, 2008, p.
344; v. anche F. M. GIULIANI, I “titoli sintetici” tra operazioni differenziali e realità del riporto, in Diritto e
pratica tributaria, I, 1992, pp. 878 e 879.
199
F. CAPRIGLIONE, I prodotti “derivati”, cit., p. 366. Si segnalano, inoltre, alcune voci in dottrina e in
giurisprudenza che a tal proposito distinguono tra contratto collegato e contratto complesso, anche se i due
termini non sembrano avere una nitida indipendenza concettuale. Al riguardo, v. F. M. GIULIANI, I “titoli
sintetici”, cit., pp. 880 e 881.
200
F. CAPRIGLIONE, I prodotti “derivati”, cit., p. 366.
41
limitano a compendiare in un unico atto effetti già prodotti da altri strumenti esistenti, con
i contratti derivati, al contrario, i contraenti generano un nuovo strumento finanziario202.
Sempre in ambito finanziario, e in particolare in quello dei contratti di borsa, la
dottrina203 ha accostato i derivati finanziari anche al contratto di riporto (artt. 1548 ss.
c.c.)204.
Sotto il profilo strutturale, in particolare, anche il riporto si configura come un
contratto unitario nell’ambito del quale sono individuabili due operazioni (nello specifico,
un momento traslativo e uno obbligatorio)205; inoltre, tra le sue funzioni rientrerebbe
anche206 quella di finanziamento. In particolare, ciò si verifica quando, sotto il profilo
giuridico, il soggetto bisognoso di un finanziamento (il riportato) possiede dei titoli e non
vuole né disfarsene, vendendoli definitivamente, né costituirli in pegno, a garanzia del
finanziamento207; al contempo, dal punto di vista economico, il prezzo pagato dal
201
E. GIRINO, I contratti derivati, cit., pp. 11 e 12.
A tal proposito, GIRINO afferma significativamente che «il contratto derivato si pone dunque come
ponte fra lo strumento negoziale e lo strumento finanziario. […] La stessa stipulazione di un contratto
derivato costituisce ad un tempo atto negoziale e mezzo di generazione dello strumento». E. GIRINO, I
contratti derivati, cit., p. 12; v. anche F. CAPRIGLIONE, I prodotti “derivati”, cit., p. 365.
203
E. GIRINO, I contratti derivati, cit., pp. 182 ss.; M. C. MALANDRUCCO, Rischio finanziario e
contratti di swap, cit., p. 475; R. CAVALLO BORGIA, Le operazioni su rischio di cambio, cit., p. 2404; F. M.
GIULIANI, I “titoli sintetici”, cit., passim.
204
Con il contratto di riporto, il riportato trasferisce, dietro il pagamento di un prezzo predefinito, la
proprietà di una determinata specie di titoli di credito al riportatore, il quale, a sua volta, si obbliga a
trasferire al riportato, entro un termine altrettanto determinato, la proprietà di una stessa quantità di titoli
della medesima specie, dietro il pagamento del rimborso di un prezzo che può essere maggiore o minore
rispetto al prezzo convenuto dalle parti. Si tratta di un contratto reale ad efficacia reale: l’art. 1549 –
rubricato «perfezionamento del contratto» - dispone infatti che il contratto si perfeziona con la consegna dei
titoli. La fattispecie contrattuale in esame trova applicazione principalmente in borsa; tuttavia, il riporto
potrebbe essere posto in essere anche al di fuori di essa. G. F. CAMPOBASSO, Manuale di diritto
commerciale, III ed., Torino, 2004, p. 477; V. BUONOCORE, L’intermediazione finanziaria, in Istituzioni di
diritto privato, a cura di M. Bessone, XII ed., Torino, 2005, p. 1075.
205
G. F. CAMPOBASSO, Manuale di diritto commerciale, cit., p. 477; v. anche F. M. GIULIANI, I “titoli
sintetici”, cit., pp. 913 ss., il quale esamina nello specifico le varie correnti dottrinali che affrontano i
rapporti intercorrenti tra riporto e doppia compravendita.
206
Tra le funzioni del riporto, oltre a quella di finanziamento a favore del riportato, rientra anche quella
di procurare al riportatore, per un limitato periodo di tempo, determinati titoli di credito. Si pensi all’ipotesi
in cui il riportatore sia socio di una s.p.a. e abbia necessità di rafforzare la propria posizione in assemblea e,
anziché acquistare definitivamente le azioni, le prende a riporto. In questo caso, l’operazione prende il nome
di deporto, proprio a sottolineare che il compenso (differenza tra prezzo “a pronti”, pagato dal riportato, e
prezzo “a termine”, dovuto dal riportatore), in tal caso, è dovuto dal riportatore al riportato. G. F.
CAMPOBASSO, Manuale di diritto commerciale, cit., p. 478; V. BUONOCORE, L’intermediazione finanziaria,
cit., p. 1076.
207
V. BUONOCORE, L’intermediazione finanziaria, cit., p. 1076.
202
42
riportatore (comprensivo degli interessi nel frattempo maturati) equivale a quello pagato
dal riportato nella fase iniziale della fattispecie208.
Ciò detto, occorre ulteriormente precisare che la dottrina209 ravvisa una certa
vicinanza tra il contratto in parola e i derivati – in particolare, gli swaps – proprio in
relazione al profilo strutturale, in quanto in entrambe le fattispecie si programmerebbe uno
scambio attraverso la combinazione di due momenti traslativi: infatti, nel riporto si
avrebbe, in sostanza, un momento traslativo “a pronti”, ad opera del riportato, e uno “a
termine”, a cui si è obbligato il riportatore.
Da tale circostanza, alcuni voci in dottrina ammettono l’applicabilità della disciplina
codicistica del riporto al contratto di swap210.
Nondimeno, altri Autori211 ritengono che i contratti derivati non possano essere
accostati al riporto. Tra le varie argomentazioni addotte da tale impostazione contraria
emergono, in primo luogo, quella secondo cui nel riporto, e a differenza di quanto accade
nel caso dei derivati finanziari, il rischio delle parti è predeterminato212 e, in secondo
luogo, quella secondo la quale le due operazioni poggerebbero su due distinti profili
causali (nella specie: controllo e gestione del rischio nei derivati; eventuale finanziamento
nel riporto213).
Il riporto è una sottospecie della vendita a termine di titoli di credito214, e proprio
nell’ambito della più generale vendita a termine la dottrina215 ha talvolta riscontrato
similarità rispetto ai contratti derivati.
Ad esempio, il future, come si è già accennato, è definibile come il contratto a termine
con il quale una parte si obbliga a comprare e/o a vendere un certo quantitativo di beni ad
una scadenza determinata e ad un prezzo predefinito.
208
F. M. GIULIANI, I “titoli sintetici”, cit., p. 912.
M. C. MALANDRUCCO, Rischio finanziario e contratti di swap, cit., p. 476.
210
M. C. MALANDRUCCO, Rischio finanziario e contratti di swap, cit., p. 476.
211
E. GIRINO, I contratti derivati, cit., p. 183.
212
Nel contratto di riporto, infatti, il rischio delle parti è predeterminato, in quanto l’effetto finale
dell’operazione sarà il conseguimento di un differenziale certo, tale in quanto dipende da un accordo delle
parti, e non già incerto perché soggetto alle fluttuazioni del mercato – come nei contratti derivati – E.
GIRINO, I contratti derivati, cit., p. 183-184.
213
E. GIRINO, I contratti derivati, cit., pp. 184.
214
E. GIRINO, I contratti derivati, cit., p. 183.
215
E. GIRINO, I contratti derivati, cit., pp. 178 ss.; R. CAVALLO BORGIA, Le operazioni su rischio di
cambio, cit., p. 2422; D. PREITE, Recenti sviluppi in tema di contratti differenziali semplici (in particolare
caps, floors, swap, index future), in Il dir. del comm. internaz., 1992, P. 184; L. VALLE, Contratti futures,
cit., p. 344; M. C. MALANDRUCCO, Rischio finanziario e contratti di swap, cit., p. 473; F. M. GIULIANI, I
“titoli sintetici”, cit., p. 915.
209
43
Innanzitutto, dal punto di vista funzionale, va osservato che la finalità fisiologica del
future non è il trasferimento della ricchezza, bensì – come meglio verrà chiarito nei
capitoli successivi – è quella di costituire uno strumento deputato ad assolvere funzioni di
copertura (hedging) e speculazione (trading).
In altri termini, il future e, in generale, i derivati finanziari, a differenza della
compravendita, non sarebbero, almeno direttamente216, strumenti per lo scambio e la
circolazione di beni217.
Oltre a ciò, sempre sotto il profilo strutturale, pare opportuno muovere da una
riflessione sul ruolo svolto dall’autonomia privata nelle fattispecie qui esaminate. Occorre
premettere che sia nella compravendita a termine che nel future, è presente un differenziale
(ossia, la differenza tra il prezzo pattuito al tempo del contratto e il valore del bene alla
scadenza del termine); tuttavia, è proprio l’atteggiarsi della volontà delle rispetto a tale
elemento che distingue le due fattispecie.
In particolare, se nella compravendita a termine il differenziale è un effetto indiretto
programmato dalle parti per avere un lucro immediato alla scadenza pattuita, destinato
quindi a rilevare, primariamente, sul piano economico, nel future il differenziale
costituisce direttamente l’oggetto del contratto218.
Inoltre, va osservato che non solo il future, ma anche lo swap e l’option sono stati
accostati da alcuni Autori alla compravendita, sul presupposto che la moneta, oltre ad
essere una unità di misura per calcolare il valore delle merci, possa altresì essere
considerata una merce219.
Nondimeno, anche per queste due figure deve essere esclusa l’assimilazione alla
struttura e alla funzione della compravendita: infatti, come si è appena affermato, l’oggetto
del derivato non è lo scambio di denaro contro prezzo, bensì è il pagamento di un
216
Si pensi, ad esempio, all’ipotesi di derivato in cui alla scadenza del termine viene liquidato soltanto
il valore del differenziale, senza che ci sia anche la materiale consegna del titolo (cosiddetta «astrazione del
valore fondamentale»). E. GIRINO, I contratti derivati, (ed. 2001), cit., p. 48; R. COSTI, Il mercato mobiliare,
cit., p. 149.
217
L. VALLE, Contratti futures, cit., p. 344; D. PREITE, Recenti sviluppi in tema di contratti differenziali
semplici, cit., p. 186.
218
«Il differenziale, infatti, mentre nel contratto a termine costituisce un effetto dell’accordo, nel
derivato ne costituisce invece l’oggetto». E. GIRINO, I contratti derivati, cit., p. 17; in senso contrario, cfr. M.
C. MALANDRUCCO, Rischio finanziario e contratti di swap, cit., p. 474, secondo la quale nei derivati (nel
caso di specie, uno swap di valute) così come nei contratti di acquisto e vendita a termine (nel caso specifico,
di valuta), «l’oggetto del contratto è piuttosto il pagamento di un differenziale tra tassi di cambio e tassi di
interesse».V. anche infra, cap. III, § 2.
44
differenziale220; inoltre – come meglio verrà appurato nei prossimi capitoli – sembrerebbe
da escludere che la precipua funzione dei contratti derivati sia quella di far circolare la
ricchezza221.
Per gli stessi motivi fin qui illustrati, inerenti alla funzione propria dei derivati
finanziari, questi ultimi vanno tenuti distinti anche da altri contratti sinallagmatici tipici,
come ad esempio la somministrazione222 e la permuta223.
219
D. PREITE, Recenti sviluppi in tema di contratti differenziali semplici, cit., p. 184; M. C.
MALANDRUCCO, Rischio finanziario e contratti di swap, cit., p. 473.
220
M. C. MALANDRUCCO, Rischio finanziario e contratti di swap, cit., p. 474. Va osservato che non
tutta la dottrina chiude totalmente all’eventualità di ricondurre i contratti derivati alla compravendita; ad
esempio, CAVALLO BORGIA, in tema di domestic swap, afferma che «la possibilità che l’operazione
finanziaria venga liquidata per saldi e senza lo scambio degli importi totali non trasferisce la fattispecie
negoziale al di fuori della sfera generale di un contratto di compravendita di valuta». R. CAVALLO BORGIA,
Le operazioni su rischio di cambio, cit., p. 2423. Un’altra figura alla quale sono stati accostati i derivati è
quella del contratto differenziale. Si tratta di una fattispecie disciplinata nel codice civile tedesco (BGB),
consistente in una compravendita in cui le parti non si obbligano né a vendere, né a consegnare il bene, né a
pagare il prezzo, bensì a pagare una parte all’altra la sola differenza di prezzo tra quello originariamente
convenuto e quello vigente al tempo della consegna. Pertanto, la parte che avrà avuto «il merito o la fortuna»
(così INZITARI) di aver previsto il prezzo più conveniente rispetto a quello presente sul mercato al tempo
della consegna, beneficerà del guadagno su tale differenza. Tuttavia, l’esistenza e la validità dei contratti
differenziali nell’ordinamento italiano è vivamente discussa. B. INZITARI, Swap (contratto di), cit., pp. 621 e
622; E. FERRERO, Contratto differenziale, cit., p. 489.
221
L. VALLE, Contratti futures, cit., p. 344; D. PREITE, Recenti sviluppi in tema di contratti differenziali
semplici, cit., p. 186.
222
La somministrazione (artt. 1559 ss. c.c.) è il contratto di scambio con il quale una parte, dietro il
pagamento di un prezzo, si obbliga ad eseguire a favore dell’altro prestazioni periodiche o continuative di
cose. In relazione al contratto di somministrazione, PREITE afferma quanto segue: «credo si possa
condividere la tesi del Chiomenti, per cui i contratti cap, floor e collar (siano essi relativi a tassi di interesse
che a tassi di cambio) debbono assimilarsi a compravendite di denaro e, in quanto assumano la veste di
contratti di durata, a contratti di somministrazione». D. PREITE, Recenti sviluppi in tema di contratti
differenziali semplici, cit., p. 184. Orbene, mentre per quanto riguarda la prima parte di tale affermazione si
rinvia a quanto detto supra circa la riconducibilità o meno dei derivati (in questo caso, si tratta di particolari
tipi di opzione) nell’alveo della compravendita, quel che suscita perplessità è il secondo inciso della frase
(«[…] debbono assimilarsi a compravendite di denaro e, in quanto assumano la veste di contratti di durata,
a contratti di somministrazione»). Infatti, l’Autore sembrerebbe dare per scontato che qualora una
compravendita sia “di durata” – e già tale affermazione pare di per sé quantomeno equivoca – si debba
necessariamente parlare di somministrazione, e non già, eventualmente, di vendita a consegne ripartite. In
realtà, secondo un’altra parte della dottrina non sarebbe opportuno accostare la somministrazione alla
compravendita, e ciò in base essenzialmente a due argomentazioni. Anzitutto, nella vendita la prestazione del
venditore (trasferimento del diritto), anche se può essere suscettibile di essere divisa (come nella menzionata
vendita a consegne ripartite), è sempre unica e istantanea; al contrario, nella somministrazione, almeno
quando sia di consumo – quando cioè si ha il passaggio di proprietà delle cose – si avrebbero una pluralità di
prestazioni, tra loro autonome. In secondo luogo, mentre la vendita presuppone un interesse istantaneo e
unitario del compratore, la somministrazione postula, al contrario, un bisogno periodico del somministrato.
G. BONILINI, I contratti relativi al trasferimento di beni, in Istituzioni di diritto privato12, a cura di M.
Bessone, Torino, 2005, p. 749; A. LUMINOSO, La compravendita, cit., p. 133. Ricostruita la questione in
45
Infine, come si è già segnalato, la dottrina224 e la giurisprudenza225 hanno accostato i
derivati finanziari, sotto il profilo funzionale, al contratto di assicurazione.
In particolare, tra le finalità dei contratti derivati rientrerebbe anche quella di copertura
o protezione (hedging) – da intendersi come possibilità di esercitare il controllo, la
gestione o la neutralizzazione dei rischi legati alle fluttuazioni del mercato finanziario o
valutario226 –; da tale circostanza, una parte della dottrina227 desume che i derivati
finanziari esprimerebbero una forma avanzata di assicurazione, le cui peculiarità
consisterebbero nell’assenza di un premio228 e nella certezza di realizzare guadagni o
perdite sempre per l’intero229.
Nell’ambito di tale impostazione, qualche altro autore230 si spinge fino ad osservare
che la causa dei contratti derivati consisterebbe, tout court, nel trasferimento del rischio
questi termini, l’affermazione di PREITE potrebbe a questo punto essere intesa nel senso di considerare la
somministrazione alla stregua di un contratto-quadro (v. infra) attraverso il quale le parti programmano una
serie indefinita di trasferimenti, riproponendosi in tal modo le problematiche specifiche al rapporto tra la
compravendita e i derivati.
223
La permuta (artt. 1552 ss. c.c.) è il contratto con cui le parti programmano il reciproco trasferimento
della proprietà di cose o si altri diritti. In sostanza, i contraenti programmano uno scambio di diritto contro
diritto, differendo in ciò con la compravendita (scambio di diritto contro prezzo). G. BONILINI, I contratti
relativi al trasferimento di beni, cit., p. 745. Per quanto riguarda l’accostamento dei contratti derivati alla
permuta, pertanto, si rinvia alle osservazioni illustrate supra in tema di compravendita; v. anche S. GILOTTA,
In tema di interest rate swap, nota a Trib. Lanciano, 6 dicembre 2005, cit., pp. 141 e 142.
224
B. INZITARI, Swap (contratto di), cit., p. 617; G. GALASSO, Options e contratti derivati, cit., p. 1291;
E. FERRERO, Profili civilistici dei nuovi strumenti finanziari, cit., p. 638; R. CAVALLO BORGIA, Le
operazioni su rischio di cambio, cit., p. 2423; E. GIRINO, I contratti derivati, cit., p. 25; S. GILOTTA, In tema
di interest rate swap, cit., pp. 140 e 141.
225
Trib. Lanciano, 6 dicembre 2005, cit., p. 132.
226
R. AGOSTINELLI, Le operazioni di swap, cit., p. 114; R. CAVALLO BORGIA, Le operazioni su rischio
di cambio, cit., p. 2396; P. CORRIAS, Garanzia pura e contratti di rischio, cit., p. 277; A. PIRAS, Contratti
derivati, cit., p. 2225.
227
E. GIRINO, I contratti derivati, cit., p. 25.
228
Il premio è il corrispettivo che l’assicurato versa all’assicuratore in cambio della prestazione
dell’attività assicurativa. A. DONATI – G. VOLPE PUTZOLU, Manuale di diritto delle assicurazioni7, Milano,
2002, p. 109.
229
Al riguardo, cfr. E. GIRINO, I contratti derivati, cit., pp. 25 e 55-57.; v. anche G. GALASSO, Options
e contratti derivati, cit., pp. 1285 e 1289, il quale, sempre in tema di options, afferma che nella
contrattazione standardizzata, e quindi in presenza della Cassa di Compensazione e Garanzia (CC&G), il
cosiddetto sistema dei margini – per il quale, v. infra – concretizza le funzioni principali delle options, ossia
la sicurezza, in termini di efficienza e solvibilità, del mercato e la realizzazione dell’interesse, oltre a quello
eventuale di mera speculazione, di copertura dei rischi.
230
B. INZITARI, Swap (contratto di), cit., p. 617; G. GALASSO, Options e contratti derivati, cit., p. 1291;
E. FERRERO, Profili civilistici dei nuovi strumenti finanziari, cit., p. 638.
46
finanziario e valutario da un soggetto ad un altro231; la prestazione si caratterizzerebbe per
la sua incertezza, sia per quanto riguarda il suo ammontare, sia in relazione al soggetto che
sarà tenuto ad eseguirla232; lo svolgimento dell’attività ad opera delle controparti
professionali – in particolare, banche e intermediari autorizzati – sarebbe assimilabile,
sotto il profilo funzionale, a quella di una impresa assicurativa233.
Tuttavia, la funzione di hedging dei derivati finanziari può essere assimilata a quella
assicurativa solamente in senso lato234, soltanto cioè in una prospettiva tecnicoeconomica235.
Infatti, in primo luogo il rischio contemplato dai derivati finanziari e dal contratto di
assicurazione, pur presentando notevoli profili di analogia, viene modulato in modo
completamente diverso; in particolare, mentre con il contratto di assicurazione ha luogo
una mera deviazione degli effetti del rischio dalla sfera dell’assicurato a quella
dell’assicuratore, dietro il pagamento di un premio, con i contratti derivati – e, in
particolare, con lo swap – si ha una più complessa e articolata distribuzione del rischio236.
Da ciò discende, inoltre, che non è dato sapere ex ante quale contraente assumerà la
posizione dell’assicurato e quale quella dell’assicuratore237.
Per di più, a ciò si aggiunga che, in ambito di contrattazioni uniformi, la prestazione
scaturente dal derivato, solo eventualmente238 a carico del cliente, non costituisce un
231
In tema di swap, B. INZITARI, Swap (contratto di), cit., p. 617; P. CORRIAS, Garanzia pura e
contratti di rischio, cit., p. 277.
232
E. FERRERO, Profili civilistici dei nuovi strumenti finanziari, cit., p. 638.
233
B. INZITARI, Swap (contratto di), cit., p. 617; R. CAVALLO BORGIA, Le operazioni su rischio di
cambio, cit., p. 2423. In particolare, ci si riferisce alla formazione e gestione di una massa di rischi
omogenei. Al riguardo, A. DONATI – G. VOLPE PUTZOLU, Manuale di diritto delle assicurazioni, cit., p. 5.
GALASSO, inoltre, distingue tra tecniche di protezione contrattuali – in cui il contratto è fonte,
contemporaneamente, sia del rischio che degli strumenti di copertura – e tecniche di protezione
extracontrattuali – in cui la protezione non è contemplata dallo stesso contratto che origina il rischio, bensì
viene offerta ex post dagli intermediari specializzati –, ritenendo queste ultime molto più vicine allo schema
assicurativo. G. GALASSO, Options e contratti derivati, cit., pp. 1290 e 1291.
234
S. GILOTTA, In tema di interest rate swap, cit., p. 136.
235
R. CAVALLO BORGIA, Le operazioni su rischio di cambio, cit., p. 2424; B. INZITARI, Swap
(contratto di), cit., p. 618.
236
P. CORRIAS, Garanzia pura e contratti di rischio, cit., p. 277.
237
S. GILOTTA, In tema di interest rate swap, cit., p. 140.
238
La previsione dedotta nel contratto, infatti, ben potrebbe andare a vantaggio del cliente.
47
premio in misura fissa dovuto come corrispettivo della copertura239, bensì rappresenta la
liquidazione del differenziale240.
Infine, va rilevato che tale liquidazione costituisce un guadagno dovuto alla parte in
favore della quale si verifica la previsione dedotta nel contratto, in palese discordanza
rispetto alla prestazione risarcitoria eventualmente discendente dal contratto di
assicurazione241.
239
Tra l’altro, ciò che può avere misura fissa sarà semmai la provvigione dovuta dal cliente come
corrispettivo non già per la copertura, bensì per la prestazione del servizio di investimento. B. INZITARI,
Swap (contratto di), cit., p. 618.
240
B. INZITARI, Swap (contratto di), cit., p. 618; E. FERRERO, Profili civilistici dei nuovi strumenti
finanziari, cit., p. 638. Inoltre, non essendo gli intermediari autorizzati paragonabili ad assicuratori in senso
tecnico, essi non saranno tenuti a neutralizzare il rischio attraverso la ripartizione con la massa degli
assicurati (attraverso il calcolo del premio), ma semmai a rispettare l’obbligo di separazione patrimoniale
vigente per tutti i soggetti che prestano servizi di investimento, ex art. 22 TUF. S. GILOTTA, In tema di
interest rate swap, cit., pp. 140; A. SIROTTI GAUDENZI, Swap e responsabilità dell’operatore finanziario, in
Derivati e swap. Responsabilità civile e penale, a cura di A. Sirotti Gaudenzi, Rimini, 2009, pp. 67 e 68.
241
E. FERRERO, Profili civilistici dei nuovi strumenti finanziari, cit., p. 638.
48
Capitolo II
CONTRATTI DERIVATI E AUTONOMIA NEGOZIALE
SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Derivati standardizzati. – 3. Derivati over the counter (otc). – 3.1. (Segue)
La normativa macroeconomica dei derivati otc. – 4. La normativa microeconomica dei derivati. – 5. Profili di
criticità delle normative sui derivati. In particolare, il conflitto di interessi. – 5.1. Il conflitto di interessi tra
regole di comportamento e regole di validità. – 5.2. L’interferenza tra le regole di comportamento e le regole
di validità nella prospettiva della causa in concreto.
1. Premessa.
Occorre ora esaminare le peculiarità che caratterizzano la contrattazione dei derivati
finanziari.
Come si è già osservato, il nostro legislatore definisce esplicitamente i contratti derivati
come strumenti finanziari (art. 1, comma 2 e 3, tuf)1: ciò comporta che, dal punto di vista
pratico, anche i derivati finanziari – in quanto, appunto, strumenti finanziari – possano
essere oggetto di servizi di investimento, con la conseguente applicabilità dei principi e
delle regole che presiedono questo settore2.
Considerando, inoltre, che i derivati finanziari sono innanzitutto contratti, va rilevato
che l’emissione di tali strumenti finanziari coincide con la stipulazione di un negozio3.
Orbene, la circostanza che i contratti derivati possano essere oggetto dell’attività
d’investimento, così come disciplinata dal tuf, non esclude che la negoziazione dei derivati
finanziari possa intervenire anche tra soggetti diversi dagli intermediari finanziari4: invero,
tale riserva a favore degli intermediari finanziari abilitati opera qualora l’offerta del
1
Giova rilevare che già la l. 2 gennaio 1991 n. 1 (cosiddetta «legge SIM»), all’art. 1 comma 2, operava
un’equiparazione tra i valori mobiliari e gli strumenti finanziari derivati, potendosi pertanto applicare a
questi ultimi la disciplina prevista dall’art. 23 della l. SIM cit., disciplinante l’organizzazione e le modalità di
svolgimento delle negoziazioni dei contratti a termine. A tal proposito, G. GALASSO, Options e contratti
derivati, cit., p. 1271.
2
In particolare, ci si riferisce alla riserva dell’attività dei servizi di investimento a imprese aventi
particolari requisiti; all’imposizione di regole finalizzate alla stabilità, alla correttezza e alla trasparenza; alla
sottoposizione dell’attività alla vigilanza affidata alla Banca d’Italia e alla Consob. R. COSTI, Il mercato
mobiliare, cit., pp. 120 e 149.
3
E. GIRINO, I contratti derivati, (ed. 2001), cit., p. 214.
4
Il riferimento è alla stipulazione di un contratto derivato tra privati, per i quali non è prevista alcuna
disciplina particolare, ma si applicherà la disciplina generale dei contratti atipici ex art. 1322 c.c. E. GIRINO, I
contratti derivati, cit., p. 307. Ovviamente, si tratta di una ipotesi «del tutto residuale», come osserva D.
MAFFEIS, voce Contratti derivati, in Digesto, disc. Priv., sez. civ., Agg., Torino, 2010, p. 354.
49
prodotto derivato sia svolta in maniera professionale e nei confronti del pubblico, a norma
dell’art. 18 tuf5.
Ciò premesso, qui di seguito verrà esaminata la distinzione tra contrattazione
standardizzata e contrattazione over the counter (letteralmente, “al banco”), le quali
sollevano, rispettivamente, problematiche del tutto peculiari.
2. Derivati standardizzati.
I prodotti derivati che vengono trattati nei mercati regolamentati sono prevalentemente
i futures e le options6.
La principale caratteristica dei financial derivatives ivi negoziati è costituita dalla
standardizzazione7, la quale rileva su diversi profili di disciplina8.
Nati e sviluppatisi nel mercato otc9, i contratti derivati sono infatti stati oggetto di un
processo di creazione di modelli contrattuali uniformi, da parte delle banche e di altri
intermediari del settore finanziario10.
Il legislatore, quando all’art. 1, comma 2, tuf parla, tra gli altri, di «contratti finanziari
a termine standardizzati» – comprendendoli tra gli strumenti finanziari –, manifesta la
volontà di istituzionalizzare le operazioni differenziali all’interno dei mercati organizzati11.
5
«Va detto, innanzitutto, che in linea di massima non esistono particolari restrizioni alla stipula di tali
contratti con riguardo all’eventualità in cui entrambi i soggetti contraenti siano estranei all’attività di
intermediazione finanziaria. In realtà, si tratta di un caso pressoché di scuola, constatato che difficilmente
tali operazioni hanno luogo in assenza di intermediari […]. Qualora ciò avvenisse, si applicheranno le
norme apprestate in generale dal codice civile per i contratti; i contraenti non dovrebbero sottostare alle
particolari limitazioni previste dal T.u.f. per le ipotesi nelle quali la controparte contrattuale sia costituita
da un intermediario finanziario». A. PIRAS – E. PIRAS, Il ricorso agli strumenti finanziari derivati, cit., p. 85.
V. anche R. COSTI, Il mercato mobiliare, cit., pp. 122 e 127.
6
S. BO – C. VECCHIO, Il rischio giuridico dei prodotti derivati, cit., p. 11.
7
«La trasformazione delle operazioni di investimento in contratti standardizzati ha segnato dunque
l’avvento della finanza di massa e fatto lievitare la vendita dei prodotti standardizzati, così come a suo
tempo la rivoluzione industriale ha generato la produzione di massa […]. Grazie alla standardizzazione dei
prodotti, le banche di investimento si trasformano in pseudo fabbriche e supermercati di prodotti finanziari
creando un mercato apparentemente in sé conchiuso, svincolato dall’economia reale e per questo motivo
incommensurabilmente ampio senza cioè i limiti “fisici” dell’economia reale del vecchio mercato
azionario». G. DI GASPARE, Teoria e critica, cit., p. 158; v. anche R. CAVALLO BORGIA, Le operazioni su
rischio di cambio, cit., p. 2419. Sulla fenomeno della standardizzazione, in generale, v. V. ROPPO, Il
contratto, cit., pp. 42-45.
8
S. BO – C. VECCHIO, Il rischio giuridico dei prodotti derivati, cit., p. 11; E. GIRINO, I contratti
derivati, cit., p. 211 (ed. 2001) e 305 ss. (ed. 2011) .
9
G. GALASSO, Options e contratti derivati, cit., pp. 1294.
10
R. AGOSTINELLI, Le operazioni di swap, cit., p. 132.
11
F. CAPRIGLIONE, Gli swaps come valori mobiliari, cit., 796.
50
Occorre premettere che se tale uniformità, in generale, da un lato costituisce un limite
per l’autonomia privata – in quanto i contraenti non hanno la possibilità di partecipare
all’elaborazione del programma negoziale, limitandosi bensì a scegliere solo se contrarre12
–, sotto un altro punto di vista costituisce uno dei motivi del successo dei derivati13.
In una prospettiva prettamente economica, la standardizzazione ha difatti accelerato e
semplificato le negoziazioni, consentendo così di incrementare la liquidità del mercato
(laddove per liquidità deve intendersi la maggiore probabilità di incontrare una
controparte14) e di ridurre i costi complessivi dell’operazione15; inoltre, gli scambi si
concentrano in un unico luogo, venendo in tal modo garantita la trasparenza della
negoziazione16.
Invece, rispetto al profilo giuridico, le questioni più rilevanti in cui è implicata la
standardizzazione sono attinenti alla disciplina della contrattazione17.
A tal proposito, deve essere innanzitutto chiarito che ai derivati finanziari, in quanto
strumenti finanziari, si applicheranno le regole e i principi relativi alla prestazione dei
servizi di investimento18.
12
E. GIRINO, I contratti derivati, cit., p. 146.
L. CAPELLINA, I futures, cit., p. 7; L. VALLE, Contratti futures, cit., p. 308; E. GIRINO, I contratti
derivati, (ed. 2001), cit., p. 212.
14
L. VALLE, Contratti futures, cit., p. 308, in nota.
15
L. CAPELLINA, I futures, cit., p. 7.
16
L. CAPELLINA, I futures, cit., p. 7.
17
Il fenomeno standardizzazione determina, a sua volta, quello della predisposizione unilaterale e
dell’adesione: in particolare, con il primo si vuole intendere che «il testo contrattuale non esce da una
trattativa fra impresa e cliente», mentre con il secondo ci si vuole riferire al momento in cui «il cliente
“aderisce” al contratto standard, ovvero lo accetta senza discuterlo o comunque senza riuscire a incidere,
con la propria volontà, sul suo contenuto»: così V. ROPPO, Il contratto, cit., pp. 42-43. Pur muovendo
dall’analisi della standardizzazione, non distingue nitidamente tra predisposizione unilaterale e adesione C.
M. BIANCA, Il contratto2, Diritto civile, III, Milano, 2000, pp. 35 e 346, il quale, in tema di «condizioni
generali di contratto», afferma che «l’imprenditore si avvale dello strumento contrattuale per esercitare un
potere di fatto nei confronti della generalità dei consumatori che fruiscono dei beni o servizi del’impresa.
Nell’esercizio di tale potere l’imprenditore disciplina unilateralmente ed uniformemente i rapporti
dell’impresa avvalendosi di un regolamento che assume i caratteri tipici della generalità e dell’astrattezza.
L’esistenza di tale potere sostanzialmente normativo non può essere ancora disconosciuta come un dato
metagiuridico poiché esso rileva direttamente sul problema giuridico della tutela e dei rimedi
dell’aderente».
18
Per servizio di investimento deve intendersi un’attività avente ad oggetto strumenti finanziari e che
assume una particolare rilevanza qualora venga esercitata professionalmente nei confronti del pubblico. In
questo senso, il legislatore, all’art. 1 comma 5 tuf, indica le attività che assumono sicuramente una rilevanza
in ordine al buon funzionamento del mercato finanziario (negoziazione per conto proprio o per conto terzi;
esecuzione di ordini per conto dei clienti; sottoscrizione o collocamento di titoli, nuovi o già emessi; gestione
di portafogli; consulenza in materia di investimenti; etc.). Il Ministro dell’economia e delle finanze, inoltre,
può ampliare tale elenco di attività. R. COSTI, Il mercato mobiliare, cit., p. 121-125.
13
51
Come poi verrà ulteriormente precisato infra, deve tenersi presente che le suddette
regole e principi valgono sia per i derivati standardizzati che per quelli otc, qualora la
negoziazione di questi ultimi avvenga in maniera professionale e nei confronti del
pubblico (art. 18 tuf)19.
Orbene, per quanto riguarda i requisiti soggettivi, il servizio di investimento avente ad
oggetto derivati finanziari può essere svolto o da imprese di investimento e banche (art. 18,
comma 1, tuf), da intermediari finanziari abilitati (art. 18, comma 3, tuf)20 o, più in
generale, da intermediari autorizzati (art. 26, lett. b, Regolamento Consob 29 ottobre 2007,
n. 16190)21.
La prestazione del servizio, inoltre, deve essere svolta nel rispetto dei cosiddetti
«criteri generali» stabiliti all’art. 21 TUF, previsti nell’ambito del più generale
perseguimento di tutela dell’interesse del cliente22.
19
Cfr., supra, nota n. 126.
Per poter svolgere l’attività di prestazione di servizi di investimento, l’intermediario finanziario deve
essere iscritto nell’elenco speciale di cui all’art. 107 del d.lgs. 385/1993 succ. mod. (Testo Unico Bancario).
R. COSTI, Il mercato mobiliare, cit., p. 127.
21
Secondo tale norma, sono intermediari autorizzati: «le SIM, ivi comprese le società di cui all'art. 60,
comma 4, del d.lgs. 415/1996, le banche italiane autorizzate alla prestazione di servizi e di attività di
investimento, gli agenti di cambio, gli intermediari finanziari iscritti nell'elenco previsto dall' art. 107 del
d.lgs. 385/1993 autorizzati alla prestazione di servizi di investimento, le società di gestione del risparmio e
le società di gestione armonizzate nella prestazione del servizio di gestione di portafogli e del servizio di
consulenza in materia di investimenti, la società Poste Italiane – Divisione Servizi di Banco Posta
autorizzata ai sensi dell’art. 2 del D.P.R. n. 144 del 14 marzo 2001, le imprese di investimento e le banche
comunitarie con succursale in Italia, nonché le imprese di investimento e le banche extracomunitarie
comunque abilitate alla prestazione di servizi e di attività di investimento in Italia». Questa disposizione
sostituisce quella dell’art. 31 del reg. Consob n. 11522/98, il quale definiva operatori qualificati gli
intermediari autorizzati; le società di gestione del risparmio; le SICAV; i fondi pensione e le compagnie di
assicurazione; i soggetti esteri che svolgono, in forza della normativa in vigore nel proprio Stato d'origine, le
attività svolte dai soggetti di cui sopra; le società e gli enti emittenti strumenti finanziari negoziati in mercati
regolamentati; le società iscritte negli elenchi di cui agli artt. 106, 107 e 113 del d.lgs. n. 385/1993; i
promotori finanziari; le persone fisiche che documentino il possesso dei requisiti di professionalità stabiliti
dal Testo Unico per i soggetti che svolgono funzioni di amministrazione, direzione e controllo presso società
di intermediazione mobiliare; le fondazioni bancarie; ogni società o persona giuridica in possesso di una
specifica competenza ed esperienza in materia di operazioni in strumenti finanziari espressamente dichiarata
per iscritto dal legale rappresentante. V. sito internet http://www.consob.it; per quanto riguarda un sintetico
raffronto tra la vecchia e la nuova normativa, v. A. PIRAS, Contratti derivati, cit., p. 2233.
22
La ratio della normativa speciale è proprio quella di proteggere la parte che subisce la cosiddetta
«asimmetria di potere contrattuale», ossia la situazione di “debolezza” di una parte rispetto all’altra: «c’è
asimmetria di potere contrattuale fra consumatori e professionisti, ma non solo: anche relazioni non
riconducibili a tale coppia – come quelle tra subfornitori e committenti, fra agenti e preponenti, fra banche e
clienti, fra intermediari e investitori, fra conduttori e locatori – contrappongo una parte dotata di superiore
potere contrattuale a una parte con potere contrattuale inferiore». V. ROPPO, Il contratto del duemila, cit.,
pp. 53-54.
20
52
In particolare, l’art. 21, comma 1, tuf prevede che le imprese di investimento e le
banche, nella prestazione dei servizi di investimento, devono «comportarsi con diligenza,
correttezza e trasparenza, per servire al meglio l’interesse dei clienti e per l’integrità dei
mercati; acquisire le informazioni necessarie dai clienti e operare in modo che essi siano
sempre adeguatamente informati; utilizzare comunicazioni pubblicitarie e promozionali
corrette, chiare e non fuorvianti; disporre di risorse e procedure, anche di controllo
interno, idonee ad assicurare l’efficiente svolgimento dei servizi e delle attività».
Per una definizione più puntuale, tali obblighi vengono poi rimessi alle Autorità di
Vigilanza (Consob e Banca d’Italia): l’art. 6, comma 2, tuf, infatti, attribuisce alla
Consob23 il potere di disciplinare con regolamento gli obblighi dei soggetti abilitati – ossia,
le imprese di investimento e le Banche – in materia di trasparenza24 e correttezza dei
comportamenti25, dopo aver sentito la Banca d'Italia e tenuto conto delle differenti
esigenze di tutela degli investitori connesse con la qualità e l'esperienza professionale dei
medesimi.
23
Alcuni autori hanno definito neutro il ruolo della Consob in ordine alla diffusione delle informazioni.
Infatti, essa non procede direttamente alla loro diffusione, ma svolge solo una funzione di impulso, in quanto
chiede che siano resi pubblici determinati dati, e controllo, posto che la Commissione ha il potere-dovere di
verificare le informazioni pubblicate. La Consob, pertanto, svolge una funzione di “filtro” tra chi è tenuto
alle informazioni e i destinatari delle stesse. R. LENER, Pubblicità e informazione nel mercato mobiliare, in
Impresa e tecniche di documentazione giuridica, III, Pubblicità legale dell'impresa, Milano, 1990, pp. 152 e
153.
24
Tra gli obblighi di trasparenza (art. 6, comma 2, lett. a, tuf) sono inclusi « gli obblighi informativi
nella prestazione dei servizi e delle attività di investimento, nonché della gestione collettiva del risparmio,
con particolare riferimento al grado di rischiosità di ciascun tipo specifico di prodotto finanziario e delle
gestioni di portafogli offerti, all’impresa e ai servizi prestati, alla salvaguardia degli strumenti finanziari o
delle disponibilità liquide detenuti dall’impresa, ai costi, agli incentivi e alle strategie di esecuzione degli
ordini; le modalità e i criteri da adottare nella diffusione di comunicazioni pubblicitarie e promozionali e di
ricerche in materia di investimenti; gli obblighi di comunicazione ai clienti relativi all’esecuzione degli
ordini, alla gestione di portafogli, alle operazioni con passività potenziali e ai rendiconti di strumenti
finanziari o delle disponibilità liquide dei clienti detenuti dall’impresa», nonché, a seguito delle modifiche
introdotte dall’art. 2 del d.lgs. n. 44/2014 (Attuazione della direttiva 2011/61/UE, sui gestori di fondi di
investimento alternativi, che modifica le direttive 2003/41/CE e 2009/65/CE e i regolamenti CE n.
1060/2009 e UE n. 1095/2010), «gli obblighi informativi nei confronti degli investitori dei FIA italiani, dei
FIA UE e dei FIA non UE».
25
Sono obblighi di correttezza (art. 6, comma 2, lett. b, tuf) «gli obblighi acquisizione di informazioni
dai clienti o dai potenziali clienti ai fini della valutazione di adeguatezza o di appropriatezza delle
operazioni o dei servizi forniti; le misure per eseguire gli ordini alle condizioni più favorevoli per i clienti;
gli obblighi in materia di gestione degli ordini; l’obbligo di assicurare che la gestione di portafogli si svolga
con modalità aderenti alle specifiche esigenze dei singoli investitori e che quella su base collettiva avvenga
nel rispetto degli obiettivi di investimento dell'Oicr», nonché, a seguito delle modifiche introdotte dal d.lgs.
n. 44/2014 citato, «le condizioni alle quali possono essere corrisposti o percepiti incentivi».
53
Il regolamento a cui fare riferimento è il n. 16190/2007, il quale, nel Capo I del Titolo I
della Parte III, dedicata appunto alla «trasparenza e correttezza nella prestazione dei
servizi e delle attività di investimento e dei servizi accessori», specifica appunto il
contenuto dei «criteri generali» previsti dal tuf.
In particolare, l’art. 27, comma 1, Reg. Consob n. 16190/200726 contiene una norma
che funge da clausola generale27, disponendo che «tutte le informazioni, comprese le
comunicazioni pubblicitarie e promozionali, indirizzate dagli intermediari a clienti o
potenziali clienti devono essere corrette, chiare e non fuorvianti»28. Il regolamento
prosegue dettando una serie di norme dettagliate sempre in tema di informativa al cliente
(artt. 28-36 Reg. cit.).
In ambito organizzativo, merita inoltre di essere menzionato anche l’art. 22 tuf, norma
che sancisce la separazione del patrimonio del singolo cliente da quello dell’intermediario
e degli altri clienti29.
Il tuf, inoltre, all’art. 23 prevede alcune disposizioni specifiche in materia di contratti,
incentrate prevalentemente sulla forma: viene infatti prescritto che i contratti relativi alla
prestazione dei servizi di investimento, e quindi anche i derivati finanziari, debbano
rivestire la forma scritta, a pena di nullità.
L’altro profilo coinvolto dalla standardizzazione riguarda la fase dinamica delle
trattative dei prodotti derivati, le quali si svolgono in mercati appositamente creati (ad
esempio, i futures markets).
All’interno del mercato viene istituita la Cassa di compensazione e garanzia (clearing
house)30, di fondamentale importanza nelle negoziazioni in esame.
26
Il suddetto Regolamento è stato più volte modificato con delibere n. 16736 del 18 dicembre 2008, n.
17581 del 3 dicembre 2010, n. 18210 del 9 maggio 2012 e, dal ultimo, con la delibera n. 19094 dell’8
gennaio 2015.
27
Le clausole generali «indicano un criterio di giustizia ma non dettano regola alcuna delegando
all’interprete la funzione di elaborarla, osservando i c.d. standards valutativi esistenti nella realtà sociale,
cui si sommano quelli logici di una determinata società, latamente assimilabili alla massima di esperienza e
agli aforismi». F. GAZZONI, Manuale di diritto privato15, Napoli, 2011, p. 49.
28
A. SIROTTI GAUDENZI, Swap e responsabilità dell’operatore finanziario, cit., p. 70.
29
Con la separazione patrimoniale, le masse patrimoniali dei rispettivi soggetti citati restano insensibili
rispetto alle vicende (v. art. 2740 c.c.) proprie di ciascuno di essi. R. COSTI, Il mercato mobiliare, cit., p. 138139 e 152.
30
La Cassa di Compensazione e Garanzia (CC&G) è una società per azioni, costituita nel 1992, avente
come finalità generale la garanzia dell'integrità dei mercati. Attualmente appartiene al gruppo London Stock
Exchange, è controllata da Borsa Italiana S.p.a. ed è assoggettata all’attività di direzione e coordinamento da
parte di London Stock Exchange Group Holding Italia S.p.a. Siti internet: http://www.borsaitaliana.it e
http://www.ccg.it; v. anche G. GALASSO, Options e contratti derivati, cit., pp. 1282.
54
In particolare, i singoli contratti non vengono stipulati tra i singoli contraenti, bensì tra
ciascun contraente e la clearing house, la quale assume la posizione di parte contrattuale
rispetto a ciascun contraente che voglia concludere un contratto derivato31.
In altri termini, A e B non concluderanno, ad esempio, un future direttamente tra di
loro, bensì ciascuno di essi concluderà il contratto con la CC&G, seguendo uno schema di
tipo “triangolare”.
Tale sistema comporta notevoli vantaggi.
Innanzitutto, le parti possono regolare la propria posizione direttamente e unicamente
con la clearing house, così permettendo loro di disinteressarsi completamente della
rispettiva controparte e della sua solvibilità32.
Ciò è possibile in quanto il presupposto per poter accedere alla contrattazione dei
derivati nei mercati regolamentati è costituito dalla necessaria adesione alla CC&G, la
quale avviene mediante il deposito di una somma su un conto ad hoc, istituito presso la
Cassa stessa33.
Il conto del singolo aderente è poi suscettibile di continue variazioni, in quanto i
guadagni o le perdite verranno accreditate o addebitate sul conto stesso (cosiddetto
principio di marking to market)34.
Oltre alla rapidità e alla sicurezza delle operazioni, il vantaggio principale di questo
sistema è l’azzeramento del rischio dell’inadempimento: infatti, qualora il conto del
singolo aderente, costantemente monitorato dalla clearing house, scenda al di sotto di una
certa soglia (cosiddetto mantenimento), la Cassa provvederà a richiederne il reintegro35.
31
L. VALLE, Contratti futures, cit., p. 309; S. BO – C. VECCHIO, Il rischio giuridico dei prodotti
derivati, cit., p. 11.
32
E. FERRERO, Profili civilistici dei nuovi strumenti finanziari, cit., p. 630.
33
L. CAPELLINA, I futures, cit., p. 9.
34
L. CAPELLINA, I futures, cit., p. 9. Più esattamente, il glossario presente sul sito internet
borsaitaliana.it chiarisce che «la procedura del marking to market consiste in un calcolo giornaliero dei
profitti e delle perdite associati alle posizioni su strumenti derivati aperte dagli operatori. Sulla base di tale
procedura la CC&G effettua una compensazione tra profitti e perdite relativi al conto di ogni partecipante,
con corrispondente versamento dei margini. La controparte che ha subìto una perdita si vede addebitare
tale perdita sul conto aperto presso la CC&G. Questa somma è automaticamente accreditata alla
controparte, che ha registrato un profitto. Qualora, nel caso di perdite, l’ammontare scenda al di sotto del
margine di mantenimento, la CC&G richiede il reintegro di tale margine. A meno che l’operatore non
chiuda la propria posizione, profitti e perdite sono potenziali, soggetti alle variazioni delle quotazioni e sono
liquidati solo alla scadenza del contratto».
35
L. CAPELLINA, I futures, cit., p. 9.
55
3. Derivati over the counter (otc).
I contratti derivati negoziati fuori dai mercati regolamentati (cosiddetti over the
counter)36 si distinguono da quelli uniformi o standardizzati in quanto sono il risultato
della mera autonomia pattizia (art. 1322 c.c.), non vincolata all’osservanza di alcuno
schema predefinito37.
Da tale ultima circostanza discende che i profili più rilevanti delle contrattazioni aventi
ad oggetto i derivati finanziari – in particolare, l’ammontare delle prestazioni, i termini e i
meccanismi negoziali –, sono rimessi alla libertà contrattuale dei singoli contraenti38.
Ciò consente alle parti di costruire in modo più aderente alle rispettive esigenze il
contenuto del contratto39; tuttavia, sotto un altro punto di vista, risulterà assai problematico
individuare nel mercato individui portatori di interessi, omogenei ma diametralmente
opposti, che consentano di addivenire alla conclusione di un contratto derivato40.
Orbene, deve innanzitutto essere osservato che il mercato dei derivati otc non si
sostituisce, né si situa in subordine rispetto a quello dei derivati uniformi, bensì si pone
con quest’ultimo in un rapporto di complementarietà41: gli operatori, pertanto, potranno
scegliere se concludere un contratto all’interno del mercato regolamentato, con tutte le
garanzie in questo contemplate (in primis, l’accesso al sistema della Cassa di
compensazione e garanzia), oppure al suo esterno, aspirando sicuramente a profitti
maggiori ma esponendosi al contempo a rischi più elevati42.
36
La maggior parte dei derivati presenti sui mercati internazionali appartengono a questa categoria,
assumendo un ruolo di primo piano nella maggior parte delle economie occidentali. S. BO – C. VECCHIO, Il
rischio giuridico dei prodotti derivati, cit., p. 12.
37
E. GIRINO, I contratti derivati, cit., pp. 305 ss.
38
S. BO – C. VECCHIO, Il rischio giuridico dei prodotti derivati, cit., p. 12.
39
S. BO – C. VECCHIO, Il rischio giuridico dei prodotti derivati, cit., p. 12; E. GIRINO, I contratti
derivati, (ed. 2001), cit., p. 215.
40
Si tratta, in sostanza, del problema della liquidità del mercato di cui si è fatto supra, correlato al
concetto di standardizzazione. V., tra gli altri, L. VALLE, Contratti futures, cit., p. 308.
41
G. GALASSO, Options e contratti derivati, cit., pp. 1294. «I derivati OTC rappresentano circa il 90
per cento del mercato globale dei derivati e sono, allo stato attuale, per lo più non regolati»: L. SASSO,
L’impatto sul mercato dei derivati OTC, in Giur. Comm., 2012, VI, pp. 899 ss, e iusexplorer.it. Giova inoltre
segnalare che secondo i dati forniti dalla Bank for International Settlements (BIS), il mercato dei derivati
OTC ha subito una contrazione nella prima metà del 2014; in particolare, si è passati da un volume
complessivo pari a 19.000 miliardi di dollari a fine del 2013 ad uno pari a 17.000 miliardi dollari a fine
giugno 2014. http://www.bis.org/publ/otc_hy1411.pdf
42
E. GIRINO, I contratti derivati, cit., pp. 441 ss. In particolare, l’autore individua varie tipologie di
rischio, tra i quali, oltre a quello di insolvenza, meritano di essere menzionati quello “di liquidità”
(temporanea indisponibilità delle somme) e “di mercato”, “sistemico” (pericolo che inadempimenti di massa
comportino altri inadempimenti “a catena”) e “sovrano” (o “del fortuito”).
56
Invero, è proprio la maggior appetibilità economica dei derivati otc a costituire il
principale motivo del loro successo43; e ciò nonostante il soprarichiamato difetto di
standardizzazione.
Le conseguenze legate alla assenza standardizzazione non sono tuttavia pacifiche.
Non lo sono, in primo luogo, sul piano dell’analisi economica del diritto, posto che non
è pacifico se questa, in ultima istanza, influisca sul mercato in termini negativi – nella
misura in cui, per un verso, ne diminuisce la liquidità44 e, per altro verso, ne aumenta la
rischiosità45 – o positivi – nella misura in cui consente di aspirare a profitti molto elevati46
–.
Per altro verso, sul piano più strettamente giuridico, sembrerebbe che sia proprio
l’assenza di standardizzazione – o meglio, l’assenza di un modello di riferimento – a
rappresentare la causa della crisi dei meccanismi di tutela con cui il giurista è abituato a
confrontarsi.
Per comprendere appieno detto assunto, occorre muovere dall’esame dei vari interventi
che si sono avvicendati negli ultimi anni, finalizzati a disciplinare il fenomeno qui in
esame.
Detti interventi possono essere ricondotti in due macro-aree47.
43
«I derivati OTC rappresentano circa il 90 per cento del mercato globale dei derivati». L. SASSO,
L’impatto sul mercato, cit.
44
L. VALLE, Contratti futures, cit., p. 308.
45
In particolare, il cosiddetto rischio operativo, ossia quello che «interessa le eventuali perdite
derivanti dall'inadeguatezza o dalla disfunzione di procedure, risorse umane e sistemi interni, oppure da
eventi esogeni, ivi incluse le perdite derivanti da frodi, errori umani, interruzioni dell'operatività,
indisponibilità dei sistemi, inadempienze contrattuali, catastrofi naturali», nel quale «è compreso il rischio
legale ovvero il “prezzo” che gli investitori pagano per avere un elevato grado di flessibilità sui mercati
OTC, mentre sono esclusi i rischi strategici e di reputazione», «è inversamente proporzionale al livello di
standardizzazione esistente sul mercato, maggiore è la standardizzazione dei contratti, minore il rischio
operativo». L. SASSO, L’impatto sul mercato, cit..
46
S. BO – C. VECCHIO, Il rischio giuridico dei prodotti derivati, cit., p. 12; E. GIRINO, I contratti
derivati, (ed. 2001), cit., p. 215.
47
«La risposta alla crisi si gioca sul duplice piano che potremmo definire microeconomico e
macroeconomico. Nell'ottica microeconomica, l'esame è rivolto alla relazione negoziale tra intermediario ed
investitore e ai presidi normativi, e sempre più spesso giudiziari, funzionali «per servire al meglio l'interesse
del cliente e per l'integrità dei mercati », di cui all'art. 21 comma 1º, lett. a), d.lgs. 58/1998. Nella
prospettiva macroeconomica, si ha riguardo all'organizzazione del mercato globale dei derivati OTC, e in
particolare alle strutture di post-trading, nel tentativo di correggerne le deviazioni, in termini di efficienza,
dovute ai rischi di controparte e sistemici che connotano le compensazioni bilaterali». P. LUCANTONI,
L'organizzazione della funzione di post-negoziazione nella regolamentazione EMIR sugli strumenti
finanziari derivati OTC, in Banca, borsa, tit. cred., 2014, V, pp. 642 ss., e in iusexplorer.it.
57
Nella prima macro-area vanno collocati gli interventi di tipo macroeconomico, aventi
ad oggetto l’adozione di procedure e normative finalizzate ad uno corretto controllo e
gestione del rischio48.
Nella seconda macro-area, di tipo microeconomico, nella quale rientrano anche i più
volte richiamati «criteri generali» di cui all’art. 21 tuf, possono essere ricomprese le regole
poste a protezione della parte che patisce la cosiddetta asimmetria informativa49.
3.1. (Segue) La normativa macroeconomica dei derivati otc.
Tra le misure di tipo macroeconomico devono essere segnalati, su tutti, due importanti
interventi sovranazionali.
In primo luogo, vengono in rilievo gli «Accordi di Basilea»50.
Deve preliminarmente essere precisato che tali accordi non costituiscono una fonte
normativa stricto sensu, consistendo piuttosto nella predisposizione concordata (rectius:
condivisa) di regole destinate ad operare fra gli ordinamenti bancari dei diversi Paesi51. Si
tratta, pertanto, di disposizioni non giuridicamente vincolanti (cosiddetto soft law)52.
Chiarito ciò, deve ora essere rilevato che il Comitato di Basilea «non era concepito in
una logica statica ed immutevole, bensì in una prospettiva evolutiva», proprio per
consentire l’adeguamento delle suddette regole ai continui mutamenti del mercato.
48
T. PADOA SCHIOPPA, I prodotti derivati: profili di pubblico interesse, in Bollet. econ. Banca d’Italia,
1996, n. 26, p. 62.
49
V. infra.
50
«Con l'espressione “Accordi di Basilea”, spesso troncata nel più immediato “Basilea” (I, II o III), si
suole far riferimento alle proposte in materia di vigilanza prudenziale sulle banche, avanzate dal Comitato
di Basilea per la vigilanza bancaria (d'ora in avanti Comitato di Basilea). Si tratta, come noto, di
un'organizzazione istituita dal “Gruppo dei 10” (c.d. G10) nel 1975, presso la Banca dei regolamenti
internazionali (Bank for International Settlements) avente sede a Basilea, ed oggi composta dai
rappresentanti delle Autorità di vigilanza di ventisette Paesi del mondo». F. ACCETTELLA, L’accordo di
Basilea III: contenuti e processo di recepimento all’interno del diritto dell’UE, in Banca, borsa, tit. cred.,
2013, IV, pp. 462 ss., e in iusexplorer.it
51
F. ACCETTELLA, L’accordo di Basilea III, cit.
52
«Con il termine soft law, usato dalla dottrina anglo-americana, si identificano le disposizioni non
giuridicamente rilevanti […]. Il soft law può contribuire in vario modo alla creazione di diritto. In primo
luogo […] può contribuire alla creazione di consuetudini internazionali, sempre che sussistano i requisiti
per la nascita di una consuetudine internazionale […]. In secondo luogo, il soft law può costituire la fonte
materiale di diritti ed obblighi giuridici […]. In terzo luogo, il soft law limita il dominio riservato agli Stati,
nel senso che il richiamo agli “obblighi politici” stabiliti negli atti di soft law non costituisce “intervento
negli affari interni di un altro Stato” […]». N. RONZITTI, Introduzione al diritto internazionale3, Torino,
2009, pp. 178-179; v. anche R. COSTI, L'ordinamento bancario5, Bologna, 2012, p. 581, il quale definisce il
Comitato di Basilea «un classico esempio di organismo che elabora regole di soft law».
58
Così, al primo accordo, stipulato in data 11 luglio 1988 e denominato «convergenza
internazionale della misurazione del capitale e dei coefficienti patrimoniali minimi»
(cosiddetto «Basilea I»), ne è seguito un secondo («convergenza internazionale della
misurazione del capitale e dei coefficienti patrimoniali minimi», adottato il 26 giugno
2004 e noto come «Basilea II»)53.
A fronte della recente crisi economico-finanziaria, le cui cause vengono individuate
genericamente nelle carenze della regolamentazione e nei fallimenti della vigilanza54, il
Comitato ha ritenuto di dover rimeditare il sistema di regole contenute nell’accordo
«Basilea II»55; nel dicembre 2010 sono quindi stati presentati due documenti, denominati
rispettivamente «schema di regolamentazione internazionale per il rafforzamento delle
banche e dei sistemi bancari» e «schema internazionale per la misurazione, la
regolamentazione e il monitoraggio del rischio di liquidità», anche noti come «Basilea
III»56.
Non essendo certamente questa la sede per esaminare nello specifico le regole
contenute nei sopraccitati accordi, è qui sufficiente rilevare che quelle contenute in
«Basilea III» sono, in generale, finalizzate al consolidamento del sistema bancario
53
F. ACCETTELLA, L’accordo di Basilea III, cit.; v. anche A. ANTONUCCI, Diritto delle banche5,
Milano, 2012, pp. 258 ss.
54
Cfr., al riguardo, F. ACCETTELLA, L’accordo di Basilea III, cit.; G. DI GASPARE, Teoria e critica, cit.,
passim; F. FRACCHIA, Giudice amministrativo, crisi finanziaria globale e mercati, in Riv. it. dir. pubbl.
comunit., 2010, II, pp. 451 ss. e in iusexplorer.it; E. BARCELLONA, Note sui derivati creditizi: market failure
o regulation failure?, 2010, in Ilcaso.it, secondo il quale «chiunque abbia seguito, se non su riviste
specializzate, quanto meno nella stampa quotidiana, le analisi della grande crisi dei nostri giorni avrà
sentito ricorrere espressioni quali (i) “separazione fra «finanza» e «realtà»” o “eccesso di
finanziarizzazione”, (ii) “espansione irrazionale del credito o “economia fondata sul debito”, (iii)
deregulation selvaggia ovvero fallimento delle regole (regulation failure) prima ancora che fallimento del
mercato (market failure)».
55
Secondo G. DI GASPARE, Teoria e critica, cit., pp. 188-190, proprio il cambiamento delle regole
prudenziali, avvenuto in forza di Basilea II, «è stato un tassello decisivo per mettere a punto il sistema dei
flussi monetari verso il mercato dei derivati».
56
«La revisione dell'Accordo di Basilea II, dunque, non risponde solo all'esigenza di superare le
inefficienze del sistema bancario emerse durante la crisi, ma anche all'obiettivo di affinare le soluzioni già
previste ed affiancarvi ulteriori regole a garanzia di una maggiore solidità delle istituzioni creditizie». F.
ACCETTELLA, L’accordo di Basilea III, cit. Critico, invece, G. DI GASPARE, Teoria e critica, cit., p. 343,
secondo il quale «l’incombente accordo globale sui mercati finanziari atteso con Basilea 3 assume le
sembianze di un continuo rinvio, ad altra data certa ed ad altri atti. Contenuti anticipati in circolo, ma
tuttora incerti. Poco o nulla codificato. Gli accordi di Basilea, infatti, nonostante la loro influenza, il rilievo
mediato e la loro continua citazione, sono – in quanto tali – privi di effettiva vigenza. Spetta alle singole
autorità statali o sovrastatali di vigilanza bancaria e dei mercati finanziari il compito di dare loro
attuazione. Tempi e modalità del recepimento dei contenuti dell’accordo una volta raggiunto sono quindi
alquanto discrezionali».
59
internazionale57: obbiettivo, quest’ultimo, perseguito in primo luogo attraverso il
perfezionamento e lo sviluppo delle misure contenute negli Accordi precedenti58; in
secondo luogo, introducendo il cosiddetto «indice di leva finanziaria» (leverage ratio)59;
infine,
prevedendo
la
costituzione
di
adeguate
riserve
di
liquidità
(capital
conservation buffer)60.
Per quanto poi riguarda la specifica contrattazione in strumenti derivati otc, Basilea III
introduce un ulteriore requisito patrimoniale aggiuntivo, funzionale alla copertura del
rischio di perdite dovute all’impatto della variazione dei prezzi di mercato sul rischio di
controparte atteso dei derivati otc: è il cosiddetto credit value adjustment (CVA)61.
Tuttavia, non tutti i derivati otc devono soddisfare il suddetto requisito; in particolare,
vengono espressamente escluse le negoziazioni su derivati otc realizzate su mercati
regolamentati (salvo che, rispetto alle medesime, le competenti autorità di vigilanza non
57
Al punto 1 dell’introduzione di Basilea III viene espressamente affermato che «the objective of the
reforms is to improve the banking sector’s ability to absorb shocks arising from financial and economic
stress, whatever the source, thus reducing the risk of spillover from the financial sector to the real
economy».
58
«The Basel Committee is raising the resilience of the banking sector by strengthening the regulatory
capital framework, building on the three pillars of the Basel II framework. The reforms raise both the quality
and quantity of the regulatory capital base and enhance the risk coverage of the capital framework»: Basilea
III, p. 3.
59
«One of the underlying features of the crisis was the build up of excessive on- and off-balance sheet
leverage in the banking system. The build up of leverage also has been a feature of previous financial crises,
for example leading up to September 1998. During the most severe part of the crisis, the banking sector was
forced by the market to reduce its leverage in a manner that amplified downward pressure on asset prices,
further exacerbating the positive feedback loop between losses, declines in bank capital, and the contraction
in credit availability». Basilea III, p. 4.
60
«One of the main reasons the economic and financial crisis, which began in 2007, became so severe
was that the banking sectors of many countries had built up excessive on and off-balance sheet leverage.
This was accompanied by a gradual erosion of the level and quality of the capital base. At the same time,
many banks were holding insufficient liquidity buffers. The banking system therefore was not able to absorb
the resulting systemic trading and credit losses nor could it cope with the reintermediation of large offbalance sheet exposures that had built up in the shadow banking system […]». Basilea III, p. 1.
61
«In addition to the default risk capital requirements for counterparty credit risk determined based on
the standardised or internal ratings-based (IRB) approaches for credit risk, a bank must add a capital
charge to cover the risk of mark-to-market losses on the expected counterparty risk (such losses being known
as credit value adjustments, CVA) to OTC derivatives. The CVA capital charge will be calculated in the
manner set forth below depending on the bank’s approved method of calculating capital charges for
counterparty credit risk and specific interest rate risk […]». Basilea III, p. 31. Sostanzialmente, il credit
value adjustment (letteralmente: rettifiche di valore della componente creditizia) consiste in un procedimento
tramite il quale è possibile valutare, prezzare e gestire il rischio di controparte.
60
stabiliscano che le esposizioni della banca siano rilevanti) e quelle effettuate con
controparti centrali62.
Di tali ultime tipologie di contrattazioni si occupa specificamente il secondo intervento
sovranazionale rilevante in tale sede, ossia il recente Regolamento UE n. 648/2012 del 4
luglio 2012 sugli strumenti derivati otc, le controparti centrali e i repertori di dati sulle
negoziazioni (cosiddetto «Regolamento EMIR»)63.
In particolare, il quarto considerando del Regolamento citato esplicita chiaramente le
ragioni che hanno determinato il legislatore comunitario ad intervenire in questo specifico
settore: «i derivati negoziati fuori borsa («contratti derivati OTC») mancano di
trasparenza, dato che si tratta di contratti negoziati privatamente e le relative
informazioni sono di norma accessibili soltanto alle parti contraenti. Tali contratti creano
una complessa rete di interdipendenze che può rendere difficile determinare la natura e il
livello dei rischi incorsi. La crisi finanziaria ha dimostrato che queste caratteristiche
aumentano l’incertezza nei periodi di tensione sui mercati, creando pertanto rischi per la
stabilità finanziaria. Il presente regolamento fissa le condizioni per attenuare tali rischi e
migliorare la trasparenza dei contratti derivati».
A tal fine, tra le varie misure previste dal legislatore comunitario nel Regolamento in
esame, merita di essere segnalata quella avente ad oggetto la predisposizione di una
disciplina del mercato dei derivati otc ispirata a quella dei derivati uniformi.
In particolare, il sistema previsto dal Regolamento EMIR transita attraverso due
direttrici: la standardizzazione e la previsione di una camera di compensazione.
Sotto il primo profilo, il regolamento ripropone, anche in ambito di derivati otc, la
distinzione tra contratti standardizzati e non standardizzati, ricorrendo a tal fine alla
nozione di categoria; più esattamente, il punto 6 dell’art. 2 del Reg. UE n. 648/2012
definisce la nozione di «categoria di derivati» come «un sottoinsieme di derivati aventi
caratteristiche essenziali comuni che includono almeno la relazione con il sottostante, il
tipo di sottostante e la valuta di denominazione del valore nozionale. I derivati che
appartengono alla stessa categoria possono avere scadenze diverse».
62
«A bank is not required to include in this capital charge (i) transactions with a central counterparty
(CCP); and (ii) securities financing transactions (SFT), unless their supervisor determines that the bank’s
CVA loss exposures arising from SFT transactions are material». Basilea III, p. 31. Cfr. F. ACCETTELLA,
L’accordo di Basilea III, cit.
63
EMIR è l’acronimo di European Market Infrastructure Regulation (letteralmente: regolamento sulle
infrastrutture del mercato europeo).
61
La standardizzazione, a sua volta, è il presupposto per l’operatività del sistema di
«compensazione, segnalazione e attenuazione dei rischi dei derivati O.T.C.», come
disciplinata al Titolo III del Reg. UE n. 648/2012, laddove, in difetto della medesima,
troverà invece applicazione la diversa disciplina contenuta nell’art. 11 Reg. cit.64.
Giova al riguardo soffermarsi ulteriormente sulla procedura di standardizzazione
disciplinata dal Reg. UE n. 648/201265.
Il nucleo della disciplina è costituito dall’art. 5 del Reg. UE n. 648/2012, il quale affida
la gestione della procedura in esame all'ESMA (European Securities and Markets
Authority)66, la quale ha il compito di elaborare, al fine di presentarle alla Commissione
europea per la relativa approvazione, «progetti di norme tecniche di regolamentazione»
funzionali alla identificazione delle categorie di derivati da assoggettare all'obbligo di
compensazione.
Il successivo art. 6 del Reg. UE n. 648/2012 affida sempre all'ESMA il compito di
istituire ed aggiornare un registro pubblico «per individuare correttamente e
inequivocabilmente le categorie di derivati OTC soggette all'obbligo di compensazione».
64
In particolare, «si prevede, ai sensi degli artt. 4 e 9, l'obbligo per le «controparti finanziarie» di
compensare i derivati OTC «standardizzati» mediante una controparte centrale (CCP) e quello di
segnalare tutti i contratti derivati OTC ad un repertorio di dati sulle negoziazioni (c.d. trade repository).
L'obbligo di compensazione mediante controparte centrale dovrebbe contenere i rischi (specie quello
creditizio di controparte) delle attività in esame, in virtù delle condizioni richieste per l'autorizzazione delle
CCP e dei relativi requisiti prudenziali (rispettivamente titolo III, capo 1 e titolo IV, capo 3 del
regolamento). Si pensi, soprattutto, agli onerosi vincoli patrimoniali richiesti per le controparti centrali (art.
16) — che sembrano scontare la medesima logica degli Accordi di Basilea di una dotazione patrimoniale
minima commisurata ai rischi dell'attività – e agli obblighi delle stesse controparti di raccogliere adeguati
margini iniziali (art. 41) e di disporre di un fondo di garanzia (art. 42). Di converso, i contratti derivati OTC
non standardizzati e, quindi, inidonei ad essere compensati mediante controparti centrali presentano un
livello di rischio creditizio di controparte (ma anche operativo) elevato. In ragione di ciò, l'art. 11 del
regolamento prevede per la negoziazione di tali contratti derivati delle apposite tecniche di attenuazione dei
rischi, tra cui la necessità che le controparti finanziarie detengano «un importo di capitale adeguato e
proporzionato per gestire il rischio non coperto da un adeguato scambio di garanzie» (4º par.). Alla luce
della segnalata differenza, va interpretato il diverso trattamento dei derivati OTC non compensati attraverso
una controparte centrale, ai fini dei requisiti patrimoniali previsti dall'Accordo di Basilea III». F.
ACCETTELLA, L’accordo di Basilea III, cit.
65
«La tecnica legislativa adottata per definire le categorie di derivati oggetto di compensazione è
complessa e la normativa di rango primario fissa i criteri generali. Sulla base di Technical standards
predisposti dall'ESMA, la Commissione decide se una categoria di contratti derivati OTC debba essere
assoggettata all'obbligo di compensazione e a decorrere da quando, compresa l'eventuale applicazione
graduale e la durata residua minima dei contratti stipulati o novati prima della data di decorrenza
dell'obbligo di compensazione». P. LUCANTONI, L'organizzazione della funzione di post-negoziazione, cit..
66
Nel Reg. UE n. 648/2012, l’ESMA viene menzionato con l’acronimo AESFEM, corrispondente alla
traduzione italiana di European Securities and Markets Authority, ossia «Autorità europea degli strumenti
finanziari e dei mercati». Detto organismo è stato istituito con Reg. UE. 1095/2010 del 24 novembre 2010.
62
La disciplina comunitaria appena richiamata, pertanto, affida la gestione e – soprattutto
– l’iniziativa della procedura di standardizzazione all’ESMA, ossia ad una Autorità che sta
«a stretto contatto con i partecipanti ai mercati finanziari» e «che ne conosce meglio il
funzionamento quotidiano» (cfr. considerando n. 23 del Reg. 1095/2010, istitutivo
dell’ESMA)67.
Orbene, deve ora essere osservato che i suddetti interventi sono tutti finalizzati
principalmente a delimitare gli effetti del cosiddetto rischio sistemico, ossia «il pericolo
che l'incapacità di un partecipante al sistema di adempiere alle sue obbligazioni alla loro
scadenza provochi l'incapacità di altri soggetti a provvedere all'adempimento delle
proprie, producendo così una reazione a catena, che in ragione del cosiddetto “effetto
domino” è potenzialmente destinata a non interrompersi mai»68.
Si tratta, evidentemente, di un fenomeno strettamente collegato e dipendente da
un’altra categoria di rischio, ossia quello di controparte, definibile come «il rischio che
una controparte risulti inadempiente prima della data prevista per il regolamento ossia
per l'esecuzione del contratto»69.
Quello sin qui descritto rappresenta uno scenario che sicuramente deve essere
conosciuto dal giurista; tuttavia, non fornisce alcuna soluzione soddisfacente rispetto alle
specifiche criticità giuridiche poste dalle singole contrattazioni in derivati.
Più esattamente, sia gli Accordi di Basilea che il Regolamento EMIR privilegiano
l’esigenza di contenere i rischi di tipo macroeconomico70 che influiscono negativamente
67
Inoltre, nel considerando n. 22 del medesimo Reg. 1095/2010 viene affermato che «è efficace e
opportuno che l’Autorità, in quanto organismo dotato di competenze tecniche altamente specialistiche, sia
incaricata dell’elaborazione, in settori definiti dal diritto dell’Unione, di progetti di norme tecniche di
regolamentazione che non comportino scelte politiche».
68
E. GABRIELLI, Garanzie del credito e mercato: il modello comunitario e l’Antitrust, in Giust. civ.,
2011, IV, pp. 167 ss. e in iusexplorer.it.
69
L. SASSO, L’impatto sul mercato, cit. Lo stesso Autore, inoltre, precisa che «questo rischio si
differenzia da quello di credito, pur essendone una sua sottospecie, poiché a differenza di quest'ultimo che
nasce da un contratto a prestazioni corrispettive, il primo nasce da un finanziamento. Inoltre, mentre nel
rischio di credito la probabilità di perdita è unilaterale, perché incombe solo sulla banca finanziatrice, nel
rischio di controparte è bilaterale, potendo il valore di mercato della transazione finanziaria essere positivo
o negativo per entrambe le parti».
70
«I rischi macroeconomici sono già stati sintetizzati da altri: 1) il "rischio controparte" legato allo
scambio diretto senza il tramite dell'intermediario professionale; 2) il "rischio liquidità": in assenza di un
mercato organizzato, lo scambio dei valori può avvenire ad un prezzo molto distante dal valore reale degli
underlying assets; 3) il "rischio sistemico": se gli scambi non sono concentrati sui mercati autorizzati
nessuno conosce l'esposizione complessiva e l'effetto leva complessivo di uno stesso strumento finanziario;
4) il rischio di abusi per scarsa trasparenza dei valori in bilancio, dato che sovente il valore dei derivati non
risulta con chiarezza e precisione dalle scritture contabili e la valutazione del loro valore non dà un
63
sul sistema bancario e finanziario (tali sono, appunto, il rischio sistemico e il rischio di
controparte), senza però al contempo prevedere misure destinate a regolare gli elementi
controversi del rapporto che lega le parti di un contratto derivato.
4. La normativa microeconomica dei derivati.
Occorre ora esaminare proprio la disciplina del rapporto che si instaura tra le parti di
un contratto derivato (in particolare, di un derivato otc), muovendo come di consueto
dall’analisi del dato normativo.
Al riguardo, come si è già accennato, i contratti derivati otc possono essere negoziati o
direttamente e liberamente tra le parti – nel qual caso troverà applicazione la generale
disciplina dei contratti prevista nel codice civile – o tramite intermediari: in quest’ultimo
caso, troverà applicazione il sopradescritto sistema basato sulle regole e sui principi
relativi alla prestazione dei servizi di investimento, ispirato ad una ratio di tutela del
cliente, a cui le SIM e le banche si devono attenere 71.
È quindi necessario soffermarsi ulteriormente su questa seconda modalità di
contrattazione, costituendo la prima un’ipotesi essenzialmente di scuola72.
In primo luogo, occorre precisare che l’applicazione dei sopraccitati «criteri generali»
di cui all’art. 21 tuf anche alla negoziazione su derivati non standardizzati sarebbe
giustificata dalla professionalità e dalla pubblicità della medesima (art. 18 tuf), sul
presupposto, appunto, che la negoziazione su derivati otc svolta professionalmente e nei
confronti del pubblico solleverebbe, in concreto, le stesse peculiari criticità poste dallo
specifico fenomeno della standardizzazione73.
risultato "attendibile" nell'ottica dell'art. 2427-bis, ult. comma, cioè del fair value». M. COSSU e P. SPADA,
Dalla ricchezza assente alla ricchezza inesistente, cit.
71
A. PIRAS – E. PIRAS, Il ricorso agli strumenti finanziari derivati, cit., p. 85; R. COSTI, Il mercato
mobiliare, cit., pp. 122, 127 e 138.
72
A. PIRAS – E. PIRAS, Il ricorso agli strumenti finanziari derivati, cit., p. 85.
73
R. COSTI, Il mercato mobiliare, cit., p. 138. Secondo V. ROPPO, Il contratto, cit., pp. 43-45, la
«disuguaglianza di potere contrattuale delle parti», per il quale «il contraente più forte “detta legge” al
contraente più debole», sarebbe un «dato fisiologico del contratto» e che «prescinde dalla
standardizzazione: si manifestava anche in epoche che non erano di economia massificata, e oggi si
manifesta anche al di fuori della contrattazione standardizzata, in relazione a contratti personalizzati». Ciò
determinerebbe la «menomazione del ruolo volitivo di una parte», al quale il legislatore cerca di porre
rimedio mediante l’individuazione di particolari «categorie socio-economiche» contrattualmente deboli e la
conseguente predisposizione di «speciali discipline dei corrispondenti contratti, mirate a proteggere la parte
della categoria debole».
64
Occorre a questo punto esaminare la posizione dell’intermediario finanziario, il quale
gioca un ruolo fondamentale nella fase che precede il contratto
In generale, l’intermediario, in virtù della sua professionalità ed esperienza, partecipa
al miglioramento dell’efficienza e della funzione dei mercati finanziari, attraverso
l’incremento delle possibilità di incontrare una controparte (cosiddetta liquidità)74.
Tuttavia, al di là dei benefici di carattere generale appena richiamati, occorre dar conto
dei profili problematici sollevati proprio dalla presenza dell’intermediario finanziario in
siffatte contrattazioni.
È noto, infatti, che il consumatore dei prodotti finanziari75, di fatto, non «possiede
l’esperienza, le conoscenze e la competenza necessarie per prendere consapevolmente le
proprie decisioni in materia di investimenti e per valutare correttamente i rischi che
assume»76.
Più esattamente, il rapporto che viene ad instaurarsi tra singolo cliente ed intermediario
è caratterizzato dalla cosiddetta asimmetria informativa, ossia quella situazione di
squilibrio di informazioni in cui le parti versano in relazione al settore finanziario77.
Ad esempio, si supponga la seguente situazione: A e B sono entrambi soggetti
bisognosi di denaro e si rivolgono a C per ottenere una somma a mutuo.
A è un prudente imprenditore che chiede un finanziamento solo quando è certo di
poterlo restituire; al contrario, B è uno speculatore il cui unico scopo è quello di far fruttare
al meglio e subito la somma che riesce ad ottenere, ponendo abitualmente in essere
operazioni caratterizzate da un elevato rischio di perdita.
Orbene, in una condizione di informazioni perfette e simmetriche, sicuramente C non
finanzierebbe B, in quanto in tal modo si esporrebbe ad un probabile rischio di insolvenza.
Tuttavia, C non è un esperto di mercati finanziari, né è in grado di conoscere le
situazioni e le intenzioni sia di A che di B (asimmetria informativa): in questo caso, si
verifica la cosiddetta selezione avversa (adverse selection), ossia quel fenomeno per il
quale coloro che hanno maggior probabilità di divenire insolventi sono anche coloro che si
74
«Gli intermediari finanziari di successo realizzano rendimenti più elevati dai loro investimenti
perché sono meglio attrezzati dei singoli individui a distinguere tra impieghi più o meno rischiosi, riducendo
quindi le perdite […]; inoltre, perché sviluppano esperienza nel monitoraggio delle controparti […]». F. S.
MISHKIN, S. G. EAKINS, Istituzioni e mercati finanziari, ed. italiana a cura di G. Forestieri, Torino, 2007, pp.
31 e 32; L. VALLE, Contratti futures, cit., p. 308, in nota.
75
Così G. DI GASPARE, Teoria e critica, cit., p. 166.
76
Cfr. All. 3 del Reg. Consob 29 ottobre 2007, n. 16190.
77
A. SIROTTI GAUDENZI, Swap e responsabilità dell’operatore finanziario, cit., p. 74.
65
attivano di più per ottenere un finanziamento, aumentando così le probabilità di
ottenerlo78.
A ciò si aggiunge anche un altro fenomeno, ossia quello del cosiddetto azzardo morale
(moral hazard), anch’esso originato dalla asimmetria informativa: con tale locuzione ci si
riferisce al rischio che il soggetto finanziato ponga in essere operazioni che incrementino
la sua possibilità di insolvenza.
Per restare nell’esempio di cui sopra, supponiamo che B chieda 100 a C per acquistare
dei macchinari per avviare un’attività imprenditoriale ma, una volta ottenuto il denaro,
decida di impiegare quella somma nelle scommesse ippiche. Anche in questo caso, in virtù
della situazione di asimmetria informativa, sarà difficile per C sapere quali saranno le reali
intenzioni di A79.
Selezione avversa e azzardo morale sono quindi situazioni assai pregiudizievoli per
l’economia: entrambe determinano la sfiducia indiscriminata degli investitori e delle
banche nei confronti di coloro che chiedono un finanziamento, e quindi anche nei riguardi
di imprese disposte ad indebitarsi a basso rischio per un buon investimento80.
Tutto quanto appena descritto comporta notevoli instabilità nel settore monetario e
creditizio, con evidenti effetti a catena.
L’asimmetria informativa, pertanto, è un fenomeno che l’ordinamento deve sapere
governare81.
78
F. S. MISHKIN, S. G. EAKINS, Istituzioni e mercati finanziari, cit., p. 30.
Sostanzialmente, la differenza che intercorre tra selezione avversa e azzardo morale riguarda il
momento si manifesta la pregiudizialità dell’asimmetria informativa: la soluzione avversa riguarda il
momento precontrattuale, o delle trattative, mentre l’azzardo morale si riferisce al momento in cui il
contratto di finanziamento è stato già concluso. Cfr. F. S. MISHKIN, S. G. EAKINS, Istituzioni e mercati
finanziari, cit., p. 31.
80
F. S. MISHKIN, S. G. EAKINS, Istituzioni e mercati finanziari, cit., pp. 30 e 31.
81
In questo senso, si ritiene non condivisibile il pensiero di alcuni autori che, all’indomani della recente
crisi finanziaria che ha coinvolto l’economia globale, propongono di introdurre tout court un «divieto di
cartolarizzazione del rischio di credito, sotto qualsiasi forma», e quindi anche dei derivati (in particolare,
degli swaps). F. MERUSI, Per un divieto di cartolarizzazione, cit., p. 257. Infatti, come già affermava Luigi
Einaudi, riportato da PADOA SCHIOPPA, già più di un secolo fa «è evidente che di dolorose rovine di
capitalisti, di famiglie intere, non sia colpevole il meccanismo dei contratti a termine e che la speculazione si
sarebbe rivolta in altre direzioni ove questa vi fosse rimasta preclusa […]. Alla legislazione in siffatte
materie incombe il dovere non già di togliere la fonte occasionale del male con una proibizione assoluta, ma
di impedire che gli inavveduti e in genere il pubblico non professionale si lasci attirare a cuor leggero nelle
speculazioni a termine». T. PADOA SCHIOPPA, I prodotti derivati, cit., p. 61. Il problema, pertanto, non può
essere risolto attraverso l’introduzione di un divieto oggettivo, ma semmai attraverso una regolamentazione
più aderente alle problematiche specifiche che sollevano i derivati finanziari. Al riguardo, v. anche F.
BOCHICCHIO, Gli strumenti derivati: i controlli sulle patologie del capitalismo finanziario, in Contr. impr.,
2009, 2, pp. 305 ss.
79
66
È proprio in tale prospettiva che deve essere interpretata la disciplina di cui all’art. 21
tuf, avente ad oggetto proprio il comportamento che gli intermediari finanziari sono
obbligati a tenere nei confronti dei clienti.
In particolare, come si è già avuto modo di segnalare supra, l’art. 21 tuf prevede:
obblighi generali di correttezza, diligenza, professionalità, etc.; obblighi informativi;
norme attinenti all’organizzazione interna; regole in materia di conflitto di interessi82.
A ben vedere, questo costituisce il punto in cui si intersecano le due aree di intervento
sin qui esaminate (ossia, quella macroeconomica e quella microeconomica); in particolare,
detti interventi muovono dal comune presupposto per cui il mercato è il luogo in cui le
scelte e le iniziative delle imprese vengono giudicate dal pubblico – composto, tra gli altri,
da investitori, depositanti, clienti, creditori e controparti –, e ciò non può che avvenire
attraverso lo scambio e la diffusione di informazioni83.
Si badi, al riguardo, che è proprio l’art. 21 tuf ad esplicitare detta connessione, quando
alla lettera a), comma 1, funzionalizza il comportamento dell’intermediario all’«interesse
dei clienti» e, al contempo, alla «integrità dei mercati».
5. Profili di criticità delle normative sui derivati. In particolare, il conflitto di
interessi.
Invero, alla luce delle recenti crisi finanziarie, sembrerebbe che la disciplina sin qui
richiamata non conduca a risultati pienamente soddisfacenti, specialmente in relazione ai
derivati otc84.
Il problema di fondo è proprio quello di individuare un meccanismo rimediale
efficiente che tenga conto della necessità di bilanciare due valori non sempre concordanti,
ossia quello dell’«interesse dei clienti» e quello della «integrità dei mercati».
In questa prospettiva, non appaiono pienamente soddisfacenti, in primo luogo, i
sopraccitati interventi di tipo macroeconomico.
82
F. ANNUNZIATA, La disciplina del mercato mobiliare, cit., p. 121.
T. PADOA SCHIOPPA, I prodotti derivati, cit., p. 62.
84
«Benché a fronte di tipi sociali distinti – quali sono, da un lato, i contratti negoziati su un mercato
regolamentato, dall’altro i c.d. derivati over the counter –, il legislatore predisponga un elenco in cui i due
tipi sono contemplati indiscriminatamente, l’interprete è tenuto a distinguere, perché i profili di diversità
delle fattispecie sono molteplici e rilevanti: sono diverse le caratteristiche del contro-interesse
dell’intermediario; ricorre alternativamente l’etero o l’auto regolamentazione del contenuto, sussiste la
massima trasparenza imposta dai gestori dei mercati regolamentati ovvero la massima opacità di contenuti
predisposti dal solo intermediario; a fronte della liquidità dei derivati negoziati su mercati regolamentati,
83
67
Come si è detto, la precipua finalità degli interventi sovranazionali in materia di
derivati (Accordi di Basilea e Regolamento EMIR) è proprio quella di limitare gli effetti
dei rischi di controparte e della conseguente crisi sistemica.
Orbene, se il fine è proprio quello di limitare il rischio che una controparte risulti
inadempiente, significa che dall’apparato rimediale dovrebbero essere logicamente
escluse, in linea di principio, tutte quelle misure aventi come effetto finale lo scioglimento
del vincolo contrattuale85, posto che anche quest’ultimo, al pari dell’inadempimento,
determinerebbe di fatto una perdita economica per la parte forte del rapporto (ossia
l’originator del contratto derivato).
Si tratta, evidentemente, di interventi nell’ambito dei quali l’interesse del cliente viene
garantito fintanto che si dimostri funzionale alla tutela della integrità dei mercati: non è
infatti un caso che le misure appena citate o provengono direttamente dalle istituzioni
bancarie e finanziarie (Accordi di Basilea) o, quantomeno, vengono dalle stesse sollecitate
e influenzate (Regolamento EMIR, con particolare riferimento alla procedura di
standardizzazione dei derivati otc)86.
Nella stessa prospettiva, non porterebbe a risultati adeguati nemmeno la mera
applicazione della disciplina di cui all’art. 21 tuf.
sono invece massimamente illiquidi (in verità, del tutto non negoziabili) gli strumenti over the counter; e così
via». D. MAFFEIS, L’ufficio di diritto privato dell’intermediario, cit., p. 13.
85
Non mina detto assunto la previsione di cui all’art. 23 tuf, secondo cui «i contratti relativi alla
prestazione dei servizi di investimento […] sono redatti per iscritto e una copia è consegnata al cliente […].
Nei casi di inosservanza della forma prescritta il contratto è nullo». Si tratta, come è noto, di una nullità
relativa, ossia che «può essere fatta valere solo dal cliente» (art. 23, comma 3, t.u.f. Invero, a prescindere
dalla inadeguatezza di siffatta tutela formalistica (come meglio verrà chiarito subito infra), deve essere
rilevato che il proliferare di nullità speciali relative, a differenza di quella assoluta prevista in via generale
dal codice civile, incrementano le possibilità che il contratto continui a produrre i suoi effetti anche se viziato
da una causa di invalidità (in questo caso, la mancanza di forma scritta). Ciò si pone in totale coerenza con la
logica di contemperare gli interessi del mercato con quelli del cliente, in quanto il cosiddetto “rischio di
impugnativa” viene limitato dall’attribuzione del diritto ad eccepire la nullità al solo cliente, e non già a
“chiunque vi ha interesse” (art. 1421 c.c.). Al riguardo, cfr. V. ROPPO, Il contratto del duemila, cit., p. 32.
86
«Come la recente crisi ha dimostrato, i grandi istituti finanziari — considerati troppo importanti per
il mercato finanziario e per lo sviluppo economico di uno Stato (o in altre parole “too big to fail”) — sono
stati letteralmente “salvati” dalle banche centrali dei rispettivi Stati nel momento di maggior bisogno,
esternalizzando così le perdite e generando alti costi per la comunità dei contribuenti. D'altro canto, il
fallimento anche solo di una di queste grosse banche — facilitato dalla leva finanziaria che i derivati
producono — porterebbe ad un default a catena delle controparti in un mercato che è caratterizzato da
un'altissima interconnessione tra gli istituti di credito. Il rischio sistemico è dunque molto alto nei mercati
sui derivati ed il recente allargamento degli stessi non ha certo facilitato il monitoraggio del rischio da parte
delle autorità». L. SASSO, L’impatto sul mercato, cit.
68
Come si è anche già accennato, la non corretta comprensione del contratto rappresenta
una situazione sicuramente pregiudizievole per il singolo investitore, che può avere anche
pesanti ripercussioni nel sistema finanziario considerato nel suo complesso.
Invero, a prescindere dalla specifica questione relativa alla qualifica dell’investitore87,
deve essere qui osservato che quando l’intermediazione finanziaria ha ad oggetto contratti
derivati, anche il comportamento più corretto, diligente e professionale – da un lato – e il
più completo, chiaro e trasparente assolvimento degli obblighi informativi – dall’altro –
non determinano, di per sé stessi, il riequilibrio dell’asimmetria informativa88.
Come infatti osserva la più attenta dottrina, «sarebbe un errore di prospettiva pensare
che l’asimmetria informativa tra intermediario ed investitore, nei derivati over the
counter, sia solo una questione di esperienza e competenza in ambito finanziario», posto
che «l’asimmetria dipende anche dai grafemi coi quali sono espresse le formule di
matematica finanziaria, che sovente variano da intermediario a intermediario e possono
costituire un impedimento alla comprensione del contratto anche per investitori che
abbiano già operato in derivati»89.
Il problema viene altresì accentuato dal particolare conflitto di interessi90 in cui versa
l’intermediario che offre contratti derivati, dal momento che questi ultimi nascono proprio
87
Al riguardo, si rinvia a M. CAMPOBASSO, Classificazione dell'investitore come cliente professionale e
imputazione di conoscenza, in Banca, borsa, tit. cred., 2012, 6, pp. 819 ss.; F. DELFINI, Valutazione di
adeguatezza ex art. 40 Reg. Intermed., obbligazioni strutturate e derivati di credito, in Banca, borsa, tit.
cred., 2014, 3, pp. 296 ss.; A. PARZIALE, Interest rate swap: il valore della dichiarazione di operatore
qualificato e la nullità per difetto di causa al vaglio delle corti pugliesi, in Banca, borsa, tit. cred., 2012, 6,
pp. 787 ss.
88
«La vasta asimmetria informativa tra le parti, difficilmente arginabile con semplici obblighi di
comunicazione, ha spinto parte della dottrina a dubitare fortemente dei benefici di una maggiore
trasparenza . Secondo questa parte della dottrina, ammesso che queste premesse siano corrette, ulteriori
regole a favore di una trasparenza avrebbero semplicemente l'onere di aggiungere costi di comunicazione e
compliance agli istituti finanziari, con il potenziale risultato di guidare il mercato all'uso di forme di
organizzazione meno efficienti. Da un punto di vista legislativo inoltre, un'eccessiva fiducia nelle capacità
autocorrettive del mercato dettate da decisioni razionali di investimento degli operatori potrebbe rivelarsi
addirittura controproducente e distogliere l'attenzione da altre iniziative meritevoli d'attuazione». L. SASSO,
L’impatto sul mercato, cit.
89
D. MAFFEIS, Contratti derivati, in Banca, borsa, tit. cred., 2011, 5, pp. 604 ss. e in iusexplorer.it.
90
È appena il caso di rilevare che nel nostro ordinamento il conflitto di interessi viene specificamente
disciplinato agli artt. 1394 e 1395 c.c., nell’ambito dell’istituto della rappresentanza. In generale, «il
contratto concluso dal rappresentante in conflitto di interessi col rappresentato può essere annullato su
domanda del rappresentato, se il conflitto era conosciuto o riconoscibile dal terzo» (art. 1394 c.c.). In tale
contesto, la giurisprudenza ha chiarito che è ravvisabile una situazione di conflitto di interessi allorquando «il
rappresentante persegua interessi propri suoi personali o anche di terzi inconciliabili con quelli del
rappresentato, in modo che l'utilità conseguita o conseguibile dal rappresentante per sé medesimo o per il
terzo, segua, o possa seguire, il danno del rappresentato», mentre lo stesso deve essere escluso sia in caso di
69
«dalla fantasia creatrice degli intermediari finanziari che dalla loro semplice
negoziazione sui mercati regolamentati come dalla loro creazione ed offerta over the
counter ritraggono sovente una delle maggiori fonti di reddito»91.
Si tratta di un concetto fatto proprio e ribadito anche da alcune recenti pronunce di
merito; ad esempio, secondo Tribunale Milano, 19 aprile 2011, n. 5443, «la contrattazione
in derivati over the counter, a differenza di quella in derivati cosiddetti uniformi, porta
con sé un naturale stato di conflittualità tra intermediario e cliente che discende
dall’assommarsi, nel medesimo soggetto, delle qualità di offerente e di consulente; dalla
centralità, in relazione al futuro andamento del rapporto, della disciplina stipulata tra le
parti; dal fatto che si tratta di prodotti di secondo livello strutturabili in funzione delle
specifiche esigenze delle controparti quanto a scadenza, tipologia del sottostante,
liquidazione di profitti e perdite, ecc.; dall'evidente interesse dell'intermediario,
controparte contrattuale portatore di un proprio interesse economico, a costruire o
proporre un prodotto che possa risultare svantaggioso o inadatto al cliente, in quanto
fabbricato o rinegoziato in termini geneticamente o successivamente alterati in sfavore
della controparte. In tema di derivati over the counter, il conflitto di interessi tra
intermediario e cliente può derivare anche dal fatto che il primo può avere in essere
operazioni di segno uguale o contrario con altri soggetti e dalla necessità di piazzare
prodotti sul mercato anche solo per esigenze di riposizionamento o di propria
copertura»92.
«mera convergenza di interessi tra rappresentante e rappresentato, in nome del quale il primo agisca
nell'ambito dei poteri conferitigli», sia in caso di «uso malaccorto o non proficuo che il rappresentante
faccia di tali poteri, concludendo negozi di nulla o scarsa utilità per il rappresentato». Cfr. Cass., 18 luglio
2007, n. 15981; Cass., 29 settembre 2005, n. 19045; Cass., 3 luglio 2000, n. 8879; Cass., 10 aprile 2000, n.
4505; Cass., 17 aprile 1996, n. 3630; Cass., 16 febbraio 1994, n. 1498.
91
D. MAFFEIS, L’ufficio di diritto privato dell’intermediario, cit., p. 14.
92
Il testo integrale della sentenza è reperibile all’indirizzo ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/3965.pdf.
Peraltro, deve essere segnalato che l’inadeguata attenzione da parte della dottrina per il conflitto di interessi
nella contrattazione in derivati mal si concilia con la copiosità delle pronunce di merito sul punto. Al
riguardo, tra le sentenze più recenti che, a prescindere dalle soluzioni in concreto adottate, riconoscono la
sussistenza di un conflitto di interessi tra l’intermediario e il cliente, si segnalano: Corte d’Appello Milano,
26 maggio 2011; Trib. Milano 19 aprile 2011; Corte d’Appello Torino, 4 aprile 2011; Trib. Piacenza, 4 aprile
2010; Trib. Torino, 11 novembre 2010; Trib. Torino, 26 maggio 2010; Corte d’Appello Firenze, 20 ottobre
2009; Trib. Torino, 17 marzo 2009; Trib. Milano, 14 febbraio 2009; Trib. Massa, 26 settembre 2008; Trib.
Cuneo, 23 luglio 2008; Trib. Milano, 3 giugno 2008; Trib. Venezia, 28 febbraio 2008; Corte d’Appello
Torino, 19 ottobre 2007; Trib. Torino, 8 maggio 2007; Trib. Rimini, 21 aprile 2007; Trib. Vercelli, 30
novembre 2006; Trib. Milano, 22 novembre 2006; Trib. Milano, 20 marzo 2006; Trib. Torino, 9 febbraio
2006; Trib. Venezia, 29 settembre 2005; Trib. Venezia, 22 novembre 2004; Trib. Firenze, 30 maggio 2004.
Negano, invece, la sussistenza di un conflitto di interessi: Trib. Ravenna, 18 ottobre 2011; Corte d’Appello
70
Pertanto, l’esistenza di detto conflitto conferma l’inadeguatezza della disciplina
microeconomica richiamata, e in particolare quella di cui all’art. 21 tuf: è infatti sufficiente
rilevare che le valutazioni dell’investitore circa l’opportunità dell’investimento in derivati
si fondano essenzialmente sulle informazioni fornite dall’intermediario, ossia dalla sua
controparte93.
5.1. Il conflitto di interessi tra regole di comportamento e regole di
validità.
Le suddette considerazioni sembrerebbero essere alla base dei più recenti interventi
giurisprudenziali in materia di derivati94.
Al riguardo, sembra opportuno muovere dall’evoluzione giurisprudenziale relativa alle
conseguenze civilistiche95 derivanti dall’inosservanza degli obblighi di comportamento da
parte degli intermediari finanziari.
Torino, 31 marzo 2009; Trib. Palermo, 25 febbraio 2009; Trib. Parma, 18 marzo 2008; Trib. Roma, 11
ottobre 2007; Trib. Forlì, 19 giugno 2007; Trib. Catania, 23 gennaio 2007; Trib. Roma, 17 novembre 2005;
Trib. Trani, 7 giugno 2005; Trib. Mantova, 5 aprile 2005; Trib. Mantova, 3 febbraio 2005; Trib. Monza, 16
dicembre 2004; Trib. Mantova, 18 marzo 2004.
93
«L’informazione, nel settore dell'intermediazione finanziaria, non è solo votata ad assumere un ruolo
funzionale all'esigenza di contribuire a rendere chiaro il contenuto dei rapporti contrattuali, attribuendo
loro maggiore certezza, ma è l'unico strumento attraverso cui l'investitore può effettuare la valutazione della
rispondenza al proprio interesse dell'investimento effettuato. I dati necessari per una tale valutazione, infatti,
sono in possesso dell'intermediario, il quale di fatto è l'unico in grado di amministrare il rapporto, nelle
condizioni di decidere se e come far funzionare il regolamento d'interessi ed è il solo in grado di investire
tempo e risorse nell'aggiornamento, anche tecnico, necessario a cogliere le pur minime fluttuazioni nel
mercato e ad interpretarne gli effetti». F. GRECO, Rileggere le regole dell’informazione nel rapporto tra
intermediario e risparmiatore, in Resp. civ. prev., 2014, 3, pp. 931 ss. e in iusexplorer.it. V. anche Trib.
Milano, 13 febbraio 2014, secondo cui l’intermediario in conflitto di interessi «ha l’obbligo di illustrare al
cliente i rischi relativi allo specifico prodotto», posto che in assenza di dette informazioni «l’investitore non
è in grado di formulare un giudizio di convenienza economica del derivato in termini di
costo/rischio/beneficio».
94
In particolare, v. Corte d’Appello Milano, 18 settembre 2013, n. 3459.
95
Per quanto riguarda le conseguenze amministrativo-sanzionatorie a carico degli intermediari per
l’inosservanza degli obblighi in oggetto, v. Cass. Civ., S.U., 30 settembre 2009, n. 20933, in iusexplorer.it,
secondo cui, rispetto ad una fattispecie perfezionatasi prima dell’entrata in vigore del d.lgs. 17 gennaio 2003,
n. 5 (cosiddetto «nuovo processo societario»), «in tema di sanzioni amministrative per violazione delle
disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, i componenti del consiglio di amministrazione di una
società, chiamati a rispondere, ai sensi dell'art. 190 d.lg. 24 febbraio 1998 n. 58, per la violazione dei doveri
inerenti alla prestazione dei servizi di investimento posti a tutela degli investitori e del buon funzionamento
del mercato, non possono sottrarsi alla responsabilità adducendo che le operazioni integranti l'illecito sono
state poste in essere, con ampia autonomia, da un altro soggetto che abbia agito per conto della società,
gravando a loro carico un dovere di vigilanza sul regolare andamento della società, la cui violazione
71
Si tratta di un problema che ha impegnato a lungo la dottrina e la giurisprudenza, per la
soluzione del quale sono state avanzate diverse proposte.
L’orientamento più remoto, risalente agli anni ’90, muoveva da un dato: quello
secondo cui alla violazione di regole di comportamento dovesse necessariamente
conseguire un’invalidità del contratto in termini di nullità, sia essa assoluta, in quanto
posta a tutela di interessi generali, o relativa, posta cioè a tutela del singolo cliente e per
ciò stesso solo da lui eccepibile96.
In particolare, in una delle prime sentenze di merito, emanate nella vigenza della l. 2
gennaio 1991, n. 1 («disciplina dell'attività di intermediazione mobiliare e disposizioni
sull'organizzazione dei mercati mobiliari», nota anche come «legge SIM»), le norme
relative alle regole di comportamento venivano qualificate imperative, «in quanto non può
revocarsi in dubbio che le stesse siano poste a tutela di interessi generali che trascendono
quelle del singolo contraente»97.
Pertanto, secondo questa giurisprudenza, gli obblighi di forma scritta, di indicazione
della natura dei servizi e dei criteri di calcolo della loro remunerazione, nonché quello di
operare informando adeguatamente il cliente sui rischi98, erano posti non già a tutela del
singolo contraente, bensì a presidio dello «svolgimento di attività economiche rilevanti»99.
Da tale circostanza, i giudici deducevano che dalla violazione delle norme sugli
obblighi di informazione, in quanto imperative, dovesse discendere la «probabile nullità
e/o annullabilità del contratto»100.
Si tratta di un’impostazione che viene sostanzialmente confermata anche nelle sentenze
di merito immediatamente successive pronunciate in tema di contratti derivati101.
Nondimeno, nel corso degli anni 2000, tale impostazione è stata progressivamente
rimeditata da alcune pronunce di merito.
Ad esempio, nel 2005 è stato affermato che la violazione degli obblighi informativi
non determinerebbe, di per sé stessa, l’invalidità dell’atto, ricadendo semmai sul piano
della responsabilità per inadempimento; tuttavia, qualora tale inadempimento sia «di non
comporta una responsabilità solidale, ai sensi dell'art. 6 l. 24 novembre 1981 n. 689, salvo che non provino
di non aver potuto impedire il fatto».
96
R. COSTI, Il mercato mobiliare, cit., p. 150.
97
Trib. Milano, 11 maggio 1995, in Giur. comm., 1996, II, p. 83, con nota di SQUILLACE.
98
Cfr. art. 6, comma 1, lett. c), e) e g) della l. n. 1 del 1991.
99
Trib. Milano, 11 maggio 1995, cit., p. 84.
100
Trib. Milano, 11 maggio 1995, cit., p. 84.
101
V., ad esempio, Trib. Milano, 3 gennaio 1996, in Banca, borsa, tit. cred., 1996, II, p. 552.
72
scarsa importanza», si dovrebbe ammettere la risolubilità del contratto ex artt. 1453 e 1455
c.c.102.
Le Sezioni Unite della Cassazione, con una importante pronuncia103, hanno poi
radicalmente respinto le teorie invalidanti e ripristinato un principio del diritto dei contratti
ritenuto «tradizionale»104, ossia la distinzione tra regole di comportamento, la cui
violazione è fonte di responsabilità, e regole di validità del contratto105.
Anzitutto, viene osservato che gli obblighi di comportamento cui si riferiscono le
disposizioni sopra richiamate sono tutti finalizzati al rispetto della «clausola generale» di
cui all’art. 21 tuf, consistente nel «dovere dell’intermediario di comportarsi con diligenza,
correttezza e professionalità nella cura dell’interesse del cliente», e si collocano in parte
nella fase che precede la stipulazione del contratto di intermediazione finanziaria
(cosiddetta fase prenegoziale), in parte nella fase della sua esecuzione106.
La Suprema Corte, inoltre, osserva che le norme in questione hanno sì carattere
imperativo, ma tale rilievo non è tuttavia sufficiente, da solo, a dimostrare che la
violazione di una o più di queste norme comporti la nullità del contratto: «è ovvio che la
loro violazione non può essere, sul piano giuridico, priva di conseguenze, ma non è detto
che questa sia necessariamente la nullità del contratto»107.
102
Trib. Firenze, 18 ottobre 2005, in ilcaso.it. Escludono espressamente la nullità, ammettendo
eventualmente l’annullabilità del contratto ex art. 1394 o 1395 c.c. per essere stato lo stesso concluso in
conflitto di interessi, Cass. Civ. 29 settembre 2005, n. 19024 (v. infra) e Trib. Rovereto, 18 gennaio 2006,
mentre Trib. Milano 9 marzo 2005 ritiene «dubbia la praticabilità di un’azione di nullità con riferimento
all’ipotesi di conflitto di interessi non segnalato».
103
Sez. Un. Civ., 19 dicembre 2007, n. 26724, in Guida dir., 2008, 5, p. 41; v. anche Sez. Un. Civ., 19
dicembre 2007, n. 26725, in Resp. civ. prev., 2008, 3, p. 547, con nota di GRECO.
104
Si esprimono in questi termini sia la pronuncia delle Sezioni Unite in esame, sia la relativa ordinanza
di rimessione (Cass., Sez. I, 16 febbraio 2007, ord. n. 3683).
105
V. ROPPO, Il contratto del duemila, cit., p. 46.
106
Alla fase prenegoziale attengono l’obbligo di consegnare al cliente il documento informativo e il
dovere dell’intermediario di acquisire le informazioni necessarie in ordine alla situazione finanziaria del
cliente, per adeguare la successiva operatività. Alla fase successiva alla stipulazione del contratto, al fine
della sua corretta esecuzione, l’intermediario deve sempre porre il cliente in condizione di valutare appieno
la natura, i rischi e le implicazioni delle singole operazioni di investimento/disinvestimento, nonché di ogni
altro fatto necessario a disporre con consapevolezza dette operazioni, nonché comunicare per iscritto
eventuali situazioni di conflitto; ha inoltre l’obbligo di tenersi informato sulla situazione del cliente (obbligo
peraltro funzionale al dovere di curare diligentemente e professionalmente gli interessi di quest’ultimo). Si
osservi che tale obbligo persiste durante l’intera fase esecutiva, stante la suscettibilità della situazione del
cliente di evolversi nel tempo. A ciò si aggiungano i cosiddetti doveri negativi sempre a carico
dell’intermediario, consistenti nel non consigliare e non effettuare operazioni di frequenza e/o dimensioni
eccessive. Sez. Un. Civ., 19 dicembre 2007, n. 26724, cit., pp. 43 e 44.
107
Sez. Un. Civ., 19 dicembre 2007, n. 26724, cit., p. 44.
73
Il punto da cui muovere per risolvere la questione è, come è già stato accennato, quello
della tradizionale distinzione tra norme di comportamento dei contraenti e norme di
validità del contratto.
Si tratta di un principio ribadito anche dalla prevalente dottrina108, fortemente radicato
nei principi del codice civile e pertanto – a detta delle Sezioni Unite - «difficilmente
contestabile»109; né si può affermare che il legislatore abbia in questo caso voluto
derogarvi.
Anzi, quest’ultimo avrebbe espressamente previsto alcune ipotesi di nullità solo
quando lo ha ritenuto opportuno: si pensi, ad esempio, alle norme sulla forma (art. 23 tuf).
Lo stesso non potrebbe invece essere affermato in ordine alla violazione delle regole di
comportamento previste in tema di informazione al cliente e gravanti sull’intermediario:
queste ultime, infatti, sono contemplate dal legislatore soltanto per i loro eventuali risvolti
in tema di responsabilità, posto che viene previsto a carico dell’intermediario l’onere della
prova di aver agito con la necessaria diligenza, ex art. 23, comma 6, tuf110.
Non sarebbe inoltre da condividere nemmeno il ragionamento secondo cui la nullità
del contratto discenderebbe dall’imperatività della norma (in particolare, l’art. 6, comma 2,
tuf), la quale sarebbe tale in quanto posta a presidio dello «svolgimento di attività
economiche rilevanti», posto che alla tutela del buon funzionamento dell’intero mercato
108
V. ROPPO, Il contratto del duemila, cit., p. 46.
«Per persuadersene è sufficiente considerare come dal fondamentale dovere che grava su ogni
contraente di comportarsi secondo correttezza e buona fede - immanente all'intero sistema giuridico, in
quanto riconducibile al dovere di solidarietà fondato sull'art. 2 della Costituzione, e sottostante a quasi tutti
i precetti legali di comportamento delle parti di un rapporto negoziale (ivi compresi quelli qui in esame) - il
codice civile faccia discendere conseguenze che possono, a determinate condizioni, anche riflettersi sulla
sopravvivenza dell'atto (come nel caso dell'annullamento per dolo o violenza, della rescissione per lesione
enorme o della risoluzione per inadempimento) e che in ogni caso comportano responsabilità risarcitoria
(contrattuale o precontrattuale), ma che, per ciò stesso, non sono evidentemente mai considerate tali da
determinare la nullità radicale del contratto (semmai eventualmente annullabile, rescindibile o risolubile),
ancorché l'obbligo dì comportarsi con correttezza e buona fede abbia indiscutibilmente carattere
imperativo. E questo anche perché il suaccennato dovere di buona fede, ed i doveri di comportamento in
generale, sono troppo immancabilmente legati alle circostanze del caso concreto per poter assurgere, in via
di principio, a requisiti di validità che la certezza dei rapporti impone di verificare secondo regole
predefinite». Sez. Un. Civ., 19 dicembre 2007, n. 26724, cit., p. 45.
110
Sez. Un. Civ., 19 dicembre 2007, n. 26724, cit., p. 47. L’art. 23, comma 6, tuf dispone infatti che
«nei giudizi di risarcimento dei danni cagionati al cliente nello svolgimento dei servizi di investimento e di
quelli accessori, spetta ai soggetti abilitati l'onere della prova di aver agito con la specifica diligenza
richiesta».
109
74
sono preordinati il sistema dei controlli e delle sanzioni facenti capo alle Autorità di
Vigilanza111.
Dopo aver svolto le suddette precisazioni, la Corte di Cassazione procede infine alla
ricostruzione della disciplina.
In primo luogo, vengono considerate le violazioni degli obblighi informativi che
gravano sull’intermediario nel momento antecedente la stipula del contratto-quadro112. Il
riferimento è in particolare ai più volte richiamati obblighi di trasparenza e ai doveri di
correttezza previsti dall’art. 21 tuf e precisati dall’art. 6, comma 2, lett. a) e b), tuf.
Al riguardo, la Suprema Corte afferma che le violazioni in esame non possono mai
comportare nullità, ma, al limite, l’annullabilità del contratto per vizio del consenso;
potranno, inoltre, essere fonte di responsabilità precontrattuale, dalla quale discende
l’obbligo per l’intermediario di risarcire gli eventuali danni subiti dal cliente113.
Più esattamente, le Sezione Unite, richiamandosi ad un orientamento giurisprudenziale
consolidato114, precisano che la violazione dell’obbligo di comportarsi secondo buona fede
nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto rileva sia in caso di
rottura ingiustificata delle trattative, sia nel caso in cui venga stipulato un contratto
invalido o comunque inefficace, sia quando il contratto, pur essendo valido, «tuttavia
risulti pregiudizievole per la parte rimasta vittima del comportamento scorretto».
In tale ultima ipotesi, il risarcimento del danno deve essere commisurato in base al
«minor vantaggio, ovvero al maggior aggravio economico prodotto dal comportamento
tenuto in violazione dell'obbligo di buona fede, salvo che sia dimostrata l'esistenza di
ulteriori danni che risultino collegati a detto comportamento da un rapporto
rigorosamente consequenziale e diretto».
111
Sez. Un. Civ., 19 dicembre 2007, n. 26724, cit., p. 47; cfr. Trib. Milano, 11 maggio 1995, cit., p. 84.
Con l’espressione «contratto-quadro» ci si vuol riferire all’atto negoziale con cui le parti regolano
singole ed eventuali operazioni future, senza tuttavia vincolarsi a porle in essere. Cfr. R. COSTI, Il mercato
mobiliare, cit., p. 147; A. SIROTTI GAUDENZI, Swap e responsabilità dell’operatore finanziario, cit., p. 61.
Alcuni autori considerano il contratto-quadro una specie del più ampio genere «contratto normativo», ossia il
contratto con cui le parti definiscono le clausole di contratti futuri e si obbligano ad apporle a questi ultimi,
se e quando saranno conclusi. In particolare, V. ROPPO, Il contratto, cit., pp. 496 ss., distingue tra contratto
normativo interno, concluso dalle stesse parti che andranno a concludere i futuri contratti, e esterno, quando
il futuro contratto vedrà la partecipazione anche di un terzo. Inoltre, il contratto-quadro, il quale prevede solo
qualche clausola e lascia perciò alcuni margini operativi a successive manifestazioni di volontà, va tenuto
distinto dal cosiddetto «contratto tipo», nel quale viene previsto l’intero regolamento negoziale e, pertanto,
l’unico atto che residua concerne la volontà di concluderlo o meno.
113
Sez. Un. Civ., 19 dicembre 2007, n. 26724, cit., p. 47.
114
Cass., Sez. I, 29 settembre 2005, n. 19024.
112
75
In secondo luogo, vengono in considerazione le violazioni dei doveri riguardanti la
fase successiva alla stipulazione del contratto-quadro.
Al riguardo, viene rilevato che le violazioni in esame possono assumere i connotati di
un vero e proprio inadempimento (o non esatto adempimento) contrattuale, posto che gli
obblighi di cui si tratta derivano da norme di natura inderogabile, e pertanto sono destinati
ad integrare il negozio che vincola le parti.
Anche in questa seconda ipotesi, dalla loro violazione discendono obblighi risarcitori,
in conformità ai principi generali dell’inadempimento contrattuale, mentre la possibilità
che il contratto venga risolto ai sensi dell’art. 1453 c.c. è eventualmente prospettabile,
come era anche già stato osservato da alcune sentenze di merito precedenti115, solo
allorquando venga dimostrato che la condotta dell’intermediario sia talmente grave da
configurare un inadempimento di non scarsa importanza (art. 1455 c.c.)116.
5.2. L’interferenza tra le regole di comportamento e le regole di validità
nella prospettiva della causa in concreto.
Orbene, occorre ora rilevare che il principio di non interferenza tra regole di
comportamento e regole di validità, il quale era già stato criticato da una parte della
dottrina117 ancor prima dell’intervento delle Sezioni Unite del 2007, non è stato
pacificamente recepito nel nostro ordinamento.
Non è certamente questa la sede per esaminare nello specifico le varie teorie sul
tema118; è sufficiente rilevare che dette critiche muovono dalla medesima idea di fondo per
cui anche l’autonomia contrattuale è un mezzo per «l’adempimento dei doveri inderogabili
di solidarietà politica, economica e sociale» (art. 2 Cost.) e che il giudizio di
115
Trib. Firenze, 18 ottobre 2005, cit.
Sez. Un. Civ., 19 dicembre 2007, n. 26724, cit., p. 47.
117
F. GALGANO, Squilibrio contrattuale e malafede del contraente forte, in Contr. e impr., 1997, pp.
417 ss.
118
Cfr., ex multis, V. ROPPO, Il contratto del duemila, cit., pp. 46-51 e, ID., La nullità virtuale del
contratto dopo la sentenza «Rordorf», in Danno e resp., 2008, 536; A. PLAIA, Diritto civile e diritti speciali:
il problema del’autonomia delle discipline di settore, Milano, 2008; R. NATOLI, Regole di validità e regole
di responsabilità tra diritto civile e nuovo diritto dei mercati finanziari, in Banca, borsa, tit. cred., 2012, II,
pp. 165 ss.; R. LENER – P. LUCANTONI, Regole di condotta nella negoziazione degli strumenti finanziari
complessi: disclosure in merito agli elementi strutturali o sterilizzazione, sul piano funzionale, del rischio
come elemento tipologico e/o normativo?, in Banca, borsa, tit. cred., 2012, IV, pp. 369 ss.; A. TUCCI, La
negoziazione degli strumenti finanziari derivati e il problema della causa nel contratto, in Banca, borsa, tit.
cred., 2013, I, pp. 68 ss. e in iusexplorer.it; G. PERLINGIERI, L'inesistenza della distinzione tra regole di
comportamento e di validità nel diritto italo-europeo, Quaderni de Il foro napoletano, V, Napoli, 2014.
116
76
meritevolezza previsto dall’art. 1322, comma 2, c.c., deve avvenire anche alla luce del
principio di correttezza (art. 1175 c.c.). Di conseguenza, la buona fede sarebbe un criterio
di valutazione del comportamento dei contraenti che, se disatteso, può determinare
l’invalidità del contratto119.
Si tratta, evidentemente, di un approccio antitetico rispetto a quello seguito dalle
Sezioni Unite del 2007, secondo cui «il suaccennato dovere di buona fede, ed i doveri di
comportamento in generale, sono troppo immancabilmente legati alle circostanze del caso
concreto per poter assurgere, in via di principio, a requisiti di validità che la certezza dei
rapporti impone di verificare secondo regole predefinite»120.
Occorre ora rilevare che anche alcune pronunce di merito successive al sopraccitato
intervento delle Sezioni Unite hanno iniziato ha rimeditare il principio di non interferenza
tra regole di validità e regole di comportamento, muovendo dall’analisi della funzione
degli obblighi comportamentali a carico dell’intermediario e riconoscendo, nel caso della
loro inosservanza, rimedi ulteriori e/o diversi rispetto a quelli sopradescritti.
In questa cornice, proprio in materia di derivati otc, tra le pronunce immediatamente
successive alle Sezioni Unite del 2007 sono individuabili due orientamenti: quello che, pur
continuando a negare la possibilità di ricorrere a rimedi invalidanti, riconosce il diritto
dell’investitore alla risoluzione del contratto e quello che, al contrario, ammette la
possibilità di dichiarare la nullità del contratto «per il difetto, in concreto, della causa, ai
sensi dell'art. 1418, comma 2 c.c., e per la non meritevolezza, in concreto, degli interessi
119
«Lo squilibrio contrattuale, produttivo della inefficacia della clausola squilibrante, è posto in
rapporto con la violazione, da parte del contraente che ha imposto la clausola (del professionista, quale
contraente forte), del canone della buona fede nella formazione del contratto; sicché la norma mette capo al
principio secondo il quale la violazione di questo canone può condurre alla caducazione del contratto
concluso con mala fede». F. GALGANO, Squilibrio contrattuale e malafede del contraente forte, cit., p. 423.
120
Sulla possibilità di dichiarare la nullità del contratto per contrasto con una clausola generale, quale è
la regola della buona fede oggettiva, v. le recenti ordinanze “gemelle” della Corte Costituzionale (n. 77, 2
aprile 2014 e n. 248 del 24 ottobre 2013), secondo le quali il giudice, «a fronte di una clausola negoziale che
rifletta (come da sua prospettazione) un regolamento degli opposti interessi non equo e gravemente
sbilanciato in danno di una parte», può rilevare d’ufficio la «nullità (totale o parziale), ex art. 1418 cod.
civ., della clausola stessa, per contrasto con il precetto dell’art. 2 Cost. (per il profilo dell’adempimento dei
doveri inderogabili di solidarietà), che entra direttamente nel contratto, in combinato contesto con il canone
della buona fede, cui attribuisce vis normativa, “funzionalizzando così il rapporto obbligatorio alla tutela
anche dell’interesse del partner negoziale nella misura in cui non collida con l’interesse proprio
dell’obbligato”». Cfr. F. ASTONE, Riduzione della caparra manifestamente eccessiva, tra riqualificazione in
termini di “penale” e nullità per violazione del dovere generale di solidarietà e di buona fede, in Giur.
Cost., 2013, IV, pp. 3770 ss.
77
perseguiti, ai sensi dell'art. 1322, comma 2 c.c.», con conseguente «restituzione di tutti i
flussi negativi addebitati per effetto dei contratti di cui è causa»121.
Nella prima prospettiva, viene innanzitutto in rilievo la sentenza Tribunale Milano del
19 aprile 2011, n. 5443122, la quale, sul presupposto che «i derivati […] “costruiti” dalla
banca e ceduti fuori da ogni mercato, non sono stati oggetto di alcuna contrattazione e
sono stati unilateralmente propinati, in un contesto invece in cui la contrattazione su base
paritaria, al fine di individuare un prodotto realmente rispondente alle esigenze
dell’operatore commerciale, doveva essere di fondamentale importanza», ha affermato che
nel caso specifico la banca avrebbe dovuto tenere in particolare considerazione le effettive
esigenze del cliente, anche a prescindere dalla professionalità di quest’ultimo123, e farsi
«parte diligente per garantire la scelta di un prodotto adatto al cliente medesimo».
La stessa pronuncia entra poi nella specifica dinamica del rapporto intercorso tra le
parti, segnalando, tra le altre cose, che «l’alternativa non era tra acquistare un prodotto
più o meno adatto alle esigenze di redditività e/o speculative di un investitore (e quindi, ad
esempio, la scelta tra un titolo di stato europeo e un titolo di stato emergente), bensì tra
l’acquistare un prodotto idoneo o meno in relazione alle esigenze dell’impresa che
costituivano una sorta di “base comune” (altrimenti detta presupposizione) del
regolamento intercorso tra le parti» e che questo modus operandi sarebbe imposto proprio
dalle regole di comportamento predisposte dal tuf, le quali costituiscono «espressione
generale del principio di buona fede oggettiva proprio del diritto generale dei contratti
[…] che rappresenta un metro di comportamento per i soggetti (e di valutazione per il
giudice), il cui contenuto non è a priori predeterminato, ma necessita di un’opera
121
Corte d’Appello di Milano del 18 settembre 2013, n. 3459.
Nello stesso senso, v. anche Trib. Lecce, 9 maggio 2011, in ilcaso.it/giurisprudenza/archivio
/5292.pdf, secondo cui «nel complesso l’operazione appare “una scommessa insensata”, un’operazione
rovinosa e sbilanciata a tutto vantaggio della Banca, a causa di costi di transazione così elevati da assorbire
gli eventuali guadagni lucrati dal cliente nel caso di andamento (a lui) favorevole dal mercato dei tassi,
laddove le operazioni in strumenti derivati, anche quando effettuate per finalità diverse da quelle di
copertura, dovrebbero almeno ex ante presentarsi come potenzialmente vantaggiose (per il cliente) nel caso
di scenari (a lui) favorevoli. In presenza di tali dati di fatto, soltanto genericamente contestati dalla Banca
(sulla quale pure gravava l’onere di provare di aver agito con la prescritta diligenza), è ragionevole ritenere
che la stessa abbia agito in conflitto di interesse ed in contrasto con la regola di condotta che impone agli
intermediari “di servire al meglio l’interesse dei clienti”».
123
«La trasparenza e l’equo trattamento nella gestione dei conflitti di interessi (conflitti che comunque,
non a caso, per disposizione di legge vanno ridotti al minimo, e non possono pertanto diventare un
comportamento generalizzato neanche nei confronti di operatori qualificati) costituiscono comportamenti
basilari, alla cui osservanza l’intermediario è tenuto anche quando il cliente firmi la dichiarazione ex art. 27
122
78
valutativa di concretizzazione, in riferimento agli interessi in gioco e alle caratteristiche
del caso specifico, da compiersi alla stregua dei valori obiettivi riconosciuti
dall’ordinamento, tra cui in primo luogo quelli della Costituzione (solidarietà sociale,
libertà di iniziativa economica, tutela del risparmio».
Una volta appurata l’inosservanza da parte dell’intermediario delle speciali regole di
condotta124, la sentenza rileva che tale violazione non può essere considerata di scarsa
importanza ex art. 1455 c.c.125 e che gli stessi obblighi di comportamento «pur essendo di
fonte legale, derivano da norme inderogabili e sono quindi destinati ad integrare a tutti gli
effetti il regolamento negoziale vigente tra le parti»; pertanto, sul presupposto che «non vi
sono limiti di alcun tipo per un rimedio che interviene ai fini del necessario ripristino delle
iniziali posizioni», conclude per la risoluzione del contratto-quadro e per il risarcimento
del danno al cliente in misura pari al saldo negativo dei differenziali maturati.
Nella stessa direzione sembra andare anche la pronuncia Trib. Milano, 4 aprile 2014126,
la quale ha dichiarato la risoluzione di uno swap rinegoziato127, stipulato da un Ente
Locale con un istituto di credito, posto in essere nell’ambito di una procedura negoziale
più complessa finalizzata alla «ristrutturazione della posizione di indebitamento in essere
con la Cassa Depositi e Presiti» in capo all’Ente medesimo, in quanto, nel caso concreto,
«il contratto derivato […] aveva la funzione precipua di rinviare al futuro le perdite più
che assicurare risparmi per la Provincia bilanciati dall’assunzione del rischio. Se ne
ricava che il contratto derivato […] proprio per la sua funzione di rimodulazione di
minusvalenze implicite nel precedente contratto, che comunque garantiva alla Provincia
Reg. Consob, ovvero anche quando il cliente sia un operatore qualificato». Trib. Milano, 19 aprile 2011, n.
5443, cit.
124
«A fronte di un prodotto non solo acquistato fuori dai mercati regolamentati, ma creato dalla
controparte professionale, e derivante da una combinazione di strutture elementari, gli elementi informativi
derivanti dagli scritti risultavano del tutto insufficienti, e finanche ingannevoli, se si dava lettura al solo
contratto quadro, che non menzionava minimamente soglie di sbarramento, effetto leva, range di protezione,
e quant’altro». Trib. Milano, 19 aprile 2011, n. 5443, cit.
125
«Al contrario, esse sono risultate essere di natura tale da compromettere del tutto l’equilibrio del
rapporto negoziale. Avevano in effetti riguardo alla diligenza nella protezione dell’interesse fondamentale
per cui era nato il contratto tra le parti, ed alla trasparenza ed equità di trattamento in un contesto di
gestione di un rapporto in conflitto di interessi: si tratta di aspetti non certo accessori e secondari in
relazione all’attitudine a tutelare l’equilibrio del contratto, e che in concreto hanno impedito lo svolgersi di
un corretto rapporto sinallagmatico». Trib. Milano, 19 aprile 2011, n. 5443, cit.
126
Il testo integrale della sentenza è reperibile all’indirizzo dirittobancario.it/sites/default/files/allegati/
trib unale_di_milano_04_aprile_2014.pdf
127
«Era stato il significativo ed imprevisto peggioramento dei tassi di interesse a rendere necessaria
tale rimodulazione e non una scorretta strutturazione del secondo derivato». Trib. Milano, 4 aprile 2014, n.,
cit.
79
copertura sull’aumento dei tassi di interesse che gravava sull’indebitamento a tasso
variabile della Provincia, non può ritenersi coerente»128.
La pronuncia da ultimo citata, peraltro, dopo aver precisato, rispetto al suddetto swap
rinegoziato, che «l’accoglimento della domanda risolutoria […] rende superfluo l’esame
della domanda di nullità della causa relativa allo stesso negozio», perviene al rigetto della
domanda di nullità proposta da parte attrice nei confronti degli altri swap posti in essere
nell’ambito della medesima operazione complessa, affermando che gli stessi
«presentavano certamente una causa concreta e del tutto efficiente» e che «l’emergenza
del risparmio per la Provincia unitamente all’incasso dell’up front nel primo contratto
denotano tutt’altro che squilibrio dell’alea».
È importante evidenziare che la sentenza appena richiamata perviene alle suddette
conclusioni muovendo proprio dell’analisi degli obblighi comportamentali: più
esattamente, viene affermato che l’indagine sulla congruità del contratto deve essere
necessariamente svolta in relazione all’interesse del cliente «rilevante ai sensi dell’art. 21
tuf»129.
Nella seconda prospettiva, invece, si colloca la già menzionata pronuncia della Corte
d’Appello di Milano del 18 settembre 2013, n. 3459130.
In relazione al ruolo dell’intermediario nella contrattazione in derivati – e,
segnatamente, sugli obblighi di comportamento su di esso gravanti e sulle conseguenze
derivanti dalla loro inosservanza –, la Corte d’Appello, in primo luogo, richiama
l’opinione dominante in dottrina e giurisprudenza secondo cui «ai sensi dell'art. 21 TUF, è
dovere inderogabile dell'intermediario finanziario agire, nella sostanza, quale
cooperatore del cliente e nel suo esclusivo interesse, secondo il modello proprio della
causa mandati (e non della causa vendendi, con conseguente inoperatività del canone
128
Giova segnalare che il giudice, nel motivare la sentenza sul punto, richiama pedissequamente le
risultanze della consulenza tecnica.
129
«Ad avviso del giudicante, pertanto, l’unico profilo concernente l’accertanda violazione di doveri
informativi attiene alla congruenza dei contratti conclusi con l’odierna parte convenuta rispetto agli
obbiettivi manifestati dalla Provincia, proprio perché in una tale prospettiva rileva la completa, esauriente e
puntuale informativa che [la banca] avrebbe dovuto fornire alla controparte; e tale informativa ha
significativi riflessi in ordine alla tipologia di contratti offerti e conclusi, il tutto nel perimetro designato
dall’art. 23 TUF […]. Occorre quindi, analizzare sinteticamente la struttura di ogni contratto derivato per
valorizzarne gli aspetti tecnici dirimenti quanto alla risposta circa la congruità con gli obiettivi di cui alla
delibera [della Provincia], posto che nella stessa è condensato , appunto, l’interesse del cliente rilevante ai
sensi dell’art. 21 TUF». Trib. Milano, 4 aprile 2014, n., cit.
130
La sentenza integrale è reperibile in iusexplorer.it, nonché all’indirizzo ilcaso.it/giurisprudenza/
archivio/ 9487.pdf.
80
caveat emptor), cosicché appare, già in astratto, del tutto irrilevante il dato che il cliente
sia, in ipotesi, dotato di esperienza professionalmente qualificata (circostanza che, si
ripete, è da escludersi nel caso di specie e rispetto alla quale qualsiasi dichiarazione
autoreferenziale costituisce mera presunzione semplice), atteso che l'intermediario
conserva "intatti" i doveri delineati nell'art. 21 TUF anche in presenza della dichiarazione
ex art. 31 Reg. Interm.».
Ciò premesso, e sempre nella prospettiva del rapporto tra cliente e intermediario, la
Corte d’Appello individua due modalità di contrattazione ben distinte, nell’ambito delle
quali le suddette regole di comportamento sembrerebbero operare in modo differente.
Da un lato, vi è la fattispecie in cui «l'intermediario si limita ad acquistare il prodotto
sul mercato quale mero mandatario del proprio cliente».
In tale ipotesi, la tutela ispirata al principio di non interferenza tra regole di
comportamento e regole di validità, così come sancito dalla pronuncia delle S.U. del 2007,
sembrerebbe conservare la sua efficienza.
Infatti, la Corte d’Appello rileva che gli obblighi informativi attengono «alla
esplicitazione dei contenuti del contratto e dell'alea in esso contenuta (che devono essere
conosciuti e riversati nel contratto)» e la loro omissione «non involge profili di nullità, ma
costituisce solo un inadempimento regolato dai principi che governano le conseguenze
della violazione delle norme di condotta dettate dal TUF, ormai definite dagli arretés delle
Sezioni Unite».
Al riguardo, la novità rispetto alle precedenti pronunce sul punto è costituita proprio
dalla rilevanza attribuita alla standardizzazione del contratto, la quale assume i caratteri di
un vero e proprio parametro di valutazione – della meritevolezza del contratto, ex ante; del
comportamento dell’intermediario, ex post – a disposizione del giudice: «nei derivati
uniformi, la verifica (giurisdizionale) del rispetto regole di condotta dell'intermediario
dettate dal TUF e dalla normativa secondaria costituisce l'unica forma di controllo della
correttezza delle contrattazioni. Trattandosi di compravendite di strumenti finanziari
circolanti sul mercato, e già quotati, non si pone per essi il problema della "misurabilità"
dell'alea in essi contenuta e della consapevole condivisione del rischio, ma unicamente un
problema di adeguatezza/appropriatezza del prodotto rispetto al profilo di rischio
dell'investitore, ovvero di assenza di eventuali conflitti di interesse (secondo il regime ante
o post Mifid). Aspetti, questi, che transiteranno negli obblighi informativi (attivi e passivi)
cui è tenuto l'intermediario».
81
Ma l’aspetto più innovativo della pronuncia in esame riguarda la seconda fattispecie
rilevante, ossia quella relativa alla specifica contrattazione in derivati over the counter, in
cui «l'intermediario è sempre controparte diretta del proprio cliente e "condivide",
pertanto, con esso l'alea contenuta nel contratto».
È proprio in relazione a quest’ultima ipotesi, infatti, che il conflitto di interessi tra
cliente e intermediario assumerebbe proporzioni abnormi e, finanche, patologiche.
Come si è infatti già segnalato, i derivati finanziari traggono la loro disciplina dal
regolamento negoziale elaborato dalle parti: questo è vero sia per i derivati uniformi – in
quanto originano comunque dalla prassi –, sia, a maggior ragione, per quelli non
standardizzati, rispetto ai quali il rapporto contrattuale si presenta particolareggiato131.
Pertanto, con specifico riguardo a questi ultimi, è il contraente forte a definire il contenuto
del contratto di cui egli stesso è parte.
In questa logica, la quantità e, soprattutto, la qualità delle informazioni fornite
dell’originator sulla concreta operazione contrattuale posta in essere rifluiscono
immediatamente sull’oggetto dell’accordo (nella specie, sulla consapevolezza che di
questo ne abbia il cliente), e, mediatamente, sulla meritevolezza (e quindi sulla validità)
del contratto.
Invero, proprio rispetto al suddetto assunto, la pronuncia in esame presenta profili di
contraddittorietà, laddove in un primo momento esclude la sussistenza di un rapporto
logico-consequenziale tra la violazione delle regole di condotta e la nullità del contratto132,
salvo poi precisare che «non si tratta, bene inteso, di negare rilevanza al ruolo
dell'informazione, quale prioritario dovere di condotta dell'intermediario (nel superiore
interesse della tutela della fiducia e della integrità dei mercati) ma, com'è proprio del
soggetto professionale che predispone i termini della scommessa legalmente autorizzata,
di trasferire all'interno della stessa struttura del contratto derivato la rilevanza dei dati
che ne caratterizzano l'alea e che contribuiscono a definire, oltre che l'oggetto, la causa,
secondo il giudizio di meritevolezza implicitamente formulato dal legislatore della
materia».
131
Si pensi, ad esempio, ai «contratti derivati OTC personalizzati ad hoc (bespoke derivatives) che
sono difficilmente standardizzabili», i quali, nella logica del Reg. EMIR, «non dovranno necessariamente
adeguarsi agli standards di trasparenza richiesti dal legislatore». L. SASSO, L’impatto sul mercato, cit.
132
«La nullità dei contratti di interest rate swap - per il rilevato difetto, in concreto, della causa, ai
sensi dell'art. 1418, comma 2 c.c., e per la non meritevolezza, in concreto, degli interessi perseguiti, ai sensi
dell'art. 1322, comma 2 c.c. - non rappresenta, quindi, una nullità per violazione di regole di condotta
82
Al netto delle contraddizioni, la Corte d’Appello afferma che il giudizio di
meritevolezza ha ad oggetto una struttura contrattuale nell’ambito della quale è il soggetto
professionale a selezionarne e definirne ex ante gli elementi qualificanti.
Il conflitto di interessi tra intermediario e cliente, pertanto, deve interessare l’interprete
non solo rispetto al momento che precede la conclusione del contratto, ma anche rispetto
alla fase successiva alla stipulazione del medesimo.
Invero, nel ragionamento della Corte d’Appello la questione relativa al rapporto tra le
regole di condotta e le regole di validità presuppone la risoluzione di un problema
preliminare: quello relativo alla definizione della natura giuridica del contratto derivato
otc, in quanto «solo la sua qualificazione giuridica consentirà di chiarire quali elementi
appartengano alla causa del negozio e, conseguentemente, stabilire se e quale difetto degli
elementi caratterizzanti il contratto valga ed inficiarne la causa, in termini di vizio
genetico, ovvero si risolva in una mera violazione delle regole di condotta
dell'intermediario».
In questo senso, i giudici della Corte d’Appello di Milano dichiarano di aderire ad una
«recente ed autorevole dottrina specialistica» che qualifica il contratto derivato come una
«scommessa legalmente autorizzata la cui causa, ritenuta meritevole dal legislatore
dell'intermediazione finanziaria, risiede nella consapevole e razionale creazione di alee
che, nei derivati c.d. simmetrici, sono reciproche e bilaterali».
Il prosieguo del presente studio, pertanto, avrà ad oggetto proprio le conseguenze
derivanti dalla riconduzione dei derivati otc speculativi nello schema astratto della
scommessa legalmente autorizzata, posto che la questione, a dispetto di quanto asserito
dalla stessa Corte d’Appello133, non si pone rispetto ai derivati aventi finalità di
copertura134.
In tal senso, non deve infatti essere tralasciato che la composizione degli interessi
contrapposti, prima ancora di entrare in conflitto, deve pur sempre avvenire primariamente
dell'intermediario e non è, pertanto, incisa dai principi condivisibilmente statuiti dalle Sezioni Unite con le
sentenze nn. 26724 e 26725 del 2007». Corte d’Appello Milano, 18 settembre 2013, n. 3459.
133
Come sarà precisato infra, la sentenza citata dichiara espressamente di non voler far ricorso alla
«prospettiva sfuggente della causa in concreto» e riconduce la questione della funzione concreta svolta dal
derivato nell’alveo dei motivi, in quanto tale «del tutto irrilevante», salvo poi affermare che «fermo restando
che i contratti non esplicitano né le previsioni sull'andamento dei tassi, né il loro valore iniziale, né la
remunerazione dell'intermediario e che, dunque, non emergono i criteri in base ai quali il cliente sarebbe
stato in grado di valutare la convenienza del contratto intesa nel senso di una assunzione "razionale"
dell'alea secondo i principi sopra esposti, la funzione di copertura del prodotto - pacificamente riconosciuta
come causa "concreta" del contratto - appare, nella specie, fortemente dubbia».
83
nel rispetto delle regole previste in via generale per l’esercizio dell’autonomia privata,
oltre che di quelle consolidatesi nella prassi contrattuale internazionale e nazionale135.
Come si è infatti già rilevato, nel nostro ordinamento l’autonomia negoziale possiede
di per sé alcuni limiti intrinseci136: in particolare, il citato art. 1322, comma 2, c.c. sancisce
il principio secondo cui i contratti non appartenenti ai tipi espressamente previsti e
disciplinati dal legislatore devono ritenersi ammissibili, a condizione che siano «diretti a
realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l'ordinamento giuridico».
Occorre quindi comprendere se i derivati aventi finalità speculativa, seppure inquadrati
nello schema astratto delle scommesse legalmente autorizzate, siano in concreto meritevoli
di tutela.
134
B. INZITARI, Swap (contratto di), cit., 620; E. FERRERO, Contratto differenziale, cit., p. 489.
Cfr. E. FERRERO, Profili civilistici dei nuovi strumenti finanziari, cit., p. 648, secondo cui «stock
index futures, domestic currency swaps e interest rate swaps trovano dunque la loro disciplina, oltre che nel
regolamento negoziale predisposto dalle parti, nelle norme generali in materia contrattuale e nella prassi
internazionale, anche in quelle relative ai singoli contratti tipici, applicabili in quanto compatibili».
136
E. GIRINO, I contratti derivati, (ed. 2001), cit., p. 213.
135
84
Capitolo III
ALEATORIETÀ, RAZIONALITÀ E ASTRATTEZZA
DEI DERIVATI FINANZIARI
SOMMARIO: 1. Introduzione. – 2. I derivati come «contratti aleatori». – 2.1. Il «contratto aleatorio» e
la nozione di «alea». – 2.1.1. I «contratti aleatori» come «categoria contrattuale» – 2.1.2. La negoziabilità
dell’alea naturale. – 2.1.3. I contratti «aleatori per natura» (o «essenzialmente aleatori»). – 2.1.4. I contratti
«aleatori per volontà delle parti». – 2.1.4.1. (Segue) La vendita di cosa futura e la cosiddetta «emptio spei»
nel diritto romano; la futurità come «assenza» della res. – 2.1.4.2. (Segue) La vendita di cosa futura nel
codice civile; la futurità come «inesistenza» della cosa. – 2.1.5. La disciplina civilistica sugli effetti dei
contratti aleatori. – 2.2. La distinzione tra «alea unilaterale» e «alea bilaterale»: irrilevanza giuridica. – 3.
L’alea tra oggetto e causa del contratto; la causa e l’oggetto dei contratti derivati. – 4. Causa del contratto e
causa dei derivati: premessa. – 4.1. Le funzioni dei contratti derivati e il problema della qualificazione. –
4.1.1. La tesi soggettiva: il derivato come contratto «naturalmente» di copertura suscettibile di essere alterato
in senso speculativo. – 4.1.2. La tesi oggettiva: i derivati come contratti sinallagmatici. L’irrilevanza della
funzione. – 4.1.3. La tesi semi-oggettiva: la connessione tra il rapporto sottostante e il contratto derivato nella
prospettiva della causa concreta. – 4.1.4. (Segue) La qualificazione dei contratti derivati nella prospettiva
della causa in concreto «può rivelarsi sfuggente». – 4.2. La disciplina civilistica del giuoco e della
scommessa: cenni introduttivi. – 4.2.1. La regola generale della «denegatio actionis»: fondamento e ambito
di applicazione. – 4.2.2. I controversi rapporti tra i contratti derivati e la scommessa. – 4.2.3. I contratti
derivati come «scommesse legalmente autorizzate» ex art. 1 e 23, comma 5, tuf. – 5. L’alea razionale. – 6.
L’oggetto dei contratti derivati. – 6.1. (Segue) Considerazioni a margine dell’oggetto del contratto; il
problema dei cosiddetti «costi impliciti». –7. Il «nesso di derivazione» tra «finanziarietà» e «astrattezza
pura».
1. Introduzione.
Nelle pagine che precedono si è messo in evidenza quale sia il ruolo svolto dal fattore
tempo nell’ambito dei derivati finanziari1; si è altresì posto l’accento sul ruolo svolto
dall’autonomia privata, in ragione della quale le parti programmano un valore
differenziale2 in funzione di uno scopo protettivo o speculativo3.
Muovendo da tale prospettiva, occorre ora soffermarsi sulle principali questioni
sollevate dai contratti derivati ed esaminate dalla dottrina e dalla giurisprudenza più
recenti, e in particolare, dalla citata pronuncia della Corte d’Appello di Milano del 18
settembre 2013, n. 3459, secondo la quale nel derivato «l’oggetto del contratto è costituito
da uno scambio di differenziali a determinate scadenze, mentre la sua causa risiede in una
scommessa che entrambe le parti assumono e nello scambio di rischi conseguente».
1
V. cap. I, § 1.2.
Sul punto, v. E. GIRINO, I contratti derivati, cit., passim, nonché, supra, Cap. I, passim.
3
Cfr. cap. I, § 2.2.3.
2
85
2. I derivati come «contratti aleatori».
Nei contratti derivati, come si è anche poc’anzi ribadito, assume una peculiare
rilevanza il fattore tempo: è soltanto alla scadenza del termine previsto nel contratto,
infatti, che potrà essere determinata la parte alla quale attribuire il diritto di credito e quella
sulla quale incomba la correlativa posizione debitoria4.
La suddetta circostanza, variamente declinata, ha indotto la dottrina prevalente e la
giurisprudenza assolutamente maggioritaria a ricondurre tali contrattazioni nel più ampio
genus dei «contratti aleatori»5.
4
Ex multis, v. B. INZITARI, Swap (contratto di), cit., p. 614; v. anche L. BALESTRA, Il giuoco e la
scommessa nella categoria dei contratti aleatori, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2011, III, p. 674: «l’alea – o
meglio, l’evento incerto – è volta a consentire l’identificazione del soggetto tenuto ad eseguire la prestazione
dedotta contrattualmente».
5
Ex multis, in ordine cronologico, v. B. INZITARI, Swap (contratto di), cit., p. 614: «il principale
elemento ricorrente e caratterizzante il contratto di swap è costituito dal fatto che l’obbligo delle parti di
corrispondere all’altra la prestazione da ciascuna di essa dovuta, sorge o per lo meno diviene attuale ed
esigibile solamente con il verificarsi di determinati eventi quali l’apprezzamento o deprezzamento del
rapporto di cambio di una valuta rispetto ad un’altra, oppure gli incrementi o decrementi del livello di un
tasso variabile. In base al verificarsi di siffatti eventi, tale obbligazione sorgerà a carico dell’uno o
dell’altro partner contrattuale, mentre dalla entità delle variazioni del rapporto di cambio o del tasso preso
in considerazione dipenderà a sua volta la stessa entità della predetta obbligazione. L’aleatorietà
contraddistingue dunque il contratto in parola in quanto la distribuzione della prestazione principale tra le
parti contraenti, come anche la determinazione del suo ammontare, dipende dal verificarsi di un evento
incerto e comunque in nessun modo influenzabile dalle parti»; M. C. MALANDRUCCO, Rischio finanziario e
contratti di swap, cit., p. 474, che sempre in tema di swap rileva che «dall’analisi degli schemi contrattuali
emerge invece un costante tratto caratterizzante la fattispecie: l’aleatorietà delle prestazioni, che vengono
determinate “da un fatto del tutto estraneo alla volontà delle parti”. Tale nota non è tuttavia riconosciuta da
chi presta adesione all’idea secondo cui l’alea in senso tecnico non consiste in un rischio economico, ma
nell’essere l’esistenza o la misura della prestazione subordinata ad un evento futuro e incerto»; R. CAVALLO
BORGIA, Le operazioni su rischio di cambio, cit., p 2424: «l’aleatorietà […] contraddistingue il contratto di
domestic swap, a causa della innegabile deduzione nel suo contenuto contrattuale dell’evento futuro, incerto
ed in nessun modo influenzabile dalle parti, relativo alla variazione dei tassi di cambio»; L. VALLE,
Contratti futures, cit., pp. 346-347: «a proposito della natura giuridica dei contratti futures si è anche
operata un’analisi sulla loro natura o meno di contratti aleatori, sulla base dell’assunto che aleatorio sia il
contratto in cui un evento incerto incide sull’esistenza o sulla determinazione di una prestazione, sull’an o
sul quantum di essa. Si è concluso affermando che sicuramente aleatori sarebbero i futures liquidati per
differenze, ossia quelli su indici […]. Si ritiene inoltre che non solo il future sull’indice ma anche quello sui
titoli di Stato si profili come contratto aleatorio, pure con riguardo alla sua esecuzione finale»; F.
BOCHICCHIO, I contratti in strumenti derivati e la disciplina del mercato mobiliare tra regolamentazione
dell’attività di impresa e valutazione dell’intento soggettivo, in Giur. comm., 1996, I, p. 593-594:
«l’inclusione nella categoria di strumenti derivati, vale a dire di investimenti finanziari con il contenuto
determinabile, non di per sé, ma anche con riferimento ad altri investimenti finanziari […] rende strumenti
aleatori per antonomasia oggetto dell’attività di intermediazione mobiliare e quindi destinati al pubblico dei
risparmiatori. Si vuole evidentemente consentire ai risparmiatori di cogliere delle possibilità lucrative
particolarmente interessanti del mercato, con i correlativi rischi ed alee»; R. AGOSTINELLI, Le operazioni di
86
Orbene, giova subito segnalare che, in generale, il problema sulla natura aleatoria o
commutativa del contratto assume rilevanza principalmente in ordine alla possibilità di
applicare o meno i rimedi rieliquibratori di cui agli artt. 1467-1468 – finalizzati, com’è
noto, a neutralizzare l’eccessiva onerosità sopravvenuta nei contratti sinallagmatici (art.
1467 c.c.) e in quelli con obbligazioni di una sola parte (art. 1468 c.c.) – e 1448 c.c. –
dedicato, com’è altrettanto noto, all’azione generale di rescissione per lesione –6: rimedi,
appunto, riservati ai contratti commutativi ed espressamente esclusi per quelli aleatori,
rispettivamente, dagli artt. 1469 e 1448, comma 4, c.c.
Per quanto riguarda poi i contratti derivati, in giurisprudenza – nelle rare volte in cui è
venuta direttamente in rilievo la questione sull’applicazione dei suddetti rimedi – è
possibile riscontrare un atteggiamento tendenzialmente acritico rispetto agli approdi della
swap, pp. 123-124, secondo il quale «lo swap è senz’altro un contratto aleatorio: la prestazione (almeno) di
una delle parti, infatti, dipende da un evento futuro ed incerto quale appunto la fluttuazione, tra la data di
conclusione del contratto e la data di esecuzione dello stesso, (del o) dei parametri presi in considerazione
(un certo tasso di interesse, ad esempio) […]. Ciò non significa che lo stesso comporti ex se un rischio in
senso economico»; M. LEMBO, La rinegoziazione dei contratti derivati, cit., pp. 356-355: «il contratto risulta
essere frutto di un’elaborazione dottrinale che lo vuole […] aleatorio (con la conseguenza che non sono
applicabili le norme generali in materia di risoluzione per eccessiva onerosità)»; M. COSSU, Domestic
curency swap, cit., p. 168, la quale individua nello swap il carattere della «aleatorietà economica, anche a
prescindere dalla qualificabilità come contratto aleatorio»; A. TUCCI, La negoziazione degli strumenti
finanziari derivati, cit., per il quale «le operazioni di investimento in derivati sono contraddistinte da una
fisiologica e insopprimibile componente aleatoria. Per vero, si potrebbe aggiungere, una componente
aleatoria è immanente al concetto stesso di investimento di natura finanziaria»; E. GIRINO, Alea e
trasparenza nella contrattualistica derivata: nuovi progressi giurisprudenziali, in Banca, borsa, tit. cred.,
2013, I, pp. 92 ss. e in e in iusexplorer.it, passim; P. CORRIAS, Garanzia pura e contratti di rischio, cit., pp.
279-281 e, Id., I contratti derivati finanziari nel sistema dei contratti aleatori, cit, passim. Per quanto
riguarda la giurisprudenza, cfr. A. PIRAS, Contratti derivati, cit., p. 2229, il quale afferma che «non si
registrano voci dissenzienti in giurisprudenza». In ogni caso, v., su tutte, Corte Costituzionale, 18 febbraio
2010, n. 52, secondo la quale «è innegabile che i derivati finanziari scontino un evidente rischio di mercato,
non preventivamente calcolabile», trattandosi di «un contratto con caratteristiche fortemente aleatorie»; v.
anche Cass. civ., Sez. I, 19 maggio 2005, n. 10598: «è normalmente riconosciuto il carattere aleatorio del
contratto»; tra le varie pronunce di merito, v. in particolare Trib. Lanciano, 6 dicembre 2005, in Giur.
comm., 2007, I, p. 132, con nota di GILOTTA, dove l’interest rate swap viene appunto definito come
«contratto tipicamente aleatorio». Tra coloro che invece negano che i contratti derivati abbiano natura
aleatori, v. E. GABRIELLI, Contratti di borsa, contratti aleatori e alea convenzionale implicita, in Banca,
borsa, tit. cred., 1986, I, p. 575 – secondo il quale i contratti di borsa, in generale, sarebbero contratti
commutativi «ad alea normale illimitata» –; E. FERRERO, Profili civilistici dei nuovi strumenti finanziari,
cit., pp. 638-641: «l’incertezza relativa all’entità e alla stessa distribuzione della prestazione principale ha
indotto parte della dottrina ad affermarne l’ammissibilità ai contratti aleatori», ma deve essere essere
«negata la riconducibilità alla categoria dei contratti aleatori»; F. CAPUTO NASSETTI, Un salto indietro di
trent’anni, cit., p. 298.
6
A. PIRAS, Contratti derivati, cit., p. 2228.
87
dottrina e, in particolare, meramente adesivo a quell’orientamento assolutamente
maggioritario che inquadra i derivati nell’ambito dei contratti aleatori7.
In ogni caso, deve essere osservato che la questione sull’applicazione dei rimedi di cui
si discorre non sembra avere, di per sé, particolare rilevanza rispetto al tema dei contratti
derivati: in primo luogo, perché nella prassi l’esperibilità dei medesimi – e, nello
specifico, della risoluzione per eccessiva onerosità – viene di solito esclusa nei contratti in
7
Cfr. supra, in questo stesso paragrafo, in nota. Per un caso recente, v. Trib. Milano, 22 gennaio 2014, n.
1419, in giurisprudenzadelleimprese.it: «l'attore ha prospettato la riconducibilità della oscillazione al
ribasso dei titoli in discussione (e la conseguente eccessiva onerosità della sua prestazione) alla “grave crisi
economica mondiale” successiva al “fallimento del colosso Lehman Brothers”, crisi manifestatasi in tutta la
sua intensità nei mesi successivi alla stipulazione del negozio […] ed, a suo dire, integrante quindi “il
verificarsi di eventi straordinari e imprevedibili” al quale l'art. 1467 c.c. ricollega la risolubilità del
contratto per eccessiva onerosità […]. Tale prospettazione non appare condivisibile, né in linea generale né
in concreto: – per il primo profilo trattandosi di prospettazione […] del tutto generica e basata sul mero
assunto del collegamento tra la crisi economica mondiale e il deprezzamento del titolo […], assunto rimasto
privo di alcun riscontro ed, anzi, smentito dalla documentazione fornita dal convenuto circa l'andamento al
rialzo […]; – per il secondo profilo, poi, trattandosi di prospettazione che in realtà cozza con l'andamento
del titolo […] quale documentato dal convenuto, senza alcuna smentita avversaria […], ogni collegamento
tra il successivo ribasso del titolo e la crisi mondiale […] appare da un lato arbitrario e, in ogni caso, non
certo imprevedibile, quanto al futuro, per i due odierni litiganti, i quali proprio nell'ottobre 2009 [n.d.a.:
ossia, un anno dopo il fallimento della Lehman Brothers] hanno protratto la scadenza del rapporto essendo
ben consapevoli – secondo nozioni di comune esperienza tanto più per soggetti entrambi quantomeno non
digiuni del mercato borsistico se non addirittura esperti dello stesso – della fase recessiva mondiale iniziata
nel 2008. Nel caso di specie deve quindi ritenersi che l'attore non abbia adeguatamente dimostrato il fatto
costitutivo della sua domanda, vale a dire una consistenza della sua obbligazione divenuta eccessivamente
onerosa in dipendenza di eventi straordinari e imprevedibili piuttosto che in dipendenza delle "normali"
oscillazioni del titolo conseguenti a fattori "fisiologici" quali l'andamento della impresa sociale ovvero del
mercato specifico e borsistico. Conclusione, questa, che richiama poi l'ulteriore condivisibile considerazione
del convenuto, circa il contenuto del contratto in discussione. A prescindere, infatti, dalla qualificazione del
contratto […] quale negozio aleatorio (con conseguente inapplicabilità, ex art. 1469 c.c., dell'istituto della
risoluzione per eccessiva onerosità) ovvero quale negozio commutativo (cui solo può essere riferita la
disciplina ex art.1467 c.c.) 3 , va infatti osservato: – che, in ogni caso, la struttura di tale contratto consiste
nella dipendenza (o derivazione, appunto) del contenuto della prestazione di una delle parti dalla variazione
di dati economici (il c.d. sottostante) – sicché, comunque, nel caso di specie la variabilità dell'andamento del
titolo appare di per sé inerente all'oggetto del contratto – in ogni caso, dunque, non legittimando la
risoluzione per eccessiva onerosità alla stregua della disciplina di cui al secondo comma dell'art. 1467 c.c.
la quale, appunto esclude tale rimedio laddove “la sopravvenuta onerosità rientra nell'alea normale del
contratto” […]. Anche per il profilo strutturale da ultimo richiamato va quindi esclusa la risolubilità del
negozio per eccessiva onerosità laddove, come nel caso di specie, non sia dimostrato che tale lamentata
onerosità discenda da eventi di per sé straordinari e non prevedibili, in quanto diversi dalle normali
oscillazioni di valore del sottostante, la cui variabilità rappresenta appunto elemento connesso alla causa
del negozio. Le domande dell'attore vanno dunque rigettate, al riguardo dovendosi solo ancora aggiungere,
quanto al rilievo dell'attore in ordine alla mancata espressa esclusione ad opera delle parti del rimedio ex
art.1467 cc, che tale mancata espressa esclusione non appare comunque dirimente attesa la complessiva
oggettiva struttura del negozio come sopra delineata».
88
parola dalle parti8; in secondo luogo, perché gli stessi rimedi vengono ritenuti comunque
inapplicabili anche da quella minor parte della dottrina che qualifica i derivati in termini di
commutatività9.
In particolare, gli Autori dell’orientamento da ultimo citato ritengono che il rimedio di
cui all’art. 1467 c.c. non troverebbe applicazione, pur dovendosi classificare il contratto
come «commutativo», in quanto «la variazione dei tassi di interesse o di cambio non può
considerarsi un avvenimento straordinario e nel contempo imprevedibile. Anzi è proprio
la variabilità degli stessi che sta a monte della causa negoziale e che giustifica lo scambio
delle obbligazioni di pagamento determinate o determinabili in base a tali parametri»10.
Superate nel senso suddetto le questioni più strettamente attinenti al piano rimediale,
giova ora soffermarsi sulle conseguenze – queste sì – dirimenti che l’inquadramento dei
derivati nella categoria11 dei contratti aleatori comporta in punto di qualificazione12.
8
V. SANGIOVANNI, I contratti derivati fra normativa e giurisprudenza, in Nuova giur. civ. comm., 2010,
I, p. 45: «nella prassi è frequente che i contratti derivati contengano la clausola di esclusione della
risoluzione per eccessiva onerosità»; v. anche Trib. Lanciano, 6 dicembre 2005, cit., p. 133, dove si dà atto
che «l’eccessiva onerosità è esclusa dalla natura aleatoria del contratto, oltre che dai patti espressi». In una
posizione intermedia si pone D. PREITE, Recenti sviluppi in tema di contratti differenziali semplici, cit., p.
186: «mi sembra tuttavia debba escludersi il carattere intrinsecamente aleatorio del contratto, giacché le
due prestazioni sono entrambe certe e totalmente determinate; ciò che può variare è – come in qualsiasi
compravendita – il valore della valuta di riferimento delle parti. Sarà quindi opportuno che le parti
prevedano espressamente la non applicabilità della risoluzione per eccessiva onerosità di cui all’art. 1467
c.c., anche se essa può apparire implicita nella funzione che il contratto svolge per le parti».
9
Cfr. anche Trib. Milano, 22 gennaio 2014, n. 1419, cit. Per una posizione intermedia, v. D. PREITE,
Recenti sviluppi in tema di contratti differenziali semplici, cit., p. 186: «mi sembra tuttavia debba escludersi
il carattere intrinsecamente aleatorio del contratto, giacché le due prestazioni sono entrambe certe e
totalmente determinate; ciò che può variare è – come in qualsiasi compravendita – il valore della valuta di
riferimento delle parti. Sarà quindi opportuno che le parti prevedano espressamente la non applicabilità
della risoluzione per eccessiva onerosità di cui all’art. 1467 c.c., anche se essa può apparire implicita nella
funzione che il contratto svolge per le parti».
10
Così F. CAPUTO NASSETTI, Un salto indietro di trent’anni, cit., p. 298. Invero, deve essere segnalato
che tale impostazione era già stata prospettata da F. CHIOMENTI, Cambi di divise a termine, in Riv. dir.
comm., 1987, I, pp. 49-50, il quale ha affermato che i contratti di currency swap «non sono assoggettabili a
risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta (art. 1467 c.c.). a questa soluzione si perviene, a mio
avviso, quand’anche, come mi sembra fondato, si escludano questi contratti nell’ambito dei contratti
aleatori (art. 1469 c.c.), aderendo alla tesi secondo cui l’alea in senso tecnico non consiste in un rischio in
senso economico, che rende incerto il valore delle prestazioni in sé e nei rapporti fra loro, bensì nell’essere
la misura fisica della prestazione o l’esistenza di essa subordinate ad un evento futuro e incerto. Rimane
infatti, come altri ha osservato, che al di fuori dei contratti aleatori “non risoluzione non può essere
domandata se la sopravvenuta onerosità rientra nell’alea normale del contratto”». Sempre sul punto, v.
anche quanto verrà detto infra in questo capitolo.
11
Sulla nozione di «categoria contrattuale», giova richiamare V. BUONOCORE, Le categorie contrattuali
alla luce della disciplina comunitaria, cit., p. 133, il quale definisce detta nozione come «un modo di essere
della realtà, cui è legata una funzione logica e ontologica, e non una struttura del nostro intelletto
89
A tal fine, sembra preliminarmente opportuno chiarire cosa debba intendersi
esattamente per «contratto aleatorio».
2.1. Il «contratto aleatorio» e la nozione di «alea».
L’esame della locuzione «contratto aleatorio» è stata tradizionalmente impostata dagli
interpreti come indagine sulla possibilità di attribuire o meno un «significato
rigorosamente tecnico»13 al termine «alea»14.
Orbene, il termine «alea» deriva dall’omonima parola latina, con la quale si indicava il
gioco dei dadi15; gioco che, com’è notorio, viene costruito sull’incertezza del risultato16.
strumentale alla conoscenza della realtà»; sul punto, v. quanto detto più diffusamente nel cap. I, in
particolare § 2.2
12
S. GILOTTA, In tema di interest rate swap, cit., p. 145: «la questione, com’è di tutta evidenza, risulta
strettamente correlata alla problematica dei rapporti tra swap ed eccezione di gioco e scommessa, ed anzi
rispetto a quest’ultima potrebbe definirsi per certi versi “pregiudiziale”. Più in particolare, sembra
sussistere una vera e propria “interferenza” sistematica tra l’opzione qualificatrice in esame e la
problematica, parallela, dei rapporti con l’eccezione di gioco e scommessa; qualificare infatti il contratto di
swap come commutativo, ed al contempo predicarne l’assimilabilità, o quantomeno la parziale
sovrapponibilità, con la scommessa, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 1933 c.c., determina un’indiretta
aporia a livello sistematico, poiché, secondo quanto generalmente accolto a livello di teoria generale, i
contratti di gioco e scommessa si situano all’interno della categoria dei contratti aleatori, costituendone
anzi insieme all’assicurazione esempio classico; ciò che rende la ricostruzione esegetica operata
dall’interprete intrinsecamente più debole». Il tema della qualificazione verrà più volte ripreso e
approfondito infra, passim.
13
Così A. PINO, Contratto aleatorio, contratto commutativo e alea, in Riv. Trim. dir. proc. civ., 1960, p.
1248.
14
L. BALESTRA, Il giuoco e la scommessa, cit., pp. 666-667: «la ricostruzione dell’esatto ambito
applicativo delle molteplici categorie contemplate nella disciplina vigente sui contratti in generale è dunque
nel codice vigente rimessa all’attività dell’interprete, cui è stato restituito il compio di “definire le voci del
diritto, e determinarne le significazioni”. Il radicale rovesciamento di prospettiva, per effetto del quale le
categorie – sotto il profilo dei contenuti e, quindi, dei tipi da includervi – sono semplicemente presupposte,
riguarda anche i contratti aleatori […]. Il codice civile, dunque, enuncia la categoria […] ma non la
identifica, demandando all’interprete il relativo compito. Compito non facile da assolvere […]».
15
Così G. SCALFI, voce Alea, Digesto, disc. priv., sez. civ., I, Torino, 1987, p. 253; v. anche A. GAMBINO,
L’assicurazione nella teoria dei contratti aleatori, Milano, 1964, p. 32, che «l’aleatorium indicava la stanza
nella quale di giuocava a dadi»; precisa L. BALESTRA, Il giuoco e la scommessa, cit., p. 673 che: «nel
significato originario, sebbene non siano mancate incertezze al riguardo, il termine alea indicava proprio il
giuoco e, segnatamente, il giuoco dei dadi che, secondo quanto narrato da Isidoro, sarebbe stato inventato
ai tempi della guerra di Troia da un soldato dal nome Alea (alea est ludus tabulae inventa a Graecis in otio
troiani belli, a quodam milite, nomine Alea, a quo et ars nomen accipit)». In questa prospettiva, non appare
del tutto condivisibile l’affermazione secondo la quale «il diritto romano non conosceva il termine alea»
(così G. DI GIANDOMENICO, L’origine storica del contratto aleatorio, in I contratti speciali. I contratti
aleatori, di G. Di Giandomenico e D. Riccio, in Trattato di diritto privato, diretto da M. Bessone, XIV,
Torino, 2005, p. 11, il quale – muovendo da questo presupposto – incentra poi il prosieguo della trattazione
sull’affine, ma pur sempre diverso, concetto di periculum), posto ma che la societas romana conosceva
90
Così, nel linguaggio comune, il vocabolo «alea» viene ancora oggi impiegato come
sinonimo di «incertezza», ossia per indicare una situazione «che può svolgersi in favore o
in sfavore di una persona, oppure ad un tempo in favore di una e a sfavore di un’altra e
viceversa»17.
Invero, secondo Autorevole dottrina il linguaggio comune sarebbe stato influenzato da
quello tecnico-legale: infatti, mentre il termine «alea» compare nei dizionari della lingua
italiana solo nei primi anni del ‘90018, la locuzione «contratto aleatorio» era già stata
impiegata dai giuristi di fine ‘700 prima in contrapposizione all’altra categoria dei
«contratti commutativi»19 poi come alternativa per riferirsi ai «contratti di sorte»20.
eccome questo concetto. E se è noto che per i romani valeva il noto principio «ubi homo, ibi societas. Ubi
societas, ibi ius. Ergo ubi homo, ibi ius», allora il problema sarà quello di comprendere se e in che misura
l’alea che connotava quel particolare gioco, che è appunto un fenomeno sociale, avesse rilevanza per il
diritto romano.
16
«Il giuoco è costruito su un evento incerto, e cioè sul risultato, che può essere favorevole o sfavorevole
per il giocatore»: G. SCALFI, voce Alea, cit., p. 253.
17
G. SCALFI, voce Alea, cit., p. 253. A ben vedere, all’origine dell’attuale nozione di alea vi sarebbe un
sillogismo: «alea significa dado»–«il gioco dei dadi è incerto»–«alea significa incertezza». Orbene, è appena
il caso di segnalare che nella linguistica italiana tale fenomeno prende tecnicamente il nome di «mutamento
semantico per metonimia […]. La metonimia è la creazione di un nuovo significato per contiguità con quello
precedente»: al riguardo, v. G. GRAFFI – S. SCALISE, Le lingue e il linguaggio. Introduzione alla linguistica,
Bologna, 2003, p. 267.
18
«Questa metamorfosi nel significato della parola e dei concetti è tarda, nel linguaggio comune: p. es.
non la si trova indicata nel vocabolario Tramater (1929): l’accezione sarà segnalata più tardi, con
riferimento all’uso legale e commerciale della parola: “rischio eventuale cui va incontro chi firma un
contratto per possibili perdite o luci” si legge nel dizionario Petrocchi del 1912. Il linguaggio comune era
stato preceduto da quello legale». G. SCALFI, voce Alea, cit., p. 254.
19
La locuzione «contratti aleatori» sarebbe stata verosimilmente coniata da R. J. Pothier (1699-1772):
nell’articolo preliminare del Trattato del contratto di assicurazione viene infatti affermato che «les contrats
de vente, de louage, de société, de même que ceux de constitution de rente perpétuelle et de change, dont
nous avons traité jusqu’à présent, sont les principales espèces des contrats commutatifs. Il faut passer
maintenant aux contrats aléatoires. Les contrats aléatoires sont ceux dans lesquels ce que l’un donne ou
s’oblige de donner à l’autre, est le prix d’un risque dont il l’a chargé. Ces contrats conviennent avec les
commutatifs, en ce qu’ils sont, comme ceux-ci, intéressés de part et d’autre. Chacun des contractans ne s’y
propose que son intérêt propre, et n’entend point accorder un bienfait à l’autre; en quoi ils diffèrent des
contrats de bienfaisance. Les contrats alèatoires diffèrent des commutatifs, en ce que, dans les commutatifs,
ce que chacun des contractans reçoit, est le juste èquivalent d’une autre chose qu’il a donnée de son côté, cu
qu’il s’est obligé de donner à l’autre; au lieu que, dans les contrats aléatories, ce que l’un des contractans
reçoit, n’est pas l’equivalent d’une chose qu’il ait donnée, ou qu’il se soit obligé de donner; mais
l’equivalent du risque dont il s’est chargé, suscepti periculi pretium» («i contratti di vendita, di locazione, di
società, come pur quelli di costituzione di rendita perpetua e di cambio de’ quali abbiam trattato fin ora,
sono le principali specie di contratti commutativi. Conviene ora passare ai contratti aleatorj. I contratti
aleatorj sono quelli de’ quali ciò che l’uno dà, o si obbliga di dare all’altro, è il prezzo di un rischio che gli
ha addossato. Questi contratti sono eguali ai contratti commutativi in quanto che, come questi, sono
interessati dall’una e dall’altra parte. Ciascuno de’ contraenti non si propone che il suo proprio interesse e
non intende di accordare un benefizio all’altro; nel che essi differiscono dai contratti di beneficenza. I
91
La stessa locuzione sarebbe poi transitata prima nel Code Napoléon del 180421 e poi
nel codice civile italiano del 1865, dove la stessa sarebbe stata mantenuta sempre in
contrapposizione a «contratti commutativi»22.
contratti aleatorj differiscono dai commutativi in ciò, che ne’ commutativi ciò che ciascun contraente riceve
è il giusto equivalente di un’altra cosa ch’egli ha dato o che si è obbligato di dare all’altro; in vece che ne’
contratti aleatorj ciò che l’uno de’ contraenti riceve non è l’equivalente d’una cosa ch’egli ha data o che si è
obbligato di dare, ma l’equivalente di un rischio ch’ei si è addossato, suscepti periculi pretium»). R. J.
POTHIER, Trattato del contratto di assicurazione, trad. it., Napoli, 1836, vol. I, pp. 29-30.
20
Invero, negli studi giuridici ottocenteschi compare frequentemente la locuzione «il contratto di sorte,
ossia aleatorio». Tra i tanti, v. ad esempio la definizione di «contratto di sorte» di F. FORAMITI, voce
Contratti di sorte (diritto civile), in Enciclopedia legale ovvero repertorio alfabetico, vol. II, Napoli, 1864, p.
392: «i contratti di sorte chiamansi anche aleatorii dalla voce latina alea, con cui significar si vuole un atto,
nel quale la fortuna predomina. I giureconsulti romani ce ne offrono degli esempi ne’ contratti, coi quali si
compra e vende la tratta delle reti, la presa degli uccelli o del selvaggiume e simili».
21
Il Code Napoléon del 1804 è quello tuttora vigente in Francia, nonostante gli adattamenti che si sono
resi necessari nel tempo. E in questa sede giova rilevare che proprio le definizioni di «contratto
commutativo» e di «contratto aleatorio» sono rimaste sostanzialmente immutate. Al riguardo, in primo luogo
viene in rilievo l’art. 1104, collocato nelle disposizioni preliminari sui contratti e sulle obbligazioni
convenzionali in generale del codice civile francese, nel quale si afferma che «il est commutatif lorsque
chacune des parties s'engage à donner ou à faire une chose qui est regardée comme l'équivalent de ce qu'on
lui donne, ou de ce qu'on fait pour elle. Lorsque l'équivalent consiste dans la chance de gain ou de perte
pour chacune des parties, d'après un événement incertain, le contrat est aléatoire» («il contratto è
commutativo quando ciascuna delle parti si impegna a procurare all’altra un vantaggio che è considerato
come equivalente di quello che riceve. Il contratto è aleatorio quando le parti non perseguono l’equivalenza
delle prestazioni convenute e accettano la possibilità di un guadagno o di una perdita per entrambe o per
una di esse in dipendenza dell’avveramento di un evento incerto»); degno di menzione è anche il successivo
art. 1964, che apre il Titolo XII («des contrats aléatoires») del Libro III («des différentes manières dont on
acquiert la propriété») del c.c. francese, dove viene definita la struttura del contratto aleatorio e ne vengono
elencati i tipi: «le contrat aléatoire est une convention réciproque dont les effets, quant aux avantages et aux
pertes, soit pour toutes les parties, soit pour l'une ou plusieurs d'entre elles, dépendent d'un événement
incertain. Tels sont: le contrat d'assurance, le jeu et le pari, le contrat de rente viagère» («il contratto
aleatorio è una convenzione reciproca i cui effetti, quanto ai guadagni e alle perdite, sono per tutte le parti,
sia per una o per più di esse, dipendenti da un evento incerto. tali sono: il contratto di assicurazione, il gioco
e la scommessa, il contratto di rendita vitalizia»). Occorre precisare che l’articolo da ultimo citato è stato
recentemente modificato dall’art. 10 della loi n. 2009-526 du 12 mai 2009 de simplification et de
clarification du droit et d’allègement des procédures: tuttavia, la novella in questione ha comportato
l’espunzione dal testo della norma sia del «prêt à grosse aventure» – ossia il «prestito a tutto rischio» –, sia
del richiamo all’applicabilità «dans lois maritimes au contrat d'assurance», mentre la parte sulla struttura
generale del contratto aleatorio è rimasta invariata. Preme sottolineare come nella definizione del Code
Napoléon l’aleatorietà non sia affatto correlata alla nozione di pericolo, né tantomeno a quello di rischio,
bensì a quella di chance: e la chance «evoca un concetto intrinseco di aleatorietà, richiamando un giudizio
prognostico, destinato a non poter essere mai reso, sulla possibilità di raggiungere un risultato.
L’aleatorietà, in particolare, tocca il raggiungimento del risultato sperato, che si pone quale evento che
avrebbe potuto prodursi, ma il cui sopraggiungere è comunque indimostrabile […]. Superata la originaria
impostazione, secondo cui “la chance ha un certo valore sociale notevole, ma non un valore di mercato”
[n.d.a. così G. Pacchioni, nel 1940], oggi si tende ad assegnare alla stessa un valore economico». In questi
termini F. CARINGELLA, Studi di diritto civile, Obbligazioni e contratti, vol. III, Milano, 2007, p. 266, il
quale – come praticamente tutta la dottrina e la giurisprudenza degli ultimi anni – esaminano il tema della
92
Anche il codice civile del 1942 menziona, senza tuttavia definirli, i contratti aleatori; e
lo fa in norme di notevole rilevanza sistematica23.
Il riferimento è, in particolare, ai sopraccitati artt. 1448, comma 4 (il quale stabilisce
che «non possono essere rescissi per causa di lesione i contratti aleatori») e 1469
(rubricato proprio «contratto aleatorio», nel quale viene previsto che le norme che
disciplinano la risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta «non si applicano ai
contratti aleatori per loro natura o per volontà delle parti») c.c., nonché al 2° comma
dell’art. 1472 c.c. (dedicato, com’è noto, alla «vendita di cosa futura»), che sancisce la
nullità24 del contratto se la cosa non viene ad esistenza, salvo che «le parti non abbiano
voluto concludere un contratto aleatorio»).
Evidentemente, risolvere la questione dell’inquadramento della categoria dei «contratti
aleatori» facendo semplicemente riferimento al significato comune del termine «alea» non
può soddisfare l’interprete.
In questa prospettiva, una prima tesi ha ritenuto che «la nozione di alea è teoricamente
e praticamente inidonea alla determinazione dei contratti aleatori, sia per quanto
concerne la natura giuridica, sia per quanto concerne la struttura»25.
Più esattamente, secondo tale orientamento la nozione di alea sfuggirebbe da qualsiasi
tentativo di puntuale concettualizzazione26: essa rileverebbe, al pari di altre nozioni
chance nella sola prospettiva risarcitoria, e quindi in un contesto di patologia del rapporto: nel prosieguo
della trattazione si vedrà invece che la questione meriterebbe probabilmente di essere esaminata anche
rispetto alla fisiologia dei rapporti giuridici.
22
V. anche infra, in questo cap.
23
È appena il caso di notare che l’impostazione seguita dal legislatore del 1942 è diametralmente opposta
a quella adottata dal legislatore del 1865 (a sua volta ispirato alla sistematica del code Napoléon), che all’art.
1102 definiva la categoria del contratto aleatorio nei seguenti termini: «è contratto di sorte o aleatorio,
quando per ambidue i contraenti o per l’uno di essi il vantaggio dipende da un avvenimento incerto. Tali
sono il contratto di assicurazione, il prestito a tutto rischio, il giuoco, la scommessa e il contratto vitalizio».
Sul punto, v. G. DI GIANDOMENICO – D. RICCIO, Art. 1933, in Commentario del codice civile diretto da E.
Gabrielli, modulo Dei singoli contratti (artt. 1861-1986), a cura D. Valentino, Torino, 2011, p. 322, secondo
i quali «nel codice del 1942 non si ritrova una definizione di contratto aleatorio, ma si è in presenza di una
disciplina inerente gli effetti».
24
Nullità che, come si vedrà nella sede opportuna, viene peraltro contestata da buona parte della dottrina:
v. infra, in questo cap.
25
A. PINO, Rischio ed alea nel contratto di assicurazione, in Riv. ass., 1960, I, p. 260; v. anche E.
GABRIELLI, L’eccessiva onerosità sopravvenuta, in Trattato di diritto privato, diretto da M. Bessone, XIII,
VIII, Torino, 2012, p. 18, il quale afferma che «l’alea, che descriverebbe un aspetto economico di alcuni
contratti ritenuti tradizionalmente aleatori, e neppure di tutti, apparterrebbe infatti ad un ordine di concetti
metagiuridici, poiché l’incertezza sul risultato economico indica la situazione psicologica delle parti
contraenti sull’esito non giuridico ma economico del contratto».
93
presenti nel codice – quale, ad esempio, quella di eccessiva onerosità –, come mera
questione di fatto27, con la conseguenza che la nozione di alea sarebbe di per sé inidonea a
caratterizzare una categoria contrattuale28.
Un’altra impostazione dottrinale – che al momento parrebbe prevalere29 – distingue
recta via tra «alea economica» e «alea giuridica»:
− l’«alea economica», che «interessa potenzialmente tutti i contratti nel cui ambito
l’esecuzione di una o più prestazioni è differita ad un momento successivo alla
stipulazione», sarebbe da riferire alle mere variazioni del valore della prestazione di
una delle parti dovute alle fluttuazioni del mercato30;
− diversamente, con la locuzione «alea giuridica» – che secondo tale orientamento
costituirebbe il quid proprium dei contratti aleatori – si vorrebbe intendere la
previsione nel negozio di un «collegamento tra la nascita e/o la consistenza della
prestazione di una od entrambe le parti e l’accadimento di un evento incerto»31.
A ben vedere, tale distinzione parrebbe focalizzare il punto di rilevanza della categoria
del contratto aleatorio essenzialmente sulla prospettiva rimediale, di cui pure si è già fatto
cenno: in altri termini, i sostenitori dell’impostazione in esame ritengono che il mero
«rischio economico», in quanto fattore «destinato a incidere sul valore di una prestazione
26
Al riguardo, v. E. GABRIELLI, L’eccessiva onerosità sopravvenuta, cit., p. 8, il quale, in relazione
all’eccessiva onerosità – concetto, quest’ultimo, ritenuto dall’Autore affine a quello di alea – rileva che ogni
tentativo di definizione della nozione de qua «in quanto volto a comprendere in una figura normativa
astratta ogni possibile accadimento, per le sue stesse ontologiche ambizioni, era destinato al fallimento, con
la conseguenza che nelle numerose letture offerte è possibile incontrare definizioni che si risolvono, per lo
più, in mere declamazioni, prive di una sicura utilità sul piano interpretativo ed applicativo».
27
Cfr. E. GABRIELLI, L’eccessiva onerosità sopravvenuta, cit., p. 8: «la nozione di eccessiva onerosità,
che la dottrina ha frequentemente tentato di racchiudere in una definizione omnicomprensiva del fenomeno e
delle sue variegate forme di manifestazione, è in realtà un concetto elastico, il cui contenuto concreto deve
essere rimesso di volta in volta alla valutazione dell’interprete, poiché, quale concetto di relazione tra
determinati parametri normativi (il tipo e il sotto-tipo contrattuale, l’alea norma di quel tipo) e il contenuto
del singolo e concreto contratto oggetto di valutazione, si specifica con riguardo ad ogni singola fattispecie
ed in particolare al contenuto dell’operazione economica disciplinata dal contratto. L’eccessiva onerosità
infatti “è res facti”».
28
A. PINO, Contratto aleatorio, contratto commutativo e alea, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1960, p. 1249.
Sulla nozione di «categoria contrattuale», v. supra, in questo cap., nonché cap. I, in particolare § 2.2.
29
Cfr. P. CORRIAS, I contratti derivati finanziari nel sistema dei contratti aleatori, cit., p.177, il quale
rileva che «i confini tra alea economica e alea giuridica sono limpidi nelle impostazioni della dottrina
dominante»; v. però E. GIRINO, I contratti derivati, cit., p. 284, per il quale il distinguo tra alea giuridica e
alea economica sarebbe «alquanto discutibile e come tale reietto, o quanto meno ignorato, dalla
giurisprudenza dominante».
30
In questi termini, P. CORRIAS, I contratti derivati finanziari nel sistema dei contratti aleatori, cit.,
p.177.
31
P. CORRIAS, I contratti derivati finanziari nel sistema dei contratti aleatori, cit., p.177.
94
già determinata», assumerebbe rilevanza nel nostro ordinamento attraverso la risoluzione,
allorquando detto rischio «consegua da eventi straordinari ed imprevedibili ed ecceda un
ambito di normalità»; diversamente, i rimedi risolutori non sarebbero concessi per «l’alea
giuridica», in quanto la stessa riguarderebbe «l’esistenza stessa oppure la determinazione
della prestazione»32.
La conclusione è che, secondo questa prospettiva, sarebbero aleatori in senso stretto i
contratti per i quali il legislatore esclude l’applicabilità dei rimedi rieliquibratori.
Tuttavia, e per il momento a tacer d’altro, è stato del tutto opportunamente osservato
che «la linea di confine fra alea economica e alea giuridica è peraltro labile»33.
Così:
− «se Tizio promette a Caio cento qualora Caio gli ritrovi o consegni un oggetto,
possiamo avere, a seconda dei casi, una scommessa o una ricompensa non
aleatoria»: questo esempio dimostrerebbe che «non sempre l’incertezza giuridica è
alea»34, pertanto non sarebbe opportuno assegnare alla sola «alea giuridica»
valenza dirimente ai fini della qualificazione del contratto in termini di aleatorietà;
− per altro verso, «non vedremo mai proposto quale esempio di contratto aleatorio
una compravendita tra commercianti, che pure trasferisce dal venditore al
compratore il rischio economico delle future variazioni del valore di mercato della
cosa»35: quest’ultimo esempio confermerebbe, per altro verso, come nemmeno la
mera «incertezza del vantaggio economico» (id est l’alea economica) – cui pure fa
spesso riferimento la giurisprudenza – possa essere considerata un criterio di per sé
sicuro per determinare l’aleatorietà del contratto.
Infine, secondo un ulteriore orientamento dottrinale, che muove da presupposti non
troppo dissimili da quello appena richiamato, nell’ambito dell’unitario concetto di «alea»
sarebbero distinguibili un profilo oggettivo (la sorte) e un profilo soggettivo (il rischio):
più esattamente, il primo sarebbe da riferire agli effetti che il caso può produrre sull’entità
32
Così G. DI GIANDOMENICO, L’alea normale, in I contratti speciali. I contratti aleatori, di G. Di
Giandomenico e D. Riccio, in Trattato di diritto privato, diretto da M. Bessone, XIV, Torino, 2005, p. 99.
33
R. SACCO, La qualificazione, in Trattato di diritto privato, diretto da P. Rescigno, X, Torino, 1982, p.
452.
34
R. SACCO, La qualificazione, cit., p. 453. Più esattamente, l’Autore muove dal rilievo per cui «l’evento
incerto può essere il risultato dell’opera di colui che ne ricaverà vantaggio, senza che ciò contrasti con
l’idea del contratto aleatorio (ad es., così avviene nel giuoco). Però, se l’evento cagionato da una parte è
tale da procurare alla controparte, contemporaneamente, un vantaggio e una perdita, il contratto non è
aleatorio».
35
R. SACCO, La qualificazione, cit., p. 453.
95
della prestazione di una od entrambe le parti, mentre il secondo, invece, farebbe
riferimento al momento dell’assunzione di tali effetti da parte dei contraenti36.
Sicché, e in ciò starebbe la vera differenza rispetto al secondo degli orientamenti
sopraccitati, il contratto sarebbe aleatorio quando viene in rilievo un rischio giuridicoeconomico, ossia un rischio (nel senso precisato di assunzione degli effetti prodotti dal
caso) contemporaneamente economico (ossia «relativo al costo della prestazione dovuta
ovvero al valore o all’utilità della prestazione attesa») e giuridico (il quale «ricorre
quando è la prestazione in sé e per sé – a prescindere dal suo costo o valore economico –
a dipendere dal corso degli eventi»)37.
Ciò premesso, giova ora segnalare che il dibattito essenzialmente teorico – ed invero
mai del tutto sopito – sulla nozione di alea ha inevitabilmente condizionato l’intera
evoluzione dottrinale sul tema: in tal senso, appare piuttosto significativo che tra le varie
definizioni proposte da alcuni tra gli Autori più autorevoli siano riscontrabili delle notevoli
divergenze che sollevano perplessità piuttosto rilevanti.
Ad esempio, limitandosi alle definizioni presenti nei Trattati e nei Manuali più celebri,
è stato affermato che «il contratto è aleatorio quando è a carico di una parte il rischio di
un evento casuale che incide sul contenuto del suo diritto o della sua prestazione
contrattuale»38; altri, invece, hanno ritenuto che «i contratti aleatori sono quelli in cui
l’entità della prestazione dipende dal caso, cioè da fattori incerti o ignoti alle parti, e fuori
36
V. ROPPO, Il contratto, cit., p. 421.
Così V. ROPPO, Il contratto, cit., pp. 421-422, il quale al riguardo precisa: «il rischio che rende un
contratto aleatorio è il rischio giuridico-economico, inerente alla prestazione. Non è il rischio puramente
economico, relativo al costo della prestazione dovuta ovvero al valore o all’utilità della prestazione attesa.
[…] La c.d. “alea normale del contratto”, rilevante ai fini della risoluzione per eccessiva onerosità (art.
1467, comma 2, c.c.), è il rischio puramente economico: essa non riguarda specificamente i contratti
aleatori […]. Ma per rendere il contratto aleatorio non basta neppure il rischio puramente giuridico. Nel
contratto condizionato e in quello esposto a recesso unilaterale la prestazione è giuridicamente a rischio,
perché un evento futuro e incerto – il fatto dedotto in condizione, l’esercizio del recesso – può metterla nel
nulla. Ma il contratto non è aleatorio, perché il rischio investe ugualmente entrambe le prestazioni, se
seguono la stessa sorte (a seconda dei casi, nascono o non nascono, vivono o muoiono). È un rischio
economicamente neutrale, che non altera l’equilibrio economico del contratto».
38
C. M. BIANCA, Il contratto, cit., p. 491, il quale più avanti precisa che «l’alea che caratterizza i
contratti aleatori incide, come si è detto, sul contenuto delle prestazioni ed è quindi estranea all’alea delle
variazioni di costi e di valori di prestazioni. L’alea delle variazioni di costi e valori inerisce di regola ad
ogni operazione contrattuale ed è a carico di ciascuna dei contraenti quando non supera i limiti della
normalità. L’alea delle variazioni di costi e valori che rimane entro i limiti della normalità costituisce l’alea
normale del contratto. Superati i limiti dell’alea normale la prestazione diviene eccessivamente onerosa
prospettando, quando ne ricorrano gli estremi, il rimedio della risoluzione per eccessiva onerosità (1467
c.c.). tale rimedio è precluso nei contratti aleatori (1469 c.c.), ma sempreché la sopravvenuta eccessiva
onerosità rientri nel rischio assunto dalla parte».
37
96
del loro controllo; quelli in cui i contraenti si assumono il rischio di vedere – per effetto
del caso – ingigantita la prestazione, ovvero ridotta o addirittura azzerata la prestazione
attesa»39; altri ancora, infine, hanno rilevato che i contratti aleatori «sono caratterizzati dal
fatto che le parti non sono in grado di prevedere il vantaggio o lo svantaggio che deriverà
loro. In tal modo l’elemento del rischio qualifica la stessa operazione economica a livello
di giustificazione causale»40.
Orbene, si badi come dal confronto di appena tre delle molte altre definizioni pure
formulate da altrettanto autorevole dottrina41 emergano i seguenti dubbi ermeneutici, e
segnatamente:
− nel contratto aleatorio è sufficiente che il rischio riguardi la posizione di una sola
parte42 o è necessario che incida su quella di entrambe43?
− nel contratto aleatorio il rischio rileva solo a livello oggettivo, ossia sulla
determinazione del contenuto delle prestazioni, o è destinato a ridondare anche sul
piano causale del contratto44?
39
V. ROPPO, Il contratto, cit., p. 421.
F. GAZZONI, Manuale di diritto privato, cit., p. 901.
41
Sempre a titolo esemplificativo, v. ad es. R. NICOLÒ, voce Alea, in Enc. del dir., I, Milano, 1958, pp.
1029-1030, secondo il quale, nei «contratti aleatori tipici», l’alea rileva «come un momento essenziale del
sinallagma che lo condiziona ab initio, nel senso che necessariamente lo scambio tra le prestazioni
contrapposte si pone come uno scambio tra una prestazione certa e una prestazione per sua natura incerta,
determinabile successivamente al verificarsi di un evento futuro, oppure si pone come accade, ad esempio,
nel giuoco o nella scommessa come l’evento che deve determinare il soggetto in definitiva tenuto ad eseguire
la prestazione»: alea, quindi, come momento «che colora e qualifica lo schema causale del contratto»; v.
anche G. DI GIANDOMENICO, L’alea, in I contratti speciali. I contratti aleatori, di G. Di Giandomenico e D.
Riccio, in Trattato di diritto privato, diretto da M. Bessone, XIV, Torino, 2005, pp. 67 ss., per il quale deve
essere considerato «aleatorio» in senso giuridico quel contratto in cui la prestazione di una o di entrambe le
parti viene determinata «nella sua misura fisica» da un evento futuro e incerto, estraneo al rapporto tra le
parti, che in punto di quantum può determinare anche che la misura della prestazione risulti azzerata.
42
Così C. M. BIANCA, Il contratto, cit., p. 491, il quale fa riferimento a entrambi i contraenti solo quando
parla di «alea normale» («l’alea delle variazioni di costi e valori inerisce di regola ad ogni operazione
contrattuale ed è a carico di ciascuna dei contraenti quando non supera i limiti della normalità»), laddove si
riferisce alla «parte», al singolare, quando invece discorre di «alea che caratterizza i contratti aleatori».
43
V. ROPPO, Il contratto, cit., p. 422, il quale poi precisa che il rischio «tocca la prestazione […] in modo
unilaterale e squilibrante, così da avvantaggiare una parte e penalizzare l’altra sul piano economico»; nello
stesso senso, nei limiti che qui rilevano, F. GAZZONI, Manuale di diritto privato, cit., p. 901.
44
Cfr. C. M. BIANCA, Il contratto, cit. pp. 491-493, che in primo momento contrappone i contratti
aleatori a quelli «commutativi» in ragione della determinabilità dell’entità delle reciproche prestazioni sulla
base di fattori casuali (nei contratti aleatori) o meno (nei contratti commutativi), salvo poi concludere che
«deve peraltro riconoscersi che anche quando l’alea costituisce un momento eventuale o marginale del
contratto, essa è pur sempre un elemento che concorre a determinare l’interesse concretamente perseguito
dal contratto, ed è quindi un elemento che incide sulla causa concreta di esso»; v. anche V. ROPPO, Il
contratto, cit., p. 424, il quale afferma che «il rischio qualifica la causa del contratto aleatorio» e F.
40
97
Come si vedrà anche infra, entrambe le questioni menzionate hanno avuto – e tutt’ora
hanno – estrema rilevanza anche in tema di contratti derivati.
2.1.1. I «contratti aleatori» come «categoria contrattuale».
Come si è accennato, le dispute sulla nozione di alea hanno inevitabilmente
condizionato i vari tentativi di ricostruzione della categoria del «contratto aleatorio».
Al riguardo, hanno trovato sviluppo diverse impostazioni, tutte aventi come principali
referenti due tralaticie concezioni: quella «funzionale» e quella «strutturale».
Orbene, secondo la «concezione funzionale» l’alea sarebbe una causa tipica, consistente
nello «scambio tra rischi equivalenti»45; tale impostazione è stata tuttavia criticata
rilevando, tra le altre cose, che in tal modo si starebbe prospettando «una nozione di causa
che non ha senso, in quanto la causa può essere ricercata solo nel tipo di negozio, e non in
un concetto che serve a raggruppare, in vista dei comuni caratteri e di comuni principi,
vari tipi di negozi»46.
I fautori della concezione «strutturale», invece, considerano l’alea come criterio di
misurazione quantitativa della prestazione, sicché il contratto aleatorio sarebbe quello in
cui «l’evento incide sull’esistenza o sulla determinazione di una prestazione, sull’an o sul
quantum di essa»47.
GAZZONI, Manuale di diritto privato, cit., p. 901, che come si è già visto afferma direttamente che
«l’elemento del rischio qualifica la stessa operazione economica a livello di giustificazione causale».
45
A. BOSELLI, Rischio, alea ed alea normale del contratto, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1948, pp. 777780., il quale peraltro asserisce che i contratti aleatori sono «senz’altro a prestazioni corrispettive». Osserva
G. DI GIANDOMENICO, L’alea, cit., p. 66, che «questa corrente dottrinaria sembra privilegiare il profilo
funzionale della categoria, attenta soprattutto al risultato finale che si verifica sul piano del concreto assetto
degli interessi contrapposti e che d’altronde è quello che è sempre apparso più rilevante sotto l’aspetto
fenomenico sia alla luce della comune sensibilità che del comune buon senso. Tale dottrina più tradizionale
[considera] aleatori quei contratti nei quali, al momento della conclusione, è impossibile valutare la
relazione di reciprocità tra vantaggi e perdite […]. Questo criterio non ha tardato ad essere considerato
insufficiente e insoddisfacente. Di esso si faceva uso essenzialmente per i contratti di borsa e, segnatamente,
per la vendita a termine di titoli, per la quale spesso veniva richiesta la risoluzione per eccessiva onerosità
sopravvenuta. A questa richiesta la dottrina richiamata opponeva la natura speculativa del contratto (basata
sulla consapevolezza dei contraenti della possibilità di notevoli oscillazioni del prezzo dei titoli), cosicché lo
stesso veniva per lo più accostato al gioco e alla scommessa».
46
Così G. SCALFI, Considerazioni sui contratti aleatori, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1960, I, pp. 140 ss., il
quale ulteriormente precisa che «l’aleatorietà […] non caratterizza una tipica funzione sociale di
cooperazione, ma è di volta in volta inerente a contratti che, sotto il profilo della natura della loro funzione
sociale, appaiono di scambio, o di credito o di garanzia […] ovvero presentano la fusione di diverse
funzioni».
47
R. SACCO, Il contratto, in Trattato di diritto civile, diretto da F. Vassalli, VI, tomo II, Torino, 1975, p.
831; v. anche T. ASCARELLI, Aleatorietà e contratti di borsa, in Banca, borsa, tit. cred., 1958, I, pp. 439 ss.:
98
Invero, nemmeno la concezione strutturale è stata ritenuta di per sé appagante per i fini
che qui interessano; ciò in quanto la stessa «prende in considerazione solamente contratti
aleatori ad effetto differito, in cui la determinazione delle prestazioni dipende da un evento
futuro ed incerto, o meglio da una relatio ad esso», laddove sarebbe invece possibile
individuare anche contratti aleatori «che hanno effetti istantanei, ponendosi la relatio o
con una situazione, o con un evento passato o presente»48.
Sono state così proposte diverse soluzioni che, nella logica di combinare entrambe le
concezioni appena menzionate49, sembrerebbero condividere tutte lo stesso presupposto, e
cioè che «mentre l’elemento strutturale costituisce il meccanismo giuridico caratteristico
dei contratti aleatori, la funzione, così come descritta, evidenzia la ragione di tale
meccanismo»50.
Sulla base di tale assunto, hanno poi trovato sviluppo quegli orientamenti che hanno
cercato di superare gli specifici problemi posti dal tentativo di categorizzare il contratto
aleatorio impostandoli come una questione sulla causa e – precisamente – di causa
concreta51.
In questo senso, vi è stato ad esempio chi ha affermato che i «contratti aleatori sono
dunque quelli con funzione di rischio […], nei quali il risultato economico finale per le
parti è incerto per le circostanze concrete nelle quali vengono poste in essere o nelle quali
«la prestazione di una delle parti (o di ciascuna delle parti) è determinata nella sua misura (comprendendo
in detto termine anche la misura zero) […] in funzione di un evento futuro e incerto, definito nel contratto e
considerato indipendente dal comportamento delle parti. La caratteristica del contratto aleatorio è cosi
quella discendente da un particolare criterio di misurazione della prestazione. È questo che definisce il
contratto aleatorio».
48
G. DI GIANDOMENICO, L’alea, cit., p. 71; come esempi di contratti aleatori ad effetti istantanei,
l’Autore menziona la scommessa su fatti già avvenuti e la vendita “a scatola chiusa”; sempre in senso
critico, v. anche G. SCALFI, voce Alea, cit., p. 256: «se si considera che l’incertezza per le parti di un
risultato economico di vantaggio o di svantaggio (che sarà risolta dal verificarsi o meno dall’evento incerto)
è presente anche in ipotesi di estensione convenzionale dell’alea normale […] nonché in contratti con
prestazioni certe e determinate ma ad esecuzione differita, la definizione sembra troppo generica»); nello
stesso senso, v. anche A. GAMBINO, L’assicurazione nella teoria dei contratti aleatori, Milano, 1964, p. 59.
49
V. ad esempio G. DI GIANDOMENICO, L’alea, cit., p. 73: «per riconoscersi un contratto aleatorio è
necessario tanto il dato “strutturale” quanto quello “funzionale”»; cfr. anche A. GAMBINO, L’assicurazione
nella teoria dei contratti aleatori, cit., p. 67.
50
L. BALESTRA, Il contratto aleatorio e l’alea normale, Padova, 2000, p. 107.
51
«I contratti aleatori, pertanto, saranno quelli che: a) abbiano nella causa concreta l’alea negoziale,
quale funzione essenziale di rischio necessario, riferito ad un elemento esterno espressamente voluto e
previsto dalle parti; b) ed in cui, proprio per questo, le prestazioni delle parti, intese come effetti giuridici
che incidono sulle parti medesime, siano indeterminate – senza reciproca correlatività – nell’an e nel
quantum nel momento del perfezionamento contrattuale: G. DI GIANDOMENICO, L’alea, cit., p. 74. Sul tema
della causa concreta v. infra, in questo cap.
99
producono nel tempo i propri effetti giuridici»52 e chi, sempre nello stesso senso, ha
ritenuto di poter individuare «la causa generica dei contratti aleatori» nella «funzione di
lucro incerto (o causa lucrandi)» cui sarebbe preordinato il «programmato ed originario
squilibrio o, se vogliamo, equilibrio che presuppone una voluta sperequazione»53.
Deve essere ulteriormente evidenziato che i sostenitori di tale orientamento ritengono di
dover esaminare le questioni in parola «in via interpretativa e pragmatica con una visuale
attenta sulla causa concreta del contratto prima di basarsi sul metodo della
sussunzione»54, per poi concludere che i contratti aleatori sarebbero quelli che hanno l’alea
negoziale nella causa concreta: il che equivale a dire che per poter individuare la funzione
astratta dei contratti aleatori – e, in particolare, di quelli atipici55 – si dovrebbe
necessariamente muovere dall’esame di non ben precisate fattispecie concrete56.
Si badi come, tra le altre cose, tale impostazione riveli una chiara adesione al metodo
cosiddetto induttivo57.
52
G. DI GIANDOMENICO, L’alea, cit., pp. 72-74.
P. CORRIAS, I contratti derivati finanziari nel sistema dei contratti aleatori, cit., pp. 180-182; più
esattamente, l’Autore afferma che «solo questo programmato ed originario squilibrio o, se vogliamo,
equilibrio che presuppone una voluta sperequazione […] rende possibile la realizzazione della “funzione di
lucro incerto” (o causa lucrandi), che costituisce il minimo comun denominatore di tutte le figure aleatorie
tipiche ed atipiche riscontrabili nel nostro ordinamento […]. Nei contratti aleatori proprio il riflesso
sull’equilibrio contrattuale complessivo determinato dall’incertezza congenita in ordine all’entità della
prestazione di almeno una delle parti, costituisce, come rilevato, il presupposto necessario – ma non
sufficiente – per realizzare l’assetto di interessi che volta per volta caratterizza le varie figure annoverabili
in tale ambito».
54
G. DI GIANDOMENICO, L’alea, cit., p. 73.
55
Cfr. E. FAZIO, Dalla forma alle forme: struttura e funzione nel neoformalismo negoziale, Milano, 2011,
p. 146, in nota n. 6: «la meritevolezza degli interessi , postulata dall’art. 1322, comma 2, c.c., per i contratti
atipici, ne costituisce la causa astratta, così come la funzione economico sociale è l’elemento causale
astratto dei contratti tipici, salvo poi a verificare in concreto la liceità, nell’uno e nell’altro caso, degli
interessi sottostanti, cioè dello scopo concretamente perseguito».
56
L. BALESTRA, Il giuoco e la scommessa nella categoria dei contratti aleatori, cit., p. 669, al riguardo
rileva che «il tentativo di identificare l’alea – proprio facendo pregio della concezione della causa in
concreto – nella tensione della volontà sempre verso il medesimo interesse, vale a dire rischio inteso come
ricerca di un guadagno, si pone in netta antitesi con la stessa nozione di causa in concreto, volta a decretare
l’emersione degli interessi realmente perseguiti da ogni singolo contratto».
57
Con i ragionamenti induttivi, com’è noto, si risale dal meno generale al più generale. Sul tema più
generale del ragionamento giuridico v. R. GUASTINI, Interpretare e argomentare, in Trattato di diritto civile
e commerciale, già diretto da A. Cicu, F. Messineo e L. Mengoni, continuato da P. Schlesinger, Milano,
2011, pp. 230-231: «un ragionamento ha struttura deduttiva – ovvero è logicamente valido – allorché la
conclusione segue logicamente dalle premesse, è logicamente implicita in esse. Un ragionamento ha
struttura non deduttiva in ogni altro caso. I ragionamenti deduttivi sono altresì “cogenti” o “stringenti”, nel
senso che, se si accettano le premesse, diciamo così, “garantiscono” la conclusione. I ragionamenti non
deduttivi (induttivi, abduttivi, e quant’altro), per contro, sono non stringenti, nel senso che di essi si può
(senza contraddirsi) rifiutare la conclusione, pur accettando le premesse: le premesse non “garantiscono”
53
100
Così, aderendo a tali premesse, gli Autori della tesi in esame sono pervenuti a sostenere
che:
− l’alea negoziale sarebbe sempre58 funzionale per il raggiungimento di un lucro
incerto voluto dalle parti59: la generale categoria dei contratti aleatori, pertanto, si
connoterebbe per la presenza di una causa lucrandi60;
− in ogni caso, detta causa lucrandi sarebbe di per sé inidonea a fondare un pieno e
positivo giudizio di meritevolezza da parte dell’ordinamento61: prova ne sarebbe il
fatto che «l’alea negoziale la si ritrova allo stato puro solo nel contratto di gioco e
scommessa»62, ossia l’ipotesi paradigmatica di contratto tipico ritenuto «lecito, ma
non degno e/o meritevole di piena tutela»63;
− sicché, mentre per i contratti aleatori tipici la causa lucrandi certamente «coesiste
con ulteriori funzioni, socialmente apprezzabili»64, per i contratti aleatori atipici si
prospetterebbero essenzialmente due possibilità:
a) nel caso in cui nel contratto possa essere ravvisata una ulteriore funzione –
integrativa della mera causa lucrandi – lo stesso dovrà ritenersi completo e, se
del caso, pienamente meritevole di tutela65;
la conclusione. È condizione necessaria di validità logica di ogni ragionamento normativo – ogni
ragionamento la cui conclusione sia una norma – che almeno una norma compaia nelle premesse. Si dice
“legge di Hume” quella regola della logica, secondo la quale non si possono validamente inferire
conclusioni normative (cioè norme) da premesse esclusivamente conoscitive (cioè da proposizioni), né, del
resto, conclusioni conoscitive (proposizioni) da premesse puramente normative (norme). Ne segue che è
senz’altro logicamente invalido (non cogente, non concludente) qualunque ragionamento la cui conclusione
sia una norma, ma le cui premesse siano (tutte) proposizioni, come anche qualunque ragionamento la cui
conclusione sia una proposizione, ma le premesse siano (tutte) normative». Per altre criticità sollevate dal
metodo induttivo v. anche A. PINTORE, Logica giuridica, in Manuale di teoria generale del diritto, di M. Jori
e A. Pintore, Torino, 1995, pp. 228-230.
58
P. CORRIAS, I contratti derivati finanziari nel sistema dei contratti aleatori, cit., p 180: «la “funzione
di lucro incerto” (o causa lucrandi), che costituisce il minimo comun denominatore di tutte le figure
aleatorie tipiche ed atipiche riscontrabili nel nostro ordinamento».
59
G. DI GIANDOMENICO, L’alea, cit., p. 73.
60
P. CORRIAS, I contratti derivati finanziari nel sistema dei contratti aleatori, cit., p 180.
61
P. CORRIAS, I contratti derivati finanziari nel sistema dei contratti aleatori, cit., p 185: «è risaputo che
il nostro ordinamento valuta con tendenziale sfavore e, comunque, con diffidenza gli schemi aleatori sorretti
dal perseguimento di un incremento patrimoniale e dall’accettazione del rischio di una corrispondente
perdita in ragione unicamente dell’accadimento di un evento incerto (c.d. causa lucrandi)».
62
G. DI GIANDOMENICO, L’alea, cit., p. 73.
63
P. CORRIAS, I contratti derivati finanziari nel sistema dei contratti aleatori, cit., p 185; v. anche G. DI
GIANDOMENICO, L’alea, cit., p. 73, che in nota precisa che il contratto di gioco e scommessa, l’unico nel
quale sarebbe possibile riscontrare l’alea negoziale pura, «non riceve un giudizio di piena approvazione da
parte dell’ordinamento».
64
P. CORRIAS, I contratti derivati finanziari nel sistema dei contratti aleatori, cit., p 186.
101
b) diversamente, nell’ipotesi in cui tale funzione non fosse – per varie circostanze
– individuabile, il contratto aleatorio atipico resterebbe incompleto, ma non per
questo dovrà essere ritenuto non meritevole; semmai, dovrà essere sussunto a
priori nell’unica fattispecie in cui si ritiene possibile trovare l’alea «allo stato
puro», ossia in quella della scommessa, con tutto quel che ne discende in punto
di disciplina66.
Invero, si ritiene di dover fortemente dubitare della validità di detta impostazione, in
quanto sembrerebbe scontare alcuni vizi di fondo.
Il primo vizio, di natura logico-dogmatica, risiederebbe proprio nella malcelata
adesione al metodo induttivo per ricostruire una categoria giuridica generale e astratta,
qual è appunto quella di «contratto aleatorio».
65
G. DI GIANDOMENICO, L’alea, cit., p. 73: «quando l’alea negoziale non è sola, ma si unisce ad altri
elementi nella funzione contrattuale giudicati in sé positivamente, l’ordinamento deve emettere un giudizio
complessivo in cui tiene conto della valutazione dei singoli elementi. Tale giudizio viene definito “di
prevalenza”. Per i contratti nominati esso è già compiuto dall’ordinamento in base alla funzione astratta del
tipo; il giudizio, però, va ripetuto sul contratto concreto onde verificare la rispondenza alla funzione astratta
e la meritevolezza della eventuale specificità della causa concreta»; P. CORRIAS, I contratti derivati
finanziari nel sistema dei contratti aleatori, cit., pp. 186-187: «è, quindi, tutt’altro che casuale che in tutti i
contratti aleatori tipici l’attribuzione della piena tutela (id est: della coercibilità in giudizio) dipende dalla
circostanza che l’elemento funzionale generico del lucro incerto coesista con ulteriori funzioni, socialmente
apprezzabili» e B. INZITARI, Swap (contratto di), cit., pp. 620: «i contratti contrassegnati dall’elemento
aleatorio trovano, ritengo, completa protezione nell’ordinamento giuridico, se ed in quanto la attribuzione
di vantaggi o svantaggi patrimoniali all’uno o all’altro contraente, sia pur attuata in ossequio di un
elemento squisitamente aleatorio, trovi la sua giustificazione causale in ulteriori funzioni, esigenze e finalità
che sul piano causale svolgono una funzione determinante per la giustificazione dell’intera operazione
contrattuale, quale la copertura di un rischio, la soddisfazione di una esigenza di sicurezza nel conseguire
periodicamente una somma di denaro nella rendita perpetua o vitalizia, oppure ancora la destinazione
remunerativa del risparmio con le obbligazioni a premio estraibili». Si rileva, tra le altre cose, che l’Autore
menziona la rendita perpetua tra i contratti contrassegnati dall’elemento aleatorio, nonostante l’orientamento
assolutamente maggioritario ritenga che tale fattispecie non sia in realtà un contratto aleatorio: v. infra.
66
G. DI GIANDOMENICO, L’alea, cit., p. 73; v. ancora P. CORRIAS, I contratti derivati finanziari nel
sistema dei contratti aleatori, cit., p 185. Sul punto, v. anche B. INZITARI, Swap (contratto di), cit., pp. 620621, il quale ugualmente rinviene il fondamento del difetto di protezione e tutela nel gioco e nella
scommessa nella circostanza per cui le parti «si sono determinate entrambe alla conclusione del contratto
unicamente al fine di conseguire un lucro nelle forme di una attribuzione patrimoniale di una somma di
danaro o di una cosa, quale effetto della sorte e senza percepire o dare nessun altro tipo di utilità, se non
quella della soddisfazione personale di partecipare al gioco ed al rischio ad esso connesso, la quale è però
relegata dall’ordinamento, almeno sinora insensibile alle emozioni dell’homo ludens, alla sfera dei motivi
irrilevanti», ma conclude nel senso che «il contratto di swap non può, dunque, essere assimilato al gioco ed
alla scommessa» in quanto «le finalità perseguite e le funzioni realizzate dalle parti con questo contratto, si
manifestano nella causa del contratto consistente nella copertura o nel controllo dei rischi connessi alle
variazioni dei cambi dei tassi di interesse». Anche tale impostazione non può comunque ritenersi
condivisibile, per le ragioni che verranno meglio illustrate infra, in questo capitolo.
102
Ora, è noto che tale metodo veniva impiegato nella scienza giuridica romana: il giurista
creava la regula iuris muovendo dall’esame del caso pratico che gli veniva sottoposto.
Tuttavia, deve essere rilevato che in quell’epoca il ricorso al metodo induttivo si
giustificava essenzialmente per il fatto che i romani non avevano ancora conosciuto il
fenomeno della moderna codificazione, da intendersi come «raccolta organica, sistematica
e tendenzialmente innovativa, oltreché esaustiva, di norme che disciplinano un’intera
branca del diritto»67.
Nei sistemi giuridici nei quali si è affermata la codificazione, pertanto, il procedimento
ermeneutico dovrebbe essere guidato principalmente da una logica di tipo deduttivo,
almeno fintantoché la premessa maggiore viene posta dal legislatore mediante la
previsione di una norma generale e astratta, ossia rivolta a tutti i consociati e destinata a
disciplinare una fattispecie ipotetica, nella quale può essere eventualmente sussunto anche
“il caso pratico”68.
Ovviamente, la mera presenza di una codificazione non esclude che l’interprete possa in
alcuni casi utilizzare anche la logica induttiva: questa, però, presuppone tendenzialmente
che vi sia una lacuna69 nell’ordinamento; in ogni caso, si deve ritenere che il ricorso a tale
metodo non sia comunque opportuno per definire una categoria di sistema qual è, appunto,
quella generale e astratta dei contratti aleatori70.
67
Sulla questione, v. M. MIGLIETTA, “Determinare infine la regola attraverso la quale stabilire ciò che è
vero da ciò che è falso”. I giuristi romani e la formazione della regula iuris, in Il diritto come processo.
Principi, regole e brocardi per la formazione critica del giurista, a cura di P. Moro, Milano, 2012, pp. 37 ss.
68
«Il sistema del codice è considerato idoneo per offrire la soluzione di qualunque fattispecie. La tecnica
logica è quella del metodo deduttivo, che si contrappone al metodo induttivo che attiene alla realtà dei
fenomeni dell’esperienza. Di contro il metodo deduttivo deve essere considerato come ipotetico, perché le
sue premesse possono essere soltanto leggi, provate a seguito di procedimento logico che consiste nel
ricavare da osservazioni ed esperienze particolari i principi generali in essa impliciti e che, partendo
dall’esperienza, perviene alla determinazione dei concetti, e le sue conseguenze debbono essere verificate da
esperienze specifiche. Trattandosi di metodo deduttivo il processo logico deve partire da una premessa
maggiore che è posta dal legislatore: la norma nella sua generalità ed astrattezza, e da essa discende il
particolare». D. ZIINO, Profili dell’interpretazione giuridica, Milano, 2011, p. 13.
69
«Lacuna in diritto è la mancanza della regolamentazione di un caso concreto, che di solito si presenta
all’attenzione come caso concreto in sede di controversia giudiziaria, ma può essere anche un caso
ipotetico. Per mancanza di regolamentazione si intende usualmente che il caso concreto o ipotetico non è
esplicitamente qualificato o contemplato da alcuna norma giuridica»: M. JORI, Interpretazione, in Manuale
di teoria generale del diritto, di M. Jori e A. Pintore, Torino, 1995, p. 222.
70
Al riguardo, D. ZIINO, Profili dell’interpretazione giuridica, cit., p. 16, osserva che uno dei problemi
intrinseci delle codificazioni è proprio quello della esaustività delle medesime; circostanza, questa, che tra le
altre cose farebbe entrare in tensione il profilo dogmatico della certezza del diritto con quello sociologico
«preoccupato delle peculiarità economiche relative alle varie fattispecie». L’Autore sottolinea che tali
problemi non verrebbero comunque risolti applicando indiscriminatamente un metodo casistico, poiché
103
Nel caso in esame si è sicuramente in presenza di un problema interpretativo di
notevole oscurità, ma tale circostanza non può evidentemente essere assimilata ad una
lacuna; anzi, in tal senso si vedrà come proprio attraverso una interpretazione sistematica
delle norme dettate in tema di contratto aleatorio sia ben possibile dedurre altre soluzioni.
Più esattamente, se si muove dalla considerazione che la disciplina dei contratti aleatori
sia stata esaustivamente puntualizzata dal legislatore in tutti i suoi elementi, si deve
giocoforza concludere per la non condivisibilità dell’orientamento sopraccitato, nella
misura in cui il medesimo ricorre ad un elemento ultroneo – ossia la nozione di causa
concreta – per risolvere il problema della categorizzazione dei contratti aleatori.
Per completezza, deve essere precisato che la diversa questione della qualificazione dei
contratti derivati si pone in termini del tutto dissimili rispetto a quelli sin qui descritti.
Come si è già rilevato più volte, infatti, la fattispecie dei derivati è solo nominata, per cui
non sarebbe peregrino fare ricorso a criteri di tipo induttivo per finalità qualificatorie;
cionondimeno, come pure verrà ampiamente illustrato in seguito, è ben probabile che il
riferimento alla causa concreta non sia opportuno nemmeno rispetto a questo problema
più specifico.
Per quanto poi riguarda il secondo vizio di fondo – questo di natura logico-sistematica –
che inficerebbe l’orientamento sopraccitato, deve essere rilevato che nel suddetto iter
argomentativo sembrerebbe emergere una certa sovrapposizione tra il giudizio di rilevanza
e il giudizio di meritevolezza, nella misura in cui il contratto aleatorio atipico con causa –
asseritamente – incompleta non sarebbe pienamente meritevole siccome rilevante nei soli
limiti di cui all’art. 1933 c.c. (che com’è noto, e come meglio si vedrà nei paragrafi
successivi, prevede la non azionabilità della pretesa e l’irripetibilità di quanto
spontaneamente prestato), laddove quelli con causa – asseritamente – completa avrebbero
direttamente accesso al giudizio di meritevolezza (e, per quanto riguarda i contratti aleatori
tipici, questi sarebbero sempre astrattamente meritevoli).
Al riguardo, è appena il caso di osservare che già in passato Autorevole dottrina ha del
tutto opportunamente precisato che i due giudizi devono essere tenuti ben distinti, in
quanto «il problema della rilevanza è precedente, autonomo e non coincidente con quello
della meritevolezza» e, per quanto riguarda l’aspetto che qui direttamente rileva, «una
«verrebbe meno il principio di legalità e quello di certezza giuridica che costituiscono le garanzie della
libertà individuale». Sul punto v. anche infra.
104
regolamentazione di interessi per essere valutabile in termini di meritevolezza deve avere
una sua rilevanza per l’ordinamento giuridico»71.
Ma oltre a ciò, deve sin da ora essere osservato che l’art. 1933 c.c. – riferito alle
scommesse cosiddette «tollerate» – rivelerebbe in realtà un atteggiamento neutrale72 del
legislatore rispetto al fenomeno ludico, nel senso che dalla relativa disciplina sarebbe
possibile desumere il mero disconoscimento della diretta rilevanza della fattispecie, ma
non anche precise valutazioni in punto di meritevolezza; peraltro, è appena il caso di
specificare che i dati ricavabili da un’eventuale indagine sulla ratio che avrebbe ispirato il
legislatore a disciplinare il fenomeno ludico nel senso suddetto, oltre a non essere del tutto
intelligibili, non sarebbero di per sé stessi sufficienti a prefigurare un giudizio di
meritevolezza73.
In definitiva, l’inquadramento delle questioni sollevate dalla categoria del contratto
aleatorio nella prospettiva della causa concreta non appare persuasivo, specie allorquando
le stesse verrebbero poi surrettiziamente risolte applicando una norma in materia di
rilevanza giuridica (id est l’art. 1933 c.c.)74, sul presupposto – invero del tutto
71
«Parlare di interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico significa qualcosa di ben più
e di ben diverso di parlare di interessi rilevanti. Poiché, mentre la meritevolezza è il risultato di un giudizio
di idoneità della regola, che tali interessi esprime ad ottenere tutela […] e, dunque, è il risultato di un
giudizio in cui viene constata la conformità degli interessi […] ai criteri di valutazione della meritevolezza
fissati dal legislatore, la rilevanza scaturisce dalla constatazione che tali interessi e la loro
regolamentazione abbiano avuto quel tanto di oggettivazione, nei termini di quel minimo di completezza
strutturale richiesta […] da consentire loro d’essere percepiti dall’ordinamento giuridico. In sostanza il
problema della rilevanza è precedente, autonomo e non coincidente con quello della meritevolezza. Infatti,
se da un lato, una regolamentazione di interessi per essere valutabile in termini di meritevolezza deve avere
una sua rilevanza per l’ordinamento giuridico, dall’altro, una volta constatane la rilevanza, non si è risolto
il problema della meritevolezza, perché la regolamentazione degli interessi, pur se rilevante, può ben essere
non meritevole»: in questi termini G. B. FERRI, Ancora in termini di meritevolezza, in Saggi di diritto civile,
Rimini, 1983, pp. 331-334; v. anche ID., Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico, Milano, 1966, p.
133, dove l’Autore chiarisce altresì che la causa attiene al momento della valutazione dell’atto rispetto
all’ordinamento giuridico, mentre il tipo a quello della sua qualificazione; parzialmente critico sul punto è A.
CECCHINI, Regolamento contrattuale e interessi delle parti (intorno alla nozione di causa), in Riv. dir. civ.,
1991, p. 234, il quale tuttavia conclude ammettendo che «non vi è una necessaria correlazione tra funzione e
struttura».
72
L’espressione è di G. B. FERRI, La “neutralità” del gioco, in Riv. dir comm., 1974, I, p. 28 ss.
73
Tali questioni saranno ampiamente riprese infra.
74
Oltre a quanto si dirà infra, cfr. F. CARRESI, Il contratto, in Trattato di diritto civile e commerciale,
diretto da A. Cicu – F. Messineo, XXI, Milano, 1987, pp. 23-24, il quale tra le altre cose osserva che il
pagamento del debito di gioco «ha dunque l’effetto di attrarre la scommessa dal piano sociale e del costume
sul quale è sorta nella sfera del diritto».
105
discrezionale75 – che nella medesima sarebbero reperibili anche valutazioni in punto di
meritevolezza.
Chiarito ciò, si ritiene che la questione relativa ai contratti aleatori in generale –
rilevante, in questa sede, in quanto ha conseguenze dirimenti anche in materia di derivati
finanziari – possa essere impostata diversamente.
Innanzitutto, deve ritenersi che la vera questione dei contratti aleatori risieda nella
circostanza per la quale l’assetto negoziale dei medesimi si caratterizzerebbe per la sua
incompletezza76, proprio «in quanto contiene un rinvio all’evento futuro e incerto»; evento,
75
Ex multis, v. P. CORRIAS, I contratti derivati finanziari nel sistema dei contratti aleatori, cit., p 186:
«siamo persuasi che tale precisa scelta codicistica [n.d.a. ossia quella compendiata nell’art. 1933 c.c.]
rinvenga un imprimatur a livello costituzionale nelle disposizioni che esaltano e tutelano il lavoro (art. 1,
comma 1°), da intendersi “in tutte le sue forme ed applicazioni” (art. 35, comma 1°), come “un’attività o
una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società” (art. 4, comma 2). Da tali
norme, infatti, emerge la chiara volontà dei costituenti di considerare e tutelare in maniera diversa e più
pregnante la ricchezza determinata dal reddito – ossia dall’acquisizione del corrispettivo per lo svolgimento
di un’attività utile per la società (art. 4) e dal risparmio da questo generato (art. 47, comma 1°) – rispetto a
quella derivante da mere rendite, il cui paradigma più lineare è sicuramente riscontrabile negli introiti
dovuti alla mera sorte (giochi e scommesse), e dai guadagni unicamente speculativi del mercato
finanziario».
76
Si osservi che non a caso l’incompletezza del contratto assume una peculiare rilevanza per quella
dottrina che studia il fenomeno contrattuale nella prospettiva della analisi economica del diritto: v., ad
esempio, G. CLERICO, Analisi economica del contratto, Milano, 2008, pp. 261-263, il quale afferma con
apprezzabile chiarezza che «in condizioni ideali, quali quelle che caratterizzano un mercato di concorrenza
pura e perfetta, i contraenti sono in grado di siglare un contratto perfetto e completo. Un contratto è
completo se le parti, per ciascuno degli infiniti possibili stati del mondo, concordano sulla soluzione e sul
risultato. Nella realtà, i contratti sono incompleti per due essenziali ragioni: una esogena e l’altra
endogena. La ragione esogena all’impossibilità delle parti di specificare le possibili soluzioni rispetto a tutti
i possibili stati del mondo. In particolare, le parti sono impossibilitate a contrattare su misure di
performance che non sono verificabili, ossia osservabili e controllabili da parte di soggetti (ad esempio i
giudici) diversi dai contraenti. La ragione endogena deriva dal fatto che le parti deliberatamente possono
scegliere di non specificare completamente i termini contrattuali anche quando ciò sarebbe possibile […]. Il
livello di incompletezza contrattuale non è una variabile indifferente per le parti […]. Nella realtà, i
contraenti quando siglano un contratto possono scegliere di concordare subito alcuni risultati (magari in
numero estremamente limitato) e di rinviare a fasi successive la definizione di altri risultati […]. Quando i
risultati specificati sono pochi il contratto siglato è molto rigido per i contraenti. Quando, invece, il numero
dei risultati specificati è maggiore sussiste una maggiore flessibilità contrattuale: le parti, potenzialmente,
avranno molto da discutere in seguito. La maggiore flessibilità implica una maggiore discrezionalità dei
contraenti ad adattarsi ai mutevoli stati del mondo. La maggiore flessibilità, tuttavia, implica anche degli
svantaggi: il costo della contrattazione. Con la contrattazione sussiste il rischio che il contratto possa essere
diverso da quello ex ante desiderato dalle parti. In proposito, teniamo presente che un contratto specifica e
garantisce ciò che non avverrà, ma non ciò che capiterà. Pertanto, può accadere che, anche con simmetria
informativa, il risultato di equilibrio sia ex post inefficiente, soprattutto in presenza di grande flessibilità. La
flessibilità, quindi, è desiderabile per le parti solo in presenza di forte incertezza. In tal caso, le parti, quindi,
devono definire, in primis, le variabili rispetto alle quali tra le parti sussiste un interesse e un obiettivo
assolutamente opposto: ad esempio il prezzo […]. In presenza di contratti altamente incompleti diventa
106
dunque, che «non si atteggia a semplice criterio di misurazione della prestazione, ma
diviene criterio di integrazione del giudizio di valore espresso in modo incompleto dalle
parti al momento della conclusione del contratto»; «l’alea», pertanto, «caratterizza quei
contratti in cui il regolamento negoziale si regge su un giudizio di valore incompleto e,
dunque, non evoca in alcun modo il profilo funzionale»77.
Muovendo dalla condivisione della suddetta osservazione, deve ritenersi che
l’aleatorietà «contrattuale» sia fondamentalmente una quaestio voluntatis78.
Come poi si avrà modo di rilevare nel prosieguo, sembrerebbe che anche il legislatore
pare aver concepito l’intera categoria dei contratti aleatori intorno all’elemento
volontaristico79.
cruciale il ruolo del sistema giudiziario per l’interpretazione delle condizioni contrattuali. In proposito […]
è preferibile che i contratti siano fatti dalle parti e non dai giudici. Naturalmente, l’incompletezza
contrattuale può anche essere considerata come una manifesta forma di disaccordo fra le parti. A fronte di
un disaccordo non devono sussistere interventi dei giudici definiti ex ante in quanto in presenza di obblighi
legali che governano la transazione il contratto non è più incompleto. In tal caso, infatti, le parti sarebbero
vincolate nella definizione contrattuali mancanti». Sotto un’altra prospettiva, v. M. R. FERRARESE, Il diritto
al presente, cit., p. 86 ss.: «la tematica sempre più presente nel dibattito dei cosiddetti “contratti incompleti”
mette in rilievo un aspetto di razionalità limitata che accompagna specie alcuni tipi di contratto: un aspetto
che si identifica non tanto con una incapacità dell’attore contrattuale di leggere il futuro, se non sulla base
degli elementi di informazione che possiede al momento, quanto con una impossibilità di definire nel
presente tutti i percorsi che la vicenda contrattuale assumerà nel futuro, specie nei casi in cui il contratto
prevede una specie di delega in bianco […]. Pure se esposto a molte incertezze, il contratto si pone con una
chiara ratio temporale: essenzialmente nei termini di un “impegno”, se non di una “promessa” verso il
futuro. Esso nasce non in nome di una libertà dal futuro, ma proprio come vincolo verso il futuro».
77
L. BALESTRA, Il giuoco e la scommessa nella categoria dei contratti aleatori, cit., pp. 670-673,
secondo il quale tale circostanza troverebbe conferma, tra le altre cose, «nell’art. 1472, comma 2, c.c., ove la
vendita aleatoria viene per l’appunto in considerazione quale vendita». Si badi che ad essere incompleto non
è l’accordo, bensì il giudizio di valore sul concreto assetto negoziale. Al riguardo, cfr. R. NICOLÒ, La
«relatio» nei negozi formali, in Raccolta di scritti, tomo II, Milano, 1980, pp. 1480 ss., il quale, sul
presupposto che «nelle ipotesi in cui il contenuto della dichiarazione si completa per relationem, l’elemento
richiamato attraverso la fonte di riferimento, fa corpo con il contenuto medesimo, viene recepito in esso, sì
che dal punto di vista delle parti le loro dichiarazioni hanno, sin dal momento perfezionativo dell’atto, il
carattere di completezza», esclude che possa parlarsi di relatio in senso tecnico quando «l’oggetto del
riferimento è costituito da un fatto o da una situazione futura, che le parti si rappresentano come tale».
78
Cfr. al riguardo L. BALESTRA, Il contratto aleatorio e l’alea normale, Padova, 2000, p. 231, che
proprio in relazione agli swap rileva che «il particolare oggetto di questi contratti, la circostanza che si
tratta di contratti per loro stessa natura proiettati verso il futuro, consente di inferire una inequivoca volontà
delle parti di considerare l’evento incerto – la quotazione che i titoli, o, comunque, i beni sottostanti
avranno nel giorno fissato per la scadenza – come aspetto essenziale del contenuto dell’accordo e non come
semplice momento esterno»; v. anche A. BARATELLA, Banca e borsa: i contratti dell’intermediario, in I
contratti commerciali, a cura di A. Sirotti Gaudenzi, Forlì, 2007, p. 585, il quale del tutto condivisibilmente
osserva che «la natura di contratto aleatorio è anche desumibile per via interpretativa dalla volontà delle
parti: nelle condizioni generali i contraenti si danno reciprocamente atto che trattatasi di un contratto
aleatorio e ne accettano quindi gli effetti».
107
La validità di tale assunto necessita tuttavia di essere verificata: a tal fine, si ritiene
opportuno – come anche si è già avvertito – impostare la ricostruzione della categoria dei
contratti aleatori in termini sistematici80.
2.1.2. La negoziabilità dell’alea naturale
Preliminarmente, giova precisare che quando in dottrina si parla di «evento futuro e
incerto»81 in riferimento ai contratti aleatori sembra che si voglia porre l’accento non tanto
sulle caratteristiche che dovrebbero connotare l’evento in sé82, quanto piuttosto sul fatto
79
Peraltro, anche la giurisprudenza sembra muovere da tale presupposto: cfr., ex multis, Cass. civ., 10
aprile 1970, n. 1003: «il contratto aleatorio ricorre allorquando l’alea sia insita nella natura stessa del
negozio o derivi da specifiche pattuizioni stabilite dai contraenti e lo caratterizzi nella sua interezza fin dalla
formazione, per modo che in relazione al rischio, al quale si espongono i contraenti, divenga incerto per uno
o per tutti i contraenti il vantaggio economico perseguito. Pertanto, è da escludersi l’ipotesi del contratto
aleatorio quando ciascuna delle parti all’atto del perfezionamento del contratto ha avuto la possibilità di
valutare il proprio rispettivo sacrificio e vantaggio»; nello stesso senso, Cass. civ., Sez. II, 8 agosto 1979, n.
4626; Cass. civ., Sez. II, 9 aprile 1980, n. 2286; Cass. civ., Sez. I, 31 maggio 1986, n. 3694; Cass. civ., 7
giugno 1991, n. 6452. Al riguardo – e salvo quando verrà precisato subito infra – è appena il caso di rilevare
che la seconda parte della massima («è da escludersi l’ipotesi del contratto aleatorio quando ciascuna delle
parti all’atto del perfezionamento del contratto ha avuto la possibilità di valutare il proprio rispettivo
sacrificio e vantaggio») appare meno sicura, almeno nella sua assolutezza: le parti, infatti, ben possono aver
avuto, in fase di perfezionamento, «la possibilità di valutare il proprio rispettivo sacrificio e vantaggio» e
ciononostante possono comunque aver deciso di rimettere la regolamentazione dei loro interessi al caso.
Questo significa che le valutazioni di convenienza delle parti nulla dicono, di per sé stesse, rispetto
all’aleatorietà del contratto.
80
«L’aver [n.d.a. il legislatore] imposto all’interprete un’attività di ricostruzione, svincolata da indici
normativi a connotazione identificativa, postula necessariamente il ricorso al criterio sistematico allo scopo
di pervenire all’emissione di “un giudizio di congruenza tra quella che si assume essere la fattispecie e la
disciplina giuridica per essa stabilita”»: così L. BALESTRA, Il giuoco e la scommessa nella categoria dei
contratti aleatori, cit., p. 668, il quale menziona il pensiero di GAMBINO.
81
L. BALESTRA, Il giuoco e la scommessa nella categoria dei contratti aleatori, cit., p. 670.
82
Peraltro, un evento può essere incerto anche a prescindere dalla sua futurità: si è già visto, infatti, che
vi sono casi in cui il risultato finale di una previsione dipende non tanto dalla dimensione cronologica,
quanto piuttosto da quella spaziale, come nel caso dell’arbitraggio (v., supra, cap. I, § 2.2.3; in senso
contrario, cfr. M. SANTISE, Coordinate ermeneutiche di diritto civile, Torino, 2014, p. 227, per il quale
l’arbitraggio disciplinato all’art. 1349 c.c. mancherebbe «di qualsiasi pregressa incertezza»,
caratterizzandosi «per uno stato non di incertezza bensì di ignoranza in cui versano le parti»). Vi sono
inoltre dei casi in cui «l’ignoranza delle parti» viene equiparata alla «futurità dell’evento», come nel caso di
un contratto condizionato ad un evento passato o presente: in questo caso, però, «l’evento, anche se
soggettivamente incerto, c’è stato o è mancato e, pertanto, non vi sono aspettative da tutelare non essendoci
deviazioni dal principio generale dell’efficacia immediata del contratto»: così M. C. DIENER, Il contratto in
generale2, Milano, 2010, pp. 430-431; sul punto, v. anche C. M. BIANCA, Il contratto, cit., p. 544: «le parti
possono anche apporre al contratto una condizione passata o presente, e cioè subordinare il contratto in
forma condizionale ad un evento passato o ad una situazione presente in quanto ignorano se il fatto sia
accaduto o se la situazione sia esistente […]. Ma in tal caso si tratta di un requisito attuale di efficacia del
108
che i contraenti stanno fissando oggi la regola per vincolarsi ad un determinato contenuto83
destinato ad essere attuato pro futuro e a prescindere da qualsiasi evidenza del risultato.
In questa sede, pertanto, assume rilevanza l’incertezza siccome proiettata nel futuro84.
Adottando ora come riferimento il principio del «pacta sunt servanda» sancito dall’art.
1372, comma 1, c.c. – per il quale «il contratto ha forza di legge tra le parti» e «non può
essere sciolto che per mutuo consenso o per cause ammesse dalla legge» –, è agevole
dedurre che l’incertezza, nel sistema delineato dal codice civile, può acquisire rilevanza in
due momenti diversi.
Quando l’incertezza assume rilevanza dopo la conclusione del contratto, la disciplina
non potrà che avere ad oggetto gli effetti di un atto già concluso: si avranno, così, regole
destinate a disciplinare le cosiddette sopravvenienze85.
contratto: non si instaura quindi la pendenza del rapporto occorrendo solo accertare se il contratto sia
definitivamente efficace o inefficace. La condizione passata o presente può tuttavia costituire una vera e
propria condizione quando eccezionalmente sussiste incertezza obiettiva sul fatto o sulla situazione indicata
dalle parti e il relativo accertamento richiede un tempo apprezzabile. Trovano allora di massima
applicazione le norme sulla condizione futura».
83
Nei contratti aleatori, infatti, l’alea caratterizza il contratto «nella sua interezza fin dalla formazione»
(Cass. civ., 10 aprile 1970, n. 1003, cit.), e ciò a differenza di quanto ad esempio avviene nel contratto
condizionato, dove «la dipendenza da un fatto incerto determina incertezza degli effetti contrattuali» e solo
di questi (V. ROPPO, Il contratto, cit., p. 574).
84
A tal proposito, sembra opportuno richiamare un dato meramente empirico che, per quanto possa anche
apparire scontato, non deve comunque essere sottovalutato: «molti contratti impegnano il futuro. E il futuro
non è mai uguale al presente»: così F. CARINGELLA – G. DE MARZO , Manuale di diritto civile, vol. 3,
Milano, 2008, p. 967. Nello stesso senso, è stato osservato che «sono rari i contratti a esecuzione
rigorosamente immediata e istantanea […]. È molto più frequente che il contratto proietti la sua esistenza
funzionale oltre la conclusione, per un tempo più o meno lungo. E mai il futuro è uguale al presente: sicché
il programma contrattuale si trova a essere attuato in un contesto diverso da quello esistente al momento in
cui le parti lo hanno concordato». Ciò detto, appare chiaro che il tempo assume rilevanza proprio rispetto ai
contratti di durata, nei quali – com’è noto – «almeno una delle prestazioni non si esaurisce in un’operazione
o in un effetto istantaneo», a prescindere dal fatto che poi l’esecuzione avvenga continuativamente o
periodicamente, nonché in quelli ad esecuzione istantanea ma differita, nei quali «almeno una delle
prestazioni (adempimento dell’obbligazione, produzione dell’effetto reale) deve attuarsi in tempo successivo
alla conclusione del contratto». Al contrario, il dato cronologico non assume giuridica rilevanza rispetto ai
contratti ad esecuzione istantanea, ossia in quei contratti in cui «l’esecuzione del contratto si concentra, per
ciascuna delle parti, in un’unica operazione o in un unico effetto»: in questo caso, infatti, la prestazione si
esaurisce – nel senso che la stessa è «completamente uscita dalla sfera di chi la doveva, e completamente
entrata nella sfera di chi l’attendeva» – contestualmente alla conclusione del contratto (cosiddetta
«esecuzione immediata»), sicché «gli eventi che la riguardano toccano qualcosa che in realtà non è più
“prestazione”, ma è ormai elemento interno al patrimonio della parte accipiens»: in questi termini, V.
ROPPO, Il contratto, cit., pp. 511-513, 943 e 947.
85
Ex multis, v. V. ROPPO, Il contratto, cit., pp. 943-944: «i fatti che, intervenendo dopo la conclusione
del contratto e prima della sua completa attuazione, mutano il contesto in cui il contratto si attua, usano
dirsi “sopravvenienze”. Le sopravvenienze rilevanti sono quelle che pregiudicano l’interesse di una parte,
aggravando il sacrificio che il contratto le impone o diminuendo l’utilità che il contratto le reca: sono quelle
109
Giova peraltro evidenziare che in questa ipotesi il sistema prevede – al precipuo fine di
contemperare il principio di autonomia privata con quello più generale della certezza dei
traffici giuridici86 – rimedi sia eliminatori che manutentivi87; tuttavia, a prescindere dai
particolari effetti che i rimedi in parola producono sull’atto, quel che preme qui
che configurano un rischio (inteso appunto come possibilità di un pregiudizio)». Autorevole dottrina
distingue poi tre tipologie di sopravvenienze: quelle che rendono impossibile l’esecuzione del contratto «sul
piano naturalistico o giuridico» (come nel caso di un «embargo internazionale che renda impossibile
l’esecuzione di un contratto di fornitura all’estero»), regolate dalla disciplina dell’impossibilità
sopravvenuta; quelle che incidono «in modo significativo sull’equilibrio economico tenuto presente dalle
parti al momento della stipulazione contrattuale», fronteggiabili con lo strumento della risoluzione per
eccessiva onerosità; infine, quelle che precludono al contratto di assolvere la funzione per cui è stato
stipulato, nel senso che, «nelle more tra la stipulazione del contratto e la sua compiuta esecuzione», venga
meno, non si verifichi o «si verifichi in modo significativamente diverso da come era stato considerato dalle
parti al momento della stipulazione contrattuale» il presupposto di fatto o di diritto «in funzione e in
considerazione del quale le parti hanno stipulato». F. CARINGELLA – G. DE MARZO , Manuale di diritto
civile, cit., pp. 968-969.
86
In questo senso, deve essere rilevato innanzitutto che «il contratto è mezzo insostituibile di
organizzazione e funzionamento dei rapporti sociali ed economici. Ma non potrebbe svolgere tali funzioni,
se non sul presupposto del suo valore vincolante per le parti. Se il contratto non fosse vincolo – ovvero: se
ciascuna parte fosse libera di ripudiare, modificare, violare gli impegni contrattuali presi – nessuno
potrebbe contare sulla certezza ed effettività dei propri contratti: infatti questi sarebbero esposti all’arbitrio
di controparte» (V. ROPPO, Il contratto, cit., p. 501); per altro verso, «la disposizione di cui all’art. 1372 c.c.
valorizza al massimo grado l’autonomia negoziale, nel senso che le parti sono libere sino al momento della
stipulazione del contratto di prevedere tutte le clausole finalizzate anche a fronteggiare gli avvenimenti
futuri. Se tale potere negoziale non venga espresso, allora le parti sono integralmente vincolate dalla
stipulazione contrattuale» (F. CARINGELLA – G. DE MARZO , Manuale di diritto civile, cit., p. 971). Sul
punto, v. anche M. AMBROSOLI, La sopravvenienza contrattuale, Milano, 2002, p. 3, il quale osserva che
«anche con riferimento alle sopravvenienze, il legislatore sembra disciplinare compiutamente il problema,
dettando da un lato, la regola della forza di legge (art. 1372 c.c.) e prevedendo, dall’altro, una pluralità di
istituti diretti ad assicurare la rilevanza di alcune vicende successive alla conclusione del contratto, la cui
gravità è apparsa tale da giustificare una limitazione all’operatività della regola della forza di legge»,
nonché C. MARCHESINI, L’impossibilità sopravvenuta nei recenti orientamenti giurisprudenziali, Milano,
2008, pp. 75-76.
87
In particolare, sono rimedi manutentivi quelli «diretti a mantenere il contratto, apportandovi le
correzioni necessarie e sufficienti per reagire in modo adeguato contro il difetto o il fattore di disturbo che
lo affliggono», mentre sono estintivi quelli che hanno come scopo e risultato l’annientamento degli effetti del
contratto. Per quanto riguarda i primi, la dottrina suole distinguere tra rimedi legali (ad es.: la rettifica ex art.
1432 c.c.; la riduzione a equità di cui all’art. 1450 c.c.; la riduzione e/o variazione del prezzo previste,
rispettivamente, dagli artt. 1492 e 1660 c.c.; etc.) e convenzionali (ad es.: clausole di indicizzazione; clausole
di ius variandi; clausole di hardship; clausole di rinegoziazione, etc.); per quanto invece riguarda i secondi –
e per quel che rileva in questa sede – si pensi al recesso, alla risoluzione e alla rescissione, dovendosi però
precisare che la natura del rimedio rescissorio è ancora vivacemente dibattuta (sul punto, cfr. infra, in questo
capitolo). Cfr. anche V. ROPPO, Il contratto, cit., passim e in particolare pp. 677 ss., e C. MARCHESINI,
L’impossibilità sopravvenuta nei recenti orientamenti giurisprudenziali, cit., p. 76.
110
sottolineare è la circostanza secondo la quale la loro operatività presuppone
ontologicamente una sicura validità dell’atto medesimo88.
Detto in altri termini: le regole sulle sopravvenienze sono tutte accomunate dal fatto di
essere fondate sulla vitalità del contratto, ossia di un vincolo che ha già assunto «forza di
legge tra le parti».
L’incertezza, però, può assumere rilevanza anche prima della conclusione del contratto,
e precisamente nella fase delle trattative, momento in cui le parti stanno ancora misurando
i presupposti per giungere eventualmente all’accordo: è in questa fase, infatti, che le parti
valutano come disciplinare i loro rapporti, potendosi così determinare preventivamente ed
esplicitamente anche rispetto al caso89.
In questo senso, non può sfuggire che con la conclusione di un contratto aleatorio le
parti accettano (nei contratti «aleatori per natura») o eleggono (nei contratti «aleatori per
volontà delle parti») un accadimento casuale quale regola per integrare il giudizio di
valore espresso in modo incompleto nell’atto90.
88
Le sopravvenienze, infatti, riguardano per definizione i cosiddetti «difetti o disturbi sopravvenuti» che
inficiano «il contratto come rapporto»: più esattamente, in questi casi «la fattispecie contratto si forma
immune da vizi, e solo in seguito, nella fase di attuazione del rapporto contrattuale, intervengono fattori che
ne disturbano il buon funzionamento, aprendo la via al rimedio»; diversamente, i difetti originari affliggono
«il contratto come atto» e quindi anche «il rimedio si dirige al contratto come atto» (si pensi ai rimedi della
nullità e dell’annullamento). V. ROPPO, Il contratto, cit., p. 681; v. anche C. MARCHESINI, L’impossibilità
sopravvenuta nei recenti orientamenti giurisprudenziali, cit., p. 61, il quale afferma che «le sopravvenienze
perturbative sono, per definizione, successive alla stipulazione e attengono al rapporto», nonché V.
RIGHETTI, La risoluzione per impossibilità sopravvenuta, in Il contratto, a cura di G. Buffone, C. De
Giovanni e A. I. Natali, Padova, 2013, p. 1434, la quale ancor più chiaramente afferma che «la
sopravvenienza sia fenomeno diverso dalla patologia del contratto in senso tecnico: la patologia, infatti,
investe l’atto e non può che riguardare situazioni esistenti al momento della stipulazione del contratto; la
sopravvenienza, invece, riguarda l’attuazione del contratto e, quindi, incide sulla possibilità che il contratto
medesimo – pur perfettamente valido in via originaria – possa ancora continuare a produrre i suoi effetti».
89
Tra le tante definizioni di «trattative contrattuali» v. V. ROPPO, Il contratto, cit., p. 167 («la trattativa
è l’interazione fra le parti del futuro eventuale contratto, che ciascuna parte cerca di orientare verso i
risultato più vantaggiosi per sé; a seconda di come l’interazione si sviluppa, si decide se il contratto si fa o
no, e se si, a quali condizioni») e quella di M. C. DIENER, Il contratto in generale, cit., p. 140 («il contratto
[…] normalmente è preceduto da un periodo, più o meno lungo, chiamato precontrattuale, in cui, fra le
parti, intercorrono delle trattative durante le quali esse si scambiano delle idee, manifestano le proprie
intenzioni, esaminano i punti di divergenza e ricercano soluzioni adatte a risolvere il conflitto dei loro
interessi […]. Le trattative sono state definite come materiale di costruzione del futuro contratto il quale,
essendo un blocco unitario, ha bisogno per esistere di tutto il materiale necessario; finché l’accordo non è
raggiunto, le trattative hanno, perciò, un valore meramente preparatorio e strumentale, non giuridico, non
creano, cioè, alcun obbligo giuridico per le parti»). Si noti come nelle varie definizioni di trattative sia pur
sempre immanente il concetto di «contratto futuro».
90
Autorevole dottrina, interrogandosi su quali possano essere «le forme e le tecniche di governo sociale
del caso», ipotizza quattro diverse situazioni, ossia «a) mantenere il caso; b) creare il caso; c) escludere il
111
Orbene, è proprio al contesto che si è sin qui complessivamente delineato che s’intende
fare riferimento quando si discorre di negoziabilità dell’alea naturale91.
Va rilevato che l’alea naturale – ossia l’alea presente in rerum natura92, e quindi, in
quanto tale, obbiettiva93 – può essere negoziata in molteplici modi, purché ovviamente le
caso; d) rendere calcolabile il caso», precisando ulteriormente che «la vicenda casuale deve essere inserita
in un ordinamento, che intende mutarne gli effetti o addirittura alterarne il senso. Ma regola e caso si
sorreggono reciprocamente. Si ponga mente al linguaggio. Il caso, nella terminologia giuridica corrente,
rappresenta la vicenda concreta, il problema da risolvere, l’occasione che consente di interrogare
effettivamente l’ordinamento; e quest’ultimo, per manifestare la sua effettività, ha bisogno che quel caso si
produca. È il caso che dà senso a una legge che, altrimenti, rimarrebbe irriconoscibile. Il caso compare così
come vicenda da controllare. Ma al tempo stesso comincia a svelare l’altra sua faccia: quella di fattore che
può essere istituzionalizzato, fino a trasformarsi in strumento per la decisione»: così S. RODOTÀ, La vita e le
regole: tra diritto e non diritto, Milano, 2006, p. 140. In questo senso, richiamando la classificazione di cui
sopra, non sarebbe azzardato ritenere – come anche meglio verrà precisato nel prosieguo – che le parti
concludendo un contratto aleatorio per natura vogliano «mantenere il caso», mentre con quelli aleatori per
loro volontà stiano «creando il caso»; inoltre, nella stessa prospettiva, si può altrettanto ragionevolmente
sostenere che i contraenti intendano verosimilmente «escludere» – o quanto meno circoscrivere – il caso
nelle ipotesi in cui decidano di apporre ad un contratto una clausola finalizzata a governare le
sopravvenienze, oppure quando decidano di concludere direttamente un contratto commutativo. Per quanto
invece riguarda la calcolabilità del caso, v. infra. Orbene, se si accede alla suddetta impostazione, sarebbe
più appropriato contrapporre i contratti aleatori – da intendersi come contratti con i quali le parti vogliono
mantenere o creare il caso, e quindi vogliono una situazione d’incertezza – non tanto ai contratti commutativi,
ossia quei «contratti in cui l’entità delle reciproche prestazioni non dipende da fattori casuali» (C. M.
BIANCA, Il contratto, cit., p. 491), ma piuttosto a quelli di accertamento, nei quali «data una situazione
d’incertezza sull’esistenza o sul contenuto di posizioni soggettive delle parti, la eliminano chiarendo se la
posizione esiste, e che contenuto ha» (V. ROPPO, Il contratto, cit., p. 495).
91
Si ritiene, peraltro, che quella appena proposta sia l’unica via per poter superare l’intima
contraddittorietà che connota la stessa espressione «contratto aleatorio». A ben vedere, infatti, se il contratto
è innanzitutto una regola e la regola, a sua volta, è per definizione l’opposto del caso, si dovrà giocoforza
concludere che la locuzione «contratto aleatorio» costituisca di per sé stessa un ossimoro. Cfr. S. RODOTÀ,
La vita e le regole: tra diritto e non diritto, cit., p. 136: «la regola è l’opposto del caso, anche se proprio il
caso può essere eletto a regola e rafforzare così il suo essere immanente in ogni momento dell’esistenza».
92
«Fu già Democrito, al dire di Dante, che pose il mondo “a caso”. Lo si ripone anche oggi; ma in
termini diversi: Democrito era un determinista, un meccanicista rigoroso; oggi, invece, s’è imposto, nella
scienza, l’indeterminismo, come tutti sanno. Il quale indeterminismo può essere assunto, in sede di
definizione, come la semplice negazione del determinismo, ossia come la sostituzione del caso, appunto, alla
necessità meccanicistica […]. Il titolo di un articolo di Nicola Abbagnano, apparso su “La Stampa” del
29.XI.1970 […] – che è una recensione, in sezione trasversale, del volume di Jacques Monod Le hasard et la
nécessité. Essai sur la philosophie naturelle de la biologie moderne – suona: “Dunque l’Universo non è
programmato”. La tesi del biologo Monod – premio Nobel – è, ridata in questi termini elementari, che la
vita è comparsa in questo mondo per un puro caso come un terno al lotto. (Il nostro numero – sono sue
parole – è uscito al gioco di Montecarlo). Un evento assolutamente improbabile (“la sua probabilità a priori
era zero” commenta Abbagnano; mettiamo che fosse uno su migliaia). E, dopo la sua comparsa, la vita si è
sviluppata per variazioni, esse stesse prodottesi casualmente. Insomma: “il puro caso – sono ancora parole
del biologo – il solo caso, la libertà assoluta ma cieca, è alla radice del prodigioso edificio
dell’evoluzione”»: G. BONTADINI, Sulla casualità, in Appunti di filosofia, di Id., Milano, 1996, p. 227. Sul
punto, v. però F. MANTOVANI, Diritto penale6, Padova, 2009, p. 136, il quale, muovendo dall’accenno ad
112
parti ne abbiano in qualche modo preso consapevolezza94: si pensi, ad esempio, a quando
le parti concludono un contratto preliminare95 – assumendo in tal modo l’obbligo di
«una delle antitesi primordiali della scienza sulla struttura della realtà e la gnoseologia corrispondente»,
ossia «se nella natura domini la casualità o l’indeterminismo, il caso, se le leggi causali abbiano valore
assoluto o soltanto statistico», osserva che «il principio deterministico resta tuttora dominante, discutendosi
soprattutto se il principio indeterministico valga limitatamente al solo campo (fra l’altro pressoché estraneo
al diritto) in cui è sorto, cioè la microfisica (per l’impossibilità di determinare contemporaneamente
posizione e velocità delle micro particelle e, quindi, di predire con certezza, ma solo con probabilità, il loro
comportamento futuro). O se in assoluto non possa ritenersi neppure qui provato, potendo esso essere il
mero frutto di carenze conoscitive. Tale principio non ha comunque rivoluzionato, come pur talora si
pretende, per gli altri campi il comune principio causale, stante la sua ritenuta non estensibilità alla
epistemologia generale. E ciò può, forse, spiegare perché la teoria indeterministica della fisica quantistica
non abbia trovato, tuttora, eco nel campo giuridico».
93
Cfr., ad esempio, Cass. civ., Sez. II, 4 gennaio 1993, n. 10: «la incertezza della entità del vantaggio o,
correlativamente, della perdita di ogni contraente, incertezza nella quale si concretizza l'alea (ossia il
rischio) nel contratto aleatorio, deve essere obiettiva e radicale e dipendere dal verificarsi o meno di un
evento (futuro), dedotto appunto quale fonte dell'alea».
94
A tal proposito, deve essere osservato che la situazione in cui si vuole «rendere calcolabile il caso» (v.
supra, in nota) ha un rilievo del tutto autonomo rispetto a quelle in cui il caso medesimo viene mantenuto,
creato oppure escluso: queste ultime, infatti, presuppongono tutte una preventiva presa di coscienza del caso,
la quale può anche prescindere dalla sua specifica misurabilità. Ad esempio, la decisione sul mantenimento
del caso non necessariamente dipende dalla sua misurabilità, ben potendo essere influenzata da fattori di
altro tipo (ad es., Tizio punta sul cavallo nero solo perché lo trova ictu oculi robusto, a prescindere quindi da
qualsiasi altra considerazione di tipo logico-probabilistico); allo stesso modo, anche le determinazioni sulla
creazione o sull’esclusione del caso possono originare dalla deliberata volontà di non tener conto delle
conoscenze che consentono di formulare un giudizio in termini di prevedibilità – e sempre ammesso che
queste esistano – (ad es.: Caio e Sempronio stipulano un contratto preliminare, cautelandosi così
dall’accadimento di eventuali e generiche sopravvenienze, solo perché “non si sa mai”, e non già perché
hanno preventivamente svolto un’indagine sulle concrete possibilità di verificazione di certi eventi). La
calcolabilità del caso, pertanto, è solo uno dei profili che possono condizionare il più generale momento
della sua presa di coscienza; si vedrà peraltro come tale questione assuma importanza dirimente intorno al
problema della razionalità dell’alea: al riguardo, v. infra, in questo capitolo.
95
Cfr. F. CARINGELLA – G. DE MARZO , Manuale di diritto civile, cit., pp. 536 e 549: «il contratto
preliminare può essere definito come il contratto da cui nasce l’obbligo per le parti di addivenire ad un
successivo contratto definitivo, il cui regolamento di interessi è già stato predisposto nel preliminare. Vi è,
quindi, una scissione tra il momento della predisposizione (stipula del preliminare) e il momento di
attuazione (stipula del definitivo) del regolamento di interessi. Quanto alla funzione del preliminare […] la
tesi prevalente ritiene che la funzione del preliminare sia quella di controllo delle sopravvenienze al fine di
consentire l’ulteriore ponderazione della convenienza dell’affare e di cautelarsi da un mutamento
sfavorevole delle circostanze […]. È necessario al riguardo distinguere a seconda che le sopravvenienze in
questione determinino una variazione essenziale o meno del bene oggetto del preliminare; [tuttavia]
rafforzandosi il concetto di preliminare quale strumento di controllo delle sopravvenienze, è evidente che le
parti hanno la possibilità di regolare entrambi i tipi di variazioni, nell’esplicazione della loro autonomia
negoziale, decidendo liberamente se e con quali effetti considerarle rilevanti»; sul punto, v. anche Cass. civ.,
Sez. II, 23 novembre 2007, n. 24448, nella quale viene espressamente affermato che «il
contratto preliminare non è più visto come un semplice pactum de contrahendo, ma come un negozio
destinato già a realizzare un assetto di interessi prodromico a quello che sarà compiutamente attuato con il
113
stipulare un futuro contratto del quale viene predefinito in qualche misura il contenuto96 –
oppure ancora quando ritengano di dover subordinare l’efficacia di un contratto ad un
evento futuro, sia questo incerto solo nel quando (termine) o anche nell’an (condizione)97.
In tutti questi casi, però, i contraenti pensano ad alcuni particolari eventi casuali per
escludere che gli stessi possano incidere sull’atto – e, soprattutto, sul suo contenuto – nei
precisi termini in cui lo stesso è stato concepito; tale atteggiamento del volere presuppone,
in linea di principio, che i contraenti abbiano deciso di predeterminare (ad esempio, con il
contratto preliminare) o di salvaguardare (ad esempio, con il contratto condizionato o
sottoposto a termine) quello specifico contenuto contrattuale proprio sulla personale
definitivo, sicché assume una funzione di “controllo delle sopravvenienze”, ossia differisce la funzione
traslativa finale per verificare, tramite gli opportuni controlli, la futura convenienza della stipulazione».
96
È appena il caso di osservare che il contenuto del preliminare non è mai limitato al mero obbligo di
contrarre un futuro contratto, essendo pur sempre presente nel medesimo un minimum di programma
suscettibile di essere completato al momento della conclusione del definitivo: in tal senso, cfr. C. M.
BIANCA, Il contratto, cit., pp. 181-182: «il contratto preliminare è il contratto mediante il quale una o
entrambe le parti si obbligano alla stipulazione di un successivo contratto, detto definitivo […]. L’interesse
che il preliminare consente di realizzare è dunque quello di creare un impegno provvisorio riservando ad un
futuro contratto la completa e definitiva regolamentazione dell’affare». Giova inoltre segnalare che il
contratto preliminare non è tecnicamente una species del più ampio genus dei «contratti normativi», ossia di
quei «contratti con cui le parti definiscono le clausole di futuri contratti: da essi nasce l’obbligo di inserire
tali clausole nei futuri contratti, se e quando saranno conclusi» (così V. ROPPO, Il contratto, cit., p. 496). In
particolare, la dottrina ha rilevato che mentre «nel contratto preliminare oggetto è l’an sit, ossia l’esistenza o
la conclusione del futuro contratto, nel contratto normativo oggetto del contratto è precisamente il modus
ossia il quomodo sit e cioè il contenuto del futuro contratto»: M. DOSSETTO, voce Contratto normativo, in
Noviss. dig. it., IV, Torino, 1968, p. 701. In questa prospettiva, appare chiaro che il controllo delle
sopravvenienze, per il quale come si è visto supra si rivela funzionale il contratto preliminare, è un
argomento non conferente rispetto alla fattispecie del contratto normativo: quest’ultimo, semmai, solleva
particolari questioni rispetto all’ambito entro il quale si possano ritenere ammissibili obblighi a contrarre di
natura convenzionale, nella misura in cui questi tendono a comprimere la libera estrinsecazione
dell’autonomia privata. Per completezza, si segnala che una particolare specie di contratto normativo è
costituita dal cosiddetto contratto-quadro (cfr., in particolare, gli artt. 126-quinques e 126-sexies tub), ossia
«il contratto d'intermediazione finanziaria che per alcuni aspetti può essere accostato alla figura del
mandato, [dal quale] derivano dunque obblighi e diritti reciproci dell'intermediario e del cliente. Le
successive operazioni che l'intermediario compie per conto del cliente, benché possano a loro volta
consistere in atti di natura negoziale, costituiscono pur sempre il momento attuativo del precedente contratto
d'intermediazione» (così Cass. civ., S.U., 19 dicembre 2007, n. 26725, cit.). Sul tema, v. anche Corte
d’appello Genova, 30 giugno 2006, n. 740, in Giur. mer., 2007, pp. 1910, nella quale si dà esplicitamente
atto che il contratto-quadro viene da taluni ascritto «alla tipologia del contratto normativo», nonché, ex
multis, F. DURANTE, Intermediari finanziari e tutela dei risparmiatori, Milano, 2009, pp. 41 ss.
97
Ciò vale sia per sia per la condizione risolutiva che per quella sospensiva, posto che «i due tipi di
condizione hanno certamente una matrice unitaria: la comune funzione di consentire alle parti di manovrare
gli effetti del contratto in relazione a eventi futuri e incerti che mettono a rischio interessi delle parti»: V.
ROPPO, Il contratto, cit., p. 571.
114
convinzione che le future circostanze del caso potrebbero essere in concreto meno
favorevoli di quelle presenti al momento della conclusione.
Sul piano empirico, va poi evidenziato che in tutte queste ipotesi – nelle quali, lo si
ribadisce, l’operatività del caso viene esclusa – la conclusione del contratto presuppone
normalmente che vi sia una obbiettiva convergenza sulla prognosi degli eventi98.
Soffermandosi ulteriormente su questa prospettiva, deve essere innanzitutto rilevato che
nei contratti aleatori la volontà dei contraenti sembra andare nella direzione
diametralmente opposta rispetto a quella sin qui illustrata.
La stipulazione di un contratto aleatorio implica infatti – e a differenza di quanto
avviene negli altri casi sopra menzionati – una obiettiva divergenza dei contraenti sulla
prognosi degli eventi99.
Più esattamente, con la conclusione di un contratto aleatorio le parti non fissano (o
meglio, fissano in modo incompleto) il contenuto del contratto proprio perché vogliono che
lo stesso venga integrato in un momento successivo dal caso: e questo accade proprio in
quanto la volontà dei singoli contraenti si forma sull’intima convinzione che le future
circostanze del caso saranno in concreto – e rispettivamente – più e meno favorevoli di
quelle presenti al momento della conclusione100.
98
Come anche verrà meglio chiarito nella nota successiva, occorre in ogni caso tener presente che quello
sulla valutazione di maggiore o minor favore delle situazioni future è chiaramente un giudizio relativo.
Tuttavia, nel caso di specie, il fatto che un accordo sia stato concluso – e, soprattutto, che sia stato stipulato
con quel contenuto – rivela che le parti abbiano concordato sulla attuale convenienza di quell’affare,
obbiettivizzandola nel contratto e assumendo di preservarla da qualsivoglia accadimento futuro: decidono,
come anche si dice nel linguaggio comune, “di prendersi il sicuro”.
99
Cfr. M. R. FERRARESE, Il diritto al presente, cit., p. 88: «non si fa fatica a capire che il “disaccordo”
tenda sempre più oggi, in un mondo veloce ed incline all’individualismo e all’utilitarismo, a percorrere
anche gli accordi contrattuali».
100
Si è detto che la valutazione di maggiore o minor favore delle future condizioni è un giudizio
intrinsecamente relativo: ad esempio, la previsione di un possibile futuro aumento dei prezzi rileverà
favorevolmente per chi vorrebbe impegnarsi oggi a vendere domani, mentre lo stesso fatto assumerà
certamente valenza negativa nei confronti di chi probabilmente riterrà di non doversi impegnare oggi ad
acquistare domani; specularmente, un possibile futuro ribasso dei prezzi solleciterà l’acquirente ad assumere
un impegno oggi per domani, mentre il venditore verosimilmente non avrà lo stesso interesse ad impegnarsi
in tal senso. Orbene, restando nell’esempio, si avrà contratto aleatorio allorquando le parti assumano
l’impegno, rispettivamente, di vendere e comprare oggi rimettendo poi la determinazione del prezzo
contrattuale – e, a seguire, la sua concreta corresponsione – a quello effettivamente presente nel mercato in
un dato momento storico: la conclusione di un accordo siffatto presuppone ovviamente che a monte le parti
abbiano una opinione divergente sull’effettivo futuro aumento o ribasso del prezzo di quel bene. Si badi che
in ogni caso l’unico fatto rilevante per il diritto sarà l’attuale accordo sulla compravendita di quel bene per
quel prezzo (che è comunque predeterminato, anche se sarà esattamente quantificabile solo ex post), a
prescindere quindi sia dalle personali valutazioni di convenienza (ad es., le previsioni sul prezzo futuro) che
115
Giova ora precisare che le personali convinzioni dei contraenti sulla prognosi degli
eventi non assumono rilevanza per l’ordinamento, sia nel caso in cui via sia una
convergenza, sia in quello in cui vi sia una divergenza in tal senso101.
Piuttosto, quel che effettivamente rileva – sia nell’ipotesi in cui il caso viene escluso
(ossia nei casi in cui vengono limitati gli effetti delle sopravvenienze), sia in quelle in cui
lo stesso viene mantenuto o creato (ossia nel caso dei contratti aleatori) – è la circostanza
secondo la quale le parti intendono fare riferimento al caso, oggettivandolo nel contratto.
In questo senso può convenirsi che «il caso è per il diritto un mezzo di riconoscimento
della realtà, e un meccanismo che ne innesca l’operatività»102.
Nel caso di specie, è l’atto negoziale il mezzo che consente all’alea di transitare dalla
sua dimensione «naturale» a quella giuridica – e, più propriamente, «contrattuale» –.
Ciò detto, deve ora rievocarsi un dato che si è anche poc’anzi appurato: l’incertezza
viene contemplata dal legislatore principalmente – e non esclusivamente – per regolare gli
effetti dell’atto103.
Questo avviene anche nelle norme codicistiche relative al contratto aleatorio, ma con
una particolarità: i profili relativi agli effetti si commistionano con quelli relativi all’atto.
Ed infatti, tutte le norme presenti nella disciplina generale del contratto che fanno
riferimento ai contratti aleatori sono norme sugli effetti che tuttavia presuppongono che un
contratto aleatorio sia appunto stato concluso.
A ben vedere, anche la norma sulla quale si deve ritenere fondato l’intero sistema dei
contratti aleatori – e ciò a differenza di quanto opinato dalla dottrina tradizionale104 –
possono aver indotto i soggetti a concludere l’accordo, sia dagli intenti che possono averli mossi (lucrare o
risparmiare sulla differenza tra il prezzo intimamente atteso e quello effettivamente corrente).
101
Oltre a quanto sarà specificato diffusamente sul punto quando si esaminerà la nozione di alea
razionale (v. infra, in questo capitolo), giova per il momento richiamare quanto affermato da M.
AMBROSOLI, La sopravvenienza contrattuale, cit., p. 25: «poiché la razionalità economica del contratto non
si determina in termini oggettivi ma dipende dalla valutazione soggettivamente espressa dal singolo
contraente, l’ordinamento ritiene di poter tutelare la parte solamente allorché vi siano indici rilevanti della
effettuazione di una valutazione viziata, non libera. In tal modo, la tutela giuridica si sposta dal momento
oggettivo della lesione, a quello soggettivo della libertà del volere».
102
S. RODOTÀ, La vita e le regole: tra diritto e non diritto, cit., p. 138.
103
Anticipando un punto che verrà comunque approfondito a tempo debito, deve sin d’ora essere tenuto
presente che l’ordinamento preclude chiaramente alle parti la possibilità di rinnegare puramente e
semplicemente la propria determinazione negoziale una volta confluita nel contratto (salvo, ovviamente, il
mutuo consenso o gli altri casi previsti dalla legge, ai sensi dell’art. 1372 c.c.); e questo principio vale anche
nel caso dei contratti aleatori, per l’eventualità in cui la previsione su un evento ontologicamente incerto si
riveli successivamente errata o, più genericamente, sconveniente per una delle parti. Più esattamente:la
conclusione di un contratto aleatorio non può evidentemente comportare la compromissione della generale
certezza dei traffici giuridici. V., infra, in questo capitolo.
116
sconta la commistione in parola: il riferimento è all’art. 1469 c.c., rubricato appunto
«contratto aleatorio», per il quale «le norme degli articoli precedenti non si applicano ai
contratti aleatori per loro natura o per volontà delle parti».
Invero, si ritiene che la disposizione appena richiamata dica più di quanto possa
apparire a prima vista.
A tal proposito, occorre in primo luogo esaminare quella parte dell’art. 1469 c.c. che
sembra fare riferimento al contratto aleatorio proprio come atto, e segnatamente quella in
cui viene fatta menzione dei «contratti aleatori per loro natura» e dei «contratti aleatori
per volontà delle parti».
Orbene, secondo l’impostazione più ricorrente, la dicotomia «contratti aleatori per loro
natura» e «contratti aleatori per volontà delle parti» sarebbe corrispondente a quella tra
«contratti aleatori tipici» e «contratti aleatori atipici»105.
Tuttavia, tale sovrapposizione non sembra affatto condivisibile.
Infatti, non tutti i contratti «aleatori per loro natura» sono tipici, dato che nella prassi è
ben possibile riscontrare la presenza di affari106 «aleatori per loro natura»107 (e tali
104
In particolare, v. F. CAPUTO NASSETTI, I contratti derivati finanziari, Milano, 2011, p. 70, il quale
rileva che «la distinzione tra contratti aleatori per natura e per volontà delle parti è ritenuta infondata e si
dimostra utile soltanto per distinguere i contratti aleatori tipici da quelli tipici».
105
V. ROPPO, Il contratto, cit., p. 424: «la legge suggerisce che un contratto può essere aleatorio o “per
sua natura” o “per volontà delle parti” (art. 1469). Nel primo caso, abbiamo contratti aleatori tipici: il
rischio giuridico-economico della prestazione caratterizza il tipo cui il contratto appartiene (assicurazione,
gioco e scommessa, rendita vitalizia). Quando l’alea dipende “dalla volontà delle parti”, abbiamo contratti
aleatori atipici: concludendo un contratto non tipicamente aleatorio, le parti modificano pattiziamente la
disciplina legale del tipo con clausole che espongono la prestazione a rischio giuridico-economico»; v.
anche F. CAPUTO NASSETTI, I contratti derivati finanziari, cit., p. 70; P. BASSO, Il diritto di abitazione,
Milano, 2007, p. 156, per il quale «non risponde al vero che l’art. 1469 c.c. ponga una dicotomia così netta
fra i contratti aleatori per natura e quelli aleatori per volontà, dovendosi, invece, piuttosto dire che la vera
distinzione delineata dalla norma citata corre fra i contratti aleatori tipici da un lato e quelli atipici od
innominati dall’altro». Diversamente, v. L. NIVARRA – V. RICCIUTO – C. SCOGNAMIGLIO, Diritto privato2,
Milano, 2013, p. 385, secondo i quali «ai contratti aleatori per loro natura (e cioè quelli intrinsecamente
caratterizzati di per sé da uno specifico elemento di rischio), devono aggiungersi quelli in cui l’alea è
riconducibile alla volontà delle parti», nonché F. GAZZONI, Manuale di diritto privato, cit., p. 832, secondo
il quale possono essere aleatori «per loro natura» anche i contratti aleatori atipici: «i contratti possono essere
aleatori per loro natura, come l’assicurazione o il contratto di mantenimento [n.d.a. che, com’è noto, è un
contratto atipico] o di vitalizio (legato alla durata della vita del vitaliziato), ovvero per volontà delle parti, le
quali possono rendere aleatorio un contratto che tale non sarebbe». Sul contratto di mantenimento, v. in
particolare la recente pronuncia Cass. civ., Sez. VI, 5 marzo 2015, n. 4533, secondo la quale «il contratto
atipico di mantenimento è caratterizzato dall'aleatorietà, addirittura più accentuata rispetto al contratto di
rendita vitalizia configurato dall'art. 1372 c.c., in quanto le prestazioni non sono predeterminate nel loro
ammontare, ma variano, giorno per giorno, secondo i bisogni».
106
È appena il caso di rilevare che il nostro codice civile contempla la distinzione tra affare e contratto
ed, in certi casi, le riconosce rilevanza giuridica: si pensi ad esempio all’art. 1755 c.c., relativo alla disciplina
117
sarebbero, tra gli altri, proprio i contratti derivati)108; per altro verso, non tutti i contratti
aleatori «per volontà delle parti» sono necessariamente atipici (si pensi, ad esempio, ad
una vendita «di cosa sperata» con corrispettivo «a corpo»)109.
della provvigione del mediatore, che al comma 1 prevede che «il mediatore ha diritto alla provvigione da
ciascuna delle parti, se l’affare è concluso per effetto del suo intervento». La giurisprudenza ha al riguardo
chiarito che «il diritto alla provvigione da parte del mediatore consegue non alla conclusione del negozio
giuridico, ma dell’affare, inteso come qualsiasi operazione di natura economica generatrice di un rapporto
obbligatorio tra le parti, anche se articolatasi in una concatenazione di più atti strumentali, purché diretti
nel loro complesso a realizzare un unico interesse economico, anche se con pluralità di soggetti»: Cass. civ.,
Sez. II, 25 ottobre 2010, n. 21839; v. anche Cass. civ., Sez. III, 11 dicembre 2002, n. 17628: «il concetto di
affare deve essere inteso in senso estensivo, si da renderlo riferibile non solo a tutte le situazioni in cui
l’affare intermediato sia costituito da un solo contratto o da una pluralità di negozi tra loro collegati e
diretti a realizzare un unico interesse economico, ma anche da qualsiasi operazione di natura economica
che si risolva in un’utilità patrimoniale, prodotta attraverso strumenti giuridici»; in senso difforme, v. Cass.
civ., Sez. III, 12 aprile 2005, n. 7519, in Riv. giur. sarda, 2007, II, pp. 328 ss., con nota di CICERO: «il diritto
alla provvigione di cui all'art. 1754 c.c. sorge quando possa ritenersi concluso un affare, che, nel linguaggio
comune, è l'equivalente del contratto, anche se il legislatore ha voluto utilizzare l'espressione “affare” in
contrapposizione a “contratto”; pertanto, un affare può ritenersi concluso quando si verificano gli estremi
di cui all'art. 1321 c.c., e cioè quando sia stato concluso un contratto che presenti i requisiti essenziali per la
sua validità». In dottrina, v., ex multis, E. GIACOBBE, La mediazione, in I contratti di collaborazione, a cura
di P. Sirena, Torino, 2011, p. 626, secondo la quale «affare e contratto non sono assunti dal legislatore come
sinonimi» e «l’affare non necessariamente possa ritenersi concluso allorché si sia concluso un contratto».
107
In particolare, come si è già avuto modo di rilevare e come pure verrà precisato nel prosieguo, nei
contratti «aleatori per loro natura» atipici rileverebbe la mera circostanza per cui sono le parti a decidere di
contrattualizzare il caso, a prescindere quindi dalla ragione per cui lo fanno.
108
I contratti derivati, infatti, non potrebbero essere qualificati diversamente: infatti, a prescindere da
quanto si è sin’ora illustrato e da quanto ulteriormente si rileverà, è noto che «il prezzo di un bene finanziario
(indice azionario, tasso di cambio, ecc.) è una funzione del tempo. Tuttavia, la natura di quest’ultima è
manifestamente aleatoria, dal momento che non c’è alcun modo per predire l’andamento futuro del titolo
per mezzo dell’informazione attualmente disponibile»: così F. RINALDI – S. FASSARI, Easy Call/Put. Guida
all'analisi tecnica dei derivati finanziari e relative applicazioni in Visual C++, Roma, 2007, p. 39. In
dottrina sono rari i contributi che affrontano specificamente il profilo della essenziale aleatorietà dei derivati:
cfr. al riguardo F. RIOLO, L’euro: aspetti giuridici ed economici. Effetti sulla disciplina dei contratti, impatto
sui mercati bancari e finanziari, Milano, 1997, p. 118: «nessun dubbio che i contratti derivati in oggetto
siano per loro natura aleatori»; M. LEMBO, La rinegoziazione dei contratti derivati. Problematiche
giuridiche, in Nuovo dir., 2007, p. 511: «senza alea non si ha un derivato»; R. CAFARO – A. TANZA, Le tutele
nei rapporti con la banca. Risparmio e investimenti, anatocismo, usura, obbligazioni, prodotti derivati,
Matelica, 2006, p. 130, per i quali il contratto di swap sarebbe «aleatorio tanto “per sua natura”, quanto
“per volontà delle parti” (art. 1469 c.c.), infatti, nei modelli contrattuali utilizzati più di frequente è sempre
riportata la clausola, secondo cui le parti riconoscono e dichiarano che “questo è un contratto aleatorio”
oppure “ le parti si danno reciprocamente atto della natura aleatoria del presente contratto”. Tale clausola
(con la quale le parti stabiliscono l’aleatorietà del contratto di swap) non ha in questo caso la funzione,
tradizionalmente affidata a pattuizioni di questo genere, di attribuire convenzionalmente natura aleatoria, o,
meglio ancora, di stabilire l’applicabilità della disciplina sull’alea ad un contratto, che non sarebbe di per
sé aleatorio; bensì, alla suddetta clausola dovranno attribuirsi funzione e valore prevalentemente
interpretativo, utile per ricostruire il livello di consapevolezza delle parti in ordine ai rischi connessi
all’attuazione del contratto»; v. anche F. VITELLI, Contratti derivati e tutela dell’acquirente, Torino, 2013,
p. 110: «se si considerano tutti i contratti di borsa e, dunque, anche i contratti di swap, quali contratti
118
L’assunto sarebbe peraltro suffragato anche dalla stessa Relazione al codice civile del
1942, il quale discorre di contratto «essenzialmente o convenzionalmente aleatorio»:
«essenzialmente», appunto, e non già tipicamente aleatorio110.
aleatori per loro natura, si deve escludere che esistano dei contratti sia con un’alea convenzionale implicita,
sia contratti commutativi con un’alea normale illimitata; viceversa, se si considerano i contratti di borsa
come contratti commutativi, in cui è presente un rischio economico molto elevato, in tal caso sarà necessario
considerare i contratti di swap quali contratti commutativi ad alea normale illimitata, sempre che non siano
preordinati a scopi meramente speculativi in considerazione anche di quanto presente nel regolamento di
interessi predisposto dalle parti».
109
Cfr. Cass. civ., Sez. II, 15 giugno 1988, n. 4094: «la vendita di massa di cose future (nella specie:
frutti naturali) quando il corrispettivo sia determinato a corpo ha carattere aleatorio e configura “emptio
rei speratae”»; v., amplius, infra, in questo capitolo.
110
V. Relazione al codice civile del 1942, n. 665. Deve essere osservato che una tale scelta non appare
incoerente con il contesto economico-finanziario di quell’epoca: «sia prima che dopo la grande crisi, il
fascismo non ebbe un programma economico univoco e ben definito negli obiettivi e nei mezzi, se non quello
di porre al centro l’azione politica e lo Stato, specialmente quando i mercati fallivano nel loro compito di
regolare l’economia. Fascismi e altre esperienze totalitarie, insieme alle stesse economie liberali dovettero
trovare risposte proprio a quei fallimenti. Nel fascismo italiano il modo di intendere la politica economica fu
quello di contrapporla all’economia liberale di mercati autoregolantisi, ma senza per questo ledere i diritti
di proprietà, se non come ultima ratio. Per questo perseguì una terza via, tra mercato e collettivizzazione, e
il corporativismo ne fu l’espressione più conseguente in politica economica. L’economia corporativa era
intesa come un’alternativa all’economia di mercato […]. Scopo economico principale dello Stato
corporativo era intervenire sui prezzi rimpiazzando i prezzi di mercato, formati da interessi contrapposti e in
concorrenza (“perfetta”, quale conditio sine qua non per raggiungere risultati di “benessere”), con una
negoziazione di prezzo, sui singoli mercati, tra le categorie dei produttori, degli intermediari e (in teoria
anche) dei consumatori, tenendo conto dell’“interesse generale”, interpretato dallo Stato-nazione.
Quest’ultimo (e, per delega, la corporazione settoriale) interveniva come supervisore, mediatore e garante
affinché la volontà espressa tra i gruppi convergesse con l’interesse generale»; tuttavia, «al di là dei
proclami e dei richiami allo spirito corporativo […], le politiche […] messe in atto non furono diverse da
quelle emerse in altre economie rispettose, in linea di principio, dell’autonomia dei mercati e dei soggetti
che vi intervenivano» (così G. CONTI – A. POLSI, Elites bancarie durante il fascismo tra economia regolata
ed autonomia, Discussion Papers del Dipartimento di Scienze Economiche – Università di Pisa, 2003, n. 27,
pp. 47-49, consultabile all’indirizzo http://www-dse.ec.unipi.it/ricerca/discussion-papers.htm). Da un punto
di vista più strettamente ideologico, inoltre, il fatto che il legislatore del 1942 abbia, inter alia, riconosciuto
l’esistenza di contratti essenzialmente aleatori – senza tuttavia al contempo procedere a una loro
generalizzata e preventiva tipizzazione – risulterebbe in linea con la dichiarata intenzione di voler superare il
cosiddetto determinismo economico («neghiamo che esistano due classi, perché ne esistono molte di più;
neghiamo che si possa spiegare tutta la storia umana col determinismo economico»: così Benito Mussolini
nel suo primo discorso alla Camera del 21 giugno 1921), concetto teorizzato da Karl Marx nel 1859
nell’opera «Per la critica dell’economia politica» («nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini
entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che
corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali. L'insieme di questi
rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si
eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza
sociale. Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e
spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro
essere sociale che determina la loro coscienza»). Così, tenendo a mente il contesto appena descritto, il
legislatore del 1942, riferendosi esplicitamente ai «contratti essenzialmente aleatori», avrebbe riconosciuto e
119
La precisazione non è priva di risvolti logico-ermeneutici: infatti ciò dimostrerebbe
innanzitutto che la categoria del «contratto aleatorio» sarebbe preesistente ed autonoma
rispetto a quella di «tipo contrattuale»; in secondo luogo, confermerebbe che l’aleatorietà
del contratto sarebbe a sua volta un prius rispetto alla funzione svolta dal medesimo.
In definitiva, anticipando la conclusione del ragionamento, dall’analisi sistematica
dell’art. 1469 c.c. emergerebbe che:
1) i contratti aleatori costituiscono una «categoria generale» fondata su un fatto,
ossia quello per il quale le parti decidono di integrare le loro determinazioni con il
caso, e non già un «tipo contrattuale» costruito intorno al concetto di funzione
(«astratta» o «concreta» che sia)111;
2) la causa non è l’elemento tipizzante dei contratti che rientrano nel genus dei
contratti aleatori (e tantomeno lo è per i contratti derivati)112.
ammesso che l’economia possa anche avere una relazione con il caso; ma quello stesso legislatore sembra
essere consapevole del fatto questa scelta non sia di per sé stessa ontologicamente compatibile con
un’aprioristica giuridicizzazione delle infinite e indefinibili fattispecie nelle quali il caso stesso è chiamato ad
operare. Ciò è stato possibile solo rispetto ad alcune specifiche fattispecie e in relazione ad alcune particolari
funzioni (ossia: l’assicurazione, le scommesse sportive e le lotterie autorizzate); per quanto invece riguarda le
altre infinite e indefinite fattispecie «essenzialmente aleatorie» che pure possono essere concretamente poste
in essere viene lasciata aperta innanzitutto la possibilità che le stesse possano assumere rilevanza per
l’ordinamento, rinviando necessariamente ad un momento successivo il giudizio sulla meritevolezza delle
medesime.
111
Sulle differenze tra «categoria» e «tipo» contrattuale cfr. E. GABRIELLI, Contratto e contratti. Scritti,
Torino, 2011, p. 373, il quale, rispetto ai contratti del consumatore, osserva che questi «non costituiscono un
tipo contrattuale autonomo, bensì una categoria (comprensiva di più tipi contrattuali) identificata sulla base
delle qualità personali dei contraenti (professionista e consumatore) esclusivamente allo scopo di realizzare
un controllo sostanziale sul contenuto del contratto (qualsiasi contratto, purché concluso tra un
“professionista” e un “consumatore”) affinché l’assetto di interessi risulti equo. La “categoria” opererebbe
dunque su un piano qualitativamente diverso dal “tipo”, essendo elaborata per disciplinare in maniera
uniforme più fattispecie contrattuali sulla base della esigenza strumentale, di proteggere una parte presunta
debole,e finale di correggere situazioni di fallimento del mercato. La “categoria” comprende diversi tipi
contrattuali non altrimenti accomunati che da elementi, non già tipologici in senso stretto, bensì meramente
fattuali e occasionali, come le qualità delle parti (ad es. consumatore e professionista), la tipologia di
rapporto economico (ad es., di subfornitura) o di mercato (ad. es., quello finanziario). Così definita, dunque,
la “categoria” non fonda tipi contrattuali, ma si propone di disciplinare trasversalmente il fenomeno
contrattuale, analogamente a quanto avviene per la parte generale sui contratti, con l’avvertenza però che il
suo ambito risulta circoscritto (e più o meno ampio) secondo i criteri anzidetti e che le sue finalità sono
“tipiche” nel senso sopra precisato […]. La categoria è indifferente al tipo e sensibile invece all’operazione
economica e al suo concreto atteggiarsi, a prescindere da quale ne sia la formalizzazione giuridica».
112
Secondo C. M. BIANCA, Il contratto, cit., pp. 473-476, «la qualificazione del contratto è
principalmente quella che lo assegna ad un determinato tipo contrattuale. Questa qualificazione procede in
base alla causa concreta del contratto […]. Ai fini della qualificazione del contratto è certo essenziale ciò
che le parti stabiliscono, ma il contenuto del contratto è importante in quanto concorre a rilevare qual è
l’interesse effettivamente perseguito dalle parti. Ciò che in definitiva occorre vedere è se tale interesse
120
Le due questioni, evidentemente connesse, meritano di essere approfondite.
2.1.3. I contratti «aleatori per natura» (o «essenzialmente aleatori»).
Giova proseguire l’indagine evocando un dato noto e incontestabile: le fattispecie
«aleatorie per natura» e tipiche sono quella dell’assicurazione, quella della rendita
vitalizia, quella del gioco e della scommessa.
Orbene, per quanto riguarda la fattispecie del giuoco e della scommessa, si è già
accennato – e verrà ulteriormente precisato a suo tempo – come sia fortemente dubitabile
che il criterio funzionale abbia ispirato il legislatore per la sua tipizzazione: gli artt. 19331935 c.c., infatti, contengono norme che definiscono il perimetro di rilevanza del
fenomeno ludico, al di là quindi di qualsiasi preventiva valutazione legale in termini di
meritevolezza113.
corrisponde o meno ad uno degli interessi negoziali tipici»; tuttavia, l’Autore dà atto che «in dottrina non è
pacifico che la qualificazione tipologica dei contratti nell’ambito delle varie figure contrattuali debba
senz’altro procedere in base alla causa» e, tra i vari argomenti contrari all’adozione della causa quale
criterio tipizzante, richiama quello per il quale «i criteri utilizzati dal legislatore per tipizzare i contratti sono
discontinui ed eterogenei, e che non solo la causa ma anche altri elementi appaiono di volta in volta
rilevanti al fine di distinguere una figura tipica dall’altra (qualità dei soggetti, natura della prestazione,
etc.)», replicando al riguardo che in ogni caso questi «altri elementi» acquisterebbero rilevanza «in quanto
essa si riflette sulla funzione dell’operazione, e cioè in quanto incide sulla causa». Invero, si ritiene di dover
aderire a quell’altra parte della dottrina che muove dall’assunto per cui «il profilo della causa non riguarda,
almeno direttamente, il metodo, in uso presso gli ordinamenti, di procedere ad una ricostruzione tipologica,
più o meno esauriente e rigorosa, dei singoli atti negoziali (massimamente dei contratti)» (A. DI MAJO,
Causa del negozio giuridico, in Enc. Giur. Treccani, VI, Roma, 1990, p. 1) e che «il concetto di causa,
riferito al negozio giuridico, ha finito per essere spesso utilizzato per uno scopo estraneo a quello
tradizionale, ovverosia per indagare le ragioni e i limiti dell’autonomia privata» (M. GIORGIANNI, voce
Causa (dir. priv.), in Enc. dir., VI, 1960, pp. 573 ss.), per poi concludere che «il tipo è connotato da elementi
caratterizzanti, quali la qualità delle parti, la natura del bene oggetto del contratto, la natura della
prestazione, il fattore tempo, il modo di perfezionamento, che convergono in un processo di aggregazione
funzionale, partendo dalla prassi, a disciplinare le varie tipologie di schemi contrattuali, corrispondenti a
modelli di operazione economica, messi dall’ordinamento a disposizione delle parti: la causa non è, dunque,
l’unico elemento tipizzante» (così R. ROLLI, Causa in astratto e causa in concreto, Padova, 2008, p. 61, la
quale richiama – tra gli altri – G. De Nova, Il tipo contrattuale, Padova, 1974, pp. 84 ss. e V. ROPPO, Il
contratto, cit., pp. 397 ss.).
113
Si vedrà inoltre che tale assunto risulta confermato anche per le scommesse sportive e per le lotterie
autorizzate, nelle quali la meritevolezza consegue ad un elemento esterno alla struttura propria dell’atto:
l’autorizzazione. Al riguardo, cfr. E. BETTI, Teoria Generale del negozio giuridico, cit., p. 247, il quale,
rispetto ai contratti cosiddetti «futili», afferma: «è ovvio che un regime intento a potenziare le energie e
iniziative individuali e a tutelare l’incremento della produzione collettiva deve essere portato a considerare
simili contratti – anche se non immorali nel senso di urtare contro i buoni costumi – siccome immeritevole
della tutela giuridica». Sul punto, v. infra, in questo capitolo.
121
Il riferimento al criterio funzionale sembra inoltre essere inconferente anche rispetto
alla tipizzazione della rendita vitalizia114: gli artt. 1872-1881 ss. c.c., infatti, non
disciplinano un contratto, ma piuttosto un rapporto che può originare da qualunque titolo
(alienazione di un bene mobile o immobile, cessione di capitale, donazione, testamento,
legge, sentenza e così via)115.
In questa prospettiva, la dottrina ha rilevato che «il più preciso significato della tipicità
del rapporto di rendita vitalizia consiste, dunque, nella circostanza che, nonostante la
diversità della più ampia situazione effettuale alla quale appartiene, il rapporto, in sé
considerato, ha una disciplina elementare costante che lo caratterizza come rapporto
tipico in senso proprio»116.
La tipicità del rapporto di rendita vitalizia, pertanto, risiederebbe nella specialità della
sua stessa disciplina siccome modulata intorno alla presenza di uno specifico elemento
aleatorio: la durata della vita della persona contemplata117.
114
Cfr. anche la Relazione al codice civile del 1942, al n. 747: «è da rilevare inoltre che nell’art. 1876 si
è mantenuto il concetto fondamentale, che il vitalizio è essenzialmente un contratto aleatorio; onde se ne è
comminata la nullità (in senso assoluto, secondo la terminologia accolta nell’art. 1418) quando la
costituzione della rendita si riferisce alla vita di persona già defunta al tempo del contratto».
115
«La tipicità del rapporto di rendita non esclude, comunque, come viene espressamente confermato
dall’art. 1872, 2 comma, l’applicabilità concorrente della disciplina fissata per le singole fonti costitutive
del rapporto: testamento, donazione, contratto, ecc., la quale, dunque, non manca di riflettersi nel più ampio
contesto effettuale nel quale il rapporto di rendita viene inserito. Così solo la rendita gratuita sarà soggetta
alla revocazione o all’azione di riduzione, mentre appare limitata al vitalizio oneroso la risoluzione di cui
all’art. 1877 c.c.»: A. MARINI, La rendita perpetua e la rendita vitalizia, in Trattato di diritto privato, diretto
da P. Rescigno, XIII, Torino 1985, pp. 30-31. Sulla rendita vitalizia come rapporto v., ex multis, A.
LUMINOSO, I contratti tipici e atipici, in Trattato di diritto privato, diretto da G. Iudica e P. Zatti, Milano,
1995, p. 324.
116
A. MARINI, La rendita perpetua e la rendita vitalizia, cit., p. 31. L’Autore, tuttavia, a pag. 44 dell’op.
cit. pare sovrapporre i concetti di categoria con quella di tipo, quando afferma che «l’alea, costituendo un
elemento caratterizzante una categoria negoziale tipica non può non riflettersi sulla validità del singolo
negozio, ricompreso in quella categoria, nel senso che la sua mancanza, comportando necessariamente
l’assenza della funzione atta a caratterizzare il tipo, determina la nullità del negozio», aderendo così
all’impostazione di A. GAMBINO, L’assicurazione nella teoria dei contratti aleatori, cit., p. 246, nota 15, per
il quale – come si è già segnalato supra – occorre individuare l’elemento funzionale che, accanto al dato
strutturale, connoterebbe la categoria negoziale. Critico rispetto a questa impostazione è invece U. PERFETTI,
Contratto innominato di mantenimento e divieto di risoluzione ex art. 1878 c.c., in Dir. giur., 1978, p. 518, il
quale sostiene che «all’unica categoria di contratti aleatori appartengono più tipi, tutti legati dal comune
rilievo dell’elemento dell’alea, e quindi quest’ultima non può valere a distinguere l’uno dall’altro». In
realtà, deve ritenersi che l’istituto della rendita vitalizia venga invocato dalle parti per disciplinare in modo
speciale un rapporto che trova la sua principale ragion d’essere in un atto avente già una sua funzione
propria.
117
La cosiddetta vita contemplata (cfr. art. 1873 c.c.) può essere quella del beneficiario della rendita, del
suo debitore o anche di un terzo estraneo al rapporto: si tratta di un termine «indirettamente determinato»
(così A. MARINI, La rendita perpetua e la rendita vitalizia, cit., p. 31), in quanto la durata in vita di una
122
In questo senso, è illuminante il confronto con l’altra figura tipica di rendita, quella
perpetua – ossia non correlata ad alcun evento né futuro né incerto118 – che appunto
aleatoria non è119; tant’è vero che questa, a differenza di quella vitalizia, è tra le altre cose
redimibile120.
persona è certa nell’an ma incerta nel quando. Sembra opportuno precisare quanto affermato nel testo. In
particolare, si rileva che il fatto che le parti abbiano voluto specializzare la complessiva operazione
contrattuale facendo riferimento alla disciplina legale della rendita vitalizia – e, in particolare, al suo
elemento aleatorio (tipico) – ben può comportare che qualora tale elemento si riveli effettivamente inidoneo
a rendere aleatorio il contratto lo stesso venga dichiarato nullo; la giurisprudenza, a tal proposito, discorre
genericamente di nullità per difetto di alea (v., ex multis, Cass. civ., Sez. II, 28 aprile 2008, n. 10798 e Cass.
civ., Sez. II, 12 ottobre 2005, n. 19763). Invero, si osserva ulteriormente che la nullità riguarda propriamente
l’atto, il quale non potrà assolvere la funzione concreta per la quale è stato concepito (si pensi, ad esempio, al
caso di una rendita vitalizia convenuta nell’ambito di un trasferimento immobiliare, nell’ambito della quale
emerga che sin dal momento della stipulazione era prevedibile una obiettiva equivalenza tra il valore
dell’immobile ceduto dal vitaliziato e la prestazione dovuta dal vitaliziante in ragione dell’età avanzata del
vitaliziato medesimo); a sua volta, tale difetto funzionale dipenderà da una carenza nella fattispecie del
rapporto così come è stato tipizzato dal legislatore, impedendogli in tal modo di esplicare i suoi effetti
specializzanti. Ma questo, evidentemente, non significa che la rendita vitalizia abbia una propria “causa
aleatoria”; anzi, confermerebbe che le ragioni della sua tipicità vadano cercate altrove, e segnatamente
nell’elemento aleatorio consistente nella cosiddetta «vita contemplata». In altri termini, si avrà rendita
vitalizia quando le parti intendono specializzare un rapporto in senso aleatorio mediante l’esplicito
riferimento all’evento «vita».
118
«Perpetuità vuol dire soltanto che il diritto ed il corrispondente obbligo alle prestazioni periodiche
non sono soggetti ad alcun termine finale»: così E. SCUTO, voce Rendita perpetua, in Noviss. Dig. it., XV,
Torino, 1957, p. 448. È appena il caso di segnalare che il problema ermeneutico posto dalla «perpetuità»
riguarda l’identificazione di eventuali criteri utili per distinguerla concettualmente da un «rapporto a tempo
indeterminato»: al riguardo, v. A. MARINI, La rendita perpetua e la rendita vitalizia, cit., p. 8.
119
Cfr., tra i tanti, F. GAZZONI, Manuale di diritto privato, cit., p. 1239: «il codice civile disciplina agli
artt. 1861 ss. due diversi tipi di rendita: quella perpetua e quella vitalizia. Solo quest’ultima ha carattere
aleatorio, essendo collegata alla durata della vita di chi gode la rendita»; F. CARINGELLA – G. DE MARZO ,
Manuale di diritto civile, cit., p. 1359: «la rendita vitalizia, a differenza di quella perpetua, ha carattere
aleatorio, in quanto il vitaliziante è obbligato all’esecuzione della prestazione convenuta fino al decesso
della persona o delle persone contemplate, il che rende incerta la durata del rapporto e la misura
complessiva della prestazione, determinandone appunto l’aleatorietà».
120
Più esattamente, e per quel che qui rileva, l’art. 1879 c.c. stabilisce per la rendita vitalizia il «divieto di
riscatto» nei seguenti termini: «il debitore della rendita, salvo patto contrario, non può liberarsi dal
pagamento della rendita»; diversamente, l’art. 1865 c.c. prevede che «la rendita perpetua è redimibile a
volontà del debitore, nonostante qualunque convenzione contraria». Tale diversità riposa sul diverso ruolo
svolto dal fattore tempo nelle due fattispecie: nella rendita vitalizia, infatti, le parti vogliono subordinare
l’entità delle loro prestazioni ad un evento futuro e incerto (la durata della vita di una persona), sicché il
legislatore – come anche meglio verrà appurato in seguito – suggella tale accordo in modo che l’efficacia
dello stesso non possa venire compromessa ex post dalla parte a discapito della quale si verifichi l’evento
(pur lasciando aperta la possibilità di una pattuizione in tal senso); nella rendita perpetua, invece, «la
funzione del tempo è relativa alla soddisfazione continuativa di un bisogno durevole» (A. MARINI, La
rendita perpetua e la rendita vitalizia, cit., p. 13), ma ciò non può andare a totale detrimento del principio
della inammissibilità dei vincoli perpetui, considerato un principio di ordine pubblico – e quindi
indisponibile: da ciò l’irrilevanza di «qualunque convenzione contraria» – (così F. CARINGELLA – G. DE
123
È invece verosimile che il criterio funzionale abbia guidato il legislatore per la
tipizzazione dell’unica fattispecie «essenzialmente» aleatoria avente sicuramente natura
contrattuale: il riferimento è al contratto di assicurazione (artt. 1882 ss. c.c.), il quale viene
reputato ex lege idoneo ad assolvere la funzione indennitaria (nell’assicurazione contro i
danni: artt. 1904-1918 c.c.)121 o quella previdenziale (assicurazione sulla vita: artt. 19191927 c.c.)122.
Il quadro appena descritto costituirebbe una prima chiara conferma del fatto che rispetto
alla categoria generale del contratto aleatorio la funzione sarebbe un quid pluris: questa,
infatti, viene deliberatamente123 assegnata dal legislatore ad un contratto che è già di per sé
– in quanto lo è «essenzialmente», ossia «per sua natura» – aleatorio.
Peraltro, un’ulteriore riprova del fatto che il concetto di aleatorietà prescinda
integralmente dall’identificazione di una aprioristica funzione la si rinviene proprio
nell’origine storica del fenomeno assicurativo: in particolare, Autorevole dottrina ha
MARZO , Manuale di diritto civile, cit., p. 1359; tale opinione è invero rinvenibile già nel pensiero F.
CARNELUTTI, Del licenziamento nella locazione d’opere a tempo indeterminato, in Riv. dir. comm, 1911, I,
pp. 378 ss., per il quale «[costituisce] esigenza di ordine pubblico di ogni moderno legislatore quella di
evitare la perpetuità dei vincoli obbligatori, o, che è lo stesso, di salvaguardare la libertà dei singoli e la
circolabilità dei beni dalla compressione che subirebbero ove i rapporti durevoli cui non sia apposto un
termine finale fossero risolubili unicamente per mutuo dissenso o per le cause di cui al libro IV, titolo II,
capo XIV [del codice civile]». Negli stessi termini, v. anche F. GALGANO, Diritto privato, Padova, 1985, pp.
304 ss., nonché M. F. HERCOLANI, La durata delle obbligazioni di origine volontaria e la libertà del
debitore, Padova, 2009, pp. 67 ss., per il quale il principio della inammissibilità dei vincoli perpetui sarebbe
posto a presidio della libertà economica; sul principio de quo vedi però infra, in questo capitolo). Per mera
completezza, si segnala che l’art. 1879 c.c. sempre in tema di rendita vitalizia prevede al comma 2 che il
debitore della rendita «è tenuto a pagare la rendita per tutto il tempo per il quale è stata costituita, per
quanto gravosa sia divenuta la sua prestazione»; al riguardo, deve essere precisato che risoluzione del
vitalizio oneroso (prevista dall’art. 1877 c.c.) viene ammessa non già in ragione della sopravvenienza una
eccessiva onerosità (esclusa dalla natura aleatoria del rapporto e dall’art. 1879 cit.), ma in quanto il
promittente «non dà o diminuisce le garanzie pattuite» al creditore (cfr. Cass. civ., Sez. II, 21 ottobre 1956,
n. 3406).
121
V., ex multis, L. FARENGA, Diritto delle assicurazioni private4, Torino, 2015, pp. 151 ss., per il quale
«la funzione indennitaria può rappresentarsi nell’obbligo dell’assicuratore di pagare un’indennità solo se si
verificherà il sinistro dedotto in contratto e solo nell’effettiva misura del danno patrimoniale conseguente al
sinistro».
122
Tra i tanti, cfr. G. ROJAS ELGUETA, Il contratto di assicurazione, in Diritto civile, diretto da N. Lipari
e P. Rescigno, coordinato da A. Zoppini, vol. III (Obbligazioni), tomo III (I contratti), Milano, 2009, pp.
1000 ss., il quale rileva che la funzione assolta dal contratto di assicurazione sulla vita «non è, come per la
assicurazione contro i danni, quella indennitaria, ma è quella di garantire a sé stessi o ad altri una somma o
una rendita al momento della sopravvenienza o della morte»
123
Cfr. però quel fenomeno per il quale «il contratto si fa prassi; la prassi genera l’uso; e l’uso crea la
norma»: V. ROPPO, Il contratto del duemila, cit., p. 6; v. supra, Cap. I, § 2.2.3. Sicché sarebbero innanzitutto
le parti ad assegnare una funzione pratica ai contratti: il problema, però, è proprio quello di riuscire ad
interpretare correttamente la prassi al fine di poter cogliere esattamente quale sia tale funzione.
124
osservato che «l’assicurazione ancora imperfetta e la scommessa si svolgevano insieme
dapprima confuse, poi sempre meglio distinte […]. Innanzi allo spettacolo delle frodi, il
mercante colse e rilevò l’ufficio proprio e morale dell’assicurazione, l’ufficio di
risarcimento […] le prime ordinanze dimostrano questa confusione di origine [e la
dottrina] ne ha subìto per molti secoli l’influenza; gli scrittori trattarono dapprima insieme
della scommessa e dell’assicurazione, poi dissero di questa in disparte, come di una
specie distinta; infine si tramandarono la stessa questione, divenuta oziosa con l’andare
del tempo, se l’una avesse la natura dell’altra»124.
I sostenitori dell’orientamento storico-giuridico prevalente precisano inoltre che «sotto
il profilo strutturale e finché fu praticata sporadicamente, l’assicurazione presentava
un’alea non diversa dalla scommessa»125, distinguendosi le due fattispecie appunto solo
per il profilo funzionale, emerso comunque in un secondo momento126.
Le conseguenze della suddetta analisi sono tanto inequivocabili quanto dirompenti.
In primo luogo, accettando le argomentazioni appena esposte, si dovrebbe concludere
nel senso che l’alea sia in realtà un concetto pregiuridico127 – non già, come pure sostenuto
124
In questi termini C. VIVANTE, Il contratto di assicurazione, Vol. I, Le assicurazioni terrestri, Milano–
Napoli–Pisa, 1885, p. 8; in parte contrario E. BENSA, Il contratto di assicurazione nel medioevo, Genova,
1884, pp. 123 ss., il quale in un primo momento afferma che l’assicurazione «aveva avuto campo di crescere
ed ingagliardirsi e diffondersi nel commercio, senza che la mala pianta della scommessa venisse ad
intristirla sotto le sembianze di aiutarne ed accrescerne lo sviluppo», salvo poi ammettere che «niun dubbio
che le scommesse avranno contribuito ad accrescerne il numero, ma dopo che il contratto già aveva
raggiunto larghissima diffusione, fondata sulla persuasione della sua utilità». Per una ricostruzione più
puntuale della questione, v. A. LA TORRE, Cinquant’anni col diritto (saggi), Vol. II – diritto delle
assicurazioni, Milano, 2008, pp. 101 ss., nonché S. VERNIZZI, Il rischio putativo, Milano, 2010, pp. 1 ss.
125
A. LA TORRE, voce Assicurazione, in Enc. dir., Annali, I, Milano, 2007, p. 124.
126
A. LA TORRE, voce Assicurazione, cit., p. 124, nota n. 243, rileva ulteriormente che «nell’interesse
assecurari risiede l’elemento che segna il più netto discrimine. Si consideri che il rischio è artificialmente
creato nella scommessa: se non si scommette, l’evento futuro e incerto contemplato dalle parti sarebbe per
loro indifferente; nell’assicurazione, invece, il rischio incombe realmente su una delle parti, preesiste alla
stipula del contratto e riguarda un evento sempre dannoso, le cui conseguenze economiche vengono appunto
stornate da chi le subisce (assicurato) a colui che se le accolla (assicuratore). L’esistenza di un “interesse
assicurabile”, oggi conclamato dall’art. 1904 c.c., è richiesto a presidio del principio indennitario, in forza
del quale l’assicurazione deve avere una funzione di “risarcimento” e non può essere un pretesto di
“arricchimento”». Giova segnalare che la locuzione «interesse assecurari» compare in un passaggio
contenuto nel Discursus legales de commercio di Giuseppe Lorenzo Maria Casaregis (1670-1737): «aut
sumus in contractu verae assecurationis, tunc requiritur de substantia illius dominium seu interesse
assecurari»
127
«Il pregiuridico consiste nell’humus sociale, etico, psicologico, sentimentale, economico entro il
quale si sviluppa il giuridico, da cui quest’ultimo trae forza e spinte propulsive, modellandosi su di esso e
assumendo forme che possono essere le più diverse e mutevoli»: S. CASTIGNONE – L. LOMBARDI VALLAURI,
Introduzione, in La questione animale, a cura di Id., in Trattato di biodiritto, diretto da S. Rodotà e P. Zatti,
Milano, 2012, p. XLIX; sul punto, v. anche A. LUPOI, L’interposizione finanziaria, Milano, 2008, p. 142:
125
da alcuni Autori, metagiuridico128 –, ossia un fatto che esiste appunto in rerum natura e
che ben può essere recepito dal mondo degli affari per il tramite di un’attività umana (id
est la negoziazione), confluendo così in un atto129:
In secondo luogo, fermo restando che il contratto o è aleatorio o non lo è a prescindere
dalla sua funzione, non sarebbe azzardato distinguere tra «contratti aleatori
funzionalizzati» (o «causali») e «contratti aleatori non funzionalizzati» (o «astratti»):
nella prima classificazione andrebbero utilmente collocati i contratti aleatori nei quali la
funzione del contratto è stata tipizzata dal legislatore o anche dichiarata dalle parti, mentre
nella seconda sarebbero da ricondurvi quelli nei quali sarebbe riscontrabile una astrazione
sostanziale relativa, nel senso che una causa vi è ma la stessa non viene dichiarata130.
2.1.4. I contratti «aleatori per volontà delle parti».
Deve ora essere ulteriormente osservato che l’approccio ermeneutico che qui si propone
non sarebbe affatto smentito – ma anzi troverebbe conferma – anche rispetto alla seconda
fattispecie menzionata dall’art. 1469 c.c., ossia quella dei contratti aleatori «per volontà
delle parti»; anzi, tale ulteriore ipotesi offre l’occasione per meglio chiarire il significato
del concetto di «alea naturale».
«una situazione pre-giuridica tende a sfuggire al diritto anche quando il diritto inizia ad occuparsene;
questa difficoltà è un aspetto immanente a qualsiasi dato pre-giuridico, infatti in quanto tale esso trova le
proprie radici in aspetti culturali e sociali che dal diritto non solo prescindono, ma devono prescindere».
128
Cfr. A. PINO, Rischio ed alea nel contratto di assicurazione, in Riv. ass., 1960, I, p. 260, e E.
GABRIELLI, L’eccessiva onerosità sopravvenuta, cit., p. 18. Il termine «metagiuridico», significa, in senso
lato, «“posto al di fuori del diritto”, “estraneo al diritto”, e si può applicare, quindi, a tutto ciò che non
rientra per qualche verso nel diritto»: così E. DI ROBILANT, Sui principi di giustizia, Milano, 1961, p. 24.
129
Sul punto, v., ex multis, A. LISERRE, Lezioni di diritto privato2, a cura di F. Rocchio, Milano, 2009, p.
63, il quale afferma che si ha un atto giuridico «quando l’ordinamento ricollega conseguenze giuridiche ad
un avvenimento sul presupposto che vi sia un intervento umano».
130
Si badi che in questo caso la causa non è inesistente (altrimenti il contratto sarebbe in contrasto con
l’art. 123, n. 2, c.c., e quindi certamente nullo ex art. 1418, comma 2, c.c.), ma soltanto «accantonata,
stralciata, così che la sua eventuale mancanza o i suoi eventuali difetti non tolgono al negozio di essere
valido e di produrre i suoi effetti, ma esplicano un’azione ritardata destinata a bilanciare gli effetti che il
negozio abbia prodotti grazie alla sua astrattezza: rilevanza indiretta della causa»: così F. SANTORO
PASSARELLI, Dottrine generali del diritto civile9, Napoli, 1976, p. 175; v. anche V. ROPPO, Il contratto, cit.,
p. 362 e 375, il quale del tutto condivisibilmente rileva che «è giusto distinguere fra obiettiva inesistenza
della causa e mancata menzione della causa» e che «negli atti obbligatori la causa, pur non indicata, si
presume esistente». Esempio paradigmatico di negozio astratto sono i cosiddetti titoli di credito, dei quali
verrà dato conto infra, passim.
126
Al riguardo, si è detto che quello di alea sia in realtà un concetto pregiuridico: si
specifica ora che il caso – a prescindere dal contesto in cui esso opera131 – non è
suscettibile di essere creato ed è retto dal principio della causalità naturale132.
In tal senso, si deve ritenere che «aleatorio per volontà delle parti» significhi
esattamente che le parti starebbero appunto intervenendo sulla realtà giuridica, ossia
nell’unico ambito rispetto al quale la volontà dei contraenti può utilmente operare: fuori
dalla sovrastruttura133 del diritto, infatti, il caso non è umanamente governabile.
Se questo è vero, allora è altrettanto vero che il caso può essere giuridicizzato per
actum – e non prima di averne preso contezza – soltanto in due modi.
Il primo modo è quello della contrattualizzazione integrale del caso: gli interessi e la
loro regolamentazione vengono in tale ipotesi rimessi direttamente – dalle parti o dalla
legge – alla casualità naturale.
In questa evenienza si avranno i contratti aleatori «per natura» di cui si è detto sopra:
se poi è il legislatore a individuare gli interessi e a regolarli intorno al caso, si avranno
contratti aleatori «per natura» tipici (si pensi all’assicurazione)134; qualora ciò invece
avvenga su iniziativa delle parti, si avranno sempre contratti aleatori «per natura», ma
questi saranno appunto atipici (si pensi ai contratti derivati)135.
Il secondo modo per giuridicizzare il caso – che è quello che ora specificamente rileva –
consiste nella sua menzione in una regolamentazione tipicamente non aleatoria (ossia
fondata su fattori diversi da quelli casuali), e in tale ipotesi il contratto subirà
131
La circostanza per cui il contesto possa essere artificialmente creato – si pensi ad una partita di calcio,
a una gara automobilistica, a un torneo di poker, ma anche alla semplice circolazione stradale, che
evidentemente naturale non è – non implica che le dinamiche del caso non trovino comunque applicazione.
132
In diritto penale, si afferma che secondo la teoria della causalità naturale «il concetto della causalità
non possa essere diverso da quello proprio delle scienze naturali. “Causa” sarebbe “l’antecedente
necessario e adeguato” a produrre l’evento; dunque, un fatto che a) precede nel tempo l’evento; b) non è
eliminabile dal complesso degli antecedenti, senza che l’evento venga meno; c) è proporzionato
quantitativamente all’evento»: A. PAGLIARO – S. ARDIZZONE, Sommario del diritto penale italiano. Parte
generale, Milano, 2006, p. 220; vedi anche F. MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 138. Com’è poi noto, in
diritto civile la causalità viene apprezzata fondamentalmente nell’ambito della responsabilità, quindi in un
momento in cui i rapporti versano in una situazione patologica: non è quindi un caso che la dottrina
civilistica attinga in buona misura dai risultati ottenuti dalla scienza penalistica in tema di rapporto di
causalità.
133
Com’è noto, il concetto di «sovrastruttura» viene spesso impiegato da Karl Marx e Friedrich Engels:
questi, però, non ne forniscono mai una compiuta definizione, ma lo adoperano spesso come metafora per
indicare le «forme determinate della coscienza sociale» (così K. Marx, nel già citato scritto Per la critica
dell’economia politica del 1865).
134
Per quanto riguarda la scommessa v. infra, in questo capitolo.
135
In questa fattispecie, infatti, le parti costituiscono il contratto rimettendosi all’integrale accettazione
del caso.
127
un’alterazione tale da renderlo, per il tramite appunto della «volontà delle parti»,
aleatorio136.
Così, si avrà un contratto aleatorio «per volontà delle parti» solo ed esclusivamente
nelle ipotesi in cui queste intervengano convenzionalmente sulla disciplina di un contratto
tipicamente commutativo, ossia un contratto in cui gli interessi si presumono accertati e
vengono di conseguenza variamente bilanciati ex ante dal legislatore137.
136
In tale seconda ipotesi, le parti modificano un assetto di interessi giuridicamente predefinito
conformandolo al caso.
137
Il termine «commutare» (da cui discende l’aggettivo «commutativo») deriva dall’omonima parola
latina composta da «cum» e «mutare» («scambiare con»); anche nel linguaggio comune contemporaneo
«commutativo» significa «che determina o permette una sostituzione o uno scambio» (cfr. G. DEVOTO – G.
C. OLI, Nuovo vocabolario illustrato della lingua italiana, cit.). Il concetto de quo è stato accostato a quello
di «giustizia» da Aristotele nel Libro V dell’Etica Nicomachea (IV sec. a.C. ca.), nell’ambito del più ampio
discorso sulla «giustizia correttiva»: «perdita e guadagno sono derivati dallo scambio volontario. Infatti,
avere di più di ciò che si possiede in proprio si dice guadagnare, ed avere di meno di quanto si aveva in
principio si dice perdere: per esempio, nel comperare e nel vendere e in tutti gli altri scambi per i quali la
legge concede libertà. Quando, poi, con lo scambio, ci si trova ad avere né di più né di meno, bensì ciò che
già si aveva per conto proprio, si dice che si ha il proprio e che non si è né perso né guadagnato. Cosicché il
giusto è una via di mezzo tra una specie di guadagno e una specie di perdita nei rapporti non volontari, e
consiste nell’avere, dopo, un bene uguale a quello che si aveva prima»). Al riguardo, v. G. MAGRÌ, Giustizia,
in Luoghi della filosofia del diritto2. Idee, strutture, mutamenti, a cura di B. Montanari, Torino, 2012, p. 69,
il quale rileva che «nel rapporto sinallagmatico Aristotele ci propone di prestare attenzione esclusiva
all’uguaglianza tra i beni (o i valori), che considera l’unico parametro sufficientemente “oggettivo”, egli
deve dare per presupposta l’uguaglianza formale tra le parti di quel rapporto (che nei codici civili moderni
sono i “contraenti”), e solo così può astenersi dall’indagare ulteriormente tutti quegli altri profili
problematici che possono caratterizzare le relazioni tra privati: lascia in ombra, per esempio, la questione
cruciale se il “mutuo consenso”tra i contraenti si sia davvero formato liberamente; se davvero e parti si
possano considerare “uguali” nella libertà personale, ai fini dell’instaurazione del rapporto; se non vi sia, e
quanto pesi, un certo squilibrio delle condizioni materiali di partenza, per cui uno dei contraenti può essere
per definizione più “debole” dell’altro (tipicamente: il lavoratore rispetto al datore di lavoro, o più in
generale un contraente “povero” rispetto ad uno “ricco”)». Com’è poi noto, il pensiero aristotelico è stato
adeguato alla teologia cristiana dal tomismo, ossia da quella dottrina teologico-filosofica elaborata da San
Tommaso d’Aquino: in particolare, nella questione 77 della parte II-II della Summa Theologiae (1265-1274)
egli scrive: «la compravendita è stata introdotta per il comune vantaggio dei due interessati: poiché, come
spiega il Filosofo, l'uno ha bisogno dei beni dell'altro, e viceversa. Ora, ciò che è fatto per un vantaggio
comune non deve pesare più sull'uno che sull'altro. Quindi il contratto reciproco deve essere basato
sull'uguaglianza. Ma il valore delle cose che servono all'uomo è misurato secondo il prezzo che viene dato:
per il quale, come dice Aristotele, fu inventato il danaro. Se quindi il prezzo supera il valore di una cosa, o
se la cosa supera il prezzo, è compromessa l'uguaglianza della giustizia. Quindi vendere a più o comprare a
meno di quanto la cosa costa è un atto ingiusto e illecito. Secondo, possiamo considerare la compravendita
in quanto accidentalmeute costituisce un guadagno per l'uno e una perdita per l'altro: p. es. quando uno ha
urgente bisogno di una cosa e l'altro viene danneggiato privandosi di essa. E in questo caso il prezzo giusto
non va definito soltanto guardando a ciò che si vende, ma anche al danno che il venditore subisce con la
vendita. E così si può vendere a un prezzo superiore al valore intrinseco della cosa, sebbene non la si venda
a più di quanto essa vale per il proprietario. Se poi uno riceve un vantaggio rilevante dall'acquisto senza che
il venditore venga danneggiato privandosi di ciò che vende, questi non ha il diritto di aumentare il prezzo.
128
Si potrà poi discutere se la disciplina contrattuale così modificata mantenga o meno la
sua tipicità: in ogni caso, risulterebbe confermato che tra «alea» e «tipo» non vi è alcun
nesso di correlazione necessaria, né tantomeno può considerarsi ammissibile una
Poiché il vantaggio dell'acquirente non dipende dal venditore, ma dalle condizioni dell'acquirente: ora,
nessuno deve vendere a un altro cose che non gli appartengono, sebbene possa vendere il danno che lui
stesso subisce. Tuttavia chi dall'acquisto ottiene un vantaggio rilevante può maggiorare il compenso di sua
spontanea volontà: ed è un segno di nobiltà d'animo […]. La legge umana viene data a tutto un popolo, nel
quale ci sono molti individui di scarsa virtù, e non soltanto uomini virtuosi. Perciò la legge umana non può
proibire tutto ciò che è contrario alla virtù, ma si limita a proibire ciò che minaccia il consorzio umano; le
altre colpe poi le considera come lecite non perché le approvi, ma perché non le punisce. Così dunque essa
considera come lecito, non infliggendo castighi, il fatto che il venditore venda a un prezzo maggiorato e il
compratore acquisti sottoprezzo, purché la sproporzione non sia eccessiva: poiché allora la legge umana
obbliga alla restituzione; nel caso ad es. in cui uno sia stato ingannato per un valore che supera la metà del
prezzo giusto. Ma la legge divina non lascia impunito nulla di ciò che è contrario alla virtù. Perciò secondo
la legge divina è considerato illecito non osservare l'uguaglianza della giustizia nella compravendita. E chi
ha così guadagnato è tenuto a compensare chi è stato leso, se il danno è rilevante. E dico questo perché il
giusto prezzo spesso non è determinato puntualmente, ma va computato con una certa elasticità, per cui
piccole maggiorazioni o minorazioni non compromettono l'uguaglianza della giustizia […]. Nella giustizia
commutativa si considera principalmente l'uguaglianza tra cosa e cosa. Nell'amicizia di utilità invece si
considera l'uguaglianza dei reciproci vantaggi: e allora il compenso va fatto in base ai vantaggi ricevuti.
Ma nella compravendita si deve stare all'uguaglianza reale». Come poi si è già segnalato, si deve a Pothier
l’impiego del termine «commutativo» per classificare i contratti – traslando quindi il concetto in esame dal
momento giudiziale a quello negoziale –, affermando che «i contratti di vendita, di locazione, di società,
come pur quelli di costituzione di rendita perpetua e di cambio […], sono le principali specie di contratti
commutativi» e che la caratteristica che connota tale categoria starebbe nel fatto che «questi sono interessati
dall’una e dall’altra parte. Ciascuno de’ contraenti non si propone che il suo proprio interesse e non intende
di accordare un benefizio all’altro»; l’Autore precisa poi che tenendo conto dell’interesse delle parti i
contratti commutativi si differenzierebbero solo «dai contratti di beneficenza» ma non da quelli aleatori, in
quanto anche in questi ultimi «ciascuno de’ contraenti non si propone che il suo proprio interesse e non
intende di accordare un benefizio all’altro». La differenza tra i contratti commutativi e quelli aleatori
risiederebbe allora nel valore di quanto scambiato: nei primi questo avrebbe come misura «il giusto
equivalente», mentre nei secondi tale misura corrisponderebbe a «l’equivalente di un rischio ch’ei si è
addossato, suscepti periculi pretium», ossia «al prezzo dell’assunzione del pericolo». R. J. POTHIER, Trattato
del contratto di assicurazione, cit., pp. 29-30. Appare quindi chiaro che il tratto saliente della commutatività
risieda nella presupposta equivalenza economica dei beni scambiati: dato che consente alle parti di valutare
ex ante la convenienza dello scambio e al giudice, ex post, l’equità e la “giustizia” dello stesso in una
prospettiva asseritamente oggettiva. In entrambi i casi – e cioè, sia nella valutazione ex ante, in sede di
formazione dell’accordo, che in quella ex post, in sede giudiziaria –, la valutazione potrà essere svolta sulla
base di parametri assunti come predeterminati e oggettivi (id est il «il giusto prezzo»). Appare poi altrettanto
chiaro che il rischio non è l’alea: il primo è infatti un effetto della seconda. Più esattamente, e a differenza
delle opinioni tradizionali che pure distinguono tra alea e rischio – cfr., per una sintesi, S. VERNIZZI, Il
rischio putativo, cit., pp. 67-69 –, qui si vuole affermare che il rischio non è oggetto dello scambio, ma è il
parametro che consente alla parte di misurare la convenienza dell’accordo. Il problema si pone
evidentemente per il controllo ex post, in relazione al quale si dovrà innanzitutto comprendere se vi sia
spazio per un giudizio in termini di “equità e giustizia” su accordi siffatti ed, eventualmente, su cosa si debba
esattamente incentrare l’esame del giudice (sull’atto o sugli effetti finali). Il punto verrà ripreso quando si
tratterà dell’alea razionale.
129
sovrapposizione tra la dicotomia dei contratti aleatori «per natura» e «per volontà delle
parti», da un lato, con quella dei «contratti tipici» e «contratti atipici» dall’altro.
Quanto si è sin qui detto troverebbe un’importante conferma in relazione alla
compravendita di cosa futura138.
2.1.4.1. (Segue) La vendita di cosa futura e la cosiddetta «emptio spei» nel
diritto romano; la futurità come «assenza» della res.
Com’è noto, nel diritto romano la vendita era concepita come contratto ad effetti
obbligatori139; è inoltre un dato altrettanto noto che anche i romani ammettessero, a certe
condizioni, la vendita di una cosa futura140.
Invero, la vendita di cosa futura – allora come ora – solleva particolari problemi
ermeneutici, a partire dall’individuazione del significato esatto da attribuire al concetto di
«cosa futura».
Ovviamente, nel nostro tempo la questione si pone in termini differenti rispetto a quanto
accadeva nel
138
diritto
romano;
cionondimeno,
si
ritiene opportuno
soffermarsi
Altre ipotesi di contratti aleatori «per volontà delle parti» – sulle quali non è possibile soffermarsi in
modo specifico in questa sede – potrebbero essere individuate nella «vendita di beni ereditari non
specificati», nella «vendita a rischio e pericolo del compratore» (sulla quale però v. infra, in nota, in questo
stesso §), nonché l’ipotesi di mutuo dove la sola obbligazione restitutoria del mutuatario venga
convenzionalmente subordinata al verificarsi di un evento futuro e incerto (cosiddetto «prestito a tutto
rischio», per il quale v. infra, in questo capitolo).
139
«Un aspetto rilevante […] è quello dell’effetto meramente obbligatorio della compravendita: a
differenza che in alcuni sistemi anche moderni, fra cui il nostro, la compravendita romana del periodo
classico non ha effetti reali, nel senso che non è di per sé traslativa del diritto di proprietà sulla merce. I
giuristi romani tengono sempre nettamente distinti il contratto come fonte dell’obbligazione e l’atto ad effetti
reali (mancipatio, in iure cessio, traditio), traslativo cioè della proprietà o del possesso. L’accordo fa
sorgere solo l’obbligo di trasferire la cosa e l’obbligo di pagare il prezzo; perché passi la proprietà della
cosa e/o del prezzo è necessario un ulteriore atto ad effetti reali». G. PUGLIESE, Istituzioni di diritto romano,
cit., p. 429; v. anche M. TALAMANCA, voce Vendita in generale (dir. rom.), in Enc. del dir., XLVI, Milano,
1993, pp. 303 ss., nonché S. ROMANO, Vendita nel diritto romano, in Digesto, disc. Priv., sez. civ., XIX,
Torino, 1999, pp. 715 ss.
140
I giuristi romani non solo conoscevano ed ammettevano la vendita di cosa futura, ma le conferivano
«una flessibilità “necessaria”, proprio in relazione alla “variabilità del rischio”. I giuristi constatano cioè
come l’assunzione del rischio contrattuale si atteggi in termini diversi, anche profondamente diversi, in
funzione di circostanze concrete che finiscono per modulare il regime giuridico in termini peculiari e tali da
segnare un bypass funzionale e specifico fra emptio spei ed emptio rei speratae»: così S. RANDAZZO,
Variabilità del rischio e ricadute sistematiche nella vendita di cosa futura, in La compravendita e
l’interdipendenza delle obbligazioni nel diritto romano, I, a cura di L. Garofalo, Padova, 2007, pp. 274-275
130
sull’elaborazione dei giuristi romani in quanto è del tutto verosimile che questa abbia
condizionato anche la civilistica moderna141.
Sempre in via preliminare, giova ulteriormente ribadire che la cultura socio-economica
di quell’epoca era notoriamente caratterizzata da pragmatismo e concretezza: circostanza,
questa, che ha certamente influenzato anche i giuristi di quel tempo, tant’è vero che questi
«modellano le loro decisioni sul dato sociale e sulle articolazioni specifiche
dell’operazione posta in essere dalle parti»142.
Si richiamano ora i passi contenuti nel Digesto riferiti alla vendita di cosa futura e
all’emptio spei, dei quali verrà fatta – senza ovviamente alcuna pretesa di completezza e
esaustività – l’esegesi nei limiti di quanto più rileva in questa sede.
Pomp. 9 ad Sab. D. 18.1.8 pr.: «nec emptio nec venditio sine re quae veneat potest intellegi,
et tamen fructus et partus futuri recte ementur, ut, cum editus esset partus, iam tunc, cum
contractum esset negotium, venditio facta intellegatur: sed si id egerit venditor, ne
143
nascantur aut fiant, ex empto agi posse»
;
Pomp. 9 ad Sab. D. 18.1.8.1: «aliquando tamen et sine re venditio intellegitur, veluti cum
quasi alea emitur, quod fit, cum captum piscium vel avium vel missilium emitur: emptio
enim contrahitur etiam si nihil inciderit, quia spei emptio est: et quod missilium nomine eo
casu captum est si evictum fuerit, nulla eo nomine ex empto obligatio contrahitur, quia id
144
actum intellegitur»
.
141
Al riguardo, S. RANDAZZO, Variabilità del rischio e ricadute sistematiche nella vendita di cosa futura,
cit., p. 252-253 osserva che «il “sistema” romano – o supposto tale – non avrebbe avuto una ricaduta
completa ed esaustiva nel nostro codice vigente. Sta di fatto che sono molti i profili di discussione
dell’istituto che hanno impegnato e continuano ad impegnare la dottrina e la nostra giurisprudenza».
142
S. RANDAZZO, Variabilità del rischio e ricadute sistematiche nella vendita di cosa futura, cit., p. 272.
143
«Non si può intendere esserci una compravendita, se non vi è una cosa che sia venduta. Ciò
nonostante, si possono comprare validamente i frutti ed i parti futuri, in modo che, nel momento in cui il
parto venga dato alla luce, la compravendita si intenda avvenuta già nel momento in cui l’affare è stato
concluso. Ma, se il venditore avrà fatto in modo che il parto non nasca o che i frutti non si producano, si
potrà agire con l’azione da compera».
144
«Talvolta tuttavia una vendita si intende conclusa anche senza la cosa, come nei casi in cui si ha, per
così dire, l’acquisto dell’alea. Ciò accade quando è acquistata la cattura di pesci, uccelli o di missilia: la
vendita infatti è contratta anche se nulla si prende, poiché è acquistata la speranza e se ciò che è stato preso
in questo caso dei missilia sia stato poi evitto, nessuna obbligazione a questo titolo deriva dalla
compravendita, poiché si intende che così sia voluto».
131
Orbene, nel primo brano (D. 18.1.8 pr.) compare quella che sembrerebbe essere la
regola generale della vendita di cosa futura di diritto romano: «nec emptio nec venditio
sine re» («né la compera, né la vendita possono essere concepite senza la cosa»)145.
145
Giova rilevare che «la nozione di nullità non fu oggetto da parte della giurisprudenza romana di
un’elaborazione concettuale che abbia portato ad un concetto unitario. Ciò è dimostrato, tra l’altro, dalla
varietà di qualifiche date dalle fonti classiche al negozio che per mancanza di presupposti o per un vizio
intrinseco non aveva valore giuridico e non produceva effetti: inutilis, nullus, nullius momenti, irritus,
inanis, ecc. Ma se in teoria mancò un concetto unitario, in pratica tuttavia fu unitario il trattamento fatto al
negozio qualificato nullus o nullius momenti che quello qualificato inutilis o irritus altrimenti. Il giudice,
davanti al quale si volessero far valere gli effetti di un simile negozio, poteva ben escludere l’esistenza di
quegli effetti a causa dell’invalidità del negozio da lui direttamente accertata, senza che occorresse una
formale richiesta o una formale impugnativa di chicchessia». G. PUGLIESE, Istituzioni di diritto romano, cit.,
p. 103-104. Nel caso in parola è possibile affermare con una certa sicurezza che l’emptio-venditio di cosa
futura fosse nulla in quanto inutile. Nelle Istituzioni di Giustiniano, nel libro dedicato alle obligationes
(Libro III), è presente un titolo (il XIX) rubricato «De inutilibus stipulationibus» nel quale vengono elencati
specificamente i casi in cui la stipulazione debba ritenersi inutile: la prima ipotesi citata è proprio quella di
una stipulazione avente per oggetto «cose che non esistono o che non possono esistere». Più esattamente,
«omnis res quae dominio nostro subjicitur, in stipulationem deduci potest: sive mobilis sit, sive soli. At si
quis rem, quae in rerum natura non est, aut esse non potest, dari stipulatus fuerit: veluti Stichum, qui
mortuus sit, quem vivere credebat; aut Hippocentaurum, qui esse non possit: inutilis erit stipulatio» («ogni
cosa nostra può essere oggetto di stipulazione, sia essa mobile o immobile. Se taluno avrà stipulato di dare
una qualche cosa che non può esistere o che non esiste, come per esempio lo schiavo Stico già morto ma
creduto vivente o un Centauro, che non può esistere, la stipulazione sarà inutile»). Lo stesso viene affermato
per le cose fuori commercio o per una cosa già di proprietà del compratore («idem juris est, si rem sacram
aut religiosam, quam humani juris esse credebat; vel rem publicam, quae usibus populi perpetuo exposita
sit, ut forum, vel theatrum, vel liberum hominem, quem servum esse credebat, vel cujus commercium non
habuerit; vel rem suam dari quis stipuletur. Nec in pendenti erit stipulatio ob id, quod publica res in
privatum deduci, et ex libero servus fieri potest, et res sua stipulatoris esse desinere potest: sed protinus
inutilis est. Item contra, licet initio utiliter res in stipulatum deducta sit: si tamen postea in aliquam eorum
causam, de quibus supra dictum est, sine facto promissoria devenerit, extinguitur stipulatio. At nec statim ab
initio talis stipulatio valebit, Lucinium Titium, cum servus erit, dare spondes? Et similia: quae enim natura
sui dominio nostro exempta sunt, in obligationem deduci nullo modo possunt»; «ciò dicasi pure di una cosa
sacra, o religiosa, che si sarà creduta profana, o di cosa pubblica perpetuamente esposta all’uso popolare,
come il foro, il teatro, o di un uomo libero che si sarà creduto schiavo, o di uno schiavo di cui non si può
disporre, come pure se stipuleremo, che ci venga data una cosa che è già nostra; né dovrà dirsi che resti
pendente la stipulazione per ciò, che la cosa pubblica può diventare privata, o la persona libera farsi
schiava, o poterne disporre lo stipulante, o perché lo stipulante possa cessare d’avere in suo dominio la cosa
propria; in tutti questi casi la stipulazione sarà inutile dal principio. Così il contrario: se dall’inizio è stata
oggetto di stipulazione una cosa di cui poteva stipularsi e poi la cosa sia divenuta del genere di cui sopra
senza colpa del debitore, la stipulazione rimarrà estinta. Ma non sarà valida dall’inizio nemmeno
stipulazione “prometti di darmi Lucio Tizio quando sarà schiavo?” e simili, mentre ciò che per sua natura è
fuori dal nostro dominio in nessun modo può essere oggetto di obbligazione»), nonché per una cosa che in
futuro diverrà di proprietà dello stipulante («item nemo rem suam futuram, in eum casum, quo sua sit, utiliter
stipulatur»; «allo stesso modo, nessuno può validamente stipulare che gli sarà data una cosa in un tempo in
cui dovrà già esser sua»).
132
Nello stesso passo viene poi subito individuata un’eccezione146 alla suddetta regola: ci
si vuol riferire al caso in cui la compravendita abbia ad oggetto «i frutti ed i parti futuri»
(«fructus et partus futuri»).
Il brano successivo (D. 18.1.8.1) contiene poi quella che sembra essere un’ulteriore
eccezione alla regola generale «nulla venditio sine re», ossia il caso in cui nella
compravendita venga dedotto «per così dire, l’acquisto dell’alea» («veluti cum quasi alea
emitur»).
Non fa invece eccezione alla regola «nulla venditio sine re» la vendita di eredità futura,
ossia la vendita dell’eredità riferita a persona ancora vivente o anche inesistente al
momento della stipula:
Pomp. 9 ad Sab. D. 18.4.1: «si hereditas venierit eius, qui vivit aut nullus sit, nihil esse acti,
147
quia in rerum natura non sit quod venierit»
.
Al riguardo, giova sottolineare ulteriormente che la vendita avente ad oggetto
«hereditas eius qui vivit aut nullus sit » («l’eredita di colui che vive o che non esiste»)
sarebbe nulla perché – si badi – «in rerum natura non sit quod venierit»148.
Muovendo dai principi contenuti nei suddetti passi del Digesto, i giuristi medievali
hanno poi elaborato le categorie dell’emptio rei speratae («vendita della cosa sperata») e
dell’emptio spei («vendita di speranza»)149.
146
Cfr. M. TALAMANCA, voce Vendita in generale (dir. rom.), cit., p. 343, il quale parla di «apparenti
eccezioni», precisando in nota che dalle fonti non risulterebbe che il giurista abbia effettivamente voluto
superare la rigidità del principio «nulla venditio sine re»; v. anche L. D’AMATI, La compravendita della “res
in potestate hostium”, in La compravendita e l’interdipendenza delle obbligazioni nel diritto romano, I, a
cura di L. Garofalo, Padova, 2007, pp. 389-390, secondo la quale la vendita di cosa futura sarebbe invece
costruita come «eccezione alla rigida regola – peraltro assai risalente, forse addirittura all’epoca in cui si
praticava la sola vendita per contanti, ma ben presto trasferita per forza di tradizione tra i principi
regolatori della vendita come contratto obbligatorio – risultante da Pomp. 9 ad Sab. D. 18.1.8 pr., per cui
non può aversi compravendita senza oggetto (nulla venditio sine re quae veneat)» e che questa «viene presa
in considerazione dal diritto nel caso in cui l’oggetto della compravendita non sia in rerum natura»,
precisando poi che la stessa viene effettivamente riferita a casi in cui la cosa «pure se è obiettivamente in
rerum natura, vale a dire – com’è opinione comune – appartiene al mondo materiale, comunque si trova in
un “settore di tale rerum natura che i romani consideravano fuori dalla loro portata”».
147
«Se viene venduta l’eredità di una persona vivente, o che non è mai esistita, la vendita è nulla, perché
è nella natura delle cose che ciò non possa essere venduto».
148
Secondo V. ARANGIO-RUIZ, La compravendita in diritto romano, vol. I, Napoli 1978, p. 117, si
tratterebbe proprio di un’applicazione del principio «nulla venditio sine re».
149
G. PUGLIESE, Istituzioni di diritto romano, cit., p. 430.
133
A tal proposito, deve essere osservato che in entrambe le fattispecie appena menzionate
gli effetti obbligatori – e non certamente quello traslativo – deriverebbero dalla mera
conclusione del contratto150; tuttavia, la differenza tra le due ipotesi risiederebbe nella
circostanza per cui mentre nella vendita «di cosa sperata» tutti gli effetti sarebbero
sospensivamente condizionati151, ad esempio, alla separazione dei frutti dalla pianta madre
o al parto della schiava o dell’animale, nell’ipotesi della vendita «di speranza» la
produzione degli effetti sarebbe incondizionata.
Sempre in questa prospettiva, va inoltre precisato che secondo alcuni Autori i romani in
generale – ossia anche a prescindere dall’emptio-venditio – già distinguevano le fattispecie
in cui la venuta in essere della res fosse da ricollegare esclusivamente alla volontà o ad
un’attività dell’uomo da quelle in cui la stessa fosse invece da ricondurre anche ad un
evento naturale o al caso152; e la vendita di cosa futura, in particolare, rientrerebbe proprio
nell’ultima delle ipotesi delle quali trattiamo153.
150
D. 18.1.8: «cum contractum esset negotium, venditio facta intellegatur»; D. 18.1.8.1: «emptio enim
contrahitur etiam si nihil inciderit».
151
Sul punto, cfr. V. ARANGIO-RUIZ, La compravendita in diritto romano, cit., p. 117, il quale osserva
che «qui la condizione non si presenta come un elemento accidentale di un negozio del quale siano in atto
gli elementi essenziali, bensì come inerente al ricorrere o meno di un elemento essenziale»; v. anche M.
TALAMANCA, voce Vendita in generale (dir. rom.), cit., pp. 344-345: «il problema soprattutto discusso in
dottrina è quello della configurazione di questo contratto come negozio condizionale e della relativa
disciplina: su di esso informa soltanto la L. 8 pr., nella quale secondo l’opinione tradizionale il contratto è
configurato come sottoposto alla condizione sospensiva del venir in essere della res futura. Nulla parla
esplicitamente nel passo di condizione, ma si riscontrano in esso due profili che, sottoposti di recente a
discussione, riportano al negozio condizionale. Anzitutto la retroattività esplicitamente riconosciuta agli
effetti del venir in essere della cosa futura, anche se è difficile stabilire se e come tale riconoscimento avesse
un’importanza specifica per i problemi dell’emptio rei speratae. Dato che, com’è riconosciuto in dottrina,
Pomponio non vedeva nel caso una vendita sine re quae veneat (come, invece, faceva per l’emptio spei), può
darsi che questo punto si connettesse con il problema dell’esistenza dell’oggetto al momento della
conclusione della compravendita, ma il pensiero del giurista non sembra, al proposito, molto limpido. In
secondo luogo, Pomponio riconosce esplicitamente l’actio ex empto per il caso che il venditore abbia
impedito la produzione dei frutti o la nascita del figlio della schiava, nel che viene generalmente vista a
ragione l’operatività della nota regola che la condizione si ha per avvenuta, quando la parte interessata ne
impedisca l’avveramento, anche se non sono mancate, al riguardo, voci dissenzienti. Ciò crea qualche
difficoltà in quanto – ancorché per il fatto del venditore – in questa evenienza la compravendita è rimasta
praticamente senza oggetto, ma non sembra che Pomponio tenesse particolarmente presente questo profilo:
un modo in cui il problema poteva essere superato era quello di vedere nel caso un’applicazione, in via
estensiva o meno, dello schema dell’adempimento fittizio della condizione, pur se questa afferisse
all’esistenza dell’oggetto venduto».
152
Cfr. G. PUGLIESE, Istituzioni di diritto romano, cit., pp. 429-430: «la merce deve consistere in una
cosa determinata o comunque determinabile nella sua individualità. Data la struttura obbligatoria della
compravendita romana è anche possibile la vendita di una cosa che ancora non esiste (cosa futura). A
questo proposito i giuristi romani distinguono varie possibilità: il venire in essere della cosa dipende dalla
volontà o dall’attività del venditore (p. es., una cosa che egli deve fabbricare); se la cosa non viene in essere
134
Orbene, considerando innanzitutto l’ipotesi dell’emptio «rei speratae», occorre
osservare che il passo in esame non si riferisce genericamente ad una «res», ma in modo
specifico a «i frutti ed i parti futuri»154.
In questa prospettiva, è verosimile che il giurista romano abbia voluto sottolineare che
l’eccezione alla regola generale «nulla venditio sine re» fosse da riferire a quelle
specifiche ipotesi in cui la «res» contemplata dai contraenti risultasse essere solo assente –
non già assolutamente inesistente – in rerum natura nel momento in cui veniva conclusa
l’emptio: si pensi, ad esempio, alla vendita dei frutti di una pianta prossima al periodo
della gemmazione (fenomeno prevedibile in quanto si ripete ciclicamente), oppure alla
vendita dei figli della schiava o dell’animale che abbiano presentato i primi sintomi tipici
della gravidanza155.
si ha ovviamente inadempimento dell’obbligazione». Il fatto risulterebbe comprovato, tra le altre cose, dal
confronto tra la locatio operis e la vendita di cosa futura nell’ipotesi specifica in cui la venuta ad esistenza di
questa venga fatta dipendere da un’attività materiale del venditore: le fattispecie appena menzionate sono
infatti accomunate dal fatto che in entrambe viene prevista un’attività elaboratrice dell’uomo, solo che nella
locatio operis detta attività concretizzerebbe l’obbligazione principale, mentre nella seconda ipotesi quella
stessa attività rappresenterebbe un’obbligazione accessoria e funzionale alla traditio (cfr. L BARASSI, Il
contratto di lavoro nel diritto positivo italiano, ristampa anastatica dell’edizione del 1901, a cura M. Napoli,
Milano, 2003, p. 659). Ora, il fatto che nella vendita di cosa futura ove viene convenuto – esplicitamente o
implicitamente – che la «venuta ad esistenza» della cosa sia in qualche modo correlata ad un’attività
materiale del venditore l’obbligazione di fare abbia sempre e comunque natura accessoria rispetto a quella
principale ed indefettibile – se si vogliono avere gli effetti propri della vendita – di dare, dimostrerebbe
inequivocabilmente che già i giuristi romani avevano contezza che il fare non è necessariamente e
ontologicamente correlato al concetto di «esistenza» della cosa e che questo dato avrebbe una sua propria
rilevanza anche sul piano giuridico. Il punto verrà approfondito infra.
153
«Un’altra possibilità emerge dai casi considerati dai giuristi; quella della vendita della cosa futura, il
cui esistere non dipende dalla volontà del venditore ma da eventi naturali o dal caso». G. PUGLIESE,
Istituzioni di diritto romano, cit., p. 430.
154
Deve tuttavia essere osservato che «i criteri di giudizio erano prevalentemente economico-sociali
piuttosto che naturalistici, sebbene il modello inizialmente considerato sia stato il frutto in senso botanico.
Erano quindi frutti non solo i prodotti del suolo, ma anche la legna derivante dal taglio di boschi effettuato
con regole miranti a salvaguardarne la consistenza, i parti degli animali, la lana e il latte da essi prodotti
[…]. Infine deve essere messo in rilievo che i giuristi classici, seguendo un’opinione di Bruto (II secolo
a.C.), a suo tempo non pacifica, negarono che il parto della schiava (partus ancillae), diversamente da
quello degli animali, fosse frutto, poiché “in fructu hominis homo esse (non) potest” (nel frutto dell’uomo
non vi può essere un uomo)». G. PUGLIESE, Istituzioni di diritto romano, cit., pp. 292-293. Si ritiene, tuttavia,
che il principio compendiato nel brano che qui si esamina avesse come riferimento una nozione di «frutto»
correlata ad un processo naturale e ciclico.
155
Cfr. S. RANDAZZO, Variabilità del rischio e ricadute sistematiche nella vendita di cosa futura, cit., p.
264: «certamente non possono assumere le medesime connotazioni la vendita del partus ancillae all’inizio
della gestazione, con i conseguenti rischi insiti in tale fase, rispetto alla gravidanza avanzata, in cui, pur
permanendo i rischi legati al parto, certamente, sul piano dell’individuabilità dell’oggetto, questo appare
anche diversamente visibile e le stesse aspettative circa la sua concreta venuta ad esistenza acquistano più
solida consistenza».
135
L’assunto sembrerebbe confermato dal fatto che l’efficacia della vendita non è
subordinata alla «venuta ad esistenza» della cosa, ma al momento crono-logicamente
successivo in cui avviene la separazione dalla cosa madre («cum editus esset partus»).
Con riferimento all’atto di separazione (taglio dei frutti o parto della schiava o
dell’animale), si osservi ora che questo presuppone – sul piano logico e pregiugiridico –
che una res separabile vi sia.
Sul piano invece più strettamente giuridico, l’atto di separazione156, eseguibile una
volta che la fruttificazione o la gravidanza siano venute a compimento, attiverà
retroattivamente157 gli effetti (obbligatori) dell’emptio-venditio: il venditore e il
compratore saranno perciò tenuti a porre in essere la traditio, rispettivamente, della cosa e
del prezzo.
Occorre però soffermarsi sul momento che intercorre tra la stipulazione dell’emptio e
l’atto di separazione dei frutti dalla cosa madre.
A tal proposito, si è detto che la vendita – seppur contratta – è in questo caso
integralmente inefficace, nel senso che non produce obblighi né per il venditore né per il
compratore.
Invero, deve osservarsi che non tutti gli obblighi risultano essere sospesi nel momento
in cui la suddetta attività di separazione non sia ancora materialmente possibile:
verosimilmente, sarebbero sospesi solo gli obblighi di trasferire, ossia quelli reciproci di
dare la cosa e il prezzo.
Il fatto che la vendita sia «contratta», infatti, a ben vedere qualche effetto giuridico lo
produce: questo può essere individuato in un obbligo di non fare a carico del venditore, il
156
«I frutti naturali divenivano beni a sé stanti con la loro separazione dal bene produttivo e in questo
stesso momento, di regola, venivano acquistati dai soggetti che vi avevano diritto (proprietari, possessori di
buona fede, concessionari di ager publicus, ecc.). Gli usufruttuari e i conduttori (coloni) invece li
acquistavano soltanto con la loro presa di possesso». G. PUGLIESE, Istituzioni di diritto romano, cit., p. 293.
157
Sulla retroattività della condizione in generale v. C. SANFILIPPO, Istituzioni di diritto romano10,
Soveria Mannelli, 2002, p. 94: «una volta verificatasi la condizione, gli effetti del negozio decorrono
secondo il diritto classico, almeno in linea di tendenza, dal momento del verificarsi della condizione (ex
nunc), nel diritto giustinianeo dal momento della conclusione del negozio (ex tunc: “efficacia retroattiva
della condizione”)»; per quanto invece riguarda il caso specifico, cfr. S. RANDAZZO, Variabilità del rischio e
ricadute sistematiche nella vendita di cosa futura, cit., p. 262, il quale rileva che Pomponio «fa salva la
vendita dei frutti o il futuro parto della schiava a condizione ovviamente che le cose stesse vengano in
esistenza. Dunque sembra configurata un’efficacia in qualche modo retroattiva legata all’effettivo prodursi
della res», precisando in nota n. 46 che «il frammento ha subito vari attacchi dalla critica, sia in ordine alla
sua classicità che in relazione al “dogma della retroattività”, per usare le parole di V. Arangio-Ruiz, ma
con argomentazioni che, seppure autorevolmente sostenute, non sembrano realmente insuperabili».
136
quale sarà appunto ritenuto contrattualmente responsabile «se il venditore avrà fatto in
modo che il parto non nasca o che i frutti non si producano»158.
Una volta chiarito ciò, la ratio della disciplina dell’emptio rei speratae dovrebbe
risultare più nitida: gli effetti traslativi non possono aver luogo in quanto la res, al
momento della conclusione del contratto, non è disponibile in rerum natura.
Si osservi ora che la disponibilità delle res specificamente considerate nel passo di
Pomponio è correlata a fattori naturali, sicché nelle more degli eventi, in ragione
dell’ontologica sinallagmaticità della compravendita159, si ritiene giusto che il compratore
non trasferisca a sua volta alcunché – e da ciò discenderebbe a sua volta la valutazione
dell’emptio rei speratae in termini di commutatività –160; cionondimeno, se il venditore,
con un suo comportamento, dovesse intervenire sul naturale e casuale corso degli
eventi161, potrà essere ritenuto contrattualmente responsabile tramite l’actio ex empto162.
158
Invero, deve segnalarsi che quello menzionato nel testo costituisce un punto piuttosto controverso. Al
riguardo, M. TALAMANCA, voce Vendita in generale (dir. rom.), cit., p. 345, il quale rileva che «Pomponio
riconosce esplicitamente l’actio ex empto per il caso che il venditore abbia impedito la produzione dei frutti
o la nascita del figlio della schiava, nel che viene generalmente vista a ragione l’operatività della nota
regola che la condizione si ha per avvenuta, quando la parte interessata ne impedisca l’avveramento, anche
se non sono mancate, al riguardo, voci dissenzienti. Ciò crea qualche difficoltà in quanto – ancorché per il
fatto del venditore – in questa evenienza la compravendita è rimasta praticamente senza oggetto, ma non
sembra che Pomponio tenesse particolarmente presente questo profilo: un modo in cui il problema poteva
essere superato era quello di vedere nel caso un’applicazione, in via estensiva o meno, dello schema
dell’adempimento fittizio della condizione, pur se questa afferisse all’esistenza dell’oggetto venduto»; v.
anche S. DI SALVO, Dal diritto romano. Percorsi e questioni, Torino, 2013, pp. 9-10, il quale si chiede «se
effettivamente la proposizione finale sed-posse concerna la finzione di adempimento. Tra le varie opinioni
contrapposte mi sembra preferibile quella affermativa, non essendo convincenti le opinioni che fondano
diversamente l’actio empti […]. Quanto al profilo dell’interesse […] il problema, a mio avviso, non sta tanto
nel particolare interesse che si è ravvisato nel compratore e che in realtà non mi sembra sussistere. Bensì,
dovendosi invece porre sotto l’angolazione dell’interesse contrario, nella paradossale situazione del
venditore. Il suo impedire che nascano i nuovi capi di bestiame o che le piante fruttifichino è un
comportamento in realtà contro il suo stesso interesse: quei partus e quei fructus non li venderà a nessuno.
[…] É soltanto quella sanzionatoria la chiave di volta per comprendere l’applicazione del principio».
159
La compravendita, secondo quanto riportato nel Digesto (D. 50.16.19), è un «contractum autem ultro
citroque obligationem, quod Graeci synallagma vocant» («contratto dove è l’obbligazione di una parte e
dell’altra, che i greci chiamano sinallagma»). Sul punto, v., amplius, C. PELLOSO, Le origini aristoteliche
del συνλλαγµα di Aristone, in La compravendita e l’interdipendenza delle obbligazioni nel diritto romano, I,
a cura di L. Garofalo, Padova, 2007, pp. 3 ss.
160
V. S. ROMANO, Vendita nel diritto romano, cit., pp. 718-719, il quale, sul presupposto che la vendita
di cosa futura la cui venuta ad esistenza risulti essere indipendente dalla volontà del venditore sarebbe
appunto una «vendita condizionata», afferma che «se l’evento non si verifica nessuna delle parti sarà
obbligata all’adempimento».
161
Cfr. infra, in nota.
137
Detto ciò, occorre ora soffermarsi specificamente sulla categoria dell’emptio spei.
Al riguardo, si è già segnalato che in diritto romano vigeva la regola «nec emptio nec
venditio sine re»; si è inoltre dato conto del fatto che mentre la vendita di eredità futura
non fa eccezione alla suddetta regola, vi sarebbero altri casi in cui il principio «nulla
venditio sine re» non troverebbe applicazione nonostante l’assenza della res al momento
della conclusione dell’emptio.
Più esattamente, mentre nella vendita di eredità futura la futurità della res non può
certamente essere intesa come mera «assenza», «indeterminatezza» o «altruità» della cosa,
ma proprio come assoluta e oggettiva «inesistenza» della stessa in rerum natura – posto
che al momento della stipula «non si conoscono né la qualità, né la quantità dell’oggetto
dedotto nel contratto, e nemmeno è nota la possibilità di realizzare la prestazione che in
esso si deduce»163 –, nelle ipotesi riportate in D. 18.1.8.1. l’attuale indisponibilità della res
sembrerebbe solo attenuare – e non già annullare – la corrispettività tra la prestazione del
venditore e quella del compratore.
In definitiva, non sarebbe infondato ritenere che per i romani solo l’obbiettiva e assoluta
inesistenza della res a monte comportasse l’inapplicabilità a valle dello schema
dell’emptio-venditio: «nec emptio nec venditio sine re» equivale infatti a dire che a fronte
di una res assolutamente inesistente «nessun obbligo giuridico» a titolo di emptio-venditio
sarebbe astrattamente concepibile.
Tuttavia, siccome un’emptio-venditio sine re era – come si è appena visto – in linea di
principio inammissibile, per il giurista romano si poneva la necessità di giustificare
giuridicamente quei particolari negotia, assai frequenti nella prassi164, diversi da quelli
aventi ad oggetto «fructus et partus futuri» ma cionondimeno pur sempre riferiti ad una res
assente – e non già assolutamente inesistente in rerum natura –, ossia non attualmente
disponibile al momento della stipula.
162
È appena il caso di precisare che l’actio empti rientrava nell’ambito dei iudicia bonae fidei,
nell’ambito dei quali – com’è noto – era attribuito un ampio potere discrezionale al giudice, il quale poteva
determinare il contenuto delle prestazioni sulla base del criterio della buona fede.
163
Così M. SIČ, L’eredità futura come oggetto del contratto, cit., p. 200, la quale precisa che «la
speranza che il venditore diventi o non diventi erede non è l’oggetto di questa vendita […]. Soltanto il valore
dell’eredità venduta è incerto. Non si sa se ci sarà qualcosa o no, né quale sarebbe la qualità e la quantità di
questo qualcosa».
164
A. WACKE, La disciplina del rischio nelle attività negoziali, in Affari, finanza e diritto nei primi due
secoli dell'impero. Atti del Convegno internazionale di diritto romano. Copanello, 5-8 giugno 2004, a cura di
F. Milazzo, Milano, 2012, p. 141.
138
Più esattamente, il problema riguardava l’individuazione della causa della traditio165 di
un prezzo posta in essere a fronte della materiale assenza di una res al momento della
conclusione del contratto – res che, si badi, potrebbe anche non entrare mai nella materiale
disponibilità delle parti –: e come si è già sopra segnalato tale problema viene risolto dal
giurista Pomponio individuando detta causa nell’emptio-venditio.
A questo punto, occorre allora chiedersi a quali fattispecie intendesse fare
effettivamente riferimento il giurista Pomponio nel passo D. 18.1.8.1.
In primo luogo, deve ora essere rilevato che il passo relativo alla cosiddetta emptio spei
contempla una fictio, rappresentata dalla locuzione «veluti cum quasi alea emitur» («per
così dire, l’acquisto dell’alea»); ed è noto che quando i giuristi classici utilizzavano
l’avverbio «quasi» intendessero «raggiungere per vie oblique quei fini che non si potevano
conseguire con le vie dirette, pur tenendo fermi e rispettando i principi fondamentali del
sistema»166.
In tal senso, anticipando la conclusione del ragionamento, si comprende come le
eccezioni compendiate nella categoria dell’emptio spei si giustificassero verosimilmente
proprio per il fatto di avere ad oggetto la spes – situazione presente, ancorché transitoria167
165
«La consegna materiale era di per sé un atto neutro […]. A questo fine occorreva che la consegna
fosse qualificata dalla volontà di trasferire il dominium e da una causa idonea a giustificare il trasferimento.
La dottrina della iusta causa traditionis fu verosimilmente opera della giurisprudenza preclassica, la quale
concepì la traditio come negozio causale, ma con causa multipla, o, forse più esattamente, con cause
alternative. Le cause riconosciute che ricorrevano più di frequente erano quelle di compravendita (causa
emptionis o venditionis), di donazione, di costituzione di dote, di prestito di consumo o mutuo (causa
credendi), di pagamento (causa solvendo o solutionis). Quest’ultima venne concepita come lo scopo di dare
o ricevere qualcosa in adempimento di un’obbligazione, senza riguardo all’effettiva esistenza o meno
dell’obbligazione stessa: anche l’adempimento di un’obbligazione inesistente o facente capo a un altro
soggetto fu considerato una iusta causa traditionis. Ciò fu spiegato dalla tradizione romanistica con la
distinzione tra causa proxima (l’adempimento) e causa remota (l’obbligazione di adempiere); in ogni caso,
ne risultò un’attenuazione della causalità della traditio». G. PUGLIESE, Istituzioni di diritto romano, cit., p.
334.
166
In questi termini C. SÁNCHEZ-MORENO ELLART, Locare usum fructum: note per l’esegesi di Ulp. 10
ad ed. D. 10.3.7.10, in Bullettino dell’istituto di diritto romano “Vittorio Scialoja”, diretto da M. Talamanca,
Milano, 2009, p. 302, in nota; v. anche C. MASI DORIA, Per l’interpretazione di “quasi magistratus” in D.
1.16.7.2 (Ulp. 2 de off. proc.), in Studi per Giovanni Nicosia, vol. 5, Milano, 2007, p. 247, la quale rileva che
«similitudine e approssimazione espresse dal quasi possono servire […] a dare al pensiero maggiore
precisione o maggiore vivezza e intensità, possedendo l’avverbio rilevante forza costruttiva». Entrambi gli
Autori richiamano S. RICCOBONO, Analogia, assimilazione, approssimazione nell’opera dei giuristi romani
ed in particolare dell’avverbio “quasi” (1895), in Scritti di diritto romano, II, Palermo, 1964, pp. 461 ss.
167
Cfr. però M. ASTONE, L’aspettativa e le tutele, cit., p. 25: «il diritto romano non conosceva né la
nozione di aspettativa, né quella più generale di situazione giuridica soggettiva. La categoria
dell’aspettativa di diritto è frutto della più recente elaborazione dottrinale».
139
– di conseguire la materiale disponibilità di una res che, seppur non presente, è pur sempre
esistente in rerum natura168.
Il ricorso alla metafora dell’acquisto dell’alea («veluti cum quasi alea emitur») e della
speranza («spei emptio est»)169 si spiegherebbe allora in questi termini: il giurista
Pomponio, nel brano che si è sin qui esaminato, avrebbe voluto segnalare che le
attribuzioni e le acquisizioni patrimoniali (id est la traditio di una somma di denaro a titolo
di prezzo) avvenute in «assenza» di una res sono giuridicamente rilevanti – e non già
inutiles – in quanto alla base di esse vi è comunque un’emptio-venditio170.
Scendendo ora più nel dettaglio, deve essere osservato che il passo menzionato
contempla due ipotesi alla quale viene espressamente riferita la fictio dell’acquisto
dell’alea: «captum piscium vel avium vel missilium emitur», ossia l’acquisto («emitur»), da
un lato, della «cattura di pesci o di uccelli» e, dall’altro, di «missilia», ossia di «donativi
lanciati tra la folla»171.
Si tratta con tutta evidenza di fattispecie molto diverse tra loro da un punto di vista
pratico.
168
In questo senso, il passaggio del brano D. 18.1.8.1 «quia spei emptio est» («è acquistata la speranza»)
andrebbe letto in correlazione alla fictio «quasi alea emitur» («per così dire, l’acquisto dell’alea»).
169
Sulle differenze tra alea e spes cfr. M. TALAMANCA, voce Vendita in generale (dir. rom.), cit., p. 343,
nota n. 396, per il quale nessuna distinzione tra le due nozioni «potrebbe essere imputata – neppure sul piano
della terminologia – alla consapevolezza dei giuristi romani».
170
Sul punto, v. S. RANDAZZO, Variabilità del rischio e ricadute sistematiche nella vendita di cosa
futura, cit., pp. 255-256, il quale osserva che nell’emptio spei «l’elemento dell’alea finisce per incidere così
profondamente sugli equilibri sinallagmatici e – in termini di equilibrio interno – sulla interdipendenza delle
obbligazioni, da rendere forse più corretto parlare di “contratto aleatorio avente ad oggetto una vendita”.
In questa ipotesi il rischio contrattuale si pone con forza “al centro” degli intenti delle parti e finisce per
assumere rilevanza causale nella misura in cui entrambe le parti assumono un evento futuro, la cui
verificazione rimane incerta, come fattore-chiave del contratto concluso e proprio ad un siffatto evento i
contarenti ricollegano gli effetti contrattuali. Da questo punto di vista la nostra fattispecie, pur nella sua
particolare configurazione non può certamente considerarsi una “anomalia” nella disciplina della vendita,
ma un’ipotesi rispondente ad una comune esigenza della prassi negoziale ed, in quanto tale, coerentemente
disciplinata dai giuristi». In senso critico, v. S. ROMANO, Vendita nel diritto romano, cit., p. 709, «se il
contratto è concepito nel senso che ci si impegna a pagare una somma per una cosa futura
indipendentemente dal fatto che questa venga o meno in essere (p. es. i pesci o la selvaggina che taluno
catturerà in una partita di pesca o di caccia: cosiddetto emptio spei, Dig. XVIII, 1, 8, § 1), anche questo
rapporto si trova costruito nelle fonti come vendita: tale costruzione è illogica perché, in caso di non
esistenza della cosa, si giunge a considerare vincolante per il cosiddetto compratore la convenzione a
prescindere da una controprestazione da parte del cosiddetto venditore, in contrasto con la concezione
economico sociale e con la struttura della compravendita»; v anche F. BARTOL, Emptio iactus missilium, in
Revista de Derecho UNED, 2, 2007, p. 450, il quale sul punto rileva che «en opinión de Longo la emptio spei
es una irregularidad del contrato de compraventa, y Zimmermann se pregunta sí este tipo de transacciones
no son demasiado simples como para merecer un análisis jurídico».
171
G. PUGLIESE, Istituzioni di diritto romano, cit., p. 430.
140
Giova muovere dall’esame della prima delle ipotesi appena menzionate, ossia quelle
dell’emptio avente ad oggetto l’acquisto di «cattura» («captum») di pesci o di uccelli,
rilevando innanzitutto che in questa era implicitamente dedotto un comportamento del
venditore: più esattamente, quest’ultimo era tenuto a porre in essere una attività –
prodromica e accessoria rispetto alla traditio – di materiale apprensione (la «cattura»
appunto) del bene destinato a soddisfare l’interesse concreto del compratore.
Inquadrata in questi termini la fattispecie, emerge in modo piuttosto chiaro la sua
contiguità rispetto allo schema della vendita di cose generiche: la cattura dei pesci o degli
uccelli da parte del venditore, infatti, si avvicinerebbe molto a quella attività di
specificazione propria delle obbligazioni generiche172.
Non è certamente questa la sede per approfondire la questione: si ritiene comunque che
quanto si è sin qui detto sia sufficiente a corroborare l’assunto per il quale i giuristi romani,
in questo contesto specifico, intendessero la futurità della cosa non già come inesistenza in
rerum natura, bensì come mera assenza in ragione della indeterminatezza della stessa:
infatti, i pesci e gli uccelli da pescare o da catturare esistono come genus «delimitato in
modo sufficiente a non produrre l’assoluta indeterminatezza della prestazione»173.
Nella medesima prospettiva si osservi ora come l’integrazione dell’oggetto della
prestazione in parola dipenderà normalmente dal concorso di uno o più fattori naturali (ad
esempio, la capacità riproduttiva della selvaggina in quelle circostanze di tempo e di luogo,
i movimenti migratori della medesima, etc.) con un fattore umano (id est il getto delle reti
da parte del pescatore)174.
172
G. PUGLIESE, Istituzioni di diritto romano, cit., p. 388: «in tema di obbligazioni generiche il problema
centrale individuato dai giuristi è quello della attribuzione della scelta dell’oggetto specifico della
prestazione, e anche in questo caso tale scelta spetta di norma al debitore, salvo espressa pattuizione
contraria». Sul problemi sollevati dalla vendita di genere in diritto romano, si rinvia a R. FERCIA, “Emptio
perfecta” e vendita di genere: sul problema del “tradere” in C. 4.48.2, in La compravendita e
l’interdipendenza delle obbligazioni nel diritto romano, I, a cura di L. Garofalo, Padova, 2007, pp. 699 ss.
173
G. PUGLIESE, Istituzioni di diritto romano, cit., p. 388.
174
Emerge ancor più chiaramente uno dei problemi concernenti la più generale questione dei contratti
aleatori, che per il momento solo si accenna: il contratto può ancora esser considerato «aleatorio» se nella
concatenazione causale degli eventi, assunti dalle parti come parametro integrativo del giudizio di valore,
vengano introdotti elementi ultronei rispetto al mero decorso naturale? La questione, come si vedrà anche
nel prosieguo, è di estrema rilevanza. A tal proposito, deve in primo luogo essere precisato che il problema
della causalità nei contratti aleatori deve essere “ribaltato” rispetto a quanto ordinariamente avviene non solo
in diritto penale, ma anche rispetto al tema generale della responsabilità civile. In questi contesti, infatti, la
causalità viene invocata per comprendere se un determinato evento dannoso (punibile o risarcibile) sia o
meno imputabile all’agente, cosicché quel comportamento assumerà rilevanza giuridica in termini di reato o
in termini di atto dannoso. Nei contratti aleatori, invece, quegli stessi criteri vengono ora richiamati per
capire se la verificazione dell’evento alla quale le parti rimettono l’integrazione del loro giudizio di valore sia
141
Il dato appena illustrato deve essere letto unitamente alla circostanza per la quale anche
in questa fattispecie – al pari dell’emptio «rei speratae» – la vendita si considera contratta
(«emptio enim contrahitur») nonostante la res non sia presente contestualmente alla
stipula: in questo caso, però – a differenza cioè di quanto accade nell’emptio «rei sperate»
– gli effetti della vendita non vengono condizionati ad alcunché, né tantomeno alla venuta
ad esistenza della cosa (la quale, come si è visto, «esiste» eccome in rerum natura).
Ciò significa che l’emptio-venditio – «contratta» nonostante l’assenza della res –
produce immediatamente i suoi effetti obbligatori in relazione alla posizione di entrambi i
contraenti, e in particolare:
− il compratore è in ogni caso obbligato a porre in essere, nel momento concordato
con il venditore, la traditio del prezzo;
− sul venditore, invece, gravano verosimilmente due obblighi, e segnatamente uno di
fare (tale è il getto delle reti, strumentale alla cattura dei pesci o degli uccelli) e uno
di consegnare (ossia di tradere quanto è stato catturato)175.
riconducibile al mero caso oppure sia imputabile ad un comportamento umano, ascrivibile cioè ad una delle
parti o ad un terzo qualificato: solo nella prima fattispecie, infatti, sarebbe opportuno discorrere di
aleatorietà, mentre nella seconda verrebbe in rilievo il diverso concetto di responsabilità. In questa
prospettiva, il “ribaltamento” di cui si è detto consisterebbe pertanto in ciò: mentre in materia di
responsabilità (penale o civile) se c’è causalità umana c’è un atto (dovendosi poi valutare se questo sia
penalmente o civilmente rilevante), nel diverso contesto dell’aleatorietà se c’è causalità umana c’è l’atto ma
non ci sarebbe alea. Chiarito ciò – e a prescindere dal riferimento al problema dei rapporti tra causalità
naturale e causalità scientifica –, è noto che la dottrina penalistica ha elaborato nell’ambito della teoria
condizionalistica (condicio sine qua non) le teorie della causalità adeguata e della causalità umana.
Secondo la prima teoria «causa adeguata potrà dirsi una condizione che, ad un giudizio ex ante sulla base
dell’esperienza di situazioni simili, appare tale da rendere probabile il verificarsi dell’evento»: è chiaro però
che «questo schema richiede di essere riempito con la precisazione dei criteri in base ai quali formulare il
giudizio di probabilità o adeguatezza» e che tale attività di “riempimento”, rimessa fondamentalmente
all’interprete, finisce «per rendere causali (sine quibus non) delle condizioni di per sé “inadeguate”» (D.
PULITANÒ, Diritto penale5, Torino, 2013, p. 203). La teoria della causalità umana viene quindi elaborata
proprio con l’intento di supplire all’indeterminatezza della causalità adeguata, escludendo gli eventi
eccezionali dal novero delle cause che possono aver determinato l’evento finale, cosicché «non possono
ritenersi causati dall’uomo quei risultati che egli non è in grado di padroneggiare» (G. FIANDACA, voce
Causalità (rapporto di), Digesto, disc. Pen., Torino, 1988, p. 125). Aderendo a tale teoria, è possibile
dedurre che se la produzione dell’evento è astrattamente “padroneggiabile dall’uomo” allora quello stesso
evento non potrà essere considerato come “rimesso al caso”. Sul punto v. ulteriormente quanto si dirà infra,
passim.
175
Oltre a quanto si è già segnalato supra, v. anche E. FERRANTE, Consensualismo e trascrizione,
Padova, 2008, pp. 8-10: «come noto l’emptio venditio produceva effetti puramente obbligatori, come ogni
altro contratto. Secondo la dottrina romanistica dalla conclusione della vendita non sorgeva neppure
l’obbligazione del venditore di far acquistare il diritto reale (obbligazione di dare in senso tecnico, che
nasceva certamente da stipulatio), ma solo quella di vacuam possessionem tradere e di garantire il
compratore dall’evizione. L’effetto traslativo seguiva al perfezionamento di un atto formale, come la
142
Soffermandosi ora sulla posizione del venditore, si deve innanzitutto segnalare che
l’obbligazione di fare, propedeutica alla traditio, è per tale ipotesi specificamente
contemplata dal Digesto:
Cels. 27 dig. D. 19.1.12: «si iactum retis emero et iactare retem piscator noluit, incertum
eius rei aestimandum est: si quod extraxit piscium reddere mihi noluit, id aestimari debet
176
quod extraxit»
.
Tra l’obbligo di fare e quello di consegnare sussiste quindi un chiaro nesso di
presupposizione, nel senso che il primo sarebbe appunto prodromico e strumentale rispetto
al secondo.
Occorre a questo punto interrogarsi sul significato economico che questa particolare
ipotesi di emptio aveva per i romani: «nella prassi […] deve immaginarsi che
quotidianamente si stipulassero contratti di questo tipo, uno dopo l’altro […]. L’attività
del singolo pescatore sarà stata dunque volta al maggior bottino possibile: si sarebbe così
diffusa notizia della sua bravura ed egli avrebbe potuto alzare il prezzo»177.
In tale fattispecie, pertanto, risulta evidente che non è solo il compratore a correre un
rischio economico, ma anche il venditore: nello specifico, su quest’ultimo grava quello che
oggi definiremmo un rischio reputazionale178.
mancipatio, negozio astratto idoneo a trasferire immediatamente il dominio quiritario sulle res mancipi, o
come l’in iure cessio, negozio parimenti astratto idoneo all’immediato trasferimento sia di res mancipi sia di
res nec mancipi, o ancora al compimento della traditio, negozio informale e causale, che trasferiva la
proprietà quiritaria delle res nec mancipi e, già anticamente, la semplice proprietà pretoria o bonitaria delle
res mancipi».
176
«Se viene comperata una presa di rete ed il pescatore non ha voluto gettarla, si dovrà stimare
l’incerto evento della pesca che costui avrebbe dovuto fare: qualora il pescatore si rifiuti di consegnare il
pescato, si dovrà procedere alla stima dei pesci effettivamente presi».
177
A. WACKE, La disciplina del rischio nelle attività negoziali, cit., p. 141. Va però precisato che
l’Autore sembra ammettere che il pescatore fosse libero di scegliere se gettare o meno le reti (ma si è visto
così non è: cfr. D. 19.1.12), argomentando ulteriormente come segue: «se un pescatore fosse rimasto inattivo
(confidando in ogni caso nel compenso promessogli), la voce si sarebbe sparsa assai rapidamente fra i
mercanti di pesce e nessuno avrebbe più voluto stipulare con lui contratti aleatori di questo tipo».
178
Giova osservare che la definizione di «rischio reputazionale» non è univoca, nemmeno negli atti di
soft law (in primis, gli Accordi di Basilea): in generale, con la locuzione de qua si suole indicare la «deriva
negativa della reputazione», ossia «la cattiva reputazione». Altro dato che vale la pena precisare è che il
«rischio reputazionale è considerato un rischio di secondo livello, ovvero il prodotto di un altro rischio […].
Secondo questa concezione, il rischio reputazionale emerge da una gestione non ottimale della propria
organizzazione, anche in relazione a fattori esogeni»: in questi termini, J. SCHETTINI GHERARDINI,
Reputazione e rischio reputazionale in economia. Un modello teorico, Milano, 2011, pp. 21-23.
143
Orbene, la circostanza per la quale nella pattuizione in esame il risultato atteso
dall’acquirente dipenda in concreto da un’attività del venditore, obbligatoria ancorché
prodromica alla traditio (ossia lo «iactum retis»), unito al dato che pure quest’ultimo
avrebbe un effettivo interesse ad eseguire proficuamente detto obbligo, consentono di
dubitare che l’ipotesi normale di emptio di «cattura di pesci e di uccelli» configurasse un
contratto «aleatorio» in senso proprio: tale specie di emptio, infatti, sembrerebbe
conservare la propria immanente corrispettività179.
Ma oltre a quanto si è appena considerato, è proprio il passo contenuto in D. 19.1.12 a
far luce sul fatto che nelle ipotesi normali di emptio di «cattura di pesci e di uccelli» la
misura dell’id quod interest180 al quale è tenuto il venditore inadempiente viene comunque
correlata181 agli esiti di un comportamento dovuto dal medesimo («aestimari debet quod
extraxit»)182.
179
Cfr. A. WACKE, La disciplina del rischio nelle attività negoziali, cit., p. 141: «la vendita del bottino di
una giornata di pesca è economicamente un contratto sensato: il pescatore non dovrà preoccuparsi di
smerciare egli stesso il pescato. Il pescatore ricava un profitto nella media, il compratore lo alleggerisce del
rischio che il suo bottino sia poco lucrativo. I risultati “medi” di una giornata di pesca, dipendenti dal luogo
e dalle condizioni stagionali, dovevano esser noti per esperienza, e fornivano un punto di partenza, per un
corrispettivo adeguato, sia al compratore che, in caso di inadempimento, al giudice, per la condanna al
controvalore», nonché M. SIČ, L’eredità futura come oggetto del contratto (patto) nel diritto classico e
postclassico, in Riv. int. dir. dell’antichità, 2012, n. 59, p. 198: «i pescatori, i cacciatori o le persone che
catturano i missilia devono tenere un comportamento allineato alla bona fides affinchè la cosa oggetto di
vendita si materializzi, ossia per catturare i pesci, gli animali, o i gettoni. In questi casi, l’obbligo del
compratore di pagare il prezzo, anche prima della venuta in essere della cosa venduta, si giustifica con lo
sforzo del venditore per realizzare l’effetto della vendita».
180
Ex multis, cfr. F. SERAFINI, Istituzioni di diritto romano2, Firenze, 1875, p. 104 :«il danno si distingue
in rei aestimatio e in id quod interest. La rei aestimatio è il danno che è immediata conseguenza di un fatto;
l’id quod interest è l’interesse indiretto, cioè l’interesse che ha il danneggiato a che non fosse accaduto ciò
che è accaduto (quanti eius interest hoc vel illud factum non esse)»; E. BETTI, voce Id quod interest, in Nov.
dig. it., VIII, Torino, 1968, p. 133: «il quod interest, ravvisato nel suo significato originario, allude ad una
aspettativa protetta dal diritto ed esprime – mediante un raffronto fra due situazioni, l’una di carenza,
l’altra di appagamento – l’interesse di una persona al verificarsi dell’evento o dello stato di fatto cui si
rivolge la sua aspettativa […]. Il raffronto fra la situazione di carenza e la situazione di appagamento
conduce, in processo di tempo, ad affermare l’esigenza di procacciare alla persona tutto il valore che il bene
a lei sottratto, o da lei non conseguito, rappresentava per lei […]. La stessa formola dell’id quod interest,
attraverso una lenta elaborazione interpretativa, subisce una inavvertita eterogenesi di significati, che ne
altera essenzialmente il senso originario. Il quod interest assume, cioè, il senso di una differenza fra due
situazioni patrimoniali, messe a raffronto: differenza apprezzabile in termini di valore pecuniario, come il
risarcimento di un danno che comprende tanto la perdita risentita (damnum emergens) quanto il guadagno
mancato (lucrum cessans). Qui preme solo notare che non risponde alla giusta prospettiva storica il dare
per scontata questa eterogenesi interpretativa»; v. anche M. TALAMANCA, voce Vendita in generale (dir.
rom.), cit., pp. 429 ss.
181
Cfr. M. PADOVAN, Il danno patrimoniale nel «iudicium empti», in Il giudice privato nel giudizio civile
romano. Omaggio ad Alberto Burdese, III, a cura di L. Garofalo, Padova, 2012, p. 321: «è noto che la
144
A questo punto, occorre chiedersi se nel brano D. 18.1.8.1 il giurista Pomponio
intendesse fare effettivamente riferimento ad un’ipotesi differente rispetto a quella appena
descritta.
In questa prospettiva, si potrebbe ritenere che la fattispecie ivi contemplata debba essere
riferita al caso in cui le parti, nell’ambito di emptio di «cattura di pesci e di uccelli»,
abbiano convenuto un prezzo in misura predeterminata ma al contempo non correlata ai
risultati concreti conseguenti al comportamento in ogni caso dovuto del venditore183.
Pertanto, fermo restando che il pescatore è comunque sempre obbligato a gettare le reti
– tant’è che se non lo fa «incertum eius rei aestimandum est» (D. 19.1.12) –, il contratto
impegna il compratore ad eseguire la traditio del prezzo «etiam si nihil inciderit» (D.
18.1.8.1), ossia anche se nulla sia caduto nelle reti medesime.
Orbene, è evidente che «nihil» debba essere inteso in senso relativo184: più esattamente,
si tratta verosimilmente di una superlatio, ossia un’iperbole185, da leggere in correlazione
struttura della condemnatio formulare assume una configurazione diversa in base al tipo di actio nella quale
è inserita. Mentre nelle formule con condemnatio certae pecuniae è già individuato l’ammontare della
pretesa e della condanna, alla cui quantificazione non concorre il giudice, in quelle con condemnatio incerta
spetta a costui procedervi, facendo applicazione del criterio suggerito dalla formula. Così, nelle actiones in
personam con intentio e condemnatio incertae il giudice è chiamato a tradurre in denaro (eius) il quidquid
ob eam rem Numerium Negidium Aulo Agerio dare facere oportet; nelle formule con intentio certa non
espressa in denaro, invece, la condanna è limitata al quanti ea res est/erit/fuit e consiste in una somma pari
al valore della res rispettivamente al momento della litis aestimatio, della pronuncia della sentenza, o in un
momento antecedente alla litis contestatio, di volta in volta specificato».
182
«Celso fa riferimento al captum piscium, ipotesi considerata anche da Pomponio, e sottolinea come
sia preciso dovere del venditore fare tutto il possibile per fornire al compratore il pesce, pescandolo e
successivamente consegnandolo, affidando al giudice, in caso di inadempimento, il compito di operare
l’aestimatio della res». S. RANDAZZO, Variabilità del rischio e ricadute sistematiche nella vendita di cosa
futura, cit., p. 269.
183
«Nel periodo classico non viene posta alcuna limitazione alla libera determinazione del prezzo fra le
parti, né si richiede che esista un’equa proporzione fra il valore della cosa ed il prezzo stesso. Un rilevante
intervento in materia di prezzo, attribuibile a Diocleziano, viene ripreso e generalizzato da Giustiniano, il
quale stabilisce che il venditore può chiedere la rescissione del contratto qualora il prezzo pagato sia
inferiore alla metà del valore del bene (laesio enormis); il compratore può comunque evitare la rescissione
pagando la differenza (reductio ad equitatem)». G. PUGLIESE, Istituzioni di diritto romano, cit., p. 431.
184
Giova sottolineare che tra le varie possibilità rientra anche quella in cui nella rete non vi finisca
effettivamente alcuna preda.
185
«L’iperbole (superlatio) – in greco ὑπέρβολή, che sta a significare l’“azione di gettare oltre”, da ὑπέρ
“oltre” e βáλλω “getto” – può essere definita come una rappresentazione esagerata, quasi paradossale,
della realtà. Un modo di esprimersi a oltranza. Si tratta quindi di una figura che presuppone l’uso di parole
che, prese alla lettera, vanno oltre la verità, in quanto rappresentano sempre qualcosa in più o in meno. È
stato però giustamente osservato che l’“iperbole” mente non per ingannare con la menzogna, bensì al solo
scopo di fornire “un’esagerazione conveniente della verità” (decens veri superiectio) [n.d.a. quest’ultima
locuzione è di Quintiliano]». A. TRAVERSI, La difesa penale. Tecniche argomentative e oratorie4, Milano,
2009, p. 235.
145
alla parte immediatamente successiva del brano, ove viene richiamata la metafora
dell’acquisto della speranza («quia spei emptio est»).
Cosicché, il significato esatto del passaggio appena citato andrebbe inteso nel senso che
il compratore è obbligato ad effettuare la traditio di quel prezzo quale che sia il contenuto
della rete, sia esso nullo, inferiore, pari o superiore rispetto all’equivalente monetario.
Tuttavia, deve essere rilevato che in una pattuizione siffatta non solo il compratore, ma
entrambi i contraenti – seppure in misura diversa – sembrerebbero verosimilmente
assumersi un rischio economico derivante dall’alea naturale186, ossia un rischio correlato
ad un accadimento condizionato da fattori naturali (ad esempio, una gelata improvvisa;
un’epidemia; una abnorme capacità riproduttiva della selvaggina; una migrazione
straordinaria di animali che normalmente non transitano in quei luoghi; etc.)187;
circostanza, questa, che solo in parte presuppone una non interferenza del fattore umano.
Come poi si è appena segnalato, nelle pattuizioni come quelle in esame le parti si
starebbero assumendo un rischio: si precisa ora che tale «rischio» sarebbe un mero effetto
dell’alea, ossia di un fattore naturalmente casuale, che preesiste e sussiste a prescindere
dall’accordo; «rischio» che certamente non deve essere imputabile ad un comportamento
del venditore188; «rischio» che le parti decidono di non condividere tra di loro e,
comunque, di disciplinare diversamente da quanto avviene in assenza di contratto.
186
Se il venditore ha avuto la fortuna di trovarsi nella rete una grande quantità di selvaggina, superiore al
valore monetario predeterminato nel contratto, non potrà in ogni caso pretendere dal compratore più di
quanto è stato pattuito.
187
V. infra, in questo stesso §, in nota.
188
Segnatamente, il venditore si deve limitare ad eseguire il suo obbligo di gettare le reti; pertanto, se non
le getta, non si discorrerà di alea, bensì di responsabilità da inadempimento. Lo stesso vale se, oltre a dover
gettare le reti (obbligo minimo), il venditore si impegni a far sì che nelle reti vi cadano più pesci possibile: la
previsione e l’attuazione di questo comportamento annullerebbero del tutto l’aleatorietà e porterebbero il
discorso sul diverso terreno della responsabilità. Sotto un’altra prospettiva, è appena il caso di segnalare un
ulteriore problema: si pensi al caso del sabotatore che nella notte, per i motivi più vari, decida di tagliare le
reti gettate la sera prima dal pescatore. Anche in questo caso non verrebbe in rilievo l’alea, ma piuttosto il
diverso istituto della responsabilità aquiliana. Sulla questione, cfr., ex multis, A. PETRUCCI, Lezioni di diritto
privato romano, Torino, 2015, p. 354: «un altro problema più specifico ricollegato alla sola figura del
danneggiamento ex lege Aquilia riguarda la possibilità, nel diritto romano, che a richiedere il risarcimento
fosse […] chi avesse, rispetto alle “cose” danneggiate o distrutte, un diritto di credito. Questo problema è
stato molto dibattuto nella dottrina e giurisprudenza italiane, soprattutto dopo l’entrata in vigore del Codice
civile del 1942, il cui art. 2043 è stato a lungo interpretato nel senso di fornire una tutela alla sola lesione
del diritto di proprietà o di un altro diritto reale, aprendosi solo progressivamente alla protezione anche dei
diritti di credito e degli interessi legittimi. La questione in tali termini non si è posta nell’esperienza
giuridica romana, dove si rinvengono invece testimonianze che rivelano una sfera di tutela della legge
Aquilia estesa ad ambedue le categorie di diritti. Al riguardo bastano qui due osservazioni. La prima è che il
contenuto originario di questa legge accomunava nella protezione sia il diritto di proprietà (capitoli primo e
146
In definitiva, da quanto si è sin qui illustrato sembra verosimile che per i romani
l’emptio di «cattura di pesci e di uccelli» non configurasse quello che secondo le categorie
moderne sarebbe definibile come «contratto aleatorio»; la fattispecie appena esaminata
sembrerebbe piuttosto rievocare la diversa nozione di «alea normale» contemplata nell’art.
1467, comma 2, c.c., della quale verrà dato conto nei paragrafi successivi189.
Questo, ovviamente, non significa che per i romani non fossero disponibili altri
strumenti giuridici, diversi dall’emptio spei, per poter negoziare sull’alea naturale: si
pensi, ad esempio, alle stipulazioni «si navis venerit ex Asia» o «si Titius Consul fuerit»,
quindi a contratti condizionati ad eventi del tutto casuali190, nonché – seppure ammesse
entro certi limiti – alle scommesse191.
terzo) che diritti di credito (capitolo secondo), a dimostrazione che era suscettibile di risarcimento la lesione
di entrambi. La seconda è che, anche dopo la caduta in desuetudine del capitolo secondo, il pretore ed i
giuristi, attraverso la concessione di azioni modellate sul fatto (in factum) e in via utile (utilis), basate
sempre su tale legge, riescono a tutelare anche il diritto di credito del soggetto danneggiato».
189
V. infra, in questo capitolo. Al riguardo, si è segnalato che nell’ordinamento vigente può discorrersi di
«contratto aleatorio» in senso proprio fintantoché gli esiti finali della contrattazione vengano integralmente
rimessi al mero caso, posto che diversamente – nel caso cioè in cui nella concatenazione causale degli eventi
venga previsto o intervenga altrimenti un’attività umana (nel caso di specie, lo «iactum retis») – verrebbe in
rilievo la diversa categoria della responsabilità. Più esattamente, quando si è parlato di negoziazione
sull’alea «naturale», si è posto in rilievo che nei contratti «aleatori» in senso tecnico le parti si accordano
nel senso di rimettere l’esito della loro pattuzione al mero caso, obbligandosi a sopportare
incondizionatamente le conseguenze eziologicamente riconducibili solo ed esclusivamente ad esso; in questi
termini, non sarebbe quindi «aleatorio» in senso proprio quel contratto il cui risultato venga in qualche modo
orientato da un comportamento umano interessato. Il punto sarà comunque ulteriormente chiarito nel
prosieguo.
190
Cfr. D. 45.1.63: «si quis ita stipuletur, “Sive navis ex Asia venerit, sive Titius Consul Facturus fuerit”
utra prius conditio extitisset, stipulatio commitetur, et amplius committi non potest, sed enim cum ex duabus
disiunctivis conditionibus altera defecerit, necesse est, ut ea quae extiterit, stipulationem committat» («se
uno ha stipulato così: “sia che la nave giunga dall’Asia, sia che Tizio diventi console”, verificandosi l’una o
l’altra condizione, la stipulazione ha il suo effetto, e non può più mancare. Quando delle due condizioni
disgiunte l’una non si verifica, quella che si è verificata deve far si che la stipulazione abbia il suo effetto»);
D. 45.1.129: «si quis ita stipulatus fuerit , “decem aureos das, si navis venit et Titius Consul factus est?” non
alias dabitur, quam si utrumque factum sit. Idem contrarium, “dare spondes, si nec navis venit, nec Titius
Consul factus sit?” exigendum erit ut neutrum factum, sit. Huic similis scriptura est, “si neque navis venit,
neque Titius Consul factus est?” At si sic “Dabis, si navis venit, aut Titius Consul factus sit?” sufficit unum
factum. Et contra, “Dabis si navis non venit, aut Titius Consul facturus non est?” sufficit unum non factum»
(«se alcuno stipulò così: “dai tu la somma di dieci se giunge la nave e Tizio è fatto console?” non sarà dato
se non si verifica l’uno e l’altro evento. Così pure all’opposto se fu stipulato così: “prometti tu di dare se la
nave non viene e Tizio non è fatto console?” è necessario che né l’uno né l’altro evento si verifichi.
Similmente se è scritto così: “se non viene la nave e Tizio non è fatto console”. Ma se è scritto così: “darai
tu se viene la nave o Tizio è fatto console?” basta che l’uno dei due eventi si verifichi. Al contrario se la
stipulazione è così concepita “darai tu se la nave non viene o Tizio non è fatto console”, basta che uno dei
sue eventi non sia accaduto»). Cfr. al riguardo, M. ROSSETTI, Il diritto delle assicurazioni, vol. I, Padova,
2011, p. 15, secondo il quale «da questi passi si desume che nel diritto romano era ben presente l’idea del
147
Ma oltre a ciò, il dato che più sembra significativo in questa sede è che i romani
qualificavano in ogni caso come emptio-venditio il contratto nel quale il prezzo fungeva da
corrispettivo non tanto del valore di una «res» – materialmente esistente, seppure attualmente
assente –, ma piuttosto della «spes» – immateriale per definizione192, seppur presente al
momento della conclusione dell’emptio-venditio – di conseguire la disponibilità della prima193.
negozio non solo condizionato, ma anche di quello aleatorio, le sipulazioni si navis venerit ex Asia, si Titius
consul fuerit dimostrano che era nota e lecita la stipulatio con la quale una delle parti accettava – quasi
sicuramente, a fronte di una controprestazione in denaro – di accollarsi un onere incerto, e quindi di
concludere un affare che si sarebbe potuto chiudere in perdita».
191
A. WACKE, La disciplina del rischio nelle attività negoziali, cit., p. 139: «a Roma le scommesse erano
consentite (da leggi e senatoconsulti) solo nel contesto dei giochi sportivi, dato che essi erano organizzati
virtutis causa (infatti aprivano la strada al successo dei lottatori) […]. Inoltre, era ammesso […] solo
quando la posta fosse il valore di una cena (quod in convivio vescendi causa ponitur)». V. anche infra, in
questo capitolo.
192
Cfr. M. TALAMANCA, voce Vendita in generale (dir. rom.), cit., a p. 329 («nel periodo classico
oggetto di compravendita possono essere, secondo la terminologia di Gai 2,12, sia res corporales che res
incorporales, per le quali ultime si riscontra una disciplina sotto alcuni aspetti particolare») e in nota n. 249
(«è ovvio che nella struttura originaria degli atti che attuavano, sul piano traslativo, lo scambio della cosa
contro il prezzo, oggetto dello scambio stesso fossero praticamente solo le cose che sarebbero
successivamente rientrate fra le res corporales»); più in generale, v. anche G. PUGLIESE, Istituzioni di diritto
romano, cit., p. 291: «fra i beni capaci di essere oggetto di diritti e negozi patrimoniali privati Gai. 2,12-14
disegna un’altra grande distinzione: quella tra res corporales e incorporales. È una distinzione che, sebbene
ispirata a concetti diffusi tra i filosofi e i grammatici greci e romani fin dal tempo almeno di Platone e
Aristotele, non risulta adottata da altri giuristi classici. Essa invece, attraverso la compilazione giustinianea,
che l’accolse, esercitò notevole influenza sulla dottrina medievale e moderna. Res corporales, secondo Gaio,
erano le cose che si possono toccare, come i fondi, gli schiavi, i vestiti e simili; res incorporales, quelle che
non si possono toccare, e precisamente quelle aventi soltanto consistenza giuridica, come l’usufrutto, il
diritto di eredità, le obbligazioni di qualunque specie».
193
Cfr. S. RANDAZZO, Variabilità del rischio e ricadute sistematiche nella vendita di cosa futura, cit., pp.
250-251, il quale segnala «la tendenza a forzare negli schemi concettuali dell’emptio rei speratae e
dell’emptio spei tutti i possibili casi di vendita di cosa futura, che si vanno profilando con l’avvento
dell’emptio consensuale, con il rischio di non considerare con la dovuta attenzione le sfumature anche
abbastanza accentuate di specificità che tali casi possono presentare. Basti pensare alla differente
prospettiva che si crea nell’ipotesi in cui l’oggetto non esista e non vi siano neppure presupposti visibili alla
sua venuta ad esistenza, rispetto al caso in cui, pur non esistendo ancora, tali presupposti siano chiaramente
percepibili. Il caso, cioè, in cui l’idea stessa di bene “futuro” si svincola da una connotazione di relativa
incertezza per assumere contorni di probabile venuta ad esistenza, contorni che, diventando gradualmente
sempre più nitidi, incrementano e consolidano di pari passo l’aspettativa dell’acquirente, temperando
proporzionalmente l’incidenza dell’alea. Quest’ultimo è il caso della fioritura che precede la comparsa del
frutto o dell’inizio della gestazione in vista del partus ancillae. In entrambi i casi, infatti, i presupposti della
venuta ad esistenza del bene non costituiscono un dato fisso di riferimento, ma evidenziano con una
sfumatura costantemente cangiante nella percezione, in stretta connessione alla fase di sviluppo dei frutti,
della loro progressiva, effettiva, configurabilità in quanto e della loro potenzialità di venire concretamente
ad esistenza e quindi formare oggetto autonomo di scambio. In altri termini, l’ancoraggio dell’accordo alla
prevedibilità dell’evento non si presenta come un dato fisso, ma assume una differente connotazione in
funzione del momento in cui l’attenzione delle parti si ferma sulla prevedibilità dell’oggetto “futuro”».
148
Passando ora all’altro caso contemplato dal brano D. 18.1.8.1, ossia quella di un’emptio
avente ad oggetto «l’acquisto di missilia» («missilium emitur»), giova innanzitutto chiarire
il contesto socio-economico al quale la fattispecie concreta si riferisce: «per il divertimento
degli spettatori (ad esempio sotto Nerone) venivano lanciate fra la folla delle tesserae che
assegnavano, a tratti, la vittoria di oggetti di valore: frumento, vestiti, monili, in alcuni
casi sinanche animali, barche o abitazioni. Per l’avidità si finiva addirittura per picchiarsi
pur di giungere in possesso delle tesserae […]. Era possibile evitare di esser feriti
acquistando (quale emptio spei) in anticipo il risultato del iactus missilium»194.
194
A. WACKE, La disciplina del rischio nelle attività negoziali, cit., p. 142; v. anche J. RODOLPHE
Della vita privata dei romani (1752), trad. di P. Francesco Calori, Milano, 1810, pp. 197-198:
«quando gl’Imperatori, e qualche volta i grandi, davano dei pranzi, facevano giocare sovente una lotteria,
in cui tutti i biglietti, distribuiti gratis ai convitati guadagnavano qualche premio. Eliogabalo si divertiva a
comporre parte di premj considerevoli, e parti di niuno, o di piccolo valore: ve n’erano di dieci cammelli, di
dieci mosche di dieci libbre d’oro, di dieci libbre di piombo, di dieci struzzi, di dieci uova ec. Le lotterie
erano in allora prodigalità. Quando gl’Imperatori beneficavano il popolo, facevano in mezzo alla
moltitudine gettare delle piccole palle, sulle quali era segnato il valore del premio; e chiunque poteva
prenderne andava ad un banco a farsi pagare. Nerone invece di gettare delle piccole monete, per i presenti,
chiamati missilia, spargeva oro, argento, e pietre preziose. I giuochi, ch’egli dava finivano con lotterie, che
consistevano in biade, vino, stoffe, oro, argento, gemme, quadri, schiavi, animali, uccelli d’ogni specie, e
finalmente in vasi, case e terre»; T. DANDOLO, Il rione d’Iside e di Serapide. Frammento d’una descrizione
di Roma a’ giorni di Marc’Aurelio, in Strenna italiana per l’anno 1838, a cura di Paolo Ripamonti Carpano,
Milano, 1838, p. 15: «i Cesari avevano trovato un altro espediente per affezionarsi la plebe; di gettarle cioè
le tessere o schede, o missilia, emisferii di legno su cui erano scritti numeri; ad ogni numero corrispondeano
donii vari o moggia di frumento, o vesti, o danaro, o gemme, ed anco navigli, poderi, isole; lotteria
gigantesca non dissimile da quelle d’oggidì, che con bei prospetti riempiono le colonne de’ nostri giornali
(onde a’ lettori non manchi argomento di sogni color di rosa) non dissimile, dico, in altro che per essere
gratuita per parte dell’intraprenditore, e a tutto benefizio di coloro a cui il caso dava diritto d’iscrivervisi»;
F. SANVITO, Pompei e le sue rovine. Per l’Avvocato Pier Ambrogio Curti, vol. II, Milano-Napoli, 1873, pp.
180-181: «a compir le notizie che riguardano i ludi del Circo e dell’Anfiteatro, mi resta a dire delle
sparsiones e missilia, che accompagnavano quasi sempre gli spettacoli che offerivansi in essi, quando chi ne
sosteneva le spese erano il principe, o i maggiorenni della repubblica o dell’impero. Queste missilia e
sparsiones erano doni che si facevano al popolo da chi dava i giuochi. Distribuivansi a mezzo di tessere di
legno, sulle quali stavano scritte le cose cui davano diritto, lo che recherebbe l’idea d’una gratuita lotteria,
quando però non fossero gli stessi oggetti, i quali allora si venivano con gran tafferuglio disputando. I valori
e la spesa per siffatti regali quali fossero, possiam raccogliere da Svetonio, là dove tratta delle missilia e
delle sparsiones, distribuite da Nerone. “Nei giuochi”, scriv’egli, “per l’eternità dell’impero che Nerone
appellò massimi, persone dei due ordini e dei due sessi sostennero parti divertenti […]. Ogni giorno si
facevano al popolo tutte sorta di larghezza (sparsa et populo missilia), si largheggiavano a lui buoni
pagabili in grani, vestimenta, oro, argento, pietre preziose, perle, quadri, schiavi, bestie da soma, animali
addimesticati, e finalmente si giunse per pazza liberalità a regalare vascelli, e perfino isole e terre”. E così
fece dopo anche Tito, ammanendo ludi e feste per cento giorni, nella dedica all’Anfiteatro Flavio da lui
compiuto; come prima di essi, un semplice privato, Annio Milone, quello stesso che fu difeso da Cicerone,
sprecò tre patrimonj per gli stessi dispendi. Probo, figlio di Alipio, pretore; Simmaco pretore del pari, per
non dir di tutti, profusero, al medesimo scopo di Claudio, di blandire il popolo, infiniti tesori».
D'ARNAY,
149
Ciò premesso, al fine di meglio inquadrare l’ipotesi dell’emptio di missilia – la quale,
come si è visto, viene qualificata dal giurista Pomponio in termini di emptio spei195 – si
ritiene opportuno soffermarsi brevemente sull’esame delle circostanze in occasione delle
quali avveniva la conclusione di detto contratto.
Orbene, in primo luogo è appena il caso di rilevare che lo iactus missilium è stato
equiparato alla traditio in incertam personam196 – esattamente come avverrebbe nel caso
delle res derelictae197 –: l’oggetto dello iactus – equivalente appunto ad una traditio – è
quindi costituito da una res esistente.
195
V., ad esempio, A. MORDECHAI RABELLO, La base romanistica della teoria di Rudolph Von Jhering
sulla culpa in contrahendo, in Ius Antiquum, 20, 2007, pp. 154 ss., il quale afferma che nello iactus
missilium «il “venditore” promette di dare all’acquirente le monete che egli riuscirà a raccogliere e
l’acquirente, da parte sua, s’impegna a pagare in ogni caso un determinato prezzo»; in senso critico, si
segnala F. BARTOL, Emptio iactus missilium, cit., p. 450, il quale richiama l’opinione di coloro che hanno
sostenuto che il passo che qui si esamina potrebbe essere stato addirittura interpolato: «para Beseler y
Vasalli es un texto interpolado y, en consecuencia, debía eliminarse toda referencia a los missilia en este
pasaje (D. 18,1,8,1), es decir, a partir de et quod. Ulpiano habla de la obligación del comprador de pagar el
precio al pescador o al cazador aunque no consigan nada, pero, sin duda ninguna, esta obligación se
extendía también al capientem missilia».
196
V. ad esempio, A. LOVATO, in Diritto privato romano, di A. Lovato, S. Puliatti e L. Solidoro Maruotti,
Torino, 2014, p. 329, il quale osserva che la traditio «era validamente effettuata nei confronti non solo di
persone determinate, ma anche di persone incerte (traditio in incertam personam), come nel caso del
missilia iactare in vulgus, cioè il lancio verso la folla di monete o di altre cose, affinché se ne appropriasse
chi voleva (frequentemente era lo iactus di monete al popolo, da parte degli uomini politici romani)». Sugli
specifici rapporti tra derelictio e traditio, v. S. ROMANO, Studi sulla derelizione in diritto romano, in Riv. dir.
romano, 2, 2002, p. 147: «la [derelictio], si è affermato, non sarebbe una figura giuridica autonoma, ma,
insieme all’occupazione della cosa derelitta, costituirebbe un caso della seconda, o, quanto meno, una
figura analoga a quest’ultima. Questo punto di vista per dir così dommatico si è talvolta appoggiato a quello
storico, nel senso che si è indicato un concreto tratto di unione fra la “derelictio” e la traditio e tale tratto di
unione sarebbe stato dato dal “iactus missilium”. Il principio per cui originariamente la traditio poteva aver
luogo solo di fronte ad una determinata persona, sarebbe stato derogato con i premi ai delatori e con il
“iactus missilium”: sarebbe così sorta la “traditio ad incertam personam”. Dall’altra parte, la “derelictio”
sarebbe stata costruita, quando essa fu riconosciuta come istituto giuridico, ad immagine del “iactus
missilium”: questo era l’abbandono di cose offerte ad una cerchia limitata di persone non note, alla folla
raccolta in un luogo; la “derelictio” sarebbe stata una specie di abbandono di cose offerte ad una serie più
grande di “incertae personae”, anzi all’intera umanità sconosciuta. In conseguenza, la “derelictio”, come
sarebbe stata concepita dai Proculeiani, avrebbe costituito un caso speciale di “iactus”, che a sua volta si
sarebbe raffigurato come un caso speciale di traditio: in seguito, dalla “derelictio” così concepita si
sarebbe sviluppata la “derelictio” cd. sabiniana, che, però, sino a Giustiniano, sarebbe stata anch’essa
considerata come un caso di “iactus”. Secondo altri, invece, sarebbe stato merito dei Sabiniani aver distinto
le due figure»
197
Cfr. però G. PUGLIESE, Istituzioni di diritto romano, cit., p. 324: «particolari problemi vengono posti
dalla giurisprudenza per l’acquisto delle res derelictae, dei beni cioè che siano stati abbandonati
definitivamente dal precedente proprietario. Sembrerebbe che al riguardo esistesse una controversia fra i
giuristi, alcuni dei quali ritenevano che il derelinquente perdesse immediatamente la proprietà, rendendo
possibile l’acquisto immediato del terzo come occupazione di res nullius, altri sembrano invece propendere
150
Al riguardo, giova segnalare un passo nelle Istituzioni di Giustiniano198, poi trasfuso
con qualche variazione nel Digesto, riferito proprio agli effetti dello iactus missilium, dal
quale emerge nitidamente che questo atto avesse effetti traslativi diretti – e ciò a
prescindere quindi da qualsiasi stipulazione di un precedente contratto ad effetti
obbligatori –:
Gai 2 res cott. D. 41.1.9 §7: «hoc amplius interdum et in incertam personam collocata
voluntas domini transfert rei proprietatem; ut ecce, qui missilia jactat in vulgus: ignorat
enim, quid eorum quisque excepturus sit: et tamen, quia vult, quod quisque exceperit, ejus
199
esse, statim eum dominium efficit»
.
A prescindere da qualsiasi altra possibile considerazione che pure può essere fatta sul
brano appena menzionato, quel che qui preme evidenziare è che lo iactus missilium ha
appunto ad oggetto una res effettivamente esistente, seppure non presente o finanche nella
attuale disponibilità di qualcun altro.
Per quanto invece riguarda la posizione dell’accipiens, va rilevato che costui acquisisce
immediatamente una res presente e concreta: più esattamente, egli assume la disponibilità
di «monete o altri oggetti di valore lanciati fra la folla, direttamente o rappresentati in
apposite tesserae»200.
Invero, soffermandosi ancora sul momento dell’assunzione della disponibilità dei
missilia, deve essere ulteriormente precisato che questi non venivano acquistati dietro il
pagamento di un corrispettivo, in quanto di norma accadeva che gli stessi venissero gettati
gratuitamente nell’ambito di giochi organizzati dall’Imperator o da altri esponenti
per la soluzione secondo cui, almeno in determinati casi, l’acquisto del terzo poteva avvenire solo per
usucapione, e, correlativamente, solo al compiersi di questa il derelinquente perdeva il suo diritto sul bene».
198
Inst. 2.1, 47: «hoc amplius interdum et in incertam personam collocata voluntas domini transfert rei
proprietatem: ut ecce praetores vel consules, qui missilia jactat in vulgus, ignorat quid eorum quisque
excepturus sit, et tamen, quia volunt, quod quisque exceperit ejus esse, statim eum dominium efficiunt».
199
«Inoltre qualche volta la volontà del proprietario può trasmettere il dominio ad una persona incerta;
come, per esempio, colui che getta denaro al popolo; perciocché egli non sa se ciò che ciascuno raccoglierà,
e ciononostante, siccome vuole che quanto ognuno raccolga sia di lui, subito lo fa proprietario».
200
S. RANDAZZO, Variabilità del rischio e ricadute sistematiche nella vendita di cosa futura, cit., p. 267.
Si osservi che il termine «tessera» può essere tradotto in italiano con i vocaboli «dado, tavoletta recante una
parola d’ordine, segno di riconoscimento, buono»: così L. CASTIGLIONI – S. MARIOTTI, Il vocabolario della
lingua latina, Torino, 2007.
151
dell’aristocrazia romana: in questo senso, lo iactus missilium sembra piuttosto ricalcare un
negozio traslativo donandi causa201.
Infine, sempre riguardo all’emptio-venditio di iactus missilium, deve essere osservato
che il citato passo D. 18.1.8.1 riporta la seguente specificazione: «quod missilium nomine
eo casu captum est si evictum fuerit, nulla eo nomine ex empto obligatio contrahitur, quia
id actum intellegitur»202.
Al riguardo, è qui sufficiente rilevare che la ratio dell’esclusione della garanzia per
evizione sembrerebbe risiedere, per un verso, nel fatto che il prenditore-venditore, tra il
momento dello iactus e quello dell’apprensione, non ha ancora acquisito quella specifica
res e, per altro verso, nella circostanza per cui il compratore non ha pattuito con il primo lo
scambio del prezzo con quella specifica res, bensì con la spes203.
Chiarito tutto ciò, quanto si è sin qui illustrato confermerebbe che anche in questa
ipotesi i romani riferissero la futurità della res suscettibile di essere trasferita a una
situazione assai diversa dalla sua radicale inesistenza in rerum natura: i missilia, infatti,
rappresentano res esistenti.
Occorre ora sottolineare che il giurista Pomponio qualifica in termini di emptio spei non
già lo iactus missilium, bensì il contratto con il quale veniva anticipatamente acquistato il
risultato dello iactus missilium.
201
«La donazione non fu, fino a tutta l’epoca classica, uno specifico negozio giuridico, bensì una causa,
che qualificava una serie di negozi giuridici, tanto ad effetti reali quando ad effetti obbligatori. Nel caso dei
negozi traslativi o costitutivi di diritti reali la donatio era una delle cause che potevano rendere la traditio
idonea al trasferimento della proprietà o dell’in bonis e che potevano giustificare il trasferimento o la
costituzione operati dalla mancipatio o dall’in iure cessio, come negozi astratti, impedendo che l’alienante,
pentitosi, esperisse la condictio sine causa». G. PUGLIESE, Istituzioni di diritto romano, cit., p. 565.
202
«Se ciò che è stato preso in questo caso dei missilia sia stato poi evitto, nessuna obbligazione a questo
titolo deriva dalla compravendita, poiché si intende che così sia voluto». Cfr. M. TALAMANCA, voce Vendita
in generale (dir. rom.), cit., p. 346, nota n. 427: «l’eventualità di una responsabilità del genere è prospettata
soltanto per i missilia: evidentemente per la ragione che il captus piscium od avium presuppone un acquisto
a titolo originario, per occupazione, il quale esclude che si possa porre tale problema».
203
Sul punto, cfr. M. TALAMANCA, voce Vendita in generale (dir. rom.), cit., p. 346, il quale rileva che
«il prezzo stesso va pagato come corrispettivo dell’alea, anche se non verrà in essere la cosa futura, oggetto
non della compravendita quanto dell’aspettativa, valutata nella sua aleatorietà, intesa come
controprestazione sinallagmatica del prezzo. E da ciò si trae la – ovvia – constatazione che non vi sarà
responsabilità ex empto nel caso di evizione»; v. anche A. WACKE, La disciplina del rischio nelle attività
negoziali, cit., p. 142: «laddove i soldati del generale trionfante si fossero impossessati illecitamente di un
bene cui dava diritto la tessera, era immaginabile che il legittimo proprietario si facesse avanti con
un’azione di rivendica. Tuttavia, stando a Pomponio, tale eventualità non forniva al compratore il diritto di
agire per ottenere una diminuzione del prezzo di vendita: costui aveva infatti acquistato un insieme di beni
“in blocco”, versando un prezzo d’insieme».
152
Al riguardo, come si è già segnalato, poteva infatti accadere che un soggetto aspirasse sì
ad acquisire la disponibilità dei missilia lanciati tra la folla ma cionondimeno preferisse
fare affidamento sulle capacità di un altro soggetto per l’esecuzione dell’attività di raccolta
dei donativi: e ciò, da un lato, al fine di preservare la propria incolumità fisica e, dall’altro,
allo scopo di trarre giovamento dall’abilità e dalla prestanza fisica di soggetti abituati a
porre in essere detta attività di raccolta di missilia anche in condizioni proibitive.
Ed è proprio questo contratto che viene qualificato da Pomponio in termini di emptiospei: contratto che, pertanto, ha ad oggetto la speranza di conseguire attraverso un facere
del venditore la disponibilità materiale di beni non presenti ma cionondimeno esistenti in
rerum natura.
In questo quadro, si ripropongono sostanzialmente le stesse questioni già esaminate nel
caso del «captum piscium vel avium»; in particolare, è vero che il compratore corre il
rischio di pagare invano il soggetto incaricato di raccogliere i missilia – il quale potrebbe
anche non riuscire a raccogliere alcunché, oppure, quand’anche vi riuscisse, i missilia
potrebbero contenere beni di scarsissimo valore –, ma è anche vero che quest’ultimo mette
in gioco la sua reputazione di abile raccoglitore204.
Invero, l’ipotesi appena esaminata pone in rilievo un’ultima questione.
Quando è stata esaminata l’emptio di «cattura di pesci e di uccelli» si è detto, tra le
altre cose, che al venditore non era consentito di rifiutarsi di consegnare quanto fosse
caduto nella rete («si quod extraxit piscium reddere mihi noluit, id aestimari debet quod
extraxit»).
La ratio di tale regola appare intuitiva: il valore reale di quanto catturato si sarebbe
potuto rivelare in concreto maggiore del corrispettivo pattuito con il compratore, cosicché
per il venditore sarebbe stato più conveniente non adempiere l’obbligazione di consegnare;
tale eventualità viene però neutralizzata dai giuristi attraverso il meccanismo
dall’aestimatio delle res extractae (cfr. D. 19.1.12)205.
204
Più esattamente, il venditore è vincolato «a fare di tutto per accaparrarsi la maggiore quantità di
missilia o i missilia di maggior valore» (così S. RANDAZZO, Variabilità del rischio e ricadute sistematiche
nella vendita di cosa futura, cit., p. 268): e ciò sia sul piano della doverosità sociale – ed in tale contesto ben
può discorrersi di reputazione nei termini sopra precisati –, sia sul piano tecnico-giuridico della diligentia.
205
S. RANDAZZO, Variabilità del rischio e ricadute sistematiche nella vendita di cosa futura, cit., p. 269,
rileva che quello in parola configura «un ampio intervento, fortemente caratterizzato sul piano discrezionale,
che tempera l’aleatorietà della situazione e la connota in funzione della bona fides, ideale cesura fra l’alea
accettabile ed un comportamento di negligenza o addirittura di dolo del venditore, in quanto tale
socialmente intollerabile e giuridicamente sanzionato».
153
In questa prospettiva, non può sfuggire come la circostanza appena richiamata possa
verificarsi anche – e, forse, soprattutto – in occasione di un’emptio-spei di missilia: si
pensi al caso in cui il venditore, a fronte della pattuizione di un corrispettivo di pochi
sesterzi riesca in seguito ad appropriarsi di una tessera per ritirare un bene di enorme
valore (ad es., un’imbarcazione, un appezzamento di terreno, etc.).
Orbene, si è visto che il passo sopraccitato contemplante l’aestimatio delle res extracte
si riferisce espressamente al solo caso dell’emptio-venditio del «captum piscium»;
cionondimeno, alcuni Autori ritengono che il suddetto rimedio trovasse applicazione anche
rispetto alla diversa ipotesi dell’emptio-venditio di missilia, sul presupposto fattuale per
cui «la ricchezza e la quantità dei missilia potevano, entro certi limiti, ipotizzarsi con
maggiore approssimazione, essendo la quantità e la qualità dei “benefattori” visibile e
dunque conseguentemente ipotizzabile il contenuto e il valore delle elargizioni»206.
2.1.4.2. (Segue) La vendita di cosa futura nel codice civile; la futurità
come «inesistenza» del bene.
Tornando ora al diritto vigente, deve innanzitutto essere sottolineato il fatto che anche il
codice civile del 1942 menziona, com’è noto, la possibilità che le parti possano voler
concludere «un contratto aleatorio» nell’ambito della disciplina della compravendita, e,
segnatamente, della vendita di cosa futura (cfr. art. 1472 comma 2, c.c.).
Da tale circostanza si possono subito inferire due dati:
− il primo è che le parti possono, se così vogliono, rendere aleatorio uno schema
contrattuale tipico qual è quello della compravendita, ossia un contratto
consensuale,
traslativo,
oneroso,
sinallagmatico207
ed
essenzialmente
commutativo208;
206
«Nulla impedisce di pensare che una tale previsione, espressa da Celso per la emptio del pescato non
disciplinasse anche il caso di iactus missilium. Anzi, mentre la possibilità di valutare la negligenza sul filo
del difficile rapporto fra la gettata della rete e il pesce che effettivamente popolava quello specchio di mare
finiva per presentarsi come ipotetica, e la previsione del risultato della pesca estremamente difficile da
prevedere, la ricchezza e la quantità dei missilia potevano, entro certi limiti, ipotizzarsi con maggiore
approssimazione, essendo la quantità e la qualità dei “benefattori” visibile e dunque conseguentemente
ipotizzabile il contenuto e il valore delle elargizioni e, con la medesima approssimazione, calcolabile la
negligentia del venditore». S. RANDAZZO, Variabilità del rischio e ricadute sistematiche nella vendita di
cosa futura, cit., p. 269.
207
«Venute meno le incertezze del passato, nessuno dubita più, anche alla luce della disposizione
generale di cui all’art. 1376 c.c., nella quale viene enunciata la regola del consenso traslativo, che la
vendita concreti un contratto consensuale e traslativo. Consensuale, in quanto si perfeziona con il
realizzarsi dell’accordo delle parti, senza bisogna della consegna della cosa, della iscrizione in pubblici
154
− il secondo è che l’aleatorietà viene correlata alla futurità della cosa.
Orbene, innanzitutto – e per quanto qui rileva – sembra opportuno ricordare che
mediante la compravendita trova di regola209 attuazione il principio del consenso
traslativo (art. 1376 c.c.)210: è noto poi che l’immediato211 effetto traslativo – che è un
effetto giuridico212 – opera a condizione che la cosa sia «determinata»213.
Cionondimeno, il codice civile ammette tra le altre cose214 che il contratto di
compravendita possa avere ad oggetto anche una «cosa futura»215: l’art. 1472, comma 1,
registri o del pagamento del prezzo; traslativo, in quanto produce sempre il trasferimento del diritto e mai
un’obbligazione di “dare” in senso tecnico a carico del venditore, ossia di compiere un successivo negozio
di trasferimento del diritto in favore del compratore (come invece prevedono i sistemi diritto tedesco) […].
Emerge dalla definizione legislativa […] che la vendita è contratto non solo a titolo oneroso, ma anche a
prestazioni corrispettive, costituendo l’attribuzione traslativa la controprestazione dell’attribuzione
pecuniaria, e viceversa». A. LUMINOSO, La compravendita, cit., pp. 3 e 5.
208
Così, tra gli altri, M. C DIENER, Il contratto in generale, cit. p. 71; v. anche A. LUMINOSO, La
compravendita, cit., p. 5, il quale rileva che la vendita ha «di massima» natura commutativa.
209
«Parrebbe che lo schema legale di vendita costituisca attuazione del principio del consenso traslativo
[…]. Peraltro, dal complesso della disciplina posta dal codice risulta l’inesattezza di stabilire una
identificazione tra vendita e consenso traslativo. Lo schema della vendita, infatti, prescinde notevolmente
dalla attuazione del principio del consenso traslativo […]. L’effetto traslativo o costitutivo rientra nella
disponibilità delle parti che possono differire la sua verificazione rispetto alla conclusione del contratto». E.
RUSSO, Della vendita. Disposizioni generali. Delle obbligazioni del venditore. (artt. 1471-1482), in Il codice
civile. Commentario, fondato da P. Schlesinger e diretto da F. D. Busnelli, Milano, 2013, pp. 7-8.
210
Art. 1376 c.c. («contratto con effetti reali»): «nei contratti che hanno per oggetto il trasferimento
della proprietà di una cosa determinata, la costituzione o il trasferimento di un diritto reale ovvero il
trasferimento di un altro diritto, la proprietà o il diritto si trasmettono e si acquistano per effetto del
consenso delle parti legittimamente manifestato».
211
«L’effetto traslativo, di norma, è cronologicamente immediato, si verifica cioè automaticamente al
perfezionarsi dell’accordo contrattuale; vi sono tuttavia ipotesi nelle quali il trasferimento è eventuale ed è
rinviato al verificarsi di altri (determinati) fatti od atti. Anche in siffatte ipotesi – di vendita ad efficacia
traslativa mediata – il contratto integra uno schema negoziale traslativo, rimanendo perciò netta, anche in
questi casi, la differenza con la vendita (essenzialmente obbligatoria) degli ordinamenti di area germanica e
con la vendita romana». A. LUMINOSO, La compravendita, cit., p. 5.
212
Cfr., ex multis, P. SIRENA, Art. 1376 – Contratto con effetti reali, in Commentario del codice civile
diretto da E. Gabrielli, modulo Dei contratti in generale, a cura di E. Navaretta e A. Orestano, II, Torino,
2011 p. 810: «l’effetto giuridico che si qualifica come traslativo consiste propriamente nel trasferimento di
una situazione giuridica soggettiva».
213
«Ai fini, soprattutto, del verificarsi dell’effetto traslativo, tipico della compravendita, assume rilievo il
carattere della determinabilità e della determinatezza della cosa o del diritto da trasferire»: G. B. FERRI, La
vendita in generale. Le obbligazioni del venditore. Le obbligazioni del compratore, in Trattato di diritto
privato, diretto da P. Rescigno, XI, Torino, 1984, p. 203.
214
Giova ricordare che l’effetto traslativo può essere differito anche nel caso in cui le parti eleggano ad
oggetto della vendita una cosa anche solo determinabile: si pensi, ad esempio, alla vendita di cose generiche
– per la quale v. subito infra, in nota – o al caso in cui la determinazione della cosa venga rimessa ad un terzo
(cosiddetto «arbitraggio»: v. art. 1349 c.c.). Anche in questi casi l’effetto traslativo è rinviato
all’individuazione della cosa. Cfr. A. LUMINOSO, La compravendita, cit., p. 75.
155
c.c., infatti, prevede che «nella vendita che ha per oggetto una cosa futura, l’acquisto della
proprietà si verifica non appena la cosa viene ad esistenza»216.
Nella vendita di «cosa futura», pertanto, l’operatività dell’effetto traslativo non è
immediata, ma viene rinviata ex lege al momento in cui la cosa verrà appunto ad
«esistenza»217.
215
«È possibile la vendita di cosa futura (art. 1472 c.c.), nella quale l’effetto di trasferimento non è
contestuale al contratto, ma si verifica quando la cosa viene ad esistenza»: E. RUSSO, Della vendita, cit., p.
8.
216
La dottrina ricollega la nozione di esistenza a quella di possibilità: in tal senso, v. ad esempio F.
SANTORO PASSARELLI, Dottrine generali del diritto civile, cit., pp. 63-64: «come gli uomini, così le cose non
esistono giuridicamente se non esistono in natura: cioè sono cose soltanto le cose presenti, e queste sono il
solo oggetto possibile dei diritti sulle cose. Se la legge si riferisce più volte alle cose future, per ammettere di
regola che esse possano costituire oggetto di un negozio giuridico, quest’ammissione deve intendersi nel
senso che per l’esistenza dell’oggetto del negozio non occorra l’esistenza ma basti la possibilità
dell’esistenza della cosa, e che, dove invece ciò sia vietato, l’oggetto non sia mancante ma illecito: illiceità
che determina la nullità del negozio (articoli 1346, 1418 comma 2 c.c.). Alla categoria delle cose future
appartiene, secondo la nostra legge la res sperata, appunto come cosa che può venire ad esistenza, e di essa
esempio tipico sono i frutti non ancora separati; non la res, cioè la semplice speranza che la cosa esista, la
cui realizzazione sia senza influenza sulla sorte del negozio: questa speranza, escludendo la corrispettività
delle prestazioni, imprime al negozio carattere aleatorio (articoli 1348, 771, 820 comma 2, 1472)», nonché
G. B. FERRI, La vendita in generale, cit., pp. 202: «sempre al requisito della possibilità, pensiamo possa
ricondursi un altro carattere che, sia la cosa che il diritto da trasferire, debbono avere: quello
dell’esistenza. È evidente infatti, almeno in via generale che perché una vendita sia valida è necessario che
la cosa e il diritto che si intendono trasferire siano esistenti. Questo principio non ha tuttavia la rigidità che
l’affermazione enunciata potrebbe indurre a supporre. Per quanto infatti riguarda le cose, nella vendita di
cosa futura e, in diversa misura, anche nell’emptio spei, pur se la cosa non esiste in rerum natura o non è
determinabile, al momento della stipulazione della vendita, la vendita è tuttavia perfettamente valida dato
che (art. 1472 c.c.) espressamente l’ordinamento giuridico riconosce tutela al contenuto più o meno (a
seconda delle ipotesi) aleatorio del programma che i contraenti intendono realizzare (cfr. anche art. 1469
c.c.)».
217
Più esattamente, l’effetto traslativo sarebbe «cronologicamente mediato»: non appena viene ad
esistenza, la cosa oggetto della compravendita non passa direttamente in proprietà del compratore – nel qual
caso si avrebbe un acquisto a titolo originario della stessa –, bensì del venditore, il quale sarà poi obbligato in
forza del contratto di vendita a trasferire la cosa medesima all’acquirente: «nella vendita di diritti futuri,
poiché normalmente la fattispecie costitutiva del diritto alienato si perfeziona in capo al venditore, deve di
regola riconoscersi il precedente acquisto (di regola, a titolo originario) da parte di quest’ultimo e
l’immediato successivo trasferimento del diritto al compratore»; «il trasferimento del diritto non è sempre
un effetto (cronologicamente) immediato del contratto di vendita. Se il diritto alienato non esiste ancora
(vendita di cosa futura) […] l’acquisto del diritto non può essere immediato, e il venditore rimane, per
l’intanto, obbligato a far acquistare il diritto stesso al compratore (art. 1476 n. 2 c.c.). In tali ipotesi, in cui
l’effetto traslativo è (cronologicamente) mediato, si parla comunemente di vendita obbligatoria, per
sottolineare che l’effetto immediato che il contratto produce è di natura obbligatoria. Anche in questa
ipotesi la vendita rimane tuttavia contratto ad effetti reali, poiché – a differenza di quanto si verifica nella
(vera e propria) vendita obbligatoria del diritto tedesco – l’effetto traslativo, che abbia poi a prodursi, trova
la propria fonte nel contratto di compravendita, non in un distinto negozio traslativo di esecuzione»: così A.
LUMINOSO, La compravendita, cit., pp. 64 e 121.
156
Fatte queste premesse, occorre ora esaminare il primo problema, ossia cosa debba
intendersi per «cosa futura».
In primo luogo, deve essere osservato che il legislatore menziona specificamente la
«cosa», non già il «bene» o il «diritto»218.
Tale scelta deve ritenersi non casuale: con il più ampio concetto di «cosa» il legislatore
ha verosimilmente voluto fare preciso riferimento «a quella porzione del mondo esterno
che ci circonda che può formare oggetto di diritto: essa è considerata un bene in senso
pregiuridico»219.
In secondo luogo, giova rilevare che il codice civile ricollega la futurità della «cosa» al
concetto di «esistenza».
Orbene, anche l’«esistenza», così come la sua variante negativa di «inesistenza», è
evidentemente un concetto pregiuridico al pari di quello di «cosa» e, come si è detto più
sopra, di «alea», in quanto anch’esso attiene alla realtà materiale; e ciò a differenza, ad
esempio, di quello di «altruità»220, che è invece un concetto prettamente giuridico.
Intendere il concetto di «esistenza» secondo parametri diversi da quelli naturali è
pertanto una fictio iuris, ammissibile nei soli limiti in cui sia la stessa legge a prevederla in
modo esplicito: si ritiene però che non sia affatto questo il caso dell’art. 1472 c.c.,
nell’ambito del quale l’«esistenza» della «cosa» pare che venga impiegata dal legislatore
in senso appunto materiale e, quindi, in termini rigorosamente assoluti e oggettivi221.
218
Cfr. E. RUSSO, Della vendita, cit., p. 56: «la sostituzione del diritto sulla cosa alla cosa nella sua
materialità non è condivisibile. La lettera dell’art. 1472 c.c. è inequivoca. Il termine “cosa” viene utilizzato
nella rubrica e ben tre volte nel corpo della disposizione, in correlazione con l’espressione “venire ad
esistenza” che non può essere riferita al diritto, ma alla cosa in senso materiale».
219
In questi termini M. A. CARUSO, Temi di diritto dei beni immateriali e della concorrenza, Milano,
2011, p. 41, la quale precisa ulteriormente che «l’art. 810 del Cod. Civ. definisce i beni come “le cose che
possono formale oggetto di diritto”, ossia quelle cose che rilevano per il diritto. Il concetto di bene coincide
pertanto con una qualificazione di ciò che può formare oggetto di interesse umano: esso deve essere riferito
sempre a una cosa, come parte del mondo. Resta chiaro allora che non tutte le cose sono beni, perché non
tutte le cose possono formare oggetto di diritto, ma è altrettanto vero che non tutti i beni sono cose, perché
possono rilevare per il diritto anche alcune entità immateriali, che non sono tangibili, o come qualcuno dice,
“cose immateriali”».
220
Il concetto di «altruità» – per quanto possa essere elastico (si pensi, ad esempio, alla sua rilevanza in
diritto penale rispetto ai delitti contro al patrimonio e alle questioni collegate al principio di tassatività) – è
pacificamente un concetto giuridico. Cfr., ex multis, F. MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 66, nonché F.
ANTOLISEI, Manuale di diritto penale15, parte speciale, vol. I, a cura di C. F. Grosso, Milano, 2008, pp. 284
ss.
221
Cfr. il passaggio già citato di F. SANTORO PASSARELLI, Dottrine generali del diritto civile, cit., pp. 6364: «come gli uomini, così le cose non esistono giuridicamente se non esistono in natura». Cionondimeno, la
dottrina tradizionale interpreta il concetto di «bene futuro» – di «bene» e non di «cosa» – sempre e
comunque in senso omnicomprensivo; v., ad esempio, C. M. BIANCA, Il contratto, cit., p. 324: «beni futuri
157
Il suddetto assunto assume una una notevole rilevanza laddove si consideri che ad ogni
significato assegnato dal legislatore ai concetti di «esistenza»/«inesistenza» corrisponde
effettivamente un differente regime giuridico222.
Così, il concetto di «esistenza» viene talvolta impiegato dal legislatore in senso relativo,
come ad esempio avviene nelle ipotesi delle res nullius223 e dei frutti, siano essi naturali o
civili224.
A ben vedere, in queste ipotesi – come pure accadeva nella vendita di cosa futura di
diritto romano – le «cose» non possono essere considerate assolutamente «inesistenti»:
infatti, né le res nullius, né i prodotti naturali non ancora separati dalla pianta madre e
finanche i cosiddetti «frutti civili»225 possono essere considerati inesistenti nella realtà
sono, precisamente, le cose non ancora esistenti in natura; le cose esistenti in natura che non sono di
proprietà di alcuno ma suscettibili di occupazione; i prodotti d’opera non ancora formati nella loro
individualità economica; i prodotti naturali non ancora staccati dalla cosa madre», nonché A. LUMINOSO,
La compravendita, cit., p. 60, il quale ribadisce il concetto già espresso in ID., voce Vendita, in Digesto, disc.
Priv., sez. civ., Torino, 1999, p. 619: «in sintonia con la previsione di carattere generale (art. 1348 c.c.), che
consente di dedurre nel contratto prestazioni future, l’art. 1472 c.c. disciplina la vendita di cosa futura. La
figura negoziale in esame – chiamata anche emptio rei speratae – ha ad oggetto il trasferimento di un bene
giuridico che, al momento della conclusione del contratto, è inesistente: cose che ancora non esistono in
natura (compresi i prodotti naturali non separati, i prodotti d’opera ancora non formati e le cose unite
materialmente ad altre) o cose esistenti che non sono in proprietà di alcuno. Con più esattezza, la figura
abbraccia l’alienazione di qualunque diritto (reale, di credito o di altra natura) futuro».
222
Cfr. B. BIONDI, I beni, in Trattato di diritto civile italiano, diretto da F. Vassalli, vol. IV, Torino,
1953, p. 154, il quale, pur sovrapponendo la nozione di «bene futuro» e «bene altrui», rileva che: «in
generale la cosa può essere presente o futura (attuale o che sorgerà), ma il bene, inteso come interesse
giuridico, è sempre attuale […]. Si suole parlare di cose future in un duplice significato, che bisogna tenere
distinto perché ciascuno corrisponde a diverso regime giuridico»; E. FERRANTE, Donazione di cosa altrui:
perché «scomodare» le Sezioni Unite?, in Dir. civ. cont., 2014, II, p. 5: «la legge, lungi dall’accomunare
futurità ed altruità, in più luoghi preferirebbe riservare trattamenti differenziati all’una ed all’altra
categoria di beni».
223
Art. 923 c.c. («cose suscettibili di occupazione»): «le cose mobili che non sono in proprietà di alcuno
si acquistano con l’occupazione. Tali sono le cose abbandonate e gli animali che formano oggetto di caccia
e pesca».
224
Art. 820 c.c. («frutti naturali e frutti civili»): «sono frutti naturali quelli che provengono direttamente
dalla cosa, vi concorra o no l’opera dell’uomo, come i prodotti agricoli, la legna, i parti degli animali, i
prodotti delle miniere, cave e torbiere. Finché non avviene la separazione, i frutti formano parte della cosa.
Si può tuttavia disporre di essi come di cosa mobile futura. Sono frutti civili quelli che si ritraggono dalla
cosa come corrispettivo del godimento che altri ne abbia. Tali sono gli interessi dei capitali, i canoni
enfiteutici, le rendite vitalizie e ogni altra rendita, il corrispettivo delle locazioni».
225
Per quanto concerne i frutti naturali, l’elemento caratterizzante risiederebbe «nella loro “diretta”
provenienza dalla cosa madre. Il proprietario della cosa madre […] fa propri i frutti per effetto del naturale
venire ad esistenza di questi, senza bisogno di altrui collaborazione […]. Nel concetto di frutto “naturale” è
insita l’idea che il venire ad esistenza dei frutti sia conseguenza di naturali processi genetici, come accade
per i prodotti agricoli o per i parti naturali. L’art. 820, comma 1, precisa: “vi concorra o no l’opera
dell’uomo”; onde sono frutti naturali sia i frutti spontanei, ia quelli che vengono ad esistenza per effetto
158
materiale, posto che le prime evidentemente «esistono» anche se nessuno le abbia ancora
occupate226, i secondi «esistono» a prescindere dalla loro separazione227 e i terzi, infine,
«esistono» anche se il creditore rinunci a ritrarli228.
Peraltro, va rilevato che la «separazione», la «occupazione» e la «ritrazione» intanto
sono possibili in quanto la cosa sia già venuta materialmente ad esistenza: si tratta pertanto
della coltivazione del fondo o dell’allevamento degli animali». F. GALGANO, Trattato di diritto civile.
Volume I, Padova, 2010, pp. 348-349.
226
L’occupazione è il primo «modo di acquisto» della proprietà menzionato dall’art. 922 c.c. («la
proprietà si acquista per occupazione, per invenzione, per accessione, per specificazione, per unione o
commistione, per usucapione, per effetto di contratti, per successione a causa di morte e negli altri modi
stabiliti dalla legge»). La giurisprudenza ha chiarito che quello di cui all’art. 922 c.c. costituisce una
«enumerazione non tassativa» (Cass. civ., 5 settembre 1992, n. 10525). Per quanto riguarda specificamente
l’occupazione, «essa è, innanzitutto, la presa di possesso, tramite l’esercizio dei poteri del proprietario,
della cosa mobile che non risulta in proprietà di alcuno […]. L’impossessamento da parte dell’occupante
determina per disposizione normativa l’acquisto a titolo originario del diritto di proprietà in ordine alla
cosa mobile costitutiva, quindi, di res nullius». G. FURGIUELE, La circolazione dei beni, in Diritto civile,
diretto da N. Lipari e P. Rescigno, coordinato da A. Zoppini, vol. II (Successioni, donazioni, beni), tomo II
(La proprietà e il possesso), Milano, 2009, p. 331.
227
«I frutti naturali sono, finché non avviene la separazione dalla cosa madre, parte di questa (sono pars
fundi) […]. Solo con la separazione i frutti diventano cose a sé stanti e, chiunque ne abbia attuato la
separazione (raccolto i prodotti del suolo, estratto i minerali dal sottosuolo, etc.), essi appartengono in linea
di principio al proprietario della cosa madre […]. In tal caso la proprietà si acquista al momento della
separazione (art. 821 c.c.). in una particolare condizione si trovano i frutti non ancora separati: essi sono
suscettibili, a norma dell’art. 820, comma 2, di una duplice considerazione giuridica: sono concepiti sì quali
“parte della cosa”; ma sono riguardati anche come “beni mobili futuri”. La loro coesistente natura di
“parte della cosa” implica che gli atti di disposizione, aventi per oggetto l’immobile, si estendono ai frutti
che ad esso accedono. Per effetto di tali atti di disposizione i frutti pendenti circolano secondo la legge di
circolazione dei beni immobili. Alla legge di circolazione – e, in genere, al regime giuridico – dell’immobile
si sottraggono, invece, gli atti che dispongano, separatamente, dei frutti pendenti. Di questi non si dispone
come di beni presenti, ma per esplicita qualificazione legislativa, “come di cosa mobile futura”. I frutti
vengono dedotti in contratto non quali essi attualmente sono, cioè quali parti dell’immobile cui accedono,
ma quali essi diverranno per effetto della separazione, cioè quali distinti beni mobili. E, se oggetto dell’atto
di disposizione non è la parte dell’immobile, ma sono – come beni mobili futuri – i frutti separati, la
disciplina applicabile all’atto non può essere, in nessun caso, quella dell’immobile; la loro vendita è sempre
vendita mobiliare, con tutte le relative conseguenze. La disciplina applicabile alla vendita dei frutti pendenti
è, insomma, la medesima disciplina della vendita dei frutti separati. Impropriamente, si parla, anzi, di
“vendita dei frutti pendenti”: oggetto del contratto sono, in ogni caso, i frutti separati: lo sono, dopo la
separazione, quali beni presenti; lo sono, prima della separazione, quali beni futuri, annunciati da una
situazione presente di aspettativa»: F. GALGANO, Trattato di diritto civile, cit., pp. 349-350.
228
«I frutti civili consistono nelle utilità che si ritraggono dalla cosa come corrispettivo del godimento
che altri ne abbia: si assiste ad una sorta di legittimazione della rendita percepita. Non si tratta, dunque, di
nuove entità materiali, dal che si è ritenuto di poter automaticamente arguire che non si tratta di nuovi
beni». L. FRANCARIO, I beni in generale, in Diritto civile, diretto da N. Lipari e P. Rescigno, coordinato da
A. Zoppini, vol. II (Successioni, donazioni, beni), tomo II (La proprietà e il possesso), Milano, 2009, pp. 5455.
159
di attività logicamente successive all’avvenuto compimento ad esistenza delle cose alle
quali dette attività si riferiscono.
Il legislatore, quindi, in questi casi introduce una fictio in funzione di un regime
giuridico, qual è quello sulla circolazione di questi particolari beni229; regime che
logicamente presuppone che un bene da far circolare «esista» in rerum natura, a
prescindere dalla sua attuale disponibilità da parte dell’uomo230.
Per altro verso, si osservi che l’«esistenza» della cosa viene altre volte intesa dal
legislatore in termini soggettivi, allorquando viene fatto riferimento non già alla sua
materialità, bensì alla sua condizione giuridica di cosa non facente parte del patrimonio di
chi ne dispone231: quest’ultima è la situazione alla quale esattamente si riferisce la vendita
di cosa altrui (artt. 1478-1488 c.c.)232.
229
Il fatto che il legislatore preveda un regime di circolazione sottintende che le cose siano già state
giuridicamente qualificate come beni (cfr. art. 810 c.c.).
230
Ad esempio, proprio nell’art. 820 c.c. è presente una fictio, allorquando viene stabilito che si può
disporre dei frutti naturali non separati «come di cosa mobile futura». È chiaro allora che qui il legislatore
abbia voluto riferire la futurità della cosa alla sua mera «assenza» nel momento in cui avviene la
disposizione della medesima, introducendo appunto una fictio che si rivela funzionale alla disciplina della
circolazione dei beni.
231
Si osservi che se si qualifica questa condizione con il più ampio concetto di «non appartenenza»,
anche le «res nullius» potrebbero essere ricomprese in questo contesto, oltre che in quello nelle quali sono
state contemplate.
232
Già B. BIONDI, I beni, cit., pp. 154-155, a dispetto delle premesse («si suole parlare di cose future in
un duplice significato, che bisogna tenere distinto perché ciascuno corrisponde a diverso regime giuridico»),
finiva poi per sovrapporre le nozioni di «bene futuro» e di «bene altrui» – in quanto, verosimilmente, a sua
volta sembrava equivocare le dicotomie concettuali assoluto/relativo e oggettivo/soggettivo –: «in generale
la cosa può essere presente o futura (attuale o che sorgerà), ma il bene, inteso come interesse giuridico, è
sempre attuale […]. Si suole parlare di cose future in un duplice significato, che bisogna tenere distinto
perché ciascuno corrisponde a diverso regime giuridico. a) Beni futuri soggettivamente sono quelli che
esistono in rerum natura ma non fanno parte del patrimonio del disponente; tuttavia si prevede che in
seguito possano appartenergli, senza che ciò sia dedotto come condizione o presupposto del negozio, il
quale è senz’altro valido come avente quale oggetto cosa altrui (vendita, legato, donazione, ecc.),
naturalmente con effetti puramente obbligatori. b) Beni futuri oggettivamente sono quelli che non esistono
nel patrimonio né del disponente né altrui; quindi non sono in rerum natura quali entità materiali o
giuridiche, ma di cui si prevede la futura esistenza, ad es., una casa da costruire, un credito di cui non esiste
ancora il titolo costitutivo, il diritto di autore di un libro o un’opera che ancora non esiste o neppure
pensata». La stessa sovrapposizione de qua è poi concretamente venuta in rilievo come principale argomento
per applicare analogicamente l’art. 771 c.c. («donazione di beni futuri») alla diversa fattispecie della
donazione «di cosa altrui» (cfr., tra le ultime, Cass. civ., Sez. VI, 23 maggio 2013, n. 12782: «la donazione
di cosa altrui, benché non espressamente disciplinata, deve ritenersi nulla alla stregua della disciplina
complessiva della donazione e, in particolare, dell'art. 771 c.c., poiché il divieto di donazione dei beni futuri
riguarda tutti gli atti perfezionati prima che il loro oggetto entri a comporre il patrimonio del donante»;
contra, Cass. civ., Sez. II, 5 febbraio 2001, n. 1596: «la nullità della donazione di un bene altrui ex art. 771
c.c. potrebbe essere affermata solo ove l'interpretazione (letterale e logica) di tale ultima norma consentisse
di considerare come beni futuri i beni non ancora del donante, ma esistenti in rerum natura ed appartenenti
160
Al riguardo, tenendo come punto di riferimento il momento della conclusione del
contratto, appare chiaro che mentre la vendita «di cosa altrui» trovi la sua ragione d’essere
in una inesistenza della cosa solo relativa e giuridica, nel senso che la cosa «esiste» ma
non è attualmente nel patrimonio del venditore233, la previsione della disciplina della
vendita «di cosa futura» avrebbe un significato suo proprio solo se si presuppone una
inesistenza non solo attuale – ossia «non presente» al momento della conclusione del
contratto –, ma finanche assoluta e oggettiva della cosa, nel senso che la stessa è
radicalmente inesistente nel mondo materiale234.
ad altri, ma non per via di interpretazione analogica, in considerazione della natura eccezionale della
norma in questione. Ritiene il collegio che tale interpretazione non sia possibile. A prescindere
dall'argomento logico costituito dal fatto che, ad altri fini, il legislatore ha considerato separatamente gli
effetti di atti di disposizione di beni futuri e di beni altrui (art. 1472 e 1478 ss. c.c.), occorre considerare che
l'art. 771, primo comma, c.c. espressamente stabilisce che se la donazione “comprende beni futuri, è nulla
rispetto a questi, salvo che si tratti di frutti non ancora separati”. Appare evidente, dalla formulazione di
tale norma, il riferimento del divieto ai soli beni non ancora esistenti in rerum natura. Una volta chiarito
che la donazione di beni altrui non è nulla ex art. 771 c.c., la stessa andrà considerata come semplicemente
inefficace»). Tuttavia, l’equiparazione tra beni futuri (inesistenti in rerum natura) e cosa altrui (ossia esistente
in rerum natura ma inesistente nel patrimonio del disponente) è e resta una fictio (in questo caso non iuris,
bensì ermeneutica) anche rispetto alla donazione: «infatti che non si possano applicare in forma analogicoestensiva i divieti di legge, tanto più nell’ambito di settori dell’ordinamento votati all’autonomia privata e
alla libertà d’iniziativa economica, è indiscutibile; ma la nullità della donazione di cosa altrui incontra
altrove il suo fondamento testuale e razionale, non certo nella temuta espansione dei divieti. Per usare la
massima sintesi, emerge dalla lettera e dalla sistematica legislative un netto sfavore per liberalità precoci e
come tali potenzialmente inconsulte, fatte senza una cognizione sufficiente del sacrificio patrimoniale che ne
derivi, quella cognizione che solo l’attualità dello spoglio sembra poter garantire» (così E. FERRANTE,
Donazione di cosa altrui, cit., p. 5). La nullità della donazione di «cosa altrui» non si fonderebbe quindi su
un’interpretazione analogica dell’art. 771 c.c., dedicato testualmente alla donazione «di beni futuri», ma
sarebbe desumibile dai principi che governano il complessivo sistema normativo sulle liberalità. Ciò detto,
non si può fare a meno di notare che nella diversa ipotesi della compravendita il legislatore disciplina
espressamente in due norme separate – e non a caso collocate in due sezioni distinte – la vendita di cosa
«futura» e la vendita di cosa «altrui»: «la legge, lungi dall’accomunare futurità ed altruità, in più luoghi
preferirebbe riservare trattamenti differenziati all’una ed all’altra categoria di beni» (sempre E. FERRANTE,
Donazione di cosa altrui, cit., p. 5). Peraltro, va precisato che più d’un dubbio s’insinua sulla possibilità di
poter legittimamente ricorrere all’analogia nel caso de quo: è fortemente dubitabile infatti che tra «altruità»
e «inesistenza» della cosa vi sia effettivamente una somiglianza.
233
G. B. FERRI, La vendita in generale, cit., p. 203, nota n. 59: «è pur vero che nella vendita di cosa
altrui (art. 1478 c.c.) la cosa può essere determinata al momento dell’accoro e tuttavia l’effetto che
immediatamente si produce è di natura obbligatoria; mentre l’effetto traslativo si produrrà, in un secondo
momento, quando cioè il venditore avrà acquistato la proprietà della cosa dal titolare di essa. In queste
ipotesi, tuttavia, il mancato verificarsi dell’effetto traslativo, al momento della stipulazione del contratto,
non dipende dalla natura (determinata o determinabile) della cosa, oggetto di trasferimento, ma dalla
alienità della cosa».
234
Cfr. Corte d’Appello Bari, 8 gennaio 1959, in Dir. giur., 1960, p. 97: «la singolare figura della
vendita di cose future importa che, al momento della conclusione del contratto la cosa o il diritto, oggetto
del negozio, non esista non solo nel patrimonio del venditore, come avviene nella vendita di cosa altrui (art.
161
Deve infatti ritenersi non casuale il fatto che il legislatore abbia disciplinato in due
norme distinte la vendita di cosa (descritta nel contratto ma inesistente in quanto) futura e
la vendita di cosa (descritta nel contratto ed esistente ma) altrui235.
Chiarito ciò, occorre ora esaminare una seconda questione sollevata dall’art. 1472 c.c.,
ossia quello del nesso di correlazione che la legge istituisce tra uno dei presupposti previsti
dall’art. 1376 c.c. per la produzione dell’effetto traslativo – ossia la «determinazione» della
cosa – e la «futurità» della stessa prevista dall’art. 1472 c.c.
Orbene, in primo luogo giova rilevare che il legislatore distingue a vari fini tra oggetto
«possibile» e oggetto «determinato o determinabile» (cfr. art. 1346 c.c.): si tratta però di
nozioni che a ben vedere attengono ad ambiti completamente differenti.
In particolare, mentre la «determinazione» e la «determinabilità» vengono
generalmente riferite alla «non attualità» dell’oggetto del contratto236, la «possibilità»
1478 c.c.), ma addirittura in rerum natura. Quindi l’oggetto del contratto è una prestazione di cosa ancora
inesistente».
235
Prima dell’entrata in vigore del codice civile del 1942, la vendita di cosa altrui veniva disciplinata sia
dal codice civile del 1865, che all’art. 1459 prevedeva che «la vendita della cosa altrui è nulla: essa può dar
luogo al risarcimento dei danni se il compratore ignorava che la cosa era di altri. La nullità stabilita da
questo articolo non si può mai opporre dal venditore», sia dal codice di commercio del 1865, che, al
contrario, all’art. 95 sanciva la validità e l’obbligatorietà della vendita commerciale («la vendita
commerciale della cosa altrui è valida. Essa obbliga il venditore a farne l’acquisto e la consegna al
compratore, sotto pena del risarcimento dei danni»). Il legislatore del 1942 – in ragione della cosiddetta
commercializzazione del diritto privato – ha invece disciplinato la vendita di cosa altrui con una nuova
normativa uniforme, la quale si è potuta raggiungere «mediante l’estensione della regola di validità portata
dal codice di commercio, in considerazione della facilità odierna degli scambi, per cui le parti rimangono
indifferenti circa l’attuale appartenenza della cosa: la conoscenza di questa alienità, infatti, può far credere
al compratore che il creditore si sia già assicurato l’acquisto della proprietà della cosa non propria, e così
il venditore è obbligato a fare acquistare al compratore la proprietà della cosa stessa. Se la cosa venduta
come propria sia di proprietà altrui ed il compratore ne era ignaro, si ha un caso non più di nullità, ma di
risoluzione del contratto (art. 1479): la relativa azione può essere evitata quando nel frattempo il venditore
diventi proprietario, e procuri così tempestivamente ed autonomamente la proprietà al compratore» (in
questi termini la Relazione al codice civile del 1942, n. 669).
236
In particolare, la «determinazione» assume rilevanza rispetto alla vendita di cose generiche; tuttavia,
in tale fattispecie vengono in rilievo questioni assai differenti rispetto a quelle sollevate dalla futurità della
cosa venduta. Ed proprio in ragione di tali differenze che verosimilmente il legislatore disciplina le due
fattispecie in norme differenti. In particolare, nella vendita di «cose generiche» il problema non riguarda
l’«esistenza» della cosa, bensì l’«individuazione» della stessa in relazione al regime del rischio del suo
perimento nel lasso di tempo che intercorre tra la conclusione della vendita e l’esecuzione dell’obbligazione
di consegna (artt. 1476, n. 1, e 1477 c.c.). Il punto, com’è noto, viene disciplinato dall’art. 1378 c.c.
(«trasferimento di cosa determinata solo nel genere») nei seguenti termini: «nei contratti che hanno per
oggetto il trasferimento di cose determinate solo nel genere, la proprietà si trasmette con l’individuazione
fatta d’accordo tra le parti o nei modi da esse stabiliti. Trattandosi di cose che devono essere trasportate da
un luogo a un altro, l’individuazione avviene anche mediante consegna al vettore o allo spedizioniere».
Orbene, mentre in dottrina «è vivamente controverso quale sia l’esatto significato della prima parte della
162
sembra invece essere riferita proprio all’«esistenza» di quest’ultimo: ed infatti le due
situazioni sono contemplate e disciplinate, anche a livello generale, in norme differenti237.
formula normativa» (così A. LUMINOSO, La compravendita, cit., p. 137), per la giurisprudenza prevalente è
pacifico che «ai sensi dell’art. 1378 c.c., la configurazione della vendita di genere postula che la cosa venga
dedotta nel negozio per la sua appartenenza ad una determinata categoria merceologica, così da
comportare il differimento della trasmissione della proprietà al compratore al momento dell’individuazione
dell’oggetto» (Cass. civ., 22 ottobre 1981, n. 5537) e che quindi «l’effetto traslativo e l’acquisto della
proprietà conseguono unicamente all’individuazione specifica dei beni» (Cass. civ., Sez. I, 15 novembre
1995, n. 11834). Per quanto poi riguarda la fattispecie particolare della vendita con spedizione, l’art. 1378
c.c. deve essere letto in combinato disposto con l’art. 1510, comma 2, c.c., per il quale «salvo patto o uso
contrario, se la cosa venduta deve essere trasportata da un luogo all’altro, il venditore si libera dall’obbligo
della consegna rimettendo la cosa al vettore o allo spedizioniere; le spese del trasporto sono a carico del
compratore». Sicché, come pure afferma la giurisprudenza assolutamente prevalente, «la proprietà si
trasferisce al compratore al momento della consegna al vettore, e con essa si trasferiscono anche i rischi ed
i pericoli cui è esposta la merce» (Cass. civ., Sez. III, 31 maggio 2005, n. 11585; Cass. civ., Sez. II, 7
febbraio 1998, n. 1300; Cass. civ., sez. III, 17 dicembre 1996, n. 11247; Cass. civ., Sez. III, 1993, n. 4331).
La legge surroga quindi l’atto di individuazione con quello di consegna al vettore, fissando in tale istante il
momento in cui avviene l’effetto traslativo; pertanto, essendo il compratore da quel momento divenuto
proprietario della cosa, i rischi e i pericoli derivanti dal trasporto dovranno essere da lui sopportati (res perit
domino). L’aver conseguito la proprietà della cosa comporta, di conseguenza, la titolarità di quello che più
sopra è stato identificato come «interesse assecurari»: più esattamente, nel caso in cui i rischi e i pericoli del
trasporto vengano assicurati dal compratore o addirittura dal medesimo venditore (e in tal caso si avrà
un’assicurazione «per conto di chi spetta», ex art. 1891 c.c.), anche dopo la consegna al vettore, i diritti
nascenti dal contratto di assicurazione potranno essere fatti valere solo dall’acquirente (così Cass.
11585/2005, cit.; Cass. civ., Sez. III, 3 settembre 2007, n. 18514). Sul punto, v. anche Cass. civ., Sez. III, 28
marzo 2008, n. 8063, la quale conferma il principio appena esposto, ma distingue l’ipotesi in cui sia il
venditore a provvedere da sé al trasporto della merce: in questo caso, fermo restando che «non è (salvo
naturalmente che così sia stato pattuito) individuazione rilevante agli effetti del passaggio del rischio il fatto
che il venditore, dovendo eseguire il trasporto esso stesso fino al compratore, abbia individuato in via di
fatto la merce imballandola e caricandola sul mezzo con cui esso stesso debba eseguire il trasporto. Siffatta
individuazione rileva solo nella sfera interna del venditore», «non può trovare applicazione la disciplina
dell’art. 1510, comma 2, c.c. e quella dell’art. 1378 c.c.», sicché «la proprietà delle cose vendute si
considera ancora del venditore»; e questo spiega perché in tale fattispecie concreta i diritti derivanti da
un’eventuale assicurazione dei rischi derivanti dal trasporto possano essere fatti valere solo dal venditore.
Ovviamente, il venditore resta in ogni caso responsabile per vizi della cosa non imputabili al trasporto (v.
Cass. civ., Sez. II, 19 dicembre 2006, n. 27125). Per quanto riguarda i problemi relativi all’individuazione dei
titoli di credito dematerializzati, v. Cass. civ., Sez. I, 14 giugno 2000, n. 8170 (la quel richiede, agli effetti
dell’art. 1378 c.c., la necessaria previsione di «meccanismi sia pure alternativi di scritturazione del titolo
stesso come bene immateriale, configurandosi, altrimenti, in relazione a questo, un credito e non più un
titolo di credito»).
237
Per quanto attiene la «determinazione dell’oggetto», cfr. l’art. 1349 c.c.; per quanto invece attiene la
«possibilità», v. gli artt. 1347-1348 c.c. L’assunto trova peraltro conferma nella Relazione al codice civile
del 1942, n. 616: «l’oggetto del contratto, per l’art. 1345, deve essere possibile, lecito, determinato o
determinabile. La possibilità può non esistere al tempo della conclusione del contratto se questo è sottoposto
a condizione sospensiva o a termine: basta che la prestazione divenga possibile prima dell’avveramento
della condizione o della scadenza del termine. Normalmente non è nemmeno indispensabile l’esistenza
attuale della cosa oggetto della prestazione (articoli 1348 e 1472); il divieto di patto successorio (art. 458) e
la nullità della dotazione (art. 179) [n.d.a.: prima delle modifiche intervenute con la legge di riforma del
163
Tradizionalmente, la nozione di «possibilità», al pari della sua variante negativa di
«impossibilità», viene intesa dalla dottrina in senso materiale e in senso giuridico.
Più esattamente, in relazione al contratto in generale è stato affermato che «la
possibilità deve intendersi sia in senso fisico o materiale sia in senso giuridico. L’oggetto
del contratto è materialmente possibile quando è astrattamente suscettibile di attuazione.
Il giudizio di possibilità, precisamente, non riguarda la concreta attitudine delle parti ad
assolvere l’impegno assunto, ma l’astratta realizzabilità di tale impegno, sia pure con
l’impiego di uno sforzo diligente superiore al normale»238; ancora, «se la prestazione
contrattuale del contratto, originariamente possibile, diventa impossibile in seguito, il
contratto nato valido resta valido, e l’impossibilità sopravvenuta potrà se mai determinare
la risoluzione; con l’ulteriore conseguenza eventuale – se l’impossibilità sopravvenuta sia
imputabile al contraente tenuto alla prestazione – della sua responsabilità per
inadempimento»239.
Si badi però che la dottrina appena richiamata fa sempre riferimento all’oggetto del
contratto inteso come «prestazione», ossia «ciò che è dovuto dal debitore al creditore»240,
quindi un concetto che «abbraccia non solo i comportamenti che vengono posti in essere
diritto di famiglia del 19 maggio 1975, n. 151, l’art. 179 c.c. era rubricato “beni futuri” e prevedeva che “la
costituzione di dote non può comprendere i beni futuri”] e della donazione di beni futuri (art. 771, primo
comma) sono esempi di quegli eccezionali divieti di contrarre su cose future a cui allude l’art. 1348». Si noti
come i compilatori della Relazione abbiano utilizzato la locuzione «esistenza attuale» proprio con
riferimento alla futurità della cosa, nel senso che tale «esistenza attuale» è da ritenersi «non indispensabile»
per la conclusione di un valido contratto: il che equivale a dire che di regola è ammessa la stipulazione su
cose inesistenti, fatti salvi i tassativi divieti di legge. La stessa Relazione prosegue poi specificando i criteri
che dovrebbero essere osservati dal terzo al quale sia stata affidata dalle parti appunto la «determinazione»
dell’oggetto: «questi deve tener conto anche delle condizioni generali della produzione alle quali il contratto
eventualmente abbia riferimento, uniformando a tali condizioni la determinazione della qualità e della
quantità dell’oggetto stesso. In regime di autarchia, modo di essere essenziale e motivo conduttore
dell’attività economia fascista, un regolamento dei rapporti individuali che elevi su ogni altra ragione
l’interesse all’incremento della ricchezza nazionale, è l’apporto che il diritto deve recare alla realizzazione
del postulato di una giustizia sociale, è la condizione necessaria per una progressiva rigenerazione
dell’economia nazionale». Tale criterio ha valenza normativa, posto che è contenuto nell’art. 1349, comma
3, c.c. («nel determinare la prestazione il terzo deve tenere conto anche delle condizioni generali della
produzione a cui il contratto eventualmente abbia riferimento»).
238
C. M. BIANCA, Il contratto, cit., pp. 322-323.
239
V. ROPPO, Il contratto, cit., p. 320.
240
«Oggetto e contenuto del rapporto obbligatorio è la prestazione, ossia ciò che è dovuto dal debitore
al creditore. La prestazione può consistere in generale nella realizzazione di qualsiasi finalità lecita,
materiale o giuridica, sempreché tale realizzazione sia giuridicamente imputabile al debitore». C. M.
BIANCA, L’obbligazione, Diritto civile, IV, Milano, 1990, pp. 32-33.
164
in esecuzione degli obblighi nascenti dal contratto ma anche i risultati (trasferimenti di
diritti) che immediatamente conseguono all’accordo nei contratti ad effetti reali»241.
Cionondimeno, la dottrina prevalente applica de plano i suddetti principi anche alle
prestazioni scaturenti dalla compravendita – di qualsiasi compravendita –, distinguendo tra
impossibilità materiale, che sussisterebbe «quando, ad esempio, venga venduta una cosa
specifica già perita o immaginaria, o comunque (attualmente inesistente e) tale che sia
dato escludere a priori che possa venire in futuro ad esistenza (ad esempio, i figli che
verranno concepiti da un animale sterile)», e impossibilità giuridica, che rileverebbe sotto
i profili «della alienabilità del diritto» e «della commerciabilità della cosa che forma
oggetto del diritto»242.
Al riguardo, per mera completezza, è appena il caso di rilevare che i concetti di
«alienabilità» e di «commerciabilità» nulla hanno a che vedere con la materiale venuta ad
esistenza della cosa: si tratta infatti di concetti giuridici che andrebbero più utilmente
collocati nel diverso ambito della liceità dell’oggetto, non già in quello della sua
possibilità243.
Ma a parte tale precisazione, pur ritenendo in questa sede di dover assumere che in
generale
per
«oggetto
del
contratto»
debba
intendersi
la
«rappresentazione
programmatica del bene», nell’ambito specifico della vendita di «cosa futura» la
«possibilità» si deve intendere riferita non tanto al complessivo programma contrattuale,
quanto piuttosto alla «cosa» in sé244.
241
A. CATAUDELLA, I contratti. Parte generale4, Torino, 2014, p. 33.
242
A. LUMINOSO, La compravendita, cit., p. 70, il quale dà atto che «ciascuno di tali profili solleva
tuttavia questioni tuttora controverse e richiama una casistica non sempre nitida».
243
Cfr. A. LUMINOSO, La compravendita, cit., p. 70: «per quanto attiene alla alienabilità del diritto, la
regola è l’alienabilità, l’inalienabilità l’eccezione […]. Riguardo alla commerciabilità della cosa, regola
generale è che tutti i beni possono formare oggetto di compravendita salve le specifiche e tassative eccezioni
previste dalla legge, che trovano fondamento nell’esigenza di tutela di interessi generali. In relazione a
queste ipotesi, se è sicuro che si tratta di limiti legali alla circolazione dei beni – limiti ora assoluti, ora
relativi –, è invece controverso se possa parlarsi sempre e indiscriminatamente di incommerciabilità del
bene; problema, questo, ricco di valenze e implicazioni costruttive e applicative, come dimostra l’incerto
procedere delle qualificazioni che vengono proposte, per le singole ipotesi, dalla dottrina e dalla
giurisprudenza». Sul punto, v. anche B. BIONDI, I beni, cit., p. 159: «la nota caratteristica o elemento di
identificazione delle cose fuori di commercio è fornito dalla generale inapplicabilità del diritto privato, più
precisamente degli istituti che abbiano carattere patrimoniale, o sono applicabili con particolari
adattamenti e regime diverso. Sono sempre cose o beni, ossia entità giuridiche che recano utilità all’uomo,
ma sottratti alla sfera dei rapporti di carattere privatistico e patrimoniale».
244
Sulla questione v. infra, in questo capitolo.
165
A ciò consegue che i principi appena evocati, riferiti all’oggetto come «prestazione»,
non siano logicamente applicabili con riferimento appunto all’oggetto della vendita inteso
come «cosa».
Per inquadrare correttamente tale assunto occorre però preliminarmente chiarire quale
sia la natura della vendita di cosa futura.
Al riguardo, senza ovviamente alcuna pretesa di esaustività, è sufficiente rilevare che in
dottrina vi è stato chi ha inquadrato la vendita di cosa futura come vendita strutturalmente
perfetta ma inefficace245, chi ha escluso che in ogni caso si tratti di una vendita
obbligatoria246 e chi al contrario ha ritenuto che la vendita avente ad oggetto il
trasferimento di una cosa o di un diritto futuro avrebbe effetti meramente obbligatori247 – e
quest’ultima è la tesi che attualmente sembra prevalere248 –.
245
In questi termini, P. PERLINGIERI, I negozi su beni futuri, I, La compravendita di «cosa futura»,
Napoli, 1962, pp. 138 ss., e R. SCOGNAMIGLIO, Contributo alla teoria del negozio giuridico, Napoli, 1969,
pp. 320 ss.
246
D. RUBINO, La compravendita, in Trattato di diritto civile e commerciale, diretto da A. Cicu – F.
Messineo, XXIII, Milano, 1952, p. 181.
247
V., ad esempio, C. M. BIANCA, La vendita e la permuta, in Trattato di diritto civile, diretto da F.
Vassalli, Torino, 1972, p. 337, secondo il quale nella vendita di cosa futura «il venditore è obbligato al
risultato traslativo e all’attività strumentale positiva necessaria per realizzarlo», A. LUMINOSO, La
compravendita, cit., p. 63, il quale sostiene che «non sembra potersi dubitare, in definitiva, che il venditore
di cosa futura è tenuto all’attività strumentale positiva necessaria per realizzare l’attribuzione traslativa: la
vendita di cosa futura integra quindi una c.d. vendita obbligatoria», nonché E. RUSSO, Della vendita, cit., p.
54: che nello stesso senso afferma che «nell’attuale ordinamento la vendita non è più un contratto
esclusivamente ad efficacia reale, sotto pena di nullità, ma ha due fondamentali atteggiamenti. Secondo il
primo, la vendita si avvale, se il venditore era proprietario della cosa, del meccanismo del consenso
traslativo, rendendo proprietario il compratore contestualmente allo scambio dei consensi. Ma la vendita
diventa contratto obbligatorio tutte le volte che l’acquisto non è effetto immediato del contratto (art. 1476,
comma 2, c.c.) […]. Nelle ipotesi suddette l’effetto traslativo non si identifica con l’efficacia contrattuale
(che è obbligatoria), ma costituisce null’altro che un meccanismo giuridico generico per investire il
compratore della proprietà della cosa». Per una ricostruzione più risalente, cfr. anche B. BIONDI, I beni, cit.,
pp. 157-158, per il quale «l’art. 1472 dispone tassativamente che nella vendita di cosa futura “la proprietà”
si acquista non appena la cosa esisterà […]. In ciò sta una delle principali differenze tra i beni futuri in
senso soggettivo e i beni futuri in senso oggettivo, giacché rispetto ai primi si producono tutti gli effetti
propri del negozio che abbia come oggetto cosa altrui. In ordine ai beni futuri materialmente o
giuridicamente inesistenti si verifica invece uno stato di sospensione, paragonabile a quello che si determina
nel caso di condizione. Il rapporto è costituito ed il consenso è irrevocabile. Secondo le diverse fattispecie,
occorre, se non prestare quella attività che eventualmente sia necessaria alla produzione della cosa, almeno
non ostacolare la produzione di essa. Questo stato di sospensione si risolve in due modi: se la cosa viene ad
esistenza, il negozio produce tutti gli effetti, reali ed obbligatori di cui è capace; gli effetti reali però si
producono quando la cosa abbia quella autonomia ed esistenza corporea che renda possibile il diritto reale.
Qualora la cosa non sorge, sempreché le parti non abbiano voluto concludere un contratto aleatorio, “la
vendita è nulla”; così dispone l’art. 1472, 2° comma per la vendita; ma il principio è applicabile qualunque
negozio. la legge parla di nullità, la quale si deve intendere come inesistenza per mancanza di oggetto. Da
ciò deriva la conseguenza che la situazione patrimoniale delle parti deve riportarsi come se il negozio non
166
In questa prospettiva ha sollevato particolari questioni ermeneutiche l’art. 1476, n. 2,
c.c., il quale indica tra le obbligazioni principali del venditore quella di far acquistare la
proprietà della cosa al compratore proprio per il caso in cui «l’acquisto non sia effetto
immediato del contratto».
Più esattamente – e prescindendo per il momento dall’obbligazione di pagare il prezzo a
carico dell’acquirente –, attribuendo alla vendita di cosa futura natura «obbligatoria» (e
non già quella di vendita perfetta ma inefficace) si avrebbe come conseguenza che il
venditore debba essere ritenuto obbligato rispetto all’acquisto della cosa da parte del
compratore: obbligo che, secondo la dottrina pressoché unanime, si sostanzierebbe in un
fare, e non già in un dare in senso romanistico («traditio solutionis causae»)249.
Tuttavia non è del tutto chiaro quale sia esattamente il contenuto di quest’obbligo nel
caso della fattispecie della vendita di «cosa futura»250.
In questa sede si ritiene che il venditore – a parte ovviamente il caso in cui la venuta ad
esistenza della cosa dipenda necessariamente da un facere materiale dell’uomo, come nel
caso in cui il venditore si sia impegnato a trasferire una cosa che deve essere ancora
prodotta o costruita da egli stesso o anche da terzi251 – possa anche essere tenuto a far
sia stato mai concluso; quindi restituzione del corrispettivo eventualmente anticipato, caduta delle garanzie,
ecc.».
248
«La gran parte dei consensi si raccoglie oramai attorno all’opinione che ravvisa una vera e propria
vendita obbligatoria»: A. LUMINOSO, La compravendita, cit., p. 62.
249
V., ex multis, V. MARICONDA, Il pagamento traslativo, in Contratto e impr., 1988, p. 741, che al
riguardo afferma che «il contratto non è produttivo di un’obbligazione di dare e ciò per il fatto che è esso
stesso causa dell’attribuzione che si realizza nel momento successivo in cui si verifica il fatto ulteriore che
integra la fattispecie traslativa», nonché L. MENGONI – F. REALMONTE, voce Disposizione (atto di), in Enc.
dir., XIII, Milano, 1964, p. 190, secondo i quali nelle vendite obbligatorie in nessun caso «nasce dal
contratto un’obbligazione di dare in senso tecnico, cioè nel senso di obbligazione di porre in essere un
autonomo atto traslativo del diritto, necessario e sufficiente a produrre il mutamento giuridico, il quale
pertanto sarebbe indipendente dalla validità del precedente contratto obbligatorio».
250
Deve essere sottolineato ulteriormente che la norma contempla proprio la venuta ad esistenza del
bene, quindi il passaggio da una assoluta assenza a una materiale presenza nel mondo reale. Come poi si è
visto, non sarebbero «inesistenti» i frutti che abbiano già fatto la loro comparsa in rerum natura ma risultino
ancora attaccati alla cosa madre, tant’è che l’art. 1472, comma 1 – in totale coerenza con la fictio prevista nel
sopraccitato art. 820, comma 2, c.c. – prevede in un cpv ad hoc che «se oggetto della vendita sono gli alberi
o i frutti di un fondo, la proprietà si acquista quando gli alberi sono tagliati o i frutti sono separati».
251
Cfr. A. LUMINOSO, La compravendita, cit., p. 67, il quale considera la vendita di immobili da costruire
di cui al d.lgs. 20 giugno 2005, n. 122, come la principale delle «applicazioni pratiche della vendita di cosa
futura»; contra, E. RUSSO, Della vendita, cit., p. 59: «il contratto che ha per oggetto un edificio da costruire
non rientra nell’ambito di applicazione dell’art. 1472 c.c. che riguarda, in senso stretto, specifiche categorie
di cose attualmente non esistenti, ma che nell’andamento normale degli eventi, hanno notevole probabilità di
venire ad esistenza senza l’attività produttrice del venditore. Quando viene in questione tale attività, la
fattispecie fuoriesce dall’ambito di applicazione dell’art. 1472 c.c. e rientra nell’ambito della disciplina
167
acquistare la proprietà della cosa al compratore, ma non possa certamente essere ritenuto
obbligato rispetto alla venuta ad esistenza della «cosa»252.
generale del contratto. Insomma, la vendita di cosa futura, oltre a riferirsi ad una cosa materiale, prescinde
dalla attività del venditore, e presuppone lo svolgimento normale degli eventi e che la cosa venga ad
esistenza per un processo naturale». Si osservi che il legislatore in questa specifica fattispecie collega
espressamente la venuta ad esistenza della cosa (ossia dell’immobile) ad un fare (id est la prestazione di
«costruire»): l’art. 1, lett. d, d.lgs. 122/2005 precisa infatti che «ai fini del presente decreto devono intendersi
[…] per “immobili da costruire” gli immobili per i quali sia stato richiesto il permesso di costruire e che
siano ancora da edificare o la cui costruzione non risulti essere stata ultimata versando in stadio tale da non
consentire ancora il rilascio del certificato di agibilità». Chiaramente, rispetto a questa ipotesi specifica non
potrebbe essere altrimenti, posto che la venuta ad esistenza di un bene artificiale – quale è l’immobile de quo
– presuppone necessariamente un’attività dell’uomo.
252
E ciò contrariamente a quanto sostiene la dottrina prevalente, secondo la quale il venditore sarebbe
sempre e comunque obbligato a porre in essere un’attività materiale positiva: più esattamente, concludendo
una vendita di cosa futura, il venditore sarebbe tenuto ad «eseguire tutti gli atti strumentali alla realizzazione
dell’attribuzione traslativa», e ciò finanche nella vendita di frutti naturali, rispetto ai quali «il dante causa
“non deve limitarsi ad assistere imperturbabile alle vicende di un processo naturale a lui estraneo”, ma
deve provvedere a coltivare diligentemente il fondo, eseguendo tutte le operazioni tecniche richieste per una
buona riuscita dei prodotti»: così F. NADDEO, L’efficacia, in La compravendita, a cura di A. Musio e F.
Naddeo, tomo I, Padova, 2008, pp. 310-311, la quale richiama l’opinione di BIANCA, GAZZARA, GRECOCOTTINO, LUMINOSO e FALZONE CALVISI. In termini non del tutto dissimili anche E. RUSSO, Della vendita,
cit., p. 68: in particolare, l’Autore, che come si è visto muove dall’esatto presupposto per il quale «la vendita
di cosa futura, oltre a riferirsi ad una cosa materiale, prescinde dalla attività del venditore, e presuppone lo
svolgimento normale degli eventi e che la cosa venga ad esistenza per un processo naturale», conclude
affermando che «la nozione di res sperata presuppone proprio questo: che nell’ordine naturale degli eventi
la cosa abbia una notevolissima probabilità di venire ad esistenza. Ed è questa probabilità che induce le
parti a contrattare. Ciò non implica che il venditore non abbia alcuna obbligazione. Egli dovrà comunque
non impedire l’evento della venuta ad esistenza della cosa e facilitarlo in ogni modo. Ma la sua obbligazione
non riguarda, non può riguardare la stessa venuta ad esistenza della cosa che deve sempre essere
riconducibile ad un fatto naturale». In tale argomentazione vi è un’evidente aporia, nella misura in cui al
venditore viene accollato l’obbligo di «facilitare in ogni modo» la venuta ad esistenza della cosa: il che
rappresenta evidentemente un’obbligazione di fare. Ed allora quid iuris se il venditore non pone in essere
alcuna misura facilitativa? La mancata venuta ad esistenza della cosa – che, come pure rileva dell’Autore,
«deve sempre essere riconducibile ad un fatto naturale» – dovrà essere imputata al venditore? E con quali
conseguenze sull’atto? Per il momento, si segnala soltanto che impostare la soluzione di tali quesiti
affermando che «la nullità per la mancata venuta ad esistenza della cosa appare come un ben strano
rimedio per una tipologia contrattuale di grandissima applicazione» non risulta soddisfacente (v. nota
successiva). Sotto una diversa prospettiva, deve essere pure osservato che potrebbe accadere che una delle
parti garantisca la venuta ad esistenza della cosa: e anche in questo caso – al pari di quello in cui la stessa
abbia assunto un obbligo di fare – il promittente sarà certamente da ritenere obbligato rispetto alla venuta ad
esistenza della cosa. Sul punto, v. R. SACCO, Il contenuto, in Trattato di diritto privato, diretto da P.
Rescigno, X, Torino, 1982, p. 261, il quale osserva che «la categoria della “cosa futura” serve di sfogo per
le ipotesi in cui l’oggetto manchi, ma possa venire in essere in tempo utile. Chi promette la cosa futura come
presente, o chi promette la cosa futura senza riserva espresse o tacite sul rischio che la cosa possa non
venire in essere garantisce il risultato, e sarà considerato inadempiente se la cosa non verrà in essere. Ne
segue che la promessa di cosa futura, la promessa di prestazione impossibile, l’inadempimento, il vizio,
finiscono per essere livellati nelle conseguenze. Il promittente risponde del risultato».
168
In questa prospettiva, alcuni Autori hanno sostenuto genericamente che sul venditore di
cosa futura gravi comunque un’obbligazione simile ma «più ridotta» dell’obbligazione di
«procurare l’acquisto»253; altri hanno invece del tutto opportunamente ritenuto che si tratti
di un’obbligazione negativa254.
Orbene, si ritiene che sia da accogliere proprio l’ultima delle opzioni proposte dalla
dottrina, dovendosi però precisare che la suddetta obbligazione negativa sorgerebbe sin dal
momento in cui avviene l’incontro dei consensi intervenuto nel contesto tipico di una
compravendita attualmente non eseguibile: sarebbe, in altri termini, una peculiare
obbligazione di protezione fondata sulla clausola generale di buona fede255.
253
E. RUSSO, Della vendita, cit., p. 68: «la vendita di cosa futura […] è vendita obbligatoria, produttiva
della obbligazione del venditore di procurare l’acquisto della cosa al compratore. Tale obbligo ha un
contenuto più ridotto e prevalentemente negativo nella fattispecie dell’art. 1472. Assume tutto il suo ampio
contenuto in tutte le ipotesi nelle quali si è al di fuori dell’art. 1472 c.c. o per i caratteri della cosa oggetto
del contratto, o per gli atteggiamenti della volontà dei soggetti. La nullità per la mancata venuta ad
esistenza della cosa appare come un ben strano rimedio per una tipologia contrattuale di grandissima
applicazione».
254
T. TORRESI, Elementi costitutivi del rapporto obbligatorio. Le obbligazioni naturali e reali, in Le
obbligazioni. Diritto sostanziale e processuale, a cura di P. Fava, tomo I, Milano, 2008, p. 340: «nella
vendita di cosa futura il venditore non ha un’obbligazione positiva, ma ha l’obbligazione negativa di non
impedire che la cosa futura venga ad esistenza»; sulle obbligazioni negative v., in generale, C. M. BIANCA,
L’obbligazione, cit., p. 120: «l’obbligazione negativa è l’obbligazione che ha ad oggetto un comportamento
omissivo del debitore, consistente in un non dare o in un non fare. Sotto l’aspetto contenutistico
l’obbligazione negativa costituisce un divieto, ossia un precetto giuridico negativo, ma essa si distingue
nettamente rispetto ai doveri extracontrattuali di non ledere l’altrui sfera giuridica (neminem laedere). Tali
doveri hanno infatti il carattere della genericità, essendo sanciti nei confronti di tutti i portatori di un
interesse giuridicamente meritevole dell’altrui rispetto. L’obbligazione negativa rientra invece nello schema
del rapporto obbligatorio intercorrente tra soggetti determinati o determinabili».
255
Al riguardo, v. G. ALPA, I Principi generali2, in Trattato di diritto privato, diretto da G. Iudica e P.
Zatti, Milano, 2006, pp.196-197: «il diritto italiano ignora la distinzione tra obbligazioni espresse e
obbligazioni implicite: non che i problemi che queste nozioni vogliono risolvere siano ignorati; anzi, essi
sono ben presenti ai giuristi italiani, ma vengono risolti facendo ricorso ad altre nozioni e ad altri istituti. La
distinzione è tipica dell’esperienza di common law, ove si distinguono le clausole che integrano
“conditions” oppure “warranties”, e ove si assuma che il contratto vincola non solo a ciò che le parti hanno
stabilito, ma anche a ciò che la legge e altri fattori ritenuti rilevanti possono prevedere. Per agevolare la
comprensione della distinzione, e la regola che enuncia la distinzione (art. 5.1) i redattori dell’Unidroit
hanno precisato all’art. 5.2. che le obbligazioni implicite derivano dalla natura e dallo scopo del contratto,
dalle pratiche già corso tra le parti, dalla buona fede, da ciò che è ragionevole. Ciò consente di realizzare
operazioni che il giurista italiano realizza mediante il ricorso alle regole di interpretazione, di integrazione,
alla teoria della presupposizione. Anche queste regole implicano la considerazione della natura e dello
scopo del contratto, degli usi (ad es., con riguardo alle c.d. clausole di stile, e alle pratiche osservate nel
luogo ove ha sede l’impresa, o nel settore economico in cui si colloca l’operazione economica, e,
soprattutto, della buon fede. La clausola generale di buona fede (ovviamente, oggettiva) consente di
individuare obblighi accessori, non previsti dai contraenti, ma inerenti alla natura del contratto. Forse, più
che di contenuto, in questo caso si parla di obblighi che sono connessi con l’esecuzione del rapporto. È
estraneo alla cultura giuridica classica italiana il riferimento a “ciò che è ragionevole”: ma l’applicazione
169
Non può infatti sfuggire che nella topografia del codice civile l’art. 1472 c.c. è collocato
nella Sezione dedicata alle «disposizioni generali» della vendita, ossia prima dei paragrafi
dedicati alle «obbligazioni del venditore» (tra le quali compare quella di cui all’art. 1476,
n. 2, c.c.) e alle «obbligazioni del compratore»: questo significa che la deduzione nel
contratto di una «cosa futura» concretizza una circostanza di fatto propedeutica a qualsiasi
altra peculiarità che caratterizza giuridicamente il tipo, ivi comprese le obbligazioni
essenziali256 gravanti in capo a ciascuno dei contraenti257.
della buona fede, e la considerazione della natura e delle circostanze dell’operazione suppliscono al difetto
di questo criterio/modello di riferimento». Pur essendo noto, giova ricordare che i principi dell’«organismo
indipendente dai Governi» UNIDROIT (acronimo che deriva dalla combinazione delle parole francesi
«unification» e «droit»), elaborati allo scopo di «unificare il diritto del commercio internazionale e la
creazione di una nuova lex mercatoria […], non presentano alcuna efficacia vincolante e trovano
applicazione nella prassi contrattuale grazie alla loro forza persuasiva»: così P. FAVA, Il rapporto
obbligatorio nell’assetto multilivello delle fonti: verso la “codificazione” comunitaria del diritto privati, in
in Le obbligazioni. Diritto sostanziale e processuale, a cura di Id., tomo I, Milano, 2008, pp. 294-295.
256
Cfr. A. LUMINOSO, La compravendita, cit., p. 119, il quale con riguardo alla compravendita distingue
tra effetti essenziali (il trasferimento del diritto e il sorgere dell’obbligazione del prezzo), effetti normali
(nascita obbligazione di consegna della cosa) e effetti accidentali (altri pattuizioni convenute in concreto
dalle parti).
257
Contra, F. NADDEO, L’efficacia, p. 320, la quale, condividendo l’opinione di PERLINGIERI, BIANCA e
LUMINOSO, afferma che: «se, dunque, la vendita di cosa futura è contratto valido ed efficace sin dall’inizio,
la mancata venuta ad esistenza del bene si colloca logicamente nella fase della sua esecuzione ed in
particolare, ponendosi come impedimento alla attuazione dell’obbligo del venditore di far acquistare il
diritto, può agevolmente inquadrarsi nell’impossibilità sopravvenuta della prestazione la quale, se non
imputabile al debitore, dà luogo alla automatica risoluzione del contratto, ai sensi degli artt. 1218 e 1463
c.c.». Invero, già sul piano logico, sembrerebbe non corretto invertire la cronologia degli eventi, collocando
la propedeutica situazione di fatto della «venuta ad esistenza della cosa» nella fase esecutiva della
compravendita; di conseguenza, non sarebbe neppure legittimo imputare quel fatto al venditore, né il
legislatore pare pretenderlo. Si comprende perciò, anche sulla base di questo presupposto, che il riferimento
ai rimedi risolutori non sia opportuno (in part., v. gli artt. 1453, 1463 e soprattutto 1465 c.c. – quest’ultimo
escluso in radice stante l’inesistenza di una «cosa determinata» nel senso sopra precisato –). Più esattamente,
in questa sede si ritiene che finché la cosa non venga ad esistenza, in capo al venditore non sorga alcun
obbligo di procurare l’acquisto della cosa ex art. 1476, n. 2, c.c. («le obbligazioni principali del venditore
sono […] quella di fargli acquistare la proprietà della cosa o il diritto, se l’acquisto non è effetto immediato
del contratto»). Tale obbligo, come si è appena accennato, è crono–logicamente successivo alla venuta ad
esistenza della cosa. A tal proposito, come è pure stato chiarito supra, giova ribadire che nel caso della
vendita di cosa futura – come nelle altre fattispecie di vendita cosiddetta obbligatoria – l’effetto traslativo è
«cronologicamente mediato»; deve ora essere precisato ulteriormente che la vendita, compresa quella di
«cosa futura», è, com’è noto, un modo di acquisto a titolo derivativo. A tal proposito, si ritiene innanzitutto
di dover condividere quanto sostenuto U. GRASSI, Art. 1479 – Buona fede del compratore, in Commentario
del codice civile diretto da E. Gabrielli, modulo Dei singoli contratti (artt. 1470-1547), a cura di D.
Valentino, Torino, 2011, p. 241, il quale afferma che «è opinione di alcuni che l’obbligazione [n.d.a. di
procurare l’acquisto in capo al venditore] possa dirsi adempiuta anche laddove il venditore procuri alla
controparte un acquisto a titolo originario […]. L’opinione reca però con sé alcune contraddizioni […]. Sul
piano funzionale, è arrecata dal contrasto tra la causa del contratto di vendita e l’acquisto a titolo
originario: difatti già la lettura dell’art. 1470 c.c. indica con chiarezza che l’acquirente si propone il fine di
170
conseguire un acquisto a titolo derivato dalla sfera giuridica della controparte», sicché sarebbe da escludere
che «l’acquisto a titolo originario – laddove si verifichi – possa anche essere rivendicato dal venditore quale
modalità di adempimento dell’obbligazione di far acquistare la proprietà». A ciò consegue che per aversi
«compravendita», la cosa, non appena essa viene ad esistenza, non potrà passare direttamente in proprietà
del compratore – nel qual caso si avrebbe un modo acquisto a titolo originario della stessa, appunto
ontologicamente incompatibile con la causa tipica della compravendita –, ma dovrà intendersi acquisita a
titolo originario dal venditore, il quale sarà poi obbligato in forza del contratto di vendita proprio a trasferire
la cosa medesima all’acquirente (la giurisprudenza è però di contrario avviso: v, ex multis, Cass. civ., Sez. II,
10 agosto 2006, n. 18129: «a differenza del contratto preliminare, la vendita di cosa futura non integra gli
estremi del contratto “in formazione”, ma costituisce un negozio perfetto ab initio, avente la sola
particolarità che l'effetto traslativo è rinviato al venire ad esistenza del bene, al cui avverarsi esso si
produce automaticamente, senza che occorra un successivo atto di trasferimento»). È in questa prospettiva
che deve allora essere interpretato l’art. 1472, comma 1, c.c., il quale dispone testualmente che «nella vendita
che ha per oggetto una cosa futura, l’acquisto della proprietà si verifica non appena la cosa viene ad
esistenza». La norma dice infatti «l’acquisto della proprietà», senza precisare in capo a chi si verifichi tale
«acquisto»; e in tal senso, l’unica soluzione compatibile con il regime giuridico della compravendita – a
meno che non si voglia declinare la fattispecie della compravendita come un improbabile modo di acquisto a
titolo originario – sembra essere appunto quella di riferire l’«acquisto» di cui parla l’art. 1472, comma 1, cit.
al venditore. La sequenza logica della fattispecie sarà quindi la seguente: vendita di cosa inesistente–venuta
ad esistenza della cosa–acquisto della proprietà a titolo originario da parte del venditore quale effetto
giuridico del fatto naturale «venuta ad esistenza della cosa»–nascita delle obbligazioni tipiche della
compravendita (e, segnatamente, di quella di trasferire la proprietà al compratore). Ciò significa che
l’obbligo in capo al venditore di cui all’art. 1476, n. 2, c.c. (ossia, quello di «far acquistare la proprietà della
cosa» al compratore) sorgerà non già contestualmente alla conclusione della compravendita, ma
successivamente, ossia nell’esatto momento in cui la cosa sia venuta ad esistenza. Sulla questione, cfr. anche
A. LUMINOSO, La compravendita, cit., p. 52, il quale fa riferimento alla questione appena accennata in
relazione alla vendita di frutti pendenti: «non è ben chiaro se la vendita di frutti pendenti (art. 820, comma 2,
c.c.) sia fonte di un acquisto derivativo-costitutivo direttamente in favore del compratore o dia luogo a un
doppio acquisto: un primo acquisto in capo al venditore (proprietario della cosa madre) a titolo originario,
e un secondo acquisto in capo in capo al compratore a titolo derivativo-traslativo». Infine, è appena il caso
di osservare che in altri precedenti giurisprudenziali in cui è stato affermato che l’acquisto del «diritto» (e
non già della «cosa») avviene direttamente in capo all’avente causa non appena lo stesso viene ad esistenza
riguardano la fattispecie della «cessione» ex artt. 1260 ss. c.c. (e non della «compravendita» ex artt. 1470 ss.
c.c.) aventi ad oggetto «crediti futuri» (e non «cose future»): v., ad esempio, Cass. civ., Sez. I, 22 aprile
2003, n. 6422 («nel caso di cessione di credito futuro, quest’ultimo si trasferisce in capo al cessionario
soltanto nel momento in cui il credito stesso viene in essere, sicché, fino a tale momento, il contratto di
cessione ha esclusivamente effetti obbligatori tra le parti»); Cass. civ., Sez. I, 25 luglio 1997, n. 6969 («la
cessione produce l'immediato trasferimento della posizione attiva del rapporto obbligatorio al cessionario,
che diviene l'unico soggetto legittimato a pretendere la prestazione dal debitore ceduto. Sicché egli diviene
titolare del diritto di credito ceduto, già all'atto dell'incontro del consenso delle parti, salvo che, essendo
oggetto del contratto un credito futuro, il trasferimento sia differito al momento in cui il credito viene ad
esistenza»); Cass. civ., Sez. I, 17 marzo 1995, n. 3099 («la natura consensuale del contratto di cessione di
credito importa che esso si perfeziona per effetto del solo consenso dei contraenti, cedente e cessionario, ma
non importa, altresì, che al perfezionamento del contratto consegua sempre il trasferimento del credito dal
cedente al cessionario, così, nel caso in cui oggetto del contratto di cessione sia un credito futuro, il
trasferimento del credito dal cedente al cessionario si verifica soltanto nel momento in cui il credito viene ad
esistenza, prima di allora il contratto, pur essendo perfetto, esplica efficacia meramente obbligatoria»).
Invero, la questione è in questa evenienza solo simile rispetto alla fattispecie della «vendita» di «cosa»
futura, presentando delle peculiarità che la rendono ben più complessa. In primo luogo, che l’art. 1472 c.c.
171
Da ciò discende ulteriormente che nella fattispecie di base di vendita di cosa futura –
ossia quella in cui il venditore non abbia assunto specificamente alcuna obbligazione di
fare venire ad esistenza la cosa – il contenuto concreto dell’obbligazione negativa di non
fare in capo al venditore consisterà tout court nell’obbligo di non intervenire nella
concatenazione causale che porterà ad esistenza la cosa258.
possa essere riferito ai «crediti futuri» è controverso, in quanto «la disposizione è finalizzata a determinare
“l’acquisto della proprietà” della cosa, e non già l’acquisto di un diritto di credito. Molto debole è
l’argomentazione secondo la quale il riferimento alle “cose” sarebbe sintetico e tecnicamente non preciso,
volendo la legge riferirsi, in generale, ai diritti futuri, ivi compresi i diritti di credito. Perché la disposizione
comprenda anche i diritti di credito, occorre superare l’ulteriore difficoltà costituita da ciò che l’alienazione
di un credito non è vendita dello stesso credito, ma cessione di esso» (in questi termini E. RUSSO, Della
vendita, cit., p. 56). In secondo luogo, il fatto che la vicenda circolatoria abbia ad oggetto un «credito»
presuppone necessariamente la sussistenza di una prestazione, ossia di un comportamento dovuto dal
debitore o da un terzo, spostando il tema su altre questioni che non possono essere adeguatamente
approfondite in questo contesto. Si ritiene comunque sufficiente rilevare che la circolazione del «credito» in
generale non è di per sé incompatibile con i modi di acquisto a titolo originario: si pensi, ad esempio, alla
disciplina dei titoli di credito. Al riguardo, v. F. DI SABATO, Istituzioni di diritto commerciale3, Milano,
2006, p. 423: «come è noto, la cessione ordinaria dei crediti determina l’acquisto del credito a titolo
derivativo, con la conseguenza delle ripercussioni a carico dell’acquirente dei vizi relativi alla titolarità del
credito esistenti in capo all’alienante, nonché con le conseguenze dell’opponibilità all’acquirente delle
eccezioni personali a quest’ultimo. Occorreva perciò introdurre un sistema che consentisse all’acquirente di
acquisire il diritto sempre a titolo originario. Il titolo di credito costituisce uno strumento predisposto dal
legislatore – ma naturalmente di origini assai antiche – al fine di eliminare gli inconvenienti che possono
ricorrere avuto riguardo alla cessione ordinaria dei crediti, come disciplinata dagli artt. 1262 ss. del codice
civile, e così agevolare e velocizzare la mobilitazione della ricchezza».
258
Cfr. art. 1222 c.c. («inadempimento di obbligazioni negative»): «le disposizioni sulla mora non si
applicano alle obbligazioni di non fare; ogni fatto compiuto in violazione di queste costituisce di per sé
inadempimento». Si ribadisce, pertanto, che tra il momento della conclusione del contratto di vendita e quello
della venuta ad esistenza della cosa non sia configurabile alcun obbligo «di fare» astrattamente assimilabile
a quello procurare l’acquisto in capo al venditore, mentre graverebbe su entrambe le parti solo ed
esclusivamente un’obbligazione negativa di «non fare», ossia di non interferire sul naturale decorso causale
che potrebbe determinare la venuta ad esistenza della cosa: un obbligo quindi di mera attesa, caratterizzati da
un contegno in concreto non dissimile da quegli obblighi cosiddetti di stand-still di origine comuntaria,
previsti e contemplati per altri fini e in ben altri contesti sia dal legislatore (ad es., nel d.lgs. 163/2006, che al
comma 10 dell’art. 11 – rubricato «fasi delle procedure di affidamento» – dispone che «il contratto non può
comunque essere stipulato prima di trentacinque giorni dall'invio dell'ultima delle comunicazioni del
provvedimento di aggiudicazione definitiva») che dalla prassi (ad es., in ambito bancario il cosiddetto
«standstill agreement» consiste in un «impegno delle banche a non richiedere alcun pagamento di qualsiasi
importo dovuto, anche se scaduto, e a non intraprendere azioni per il recupero del proprio credito»: così T.
PIEMONTESI, L’esperienza di Unicredit Corporate Banking nelle azioni di risanamento e restructuring della
propria clientela, in Superare la crisi con i piani di risanamento e gli accordi di ristrutturazione dei debiti, a
cura di M. Rutigliano, Milano, 2010, p. 68).
172
Deve inoltre essere precisato che lo stesso obbligo di non fare – in quanto originante
dalla clausola della buona fede – avrebbe il carattere della reciprocità259: esso infatti
graverebbe verosimilmente anche sull’acquirente, il quale non solo sarà tenuto ad
adempiere l’obbligazione essenziale della compravendita di pagare il prezzo una volta che
tale processo causale sia venuto a compimento, ma ancor prima – ossia sin dalla
conclusione della vendita, che come si è visto avrebbe in tal caso natura meramente
obbligatoria – risulterebbe obbligato a rispettare la speculare aspettativa del venditore di
vedere realizzato il programma tipico della compravendita (ossia quello del «trasferimento
della proprietà della cosa o di altro diritto verso il corrispettivo di un prezzo»).
Anche l’acquirente, pertanto, è tenuto a non intervenire nella concatenazione causale
che porterà ad esistenza la cosa.
Inquadrando in questi termini la fattispecie, appare allora chiaro che il legislatore
nell’art. 1472, comma 1, cit. abbia inteso il concetto di «esistenza» non già come mera
assenza del bene al momento della stipulazione, bensì proprio come «possibilità di
rapporti concreti con la realtà materiale»260: di conseguenza, la «determinazione» cui fa
riferimento l’art. 1376 c.c. deve in questo contesto essere precisamente intesa come
«determinazione causale»261.
259
In tal senso, v., ad esempio E. BETTI in Teoria Generale del negozio giuridico, Milano, 1951, p. 42,
secondo il quale la buona fede rimane il sommo criterio di valutazione dei reciproci obblighi contrattuali
anche dopo che è sopraggiunta la sanzione del diritto.
260
Così G. DEVOTO – G. C. OLI, Nuovo vocabolario illustrato della lingua italiana, vol. I, Firenze, 1987,
i quali, per ciò che qui rileva, definiscono i concetti di «esistenza» e di «inesistenza» come, rispettivamente,
la «totale possibilità di rapporti concreti con la realtà materiale» e la «mancanza di realtà effettiva».
261
«Indichiamo con “determinismo causale” o soltanto con “causalità”, la dottrina che afferma
l’universale validità del principio causale. Ecco alcune formulazioni della sostanza di questa teoria: “ogni
cosa ha una causa”, “nulla al mondo avviene senza una causa” […]. Raramente gli scienziati moderni si
servono dell’espressione “relazione causale”, quando poi se ne servono, non adoperano quasi mai, pur
trovandosi immersi in essa, la parola conoscenza»: così M. A. BUNGE, La causalità. Il posto del principio
causale nella scienza moderna, trad. it. di Emilio Alessando Panaitescu, Torino, 1970, p. 381. Nello stesso
senso – sempre con riferimento alla fattispecie della vendita di cosa futura – andrebbe interpretato il
riferimento alla «cosa determinata» contenuto nell’art. 1465, comma 1, c.c. («nei contratti che trasferiscono
la proprietà di una cosa determinata ovvero costituiscono o trasferiscono diritti reali, il perimento della
cosa per una causa non imputabile all’alienante non libera l’acquirente dall’obbligo di eseguire la
controprestazione, ancorché la cosa non gli sia stata consegnata»). Al riguardo, si osservi che: a) il concetto
di «perimento della cosa» non coincide evidentemente con quello di «venuta ad esistenza della cosa», posto
che il primo presuppone logicamente il secondo; b) solo una volta che la cosa sia «venuta ad esistenza» potrà
quindi essere applicato l’art. 1465 c.c.; c) nel caso specifico della vendita di cosa futura potrà poi essere
applicato il solo comma 1 dell’art. cit., e non già il comma 2 (vendita con effetto traslativo sottoposto a
termine), 3 (vendita di cose determinate solo nel genere) e 4 (vendita sottoposta a condizione sospensiva);
semmai, questi potranno trovare applicazione dopo la venuta ad esistenza della cosa e solo nel caso in cui la
cosa, ormai divenuta presente, sia generica (comma 3), oppure nel caso in cui le parti abbiano previsto un
173
In definitiva, intendere il concetto di «esistenza» in senso essenzialmente naturalistico
significa portare la questione sul terreno della causalità naturale, posto che, nella
fattispecie di base prevista dall’art. 1472 c.c., rispetto alla produzione dell’evento (id est la
venuta ad esistenza della cosa) non assumono rilevanza i comportamenti positivi delle
parti.
Si osservi ora che la soluzione ermeneutica appena proposta consentirebbe di superare
le annose controversie sviluppatesi intorno ad un altro problema sollevato dall’art. 1472
c.c.262, e segnatamente quello relativo alla previsione della nullità della vendita di cosa
futura «se la cosa non viene ad esistenza».
Orbene, secondo l’impostazione maggioritaria e attualmente seguita dalla dottrina –
nonostante le incongruenze e le contraddizioni di cui la stessa è pure consapevole –
«questo precetto di “nullità” lascia perplessi: è stato ritenuto una soluzione inappropriata
ed è tendenzialmente letto da dottrina e giurisprudenza come assimilabile ad una
fattispecie di risoluzione»263.
termine o una condizione sospensiva (commi 2 e 4), elementi destinati ad operare però nella fase successiva
alla venuta ad esistenza della cosa (fase, questa, autenticamente esecutiva).
262
V., ad esempio, V. ROPPO, Il contratto, cit., p. 324, per il quale il senso dell’art. 1472 c.c. «è alquanto
controverso».
263
Così L. DELOGU, La vendita, in Trattato della responsabilità contrattuale, diretto da G. Visintini, I
singoli contratti, tomo II, Padova, 2009, p. 97. Nello stesso senso, v., tra gli altri, D. RUBINO, La
compravendita, cit., pp. 184-185: «l’art. 1472 2° comma dice che il contratto è nullo; ma in realtà qui la
situazione non è quella della nullità in senso proprio, la quale per sua natura è originaria. È analoga ad
essa, in quanto anche ora rimane per sempre escluso che possano sorgere gli effetti definitivi della vendita;
ma ora, a differenza che nella nullità vera e propria, sono sorti medio tempore gli effetti preliminari
anzidetti. Comunque siccome rimane preclusa la nascita degli effetti definitivi, non arriva più a sorgere
l’obbligazione di pagare il prezzo e, se questo era già stato versato, in tutto o in parte, il compratore ha
diritto di averlo restituito»; C. M. BIANCA, La vendita, cit., p. 387: «l’ambigua formula normativa che
dichiara nulla la vendita quando la cosa non venga ad esistenza (art. 1472, secondo comma, cod. civ.), deve
appunto essere spiegata tenendo presente la sicura iniziale validità del contratto e l’operatività del vincolo
che impegna il venditore a procurare il diritto al compratore. La certezza che il bene non possa venire ad
esistenza rileva quindi in una fase successiva alla costituzione del contratto, e precisamente in sede di
esecuzione del rapporto. Ciò significa che il contratto si risolve ma che, trattandosi di una impossibilità che
colpisce la prestazione, la responsabilità del venditore è esclusa solo in quanto tale impossibilità non sia a
lui imputabile secondo la regola dell’inadempimento (art. 1218 cod. civ.)»; L. BALESTRA, I beni, in
Proprietà e diritti reali, vol I, a cura di Id., Torino, 2011, p. 173, secondo il quale nel contesto dell’art. 1472,
comma 2, c.c. «il legislatore usa forse in modo troppo disinvolto la nozione di nullità». V. anche P.
PERLINGIERI, I negozi su beni futuri, cit., pp. 175 ss., per il quale la situazione in parola configurerebbe una
risoluzione di diritto derivante dall’inutilità del contratto. Discorrono invece di nullità – e non già di
risoluzione – O. CAGNASSO – G. COTTINO, Contratti commerciali2, Padova, 2009, p. 54.
174
La conseguenza applicativa di tale arbitraria264 opzione ermeneutica sarebbe che «ove
si accerti che la cosa dedotta in contratto come futura non potrà sicuramente venire ad
esistenza, diviene impossibile la prestazione che forma oggetto dell’obbligazione del
venditore di cui all’art. 1476 n. 2. La risoluzione sarà automatica, a norma dell’art. 1463
c.c., se l’impossibilità non sia imputabile al venditore; in caso contrario troverà
applicazione la disciplina dell’art. 1453 c.c., non esclusa la tutela risarcitoria per
l’interesse contrattuale positivo a carico del venditore inadempiente. In tal senso va perciò
interpretata – una volta che si parte dalla premessa della completezza strutturale della
vendita di cosa futura – la formula normativa (che compare nell’art. 1472 cpv c.c.) che
sancisce la nullità della vendita»265.
Tuttavia, si ritiene che tale orientamento non sia affatto condivisibile, almeno nella
misura in cui si pretende di conferirgli portata di regola generale.
In primo luogo – anche a tacere del fatto che quella appena descritta rappresenta
evidentemente un’interpretazione palesemente praeter (se non addirittura contra) legem –
deve essere rilevato che non corrisponde al vero che anche la giurisprudenza legga la
norma «come fattispecie di risoluzione», e ciò neppure «in via tendenziale», posto che nei
precedenti giurisprudenziali (compresi quelli citati dalla corrente dottrinale che qui si
critica), quando si giunge a dichiarare la risoluzione del contratto – anziché dichiararne la
nullità – a cagione della mancata venuta ad esistenza della cosa, lo si fa perché nel caso
concreto il venditore aveva preventivamente assunto uno specifico obbligo in tal senso266.
264
Non va infatti dimenticato che l’art. 1472, comma 2, c.c. discorre testualmente di «nullità», cosicché,
pur in presenza di difficoltà ermeneutiche di una certa rilevanza, non sarebbe in ogni caso legittimo «candida
de nigris et de candentibus atra facere».
265
In questi termini A. LUMINOSO, La compravendita, cit., p. 65.
266
Cfr., ad esempio, Cass. civ., Sez. I, 22 marzo 1960, n. 587, in Foro it., I, 1960, p. 565: («fra gli
obblighi derivanti dal contratto di vendita di cosa futura può sorgere, per espresso patto contrattuale, a
carico del venditore, quello di tenere un determinato comportamento necessario perché la cosa venga ad
esistenza, e cioè di svolgere una specifica attività per concorrere alla produzione della cosa. Tale
obbligazione è intimamente collegata con rapporto di causa ad effetto con quelle fondamentali del venditore
di procurare l’acquisto della cosa e di consegnare la stessa, per cui il colposo inadempimento della prima
costituisce anche colposo inadempimento della seconda e dà luogo, quindi, al risarcimento integrale dei
danni, consistenti non solo nelle spese e nelle perdite strettamente dipendenti dal contratto, ma anche nel
lucro che il compratore avrebbe realizzato dal contratto medesimo»); Cass. civ., Sez. I, 6 aprile 1966, n.
910, in Foro it., 1967, I, p. 354 («la vendita di cosa futura non consiste in un contratto in formazione non
ancora perfetto, ma in un negozio perfetto ab initio, con contenuto ed effetti obbligatori, ricorrendo in esso
tutti gli elemento essenziali del contratto, e cioè i soggetti, la causa venditionis e l’oggetto costituito dalla res
sperata aut in fieri […]. L’obbligazione assunta contrattualmente dal venditore di un immobile […] di far
ottenere al compratore la licenza di abitabilità, costituisce promessa del fatto del terzo che obbliga il
promittente al risarcimento del danno in caso di mancato rilascio della licenza»), nonché Cass. civ., 7
175
Ciò confermerebbe che la ricostruzione sopraccitata fatta dalla dottrina non può
assurgere a regola generale, risultando valida soltanto nelle ipotesi in cui il venditore di
cosa futura abbia assunto uno specifico obbligo di fare in ordine alla venuta ad esistenza
della cosa.
È chiaro allora che la «nullità» di cui all’art. 1472 c.c. abbia una sua specifica ratio
proprio rispetto a quella che è stata definita la fattispecie di base di vendita di cosa futura,
ossia quella in cui il venditore non ha assunto alcuno specifico obbligo «di fare» rispetto
alla venuta ad esistenza della cosa.
giugno 1976, n. 2073, in Giust. civ. mass., 1976, p. 914 («la vendita di cosa futura è ammessa nel nostro
ordinamento ed è perciò valida se non affetta da vizi genetici dell’art. 1418 c.c.; essa esplica effetti
obbligatori, poiché, di regola, il venditore si obbliga a non impedire che la cosa venduta venga ad esistenza,
il che non esclude che egli possa obbligarsi, anche implicitamente, ad attivarsi al raggiungimento del
medesimo effetto. Da ciò consegue che, qualora la cosa non venga ad esistenza, viene meno l’obbligo del
pagamento del prezzo (trattasi perciò di inefficacia sopravvenuta e non di nullità, come è detto nel
capoverso dell’art. 1472 c.c.) e bene può essere il venditore condannato, se colpevole, al risarcimento del
danno per inadempimento»). In perfetta coerenza con tale orientamento, v. pure Cass. civ., Sez. II, 15 giugno
1988, n. 4094, in Arch. civ., 1989, pp. 39 ss., nella quale, in un caso di vendita di una massa di frutti naturali
futuri con corrispettivo determinato a corpo, è stato affermato che questa «conserva la propria efficacia a
prescindere dalla quantità della massa venuta ad esistenza, l'inefficacia potendo conseguire, ai sensi
dell'art. 1472 comma 2 c.c., solo nel caso in cui la massa non venga affatto ad esistenza, neppure in scarsa
quantità», precisandosi ulteriormente che in tale ipotesi non può essere dichiarata la nullità di detto contratto
se «la quantità della massa venuta a esistenza risulti inferiore a quella prevista e prevedibile dall’acquirente
al tempo della conclusione del contratto medesimo», in quanto «l'assunzione, da parte dell'acquirente,
dell'alea della quantità, non avviene certo in astratto ma in relazione ed in funzione dell'oggetto concreto del
contratto, e, quindi, non senza considerare l'epoca e la durata del periodo in cui i frutti verranno a
maturazione e potranno essere separati e raccolti»; ancora, sempre sulla stessa linea ermeneutica, v. la
recente pronuncia Cass., civ., Sez. II, 25 gennaio 2007, n. 1623, in iusexplorer.it., nella quale si muove
dall’esatto assunto per cui «in tema di vendita o di promessa di vendita di un immobile da costruirsi bisogna
distinguere il caso in cui il venditore abbia assunto anche l'obbligazione accessoria di edificare il bene
futuro promesso in vendita, dal caso in cui tale obbligazione non abbia assunto», cosicché «nel primo caso,
quando, cioè, il venditore (costruttore) è tenuto anche alla realizzazione del bene […] il venditore,
assumendo l'obbligazione di prestare l'attività necessaria alla produzione della cosa, risponde per
inadempimento contrattuale qualora non dimostri che la prestazione promessa è venuta a mancare per
causa a lui non imputabile», mentre «nel secondo caso, invece, quando il venditore non abbia assunto alcun
obbligo ulteriore rispetto a quello di trasferire il bene, il quale dovrà venire ad esistenza per opera di un
terzo, senza che esso venditore debba compiere alcunché per determinarne la produzione, si è in presenza di
un contratto di vendita di “cosa futura”, disciplinato dall'art. 1472 c.c.», cosicché «il contratto di vendita o
preliminare di vendita di un immobile che debba essere costruito da un soggetto terzo diverso dal venditore,
il quale non abbia assunto alcun obbligo affinché il bene venga ad esistenza, configura l'ipotesi dell'emptio
rei speratae, soggetta alla condicio iuris che la cosa venduta venga ad esistenza, per cui se la cosa non viene
ad esistere il contratto manca di oggetto e la vendita è nulla»; v. anche infra, in nota.
176
Innanzitutto, non deve stupire che il contratto possa essere considerato nullo per una
causa sopravvenuta267: il nostro ordinamento conosce infatti altre fattispecie di nullità
sopravvenuta268 e la stessa giurisprudenza, dal canto suo, vi ha talvolta fatto riferimento269,
specie in relazione al venire meno della causa in concreto270.
In secondo luogo, occorre osservare che la correlazione tra la validità del contratto e la
venuta ad esistenza della cosa, rispetto alla quale entrambe le parti sarebbero tenute ad
astenersi dal porre in essere comportamenti che possano in varia misura interferire con il
naturale decorso causale degli eventi, illumina un profilo di sicuro interesse rispetto al
tema trattato in questa sede.
267
Come si appena visto, la giurisprudenza più risalente aggirava l’impasse preferendo parlare di
«inefficacia sopravvenuta» o più genericamente di «inefficacia» tout court: v., rispettivamente, Cass. civ., 7
giugno 1976, n. 2073, cit.; Cass. civ., Sez. II, 15 giugno 1988, n. 4094, cit.
268
V. ad esempio, la disciplina di cui l’art. 1, comma 346, della L. 30 dicembre 2004, n. 311 (Legge
finanziaria 2005), secondo la quale «i contratti di locazione, o che comunque costituiscono diritti relativi di
godimento, di unità immobiliari ovvero di loro porzioni, comunque stipulati, sono nulli se, ricorrendone i
presupposti, non sono registrati». Sul punto v. però, ex multis, N. SCRIPELLITI, Fiera delle nullità per il
contratto di locazione abitativa, Riv. giur. edilizia, 2011, 5, pp. 243 ss. e in iusexplorer.it.
269
Cfr., ex multis, Cass. civ., Sez. I, 14 luglio 2010, n. 16561, secondo la quale «nella fideiussione
omnibus senza irritazione d’importo, stipulata prima dell’entrata in vigore dell’art. 10, comma 1, nella l. n.
154 del 1992 ma ancora in corso dopo l’introduzione dell’obbligo di indicare l’importo massimo garantito,
il diritto della banca alla garanzia deve ritenersi circoscritto al saldo passivo eventualmente maturato alla
data dell’8 luglio 1992, mentre per il periodo successivo il contratto originario deve ritenersi affetto
da nullità sopravvenuta per indeterminatezza dell’oggetto, se non venga stipulato un nuovo patto
fideiussorio. E la nullità è rilevabile d’ufficio, ai sensi dell'art. 1421 c.c., anche in sede di gravame, qualora
vi sia contestazione, ancorché per ragioni diverse, sul titolo posto a fondamento della domanda, rientrando
nei compiti del giudice l'indagine in ordine alla sussistenza delle condizioni dell’azione».
270
Oltre alla più volte citata pronuncia della Corte d’Appello Milano, 18 settembre 2013, n. 3459, cfr.
anche Cass. civ., S.U., 23 gennaio 2013, n. 1521, dove è stato statuito il seguente principio diritto: «il giudice
ha il dovere di esercitare il controllo di legittimità sul giudizio di fattibilità della proposta di concordato,
non restando questo escluso dalla attestazione del professionista, mentre resta riservata ai creditori la
valutazione in ordine al merito del detto giudizio, che ha ad oggetto la probabilità di successo economico
del piano ed i rischi inerenti; il controllo di legittimità del giudice si realizza facendo applicazione di un
unico e medesimo parametro nelle diverse fasi di ammissibilità, revoca ed omologazione in cui si articola la
procedura di concordato preventivo; il controllo di legittimità si attua verificando l'effettiva realizzabilità
della causa concreta della procedura di concordato; quest'ultima, da intendere come obiettivo specifico
perseguito dal procedimento, non ha contenuto fisso e predeterminabile essendo dipendente dal tipo di
proposta formulata, pur se inserita nel generale quadro di riferimento, finalizzato al superamento della
situazione di crisi dell'imprenditore, da un lato, e all'assicurazione di un soddisfacimento, sia pur
ipoteticamente modesto e parziale, dei creditori, da un altro». In dottrina, v. E. LA ROSA, Percorsi della
causa nel sistema, Torino, 2014, p. 93: «gli interessi programmati dalle parti nella fase enunciativa del
contratto potrebbero a posteriori risultare privi di ragionevole giustificazione sostanziale, allorché l’assetto
divisato si riveli in concreto difforme dalla sua enunciazione. In tal caso il contratto risulterebbe carente del
requisito causale, se infatti la causa è la ragione che spinge i contraenti ad accordarsi, e sostanzialmente si
concretizza nell’assetto di interessi perseguito dalle parti, essa dovrebbe dirsi assente ogni qual volta tale
assetto non sia in concreto realizzabile». V. anche infra, passim.
177
Occorre infatti interrogarsi su cosa accada nella fattispecie de qua nel caso in cui le
parti non adempiano al suddetto obbligo di non fare271.
Al riguardo, deve segnalarsi che tale comportamento, tenuto nell’ambito della
fattispecie specifica della vendita di cosa futura, non darà luogo a risoluzione, bensì – per
espressa lettera della norma – a nullità272: in siffatta evenienza si sarebbe pertanto in
presenza di una ipotesi legale di nullità del contratto mediata273 da un inadempimento274, e
ciò a ulteriore conferma che quel principio di non interferenza tra regole di validità e
regole di comportamento sancito dalle Sezioni Unite nel 2007275 non abbia alcun sicuro
fondamento giuridico e, pertanto, non sia effettivamente condivisibile276.
Precisato tutto ciò, occorre ora soffermarsi sulla ratio della regola sancita dall’art. 1472
c.c.; regola che a ben vedere risulta essere diametralmente opposta a quella vigente al
tempo del diritto romano sempre rispetto alla vendita di cosa futura.
In quell’epoca, come si è visto, se la cosa era «inesistente» (e non solo «assente», come
nel caso della vendita di «fructus et partus futuri» nonché di «captum piscium vel avium»)
non si sarebbe potuto neppure discorrere di emptio-venditio («nulla venditio sine re»); nel
codice civile vigente, invece, la vendita di cosa «inesistente» (e non meramente «assente»)
non è astrattamente inconcepibile, ma darà luogo ad un contratto di compravendita ad
effetti obbligatori.
Il discorso, a questo punto, diventa estremamente complesso e articolato; per una
maggior chiarezza si ritiene quindi di dover procedere in modo schematico e il più
possibile sintetico.
271
Sulla questione v., in particolare A. QUERCI, Inadempimento e obbligazioni negative, in Trattato della
responsabilità contrattuale, diretto da G. Visintini, I, Padova, 2009, pp. 302 ss.
272
Cfr. Cass. civ., Sez. III, 8 maggio 2006, n. 10490:
273
Più esattamente, il comportamento positivo delle parti, incidendo sul naturale decorso causale degli
eventi, non solo configura – sul piano giuridico – un inadempimento, ma risulta – sul piano materiale –
impeditivo rispetto alla venuta ad esistenza della cosa; cosicché l’oggetto della vendita non avrà più
possibilità di venire ad esistenza in ragione di un comportamento imputabile ad una o a entrambe le parti,
con l’ulteriore conseguenza che la vendita non potrà in concreto assolvere la sua tipica funzione traslativa
rispetto a quella cosa per quel prezzo.
274
Sul tema in generale, cfr. G. SICCHIERO, Nullità per inadempimento?, in Contr. impr., 2006, pp. 368
ss.; ID., La risoluzione per inadempimento. Artt. 1453-1459, in Il codice civile. Commentario, fondato da P.
Schlesinger e diretto da F. D. Busnelli, Milano, 2007, pp. 64 ss.; D. RUSSO, Nullità successiva di protezione
da inadempimento? Spunti critici per una riconcettualizzazione dell'accordo contrattuale, in Obbl. e contr,
2012, 11, pp. 803 ss.
275
Cass., Sez. Un. Civ., 19 dicembre 2007, nn. 26724 e 26725, cit.
276
Cfr. supra, capitolo II, in particolare § 5.2.
178
I problemi attengono in generale al profilo causale, il quale solleva questioni sotto due
diverse prospettive:
a) la prima prospettiva riguarda le ipotesi in cui vengono in rilievo le specificità
attinenti le concrete pattuizioni relative al prezzo, dovendosi perciò distinguere tra:
a1) l’ipotesi della vendita di cosa futura nella quale le parti non abbiano quantificato
preventivamente alcun corrispettivo;
a2) la fattispecie della vendita di cosa futura con prezzo determinato «a corpo» (o
«a forfait»);
b) la seconda riguarda l’individuazione della causa del contratto concretamente posto
in essere in relazione alla mera venuta ad esistenza della cosa, dovendosi al
riguardo ritenere che:
b1) se la cosa la cosa viene ad esistenza si avrà il perfezionamento della fattispecie
«compravendita di cosa futura»; figura che viene talvolta indicata come
vendita di cosa sperata («emptio rei speratae»);
b2) se la cosa invece non dovesse assolutamente venire ad esistenza, si avrà
quell’ipotesi che viene tradizionalmente definita come vendita «di speranza»
(«emptio spei»): tuttavia, in questa sede si dubita che tale ultima fattispecie sia
supportata effettivamente da una causa vendendi.
Ciò premesso, occorre in primo luogo soffermarsi sulle ipotesi sub a), rilevando
innanzitutto che quando le parti pongono in essere una vendita di cosa futura, lo fanno
perché aspirano a realizzare una funzione di scambio che al momento della stipula è solo
potenziale.
Più esattamente, i contraenti decidono di obbligarsi reciprocamente alla realizzazione di
tale risultato finale; in tale evenienza, ben possono valutare di riservarsi di definire gli
ulteriori dettagli dell’operazione economica in un momento successivo alla stipula, quando
cioè l’operazione abbia assunto un minimo di concretezza.
In questo senso, nella vendita di cosa futura – la quale viene talvolta definita come
vendita di «cosa sperata» – sono ipotizzabili diversi scenari, tutti accomunati dall’essere
applicazione concreta del principio secondo cui le parti possono regolare liberamente277 il
277
Cfr. art. 1474 c.c. («mancanza di determinazione espressa del prezzo»): «se il contratto ha per oggetto
cose che il venditore vende abitualmente e le parti non hanno determinato il prezzo, né hanno convenuto il
modo di determinarlo, né esso è stabilito per atto della pubblica autorità, si presume che le parti abbiano
voluto riferirsi al prezzo normalmente praticato dal venditore. Se si tratta di cose aventi un prezzo di borsa o
di mercato, il prezzo si desume dai listini o dalle mercuriali del luogo in cui deve essere eseguita la
consegna, o da quelli della piazza più vicina. Qualora le parti abbiano inteso riferirsi al giusto prezzo, si
179
rapporto tra il valore reale della cosa e il suo valore monetario278, sul noto presupposto
che «la legge» – e, più in generale, «la causa di scambio» – «non richiede l’equivalenza
economica oggettiva tra le prestazioni, ossia, nella vendita, tra bene e prezzo»279.
applicano le disposizioni dei commi precedenti; e, quando non ricorrono i casi da essi previsti, il prezzo, in
mancanza di accordo, è determinato da un terzo, nominato a norma del secondo comma dell’articolo
precedente». Sul punto, v. M. GRONDONA, Diritto dispositivo contrattuale. Funzioni, usi, problemi, Torino,
2011, p. 77, per il quale «la libertà del volere economico delle parti – e cioè la libera valutazione economica
di esse – è il presupposto del ricorso all’utilizzo della buona fede, perché nella (argomentazione di) buona
fede la libertà individuale trova un mezzo tecnico-ermeneutico di esternazione e di espressione del proprio
significato economico, posto che l’agire contrattuale è in sé un agire economico»; più in generale, v. anche
P. LAGHI, Moneta, equilibrio patrimoniale e tutela della persona, Milano, 2011, passim.
278
Questo è quel che d’altronde significa «determinazione o determinabilità» dell’oggetto del contratto
ex art. 1346 c.c. – «oggetto» da intendersi in questo contesto non come «cosa», bensì come
«rappresentazione programmatica del bene» –. In tal senso, v. Cass. civ., Sez. I, 14 febbraio 1986, n. 873,
secondo la quale «l’accettazione della proposta contrattuale di compravendita è idonea a segnare il
perfezionamento del contratto, e quindi a spiegare effetto traslativo della proprietà della cosa venduta, non
soltanto quando il prezzo sia determinato in detta proposta, ma anche quando sia determinabile alla stregua
di criteri, riferimenti o parametri precostituiti»; v. anche Cass. civ., Sez. III, 8 maggio 2006, n. 10503 («se il
contratto ha per oggetto cose che il venditore vende abitualmente la mancata determinazione espressa del
prezzo non ne importa la nullità, giacché si presume che le parti abbiano voluto riferirsi al prezzo
normalmente praticato dal venditore»); Cass. civ., Sez. III, 16 gennaio 2006, n. 719; Cass. civ., Sez. I, 5
aprile 1990, n. 2840; Cass. civ., Sez. II, 12 aprile 1988, n. 2891; Cass. civ., Sez. I, 6 dicembre 1958, n. 3853
(«la specificazione del prezzo in un contratto di compravendita può risultare anche da elementi induttivi, ed
è giudizio di fatto, insindacabile dalla Corte di cassazione, il ritenere che le parti abbiano inteso ricavare
l’ammontare del prezzo attraverso elementi di determinazione»). Si osservi, peraltro, che in questa
prospettiva non può risultare indifferente per l’interprete che le norme sulla determinazione del prezzo (artt.
1473 e 1474 c.c., rubricati rispettivamente «determinazione del prezzo affidata a un terzo» e «mancanza di
determinazione espressa del prezzo») siano collocate nella sezione dedicata alle «disposizioni generali» sulla
vendita e seguano immediatamente quella sulla vendita di cosa futura.
279
Così A. LUMINOSO, La compravendita, cit., pp. 19 e 94, il quale al riguardo precisa che «il divario, sia
pure notevole, di valore delle due prestazioni non è incompatibile con lo schema funzionale della vendita
[…]. L’eventuale sproporzione tra prezzo e valore del bene venduto rimane perciò ininfluente, fatta
eccezione per le ipotesi – tra le altre – di vendita mista a donazione, di rescindibilità per lesione (art. 2448
c.c.), di nullità dei contratti usurarii (art. 644, comma 3, c.p.), di annullabilità per incapacità naturale (artt.
428 e 1425 c.c.), e di revocatoria fallimentare ex art. 67, comma 1, n. 1 legge fallimentare». Sulla questione,
v. amplius, V. ROPPO, Il contratto, cit., pp. 363 ss.; cfr. anche Cass. civ., Sez. II, 28 agosto 1993, n. 9144: «il
prezzo della compravendita deve ritenersi inesistente, con conseguente nullità del contratto per mancanza di
un elemento essenziale (art. 1418, 1470 c.c.), non nell’ipotesi di pattuizione di prezzo tenue, vile ed irrisorio,
ma quando risulti concordato un prezzo obbiettivamente non serio, o perché privo di valore reale e perciò
meramente apparente e simbolico, o perché programmaticamente destinato nella comune intenzione delle
parti a non essere pagato. La pattuizione di un prezzo notevolmente inferiore al valore di mercato della cosa
compravenduta, ma non privo del tutto di valore intrinseco, può rivelare sotto il profilo dell’individuazione
del reale intento negoziale delle parti e della effettiva configurazione ed operatività della causa del
contratto, ma non può determinare la nullità del medesimo per la mancanza di un requisito essenziale. Del
pari, non può incidere sulla validità del contratto la circostanza che il prezzo, pur in origine seriamente
pattuito, non sia stato poi in concreto pagato».
180
Orbene, nell’ipotesi della vendita di cosa sperata nella quale le parti non abbiano
quantificato alcun corrispettivo, la vendita sarà valida purché sia individuabile il criterio
sulla base del quale poter successivamente ponderare il valore che deve sussistere tra le
controprestazioni280.
Tale criterio può essere determinato in primo luogo dalle parti; tuttavia, «la legge,
qualora il contratto taccia completamente sul prezzo, fornisce essa stessa i criteri per la
determinazione (art. 1474 c.c.), salvando così la validità di un contratto, che, in base ai
principi generali, sarebbe radicalmente nullo (art. 1418 c.c.)»281.
In questa prospettiva, il rapporto di valore tra le controprestazioni di cui si è fatto cenno
può essere determinato dalle parti secondo criteri rigidi: nulla esclude infatti che i
contraenti possano preventivare il pagamento di quel quantum di prezzo dovuto in ragione
di quella specifica cosa avente quelle predeterminate caratteristiche quantitative e
qualitative.
In questo caso, una volta che la cosa sarà venuta ad esistenza, se questa dovesse
presentare delle difformità quantitative e/o qualitative282 tali da smentire quella specifica
280
Cfr. in particolare Cass. civ., Sez. III, 15 settembre 1970, n. 1427, in Giust. civ. mass., 1970, p. 780,
nella quale si afferma che «nel contratto di compravendita e fin dalla conclusione il prezzo deve essere
determinato o determinabile. Il prezzo è determinato quando l’ammontare di esso è fissato dal momento
stesso della conclusione e, oltre a ciò, è anche noto alle parti già da tale momento. Invece il prezzo è
semplicemente determinabile quando, pur non essendo ancora obbiettivamente fissato l’ammontare della
somma e non essendo ancora noto subbiettivamente alle parti questo ammontare, sono precisati, tuttavia, i
criteri, i punti di riferimento, in base ai quali si potrà poi stabilirlo esattamente»; v. anche Cass. civ., Sez.
III, 8 maggio 2006, n. 10503, cit.; Cass. civ., Sez. III, 16 gennaio 2006, n. 719; Cass. civ., Sez. I, 5 aprile
1990, n. 2840, cit.; Cass. civ., Sez. II, 12 aprile 1988, n. 2891; Cass. civ., Sez. I, 14 febbraio 1986, n. 873,
cit.; Cass. civ., Sez. I, 6 dicembre 1958, n. 3853, cit.
281
Così F. CUTINO, sub art. 1474 c.c., in Commentario al codice civile, diretto da P. Cendon, IV, Torino,
1991, pp. 885-886, il quale specifica ulteriormente che «se il prezzo non è determinato, ne è determinabile
attraverso i criteri prefissati dalle parti o attraverso quelli forniti dalla legge, il contratto di compravendita
è nullo per mancanza di uno dei requisiti essenziali». Sul punto, v. Cass. civ., Sez. III, 15 settembre 1970, n.
1427, cit.: «mentre i criteri di futura determinazione dell’oggetto del contratto debbono essere indicati dalle
parti stesse nella convenzione (art. 1346 c.c.), invece, per il prezzo di vendita, il contratto può, nei congrui
casi, essere valido anche se tace completamente sul prezzo, in quanto la legge stessa fornisce direttamente
alcuni criteri di determinazione (art. 1474 c.c.) […]. Se il prezzo non è determinato, né è determinabile
attraverso i criteri prefissati dalle parti o attraverso quelli forniti dalla legge, il contratto di compravendita
è nullo per mancanza di uno dei requisiti essenziali dell’oggetto (art. 1418, comma 2, c.c.»; v. anche Cass.
civ., Sez. II, 14 dicembre 1988, n. 6816: «in tema di vendita, solo l’omessa indicazione del prezzo o la sua
indeterminabilità comportano la nullità del contratto risolvendosi nella mancanza di uno dei requisiti
essenziali dello stesso (art. 1325 n. 3, 1346 e 1418 c.c.), mentre l'omesso pagamento del prezzo pattuito può
dar luogo soltanto alla sua risoluzione».
282
A tal proposito, è appena il caro di rilevare che nella vendita di cosa futura sarebbe esclusa
l’operatività della garanzia per vizi, dovuta per «l’inattuazione o imperfetta attuazione dell’attribuzione
traslativa» (così A. LUMINOSO, La compravendita, cit., p. 218), argomentando ex art. 1491 c.c. («non è
181
previsione di valore compiuta e fissata dalle parti nel contratto, la vendita dovrà intendersi
nulla283 per difetto di causa in concreto, in quanto la sintesi degli interessi perseguiti dalle
parti va nell’esatto senso di dar luogo all’effetto traslativo solo ed esclusivamente in
ragione di quelle precise e determinate condizioni economiche284.
dovuta la garanzia se al momento del contratto il compratore conosceva i vizi della cosa; parimenti non è
dovuta, se i vizi erano facilmente riconoscibili, salvo, in questo caso, che il venditore abbia dichiarato che la
cosa era esente da vizi»). A tal proposito, la giurisprudenza ha affermato che «l’esclusione della garanzia
per i vizi della cosa venduta, prevista dall'ultima parte dell'art. 1491 c.c. presuppone che i vizi siano
riconoscibili al momento in cui il contratto viene concluso e non opera quindi, nel caso di compravendita di
cosa futura, laddove il compratore non può, al momento della conclusione del contratto, prendere visione
della cosa. Pertanto, nel caso in cui l'acquirente non abbia potuto esaminare anteriormente la cosa da lui
acquistata, il termine per la denuncia dei vizi decorre solo quando egli la riceve in consegna» (così Cass.
civ., Sez. II, 23 luglio 1983, n. 5075); v. anche A. MASTRORILLI, La garanzia per vizi nella vendita.
Disciplina del codice civile e del codice di consumo2, Milano, 2009, pp. 223 ss.
283
Cfr. al riguardo A. LUMINOSO, La compravendita, cit., p. 211, il quale, con riferimento alla risoluzione
per eccessiva onerosità sopravvenuta, afferma che «l’opinione corrente è nel senso che il rimedio in esame –
mentre è da escludere nelle ipotesi di differimento della consegna della cosa – è applicabile allorché la
vendita abbia effetti traslativi rinviati o differiti ad un momento successivo, come accade, ad esempio, nei
casi alienazione di cose determinate solo nel genere, di cosa altrui o di cosa futura. Altrettanto può ripetersi,
qualora l’eccessiva onerosità venga a gravare sul compratore, per le ipotesi in cui il contratto preveda un
pagamento differito del prezzo». L’Autore cita quindi la vendita di cosa futura come fattispecie rispetto alla
quale sarebbe esperibile il rimedio della risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta, menzionando a
sostegno di tale opinione la sentenza Cass. Civ., Sez. II, 23 maggio 1988, n. 3575: tuttavia, in questa stessa
sentenza non viene mai fatto riferimento alla vendita di cosa futura, ma solo alla vendita di genere e alla
vendita di cosa altrui. E l’omissione della vendita di cosa futura non può certamente essere considerata alla
stregua di una mera dimenticanza del giudice. In particolare, in tale pronuncia viene esattamente affermato il
principio per cui «in tema di compravendita definitiva, poiché la prestazione da parte del venditore s’intende
eseguita al momento della manifestazione del consenso, idonea da sola a trasferire nel patrimonio del
compratore la cosa venduta, di regola deve escludersi che il venditore possa invocare la sopravvenuta
eccessiva onerosità sopravvenuta, anche se sia stato pattuito il differimento della consegna. Tuttavia, ciò
non vale per il caso in cui la compravendita abbia, anziché effetti reali immediati, solo efficacia
obbligatoria, cioè effetto traslativo differito a un momento successivo alla conclusione del contratto, in
quanto per il trapasso del diritto, che dipende pur sempre dal contratto stesso, non basta il semplice
consenso, ma occorre il successivo verificarsi di un ulteriore fatto (come per la vendita di cose indicate nel
genere, la specificazione o, per la vendita di cose altrui, l'acquisto della proprietà da parte del venditore)».
284
Ciò non esclude che il compratore possa comunque “accontentarsi” della cosa così com’è venuta in
essere o che, per altro verso, il venditore sia comunque disposto ad attribuire una cosa “migliore” a fronte del
prezzo prestabilito (cfr. Cass. civ., Sez. III, 26 maggio 1999, n. 5103: «concluso un contratto nullo per
mancanza nell'oggetto di uno dei requisiti stabiliti dall’art. 1346 c.c. - o per qualsiasi altra causa - le parti
consapevoli della nullità, in applicazione del principio di autonomia contrattuale, possono dare vita,
expressis o con comportamento concludente, ad un nuovo contratto valido, che si sostituisca al precedente e
che produca quegli effetti che il precedente non era in grado di produrre»). In tale evenienza, si avrà
pertanto nuovo contratto di compravendita di cosa presente e ad effetti traslativi istantanei, non già la
novazione del precedente contratto (in quanto «la nozione tecnica di novazione è limitata all’estinzione di
una singola obbligazione mediante sostituzione a essa di una nuova; quando si intende novare una delle
obbligazioni nascenti da un contratto con prestazioni che gravano su entrambe le parti, si interrompe il
rapporto intercorrente tra le obbligazioni corrispettive […]. Quando si voglia, invece, sostituire l’intero
182
Diverso è invece il caso in cui le parti, anziché predefinire in modo rigido i criteri in
base ai quali poter determinare ex post il rapporto di valore tra la moneta e la cosa,
dichiarino semplicemente di riservarsi di formulare tale relazione di valore in un momento
successivo: in questa ipotesi, la vendita sarà valida nei limiti in cui i criteri in base ai quali
poter procedere a commisurare la suddetta relazione di valore siano quantomeno
determinabili.
Più esattamente, in
tale evenienza i contraenti convengono di
procedere
successivamente alla determinazione del prezzo, ossia in presenza della cosa e secondo i
criteri che riterranno più opportuni; per altro verso, le stesse parti potrebbero concordare
sulla attuale non convenienza dello scambio, nel qual caso potranno rinunciare di comune
accordo a dare esecuzione al contratto285.
I problemi sorgono però nel caso in cui solo una delle parti voglia dare esecuzione al
contratto, laddove la sua controparte, ritenendo che ciò non sia affatto conveniente, assuma
il contrario.
In tale circostanza, il problema sarà innanzitutto quello relativo alla quantificazione del
prezzo – ed allora potranno eventualmente286 trovare attuazione i criteri suppletivi indicati
nell’art. 1474 c.c., quali il «prezzo normalmente praticato dal venditore» o il «prezzo
desumibile da listini o mercuriali» –287; dopodiché, la parte non inadempiente potrà
regolamento negoziale con uno nuovo, non si può parlare di novazione, se non in senso latamente atecnico»:
in questi termini P. LAMBRINI, La novazione, in Trattato delle obbligazioni. Vol. III. I modi di estinzione, a
cura di E. Moscati e A. Burdese, Padova, 2008, pp. 474-475), né tantomeno una un’ipotesi di conversione del
contratto nullo ex art. 1424 c.c. (la quale opera di diritto, ossia «a prescindere dalla volontà, sia pure
ipotetica, delle parti»: così C. M. BIANCA, Il contratto, cit., p. 633).
285
V. nota precedente.
286
Cass. civ., Sez. III, 15 settembre 1970, n. 1427, cit.: «quando, ai fini del processo determinativo del
prezzo, i criteri prefissati dalle parti entrano in funzione o, in loro difetto funzionano quelli fissati
direttamente dalla legge, il contratto di compravendita deve intendersi perfetto ed efficace fin dall’origine;
per converso, ove le parti dichiarino nel contratto che si riservano di determinare esse stesse d’accordo, il
prezzo, senza tuttavia indicare i criteri in base ai quali procederanno a quella determinazione, il contratto,
se l’accordo non interviene e fino a quando non interviene, deve ritenersi nullo o comunque non
perfezionato, dato che le parti stesse hanno mostrato di considerare ancora non chiuso il processo di
formazione del contratto medesimo».
287
Cfr. Cass. civ., Sez. III, 15 settembre 1970, n. 1427, cit.: «non è necessario che le parti, al momento
della conclusione del contratto, siano consapevoli della somma aritmetica risultante dalla utilizzazione dei
criteri predisposti per la determinazione del prezzo, in quanto, in tal caso, il prezzo sarebbe non già
determinabile nel futuro, ma (ricavandosi lo stesso, nel suo concreto ammontare, da una semplice
contabilizzazione aritmetica) già concretamente determinato, o quanto meno, determinabile al momento
stesso della stipula del negozio. Tuttavia, è pur sempre necessario che i criteri, i parametri, i punti di
riferimento prefissati dalle parti abbiano tale carattere di precisazione e di concretezza da permettere alle
parti stesse la futura determinazione o, come si ritiene comunemente, in caso di dissenso tra esse, al giudice
183
verosimilmente agire ex art. 2931 c.c. («esecuzione forzata degli obblighi di fare»)288, a
condizione che ciò non sia precluso dal titolo289.
di dirimere il contrasto, sovrapponendo in via autoritativa la propria determinazione a quella delle parti
non raggiunta sulla base di quei criteri. La valutazione del giudice di merito, chiamato a compiere tale
opera di determinazione circa il grado di precisione e concretezza dei criteri previsti dalle parti,
rappresenta un apprezzamento di mero fatto incensurabile in cassazione».
288
La norma citata prevede, com’è noto, che «se non è adempiuto un obbligo di fare, l’avente diritto può
ottenere che esso sia eseguito a spese dell’obbligato nelle forme stabilite dal codice di procedura civile».
Occorre, al riguardo, operare alcune precisazioni. In primo luogo, è chiaramente da escludersi che per la
vendita di cosa futura possa trovare applicazione l’art. 2932 c.c. (esecuzione specifica dell’obbligo di
concludere un contratto), posto che in tale fattispecie non vi è alcun obbligo di porre in essere un successivo
contratto (cfr. Cass. civ., Sez. I, 1 dicembre 2010, n. 24396: «il contratto preliminare di vendita di cosa
futura ha come contenuto la stipulazione di un successivo contratto definitivo e costituisce, pertanto, un
contratto in formazione, produttivo dal momento in cui si perfeziona, di semplici effetti obbligatori
preliminari, distinguendosi dal contratto di vendita di cosa futura che si perfeziona ab initio ed attribuisce lo
ius ad habendam rem nel momento in cui la cosa venga ad esistenza»); in secondo luogo, il rimedio di cui
all’art. 2931 c.c. è invocabile sia dal venditore per ottenere il pagamento del prezzo che il compratore si
rifiuta di corrispondere, sia dal compratore per ottenere l’esecuzione degli obblighi del venditore di cui
all’art. 1476 c.c. Infine, deve essere rilevato che nel caso in cui la cosa futura sia una cosa mobile troveranno
applicazione i rimedi di cui agli artt. 1515 e 1516 c.c.: in particolare, il primo (rubricato «esecuzione coattiva
per inadempimento del compratore») prevede che «se il compratore non adempie l'obbligazione di pagare il
prezzo, il venditore può far vendere senza ritardo la cosa per conto e a spese di lui. La vendita è
fatta all'incanto a mezzo di una persona autorizzata a tali atti o, in mancanza di essa nel luogo in cui la
vendita deve essere eseguita, a mezzo di un ufficiale giudiziario. Il venditore deve dare tempestiva notizia al
compratore del giorno, del luogo e dell'ora in cui la vendita sarà eseguita. Se la cosa ha un prezzo corrente,
stabilito per atto della pubblica autorità, ovvero risultante da listini di borsa o da mercuriali, la vendita può
essere fatta senza incanto, al prezzo corrente, a mezzo delle persone indicate nel comma precedente o di un
commissario nominato dal tribunale. In tal caso il venditore deve dare al compratore pronta notizia della
vendita. Il venditore ha diritto alla differenza tra il prezzo convenuto e il ricavo netto della vendita, oltre al
risarcimento del maggior danno», mentre il secondo (rubricato «esecuzione coattiva per inadempimento del
venditore») prevede che «se la vendita ha per oggetto cose fungibili che hanno un prezzo corrente a norma
del terzo comma dell'articolo precedente, e il venditore non adempie la sua obbligazione, il compratore può
fare acquistare senza ritardo le cose, a spese del venditore, a mezzo di una delle persone indicate nel
secondo e terzo comma dell'articolo precedente. Dell'acquisto il compratore deve dare pronta notizia al
venditore. Il compratore ha diritto alla differenza tra l'ammontare della spesa occorsa per l'acquisto e il
prezzo convenuto, oltre al risarcimento del maggior danno». Tali rimedi sono perfettamente sovrapponibili a
quello proposto nel testo. Deve tuttavia essere precisato che la natura dei rimedi di cui agli artt. 1515-1516
c.c. è tuttora controversa; cionondimeno, in dottrina alcuni Autori hanno rilevato che quelli appena citati
costituirebbero appunto una forma anomala di esecuzione forzata ex art. 2931 c.c. (in questi termini, ad
esempio, G. MIRABELLI, Dei singoli contratti, in Commentario agli artt. 1470-1570 del Codice civile, IV,
tomo III, Torino, 1991, pp. 151 ss.), così come in giurisprudenza, con riferimento al rimedio di cui all’art.
1516 c.c. è stato precisato che «la compera in danno del venditore, disciplinata dall’art. 1516 c.c., è una
particolare applicazione della forma di esecuzione forzata specifica prevista per gli obblighi di fare, onde
presuppone, giusta particolari modalità e limitazioni, l’esecuzione e non già la risoluzione della
compravendita» (Cass. civ., 11 agosto 1961, n. 1958, in Mass. Giust. civ., 1961 p. 860), così come per il
rimedio di cui all’art. 1515 c.c. è stato affermato che «la vendita in danno di cui all’art. 1515 c.c. è una
forma speciale di esecuzione forzata per espropriazione, di cui il venditore può avvalersi quando la cosa è
184
Qualora invece, sempre a fronte di un contegno negativo della controparte, in ragione
della natura della cosa non sia possibile neppure astrattamente applicare i criteri legali
suppletivi di cui all’art. 1474 c.c. – in quanto, ad esempio, il bene nel frattempo venuto ad
esistenza appartenga ad un genere limitato290 – la vendita sarà nulla per mancanza
dell’oggetto291: e ciò costituirebbe, come è anche agevolmente evincibile, un’ulteriore
fattispecie di nullità del contratto mediata292 dall’inadempimento293 di una delle parti; in
tal caso, la parte non inadempiente potrà trovare soddisfazione del suo interesse mediante
il risarcimento del danno ex art. 1218 c.c.
Occorre ora sottolineare che anche nelle ipotesi da ultimo descritte la compravendita di
cosa futura conserva il suo carattere non aleatorio: ed infatti, se è vero che le parti si
obbligano ad eseguire un risultato finale nonostante al momento della conclusione del
contratto ignorino la reale e concreta misurabilità delle controprestazioni, e altrettanto
vero che le stesse si riservano di far fronte ai propri obblighi una volta che saranno in
grado di apprezzare in concreto la realtà economica sottostante all’operazione
complessivamente considerata.
già diventata di proprietà del compratore» (Cass. civ., 26 febbraio 1965, n. 319, in Foro it., I, 1965, p.
1259).
289
L’operatività del sistema rimediale appena descritto, infatti, presuppone che l’accordo concretamente
posto in essere dalle parti prevedesse in ogni caso la realizzazione dell’effetto traslativo finale: diversamente,
il contratto dovrà intendersi «nullo o comunque non perfezionato» anche nelle ipotesi in cui «pur avendo le
parti prefissato i criteri per la successiva determinazione convenzionale e pur essendo tali criteri
astrattamente idonei a permettere la determinazione autoritativa da parte del giudice, risulti, tuttavia, che le
parti medesime abbiano condizionato la perfezione e l’efficacia del contratto al raggiungimento effettivo
dell’accordo diretto e personale (nella specie entro un previsto termine perentorio), onde, in difetto di tale
accordo, esse non possono invocar l’opera determinativa del giudice per il superamento del loro dissenso»
(così Cass. civ., Sez. III, 15 settembre 1970, n. 1427, cit.).
290
Cfr. Cass. civ., Sez. I, 5 aprile 1990, n. 2840, cit.: «con riguardo al contratto preliminare di
compravendita immobiliare, non può ritenersi determinato o determinabile il prezzo che le parti si siano
riservate di fissare successivamente senza però indicare i criteri per stabilirlo, né a tale mancanza può
supplirsi, a norma dell’art. 1474 comma 1 c.c., in base al criterio del prezzo normalmente praticato dal
venditore, giacché a tale criterio può farsi ricorso solo nel caso di merci di larga produzione oggetto di
molteplici contrattazioni e non anche quando si tratti di beni appartenenti ad un genere limitato, rispetto ai
quali non è concepibile una molteplicità e continuità di contrattazioni omogenee».
291
Cass. civ., Sez. III, 8 maggio 2006, n. 10503, cit.; Cass. civ., Sez. III, 16 gennaio 2006, n. 719, cit.;
Cass. civ., Sez. I, 5 aprile 1990, n. 2840, cit.; Cass. civ., Sez. II, 14 dicembre 1988, n. 6816, cit.; Cass. civ.,
Sez. II, 12 aprile 1988, n. 2891, cit.; nonché F. CUTINO, sub art. 1474 c.c., cit., pp. 885-886.
292
Il comportamento negativo della parte – ossia il rifiuto di procedere alla concorde valutazione del
rapporto di valore tra la cosa e la moneta – configura infatti un inadempimento degli effetti obbligatori della
compravendita, impedendo al contempo la stessa possa produrre i suoi effetti tipici finali (quelli traslativi).
293
V. supra, in questo stesso §.
185
Per altro verso, occorre precisare che, a differenza del primo caso esaminato, la
divergenza tra le aspettative sulla quantità e sulle qualità della cosa venuta in essere e la
concreta situazione di fatto nel frattempo venuta ad esistenza non importerà di per sè
l’invalidità del contratto: la volontà delle parti, infatti, è proprio nel senso di valutare la
convenienza del programma della compravendita solo dopo che sia divenuto possibile
apprezzare la materiale essenza della cosa venuta nel frattempo in essere, comprese
quindi le caratteristiche quantitative e qualitative della stessa.
Appare allora evidente che a fronte di un’operazione economica obbiettivamente
sempre identica a sé stessa (vendita di una cosa attualmente inesistente in rerum natura) il
momento della determinazione del prezzo funge da strumento di controllo delle
sopravvenienze: nel primo caso, la rigida predeterminazione dei criteri sulla base dei quali
poter poi calcolare il rapporto di valore tra moneta e bene esclude che i contraenti siano
obbligati a concludere un’operazione in concreto non desiderata; nel secondo caso, invece,
si riservano di misurare in concreto gli effetti del fatto sopravvenuto una volta che questo
sia venuto a compimento, dovendosi ribadire ulteriormente che anche in tale secondo caso
il contratto resta commutativo, in quanto il rapporto di valore tra cosa e moneta non viene
rimesso al caso, ma viene stabilito dalle parti (seppure ex post) o, in assenza di accordo,
viene determinato in ragione dei criteri suppletivi stabiliti dal legislatore (art. 1474 c.c.).
Ulteriormente diversa è poi la vendita di cosa sperata con prezzo determinato «a corpo»
(o «a forfait»): in questo caso si ritiene che la vendita sia aleatoria «per volontà delle
parti», ed è tale – si badi – per entrambi i contraenti294.
294
Il punto è invero controverso. In giurisprudenza, v. Cass. civ., Sez. III, 5 aprile 1974, n. 966: «la
vendita di massa di cose future (nella specie di frutti naturali) con corrispettivo determinato a corpo è
emptio rei speratae; è, pertanto, nullo se le cose non vengono ad esistenza mentre conserva la sua validità
ed efficacia quando le stesse cose, sia pure in scarsa quantità, vengono ad esistere»; Cass. civ., Sez. III, 15
giugno 1988, n. 4094: «la vendita di una massa di frutti naturali futuri con corrispettivo determinato a corpo
conserva la propria efficacia a prescindere dalla quantità della massa venuta ad esistenza, l'inefficacia
potendo conseguire, ai sensi dell'art. 1472 comma 2 c.c., solo nel caso in cui la massa non venga affatto ad
esistenza, neppure in scarsa quantità […]. L'assunzione, da parte dell’acquirente dell’alea della quantità
non avviene certo in astratto ma in relazione ed in funzione dell'oggetto concreto del contratto»; Cass. civ.,
Sez. II, 3 febbraio 1993, n. 1329: «la vendita per un prezzo globale di tutta la frutta ancora pendente
prodotta da un fondo concreta una vendita di massa futura, con assunzione del rischio della quantità
(eventualmente minore di quella prevista o prevedibile) della massa che poi verrà ad esistenza, rischio che
non assurge ad elemento della causa del contratto, che non diviene pertanto aleatorio ma resta
commutativo. Pertanto, nel caso di perdita della frutta in via di maturazione, per caso fortuito (evento
atmosferico) verificatosi dopo che il compratore aveva iniziato la raccolta, tale evenienza resta a carico del
compratore, essendo configurabile la nullità a norma dell'art. 1472 comma 2 c.c. soltanto nel caso in cui la
massa non venga affatto ad esistenza». Si osservi però che nell’ultima pronuncia, ad esempio, il caso
concreto aveva ad oggetto frutti pendenti – e quindi esistenti –, rispetto ai quali l’evento naturale sfavorevole
186
Infatti, a differenza delle figure sopra esaminate, in questa ipotesi le parti obiettivizzano
ex ante le rispettive previsioni e stime basate su convinzioni divergenti e in ragione di ciò
predeterminano direttamente la misura del corrispettivo: non già – si sottolinea – i criteri
di per la determinazione dello stesso, ma proprio la sua quantificazione ex ante.
Più esattamente, i contraenti ritengono, sulla base delle loro personali valutazioni, che il
prezzo risulterà conveniente così com’è stato attualmente pattuito in ragione, appunto,
è sopraggiunto durante l’attività di separazione degli stessi dalla pianta-madre (attività, peraltro, posta in
essere dal medesimo compratore). Per altro verso, secondo l’orientamento consolidato in giurisprudenza la
determinazione di un corrispettivo cosiddetto “a forfait” non sarebbe di per sé idoneo ad alterare la natura del
contratto da quella commutativa a quella aleatoria: ad esempio, in materia di contratto di appalto viene
costantemente affermato che «la clausola con la quale si escluda, in deroga all'art. 1664 c.c., il diritto
dell'appaltatore all'ulteriore compenso per le difficoltà impreviste incontrate nell'esecuzione dell'opera
(cosiddetto appalto a forfait), non comporta alcuna alterazione della struttura ovvero della funzione
dell'appalto, nel senso di renderlo un contratto aleatorio, ma solo un ulteriore allargamento del rischio,
senza che questo esorbiti dall'alea normale di questo tipo contrattuale. Né in relazione a tale clausola la
volontà delle parti di rinunciare alla revisione dei prezzi deve estrinsecarsi in particolari espressioni
formali, purché chiaramente manifestata» (in questi termini, ex multis, Cass. civ., Sez. II, 12 marzo 1992, n.
3013). Invero, la dottrina più recente ha al riguardo rilevato che «in base alla diversa impostazione che fa
perno sull'incompletezza del giudizio di valore che è alla base della conclusione del contratto, non può
invece escludersi l'aleatorietà di un contratto normalmente commutativo, le cui prestazioni siano entrambe
determinate sotto il profilo dell'ammontare. Per fare un esempio, si può prendere in considerazione
l'appalto à forfait, figura nella quale il prezzo è determinato in misura complessiva per l'intera opera, sicché
l'appaltatore assume su di sé il rischio della quantità di lavoro, nonché del materiali occorrenti per
condurre a termine l'esecuzione dell'opera medesima. Un contratto di questo tipo, quantunque caratterizzato
da un rischio che assume un'intensità maggiore rispetto a un appalto a misura, non può, di per sé, essere
ricondotto in via immediata alla categoria dei contratti aleatori. Tuttavia, qualora le parti, nonostante
fossero prive di ogni cognizione circa la quantità di lavoro e di materiali da impiegare in concreto — e ciò a
causa della particolare natura dell'opera da eseguire, che può richiedere, ad esempio, un'attività anche di
tipo sperimentale —, si siano indotte a stipulare un contratto con queste caratteristiche, saremo in presenza
di una circostanza che ben si presta ad essere considerata quale elemento da cui inferire una volontà di
concepire l'appalto come contratto aleatorio» (L. BALESTRA, Il giuoco e la scommessa nella categoria dei
contratti aleatori, cit., p. 672). Infine, è appena il caso di precisare che la vendita a corpo è disciplinata
espressamente, nell’ambito della vendita di beni immobili, nell’art. 1538 c.c., per il quale «nei casi in cui il
prezzo è determinato in relazione al corpo dell’immobile e non alla sua misura, sebbene questa sia stata
indicata, non si fa luogo a diminuzione o a supplemento di prezzo, salvo che la misura reale sia inferiore o
superiore di un ventesimo rispetto a quella indicata nel contratto. Nel caso in cui dovrebbe pagarsi un
supplemento di prezzo, il compratore ha la scelta di recedere dal contratto o di corrispondere il supplemento
di prezzo»: è chiaro, però, che tale norma, costituente peraltro «una disciplina non soltanto dispositiva ma
anche residuale, ispirata ai principi sull’errore di calcolo, alla quale è possibile ricorrere qualora non
venga a realizzarsi una diversa fattispecie» (così A. LUMINOSO, La compravendita, cit., p. 86), non possa
venire in rilievo rispetto alla vendita di cosa futura. Infatti, la norma in parola postula che la determinazione
del prezzo sia stata effettuata in relazione all’estensione del bene (Cfr. Cass. civ., Sez. II, 18 gennaio 1984, n.
422); bene che, nella fattispecie de qua, «non esiste» e in relazione al quale non è logicamente possibile
«errare» nel senso propriamente assunto dal codice (cfr. art. 1340 c.c. – «errore di calcolo»: «l’errore di
calcolo non dà luogo ad annullamento del contratto, ma solo a rettifica, tranne che, concretandosi in errore
sulla quantità, sia stato determinante del consenso»).
187
delle rispettive presunzioni sul valore reale che avrà la cosa una volta venuta ad esistenza:
nello specifico, il compratore conclude la vendita per quel determinato valore monetario in
quanto ritiene che questo sia inferiore o quantomeno equivalente al valore reale che avrà
la cosa; al contrario, il venditore accetta di vendere per quel valore monetario sul
presupposto che questo sarà superiore o quantomeno equivalente al valore reale che avrà
la cosa medesima.
È chiaro allora che in questo contesto non possano trovare attuazione i principi della
giustizia commutativa, e segnatamente quello dell’equità economica dello scambio: in tal
modo verrebbero infatti annullati quei margini che hanno indotto le parti a contrattare ita
et nunc, a totale detrimento dell’autonomia privata ex art. 1322, comma 2, c.c.
Ciò detto, occorre ora soffermarsi sulle ipotesi sub b), rispetto alle quali non rilevano la
quantità e la qualità della cosa futura e nel frattempo divenuta attuale, ma piuttosto la
mera venuta ad esistenza della stessa.
Al riguardo, deve innanzitutto essere ribadito che l’art. 1472, comma 2, c.c. pone
un’alternativa secca:
− se la cosa viene ad esistenza si avrà una compravendita;
− se la cosa non viene ad esistenza la vendita è nulla, salvo che le parti «non abbiano
voluto concludere un contratto aleatorio».
Appare allora evidente come il legislatore del 1942 subordini l’effetto tipico della
compravendita – ossia quello traslativo – alla venuta ad esistenza della cosa; cosicché, a
prescindere dal fatto che in attesa di tale evento alcuni effetti avranno comunque luogo, se
l’evento «venuta ad esistenza della cosa» non dovesse verificarsi – e quindi il tipico ed
essenziale effetto traslativo non potrà trovare materialmente attuazione – la compravendita
dovrà intendersi retroattivamente nulla.
A ciò consegue, tra le altre cose, che qualora il compratore abbia eventualmente già
effettuato, in tutto o in parte, la sua prestazione di pagare il prezzo, questo dovrà essere
restituito perché indebito295; per la stessa ragione, qualora il prezzo non sia ancora stato
corrisposto, l’acquirente non potrà di certo agire per ottenerne il pagamento.
Il legislatore esclude poi l’applicabilità di questo regime nel caso in cui i contraenti
abbiano voluto concludere «un contratto aleatorio».
A tal proposito, deve essere sottolineato che il legislatore dice testualmente «un
contratto aleatorio» – e non già «una vendita aleatoria» –, sottintendendo in tal modo che
295
188
Cfr., ex multis, Cass., S.U. Civ., 9 marzo 2009, n. 5624; Cass., Sez. I, 1 febbraio 2000, n. 1089.
i contraenti possono, se così vogliono, regolare i loro interessi in relazione all’evento
«venuta ad esistenza di una cosa», senza però al contempo aspirare ad acquisire la cosa
medesima296: e tale contratto non potrà essere vendendi causa, posto che una
296
In questa logica, appare chiaro che l’evento «venuta ad esistenza della cosa» assume una valenza
diversa nelle due fattispecie. Più esattamente, nel caso della vendita di cosa sperata, le parti hanno un
interesse interno all’evento stesso: i contraenti aspirano a realizzare un programma traslativo avente ad
oggetto la cosa che deve venire ad esistenza. Nel caso, invece, del contratto aleatorio le parti aspirano ad un
interesse esterno all’evento: non vogliono realizzare un programma traslativo avente ad oggetto la cosa che
deve venire ad esistenza, ma cionondimeno la sua «venuta ad esistenza» viene considerato un referente
cronologico al quale parametrare un programma negoziale diverso da quello della compravendita. Ciò detto,
deve ora essere osservato che la «venuta ad esistenza della cosa» concretizza un termine futuro e incerto,
avente struttura e funzione diverse rispetto a quelle degli elementi accidentali tradizionali: in particolare, è
strutturalmente diverso dal termine tout court, il quale – essendo incerto solo sul quando ma non sull’an –
assolve proprio la funzione di «escludere ogni incertezza» (V. ROPPO, Il contratto, cit., p. 603); differisce poi
anche dalla condizione, la quale è sì relativa ad un evento futuro e incerto, ma opera sul piano l’efficacia del
contratto. Nel caso in parola l’evento futuro e incerto della «venuta ad esistenza di una cosa»
rappresenterebbe un elemento essenziale, che illumina la causa: costituisce infatti il parametro sulla base del
quale poter configurare le prestazioni, segnando al contempo il termine dell’operazione contrattuale. Al
riguardo, è appena il caso di osservare che la rilevanza del termine futuro e incerto è venuta in rilievo in
giurisprudenza in materia di comodato (artt. 1803 ss. c.c.), nelle ipotesi in cui la restituzione dell’immobile
concesso a tale titolo venga subordinata ad eventi futuri e incerti quali «il reperimento di altro alloggio» o
«il conseguimento di migliori condizioni economiche»: in queste ipotesi, secondo l’opinione dominante in
dottrina e in giurisprudenza «l’incertezza dell’an dell’evento al quale è subordinata la restituzione comporta
una durata indefinita del rapporto, in contrasto con il carattere temporaneo del comodato; ne deriva che,
nei casi in esame, il termine stabilito è meramente apparente, mancando di qualsiasi concretezza temporale
di determinazione, e deve considerarsi come non apposto, con la conseguenza che il rapporto resta regolato
dall’art. 1810 c.c., secondo cui quando il comodato è senza determinazione di durata il comodatario è
tenuto all’immediata restituzione a richiesta del comodante. Poiché, invero, l’evento incertus an ben
potrebbe, per definizione, non verificarsi mai, il comodato verrebbe di fatto ad assumere durata vitalizia
(art. 1811 c.c.), il che, in mancanza di un’esplicita volontà del comodante in tal senso, è certamente da
escludersi anche a norma dell’art. 1371 c.c.» (così L. PELLEGRINI, Art. 1811 – Morte del comodatario, in
Commentario del codice civile diretto da E. Gabrielli, modulo Dei singoli contratti (artt. 1803-1860), a cura
di D. Valentino, Torino, 2011, pp. 80-81). Sulla base di queste premesse, si deve ora osservare che
l’indeterminatezza del termine rileva in modo differente nella vendita di cosa futura e nella fattispecie del
contratto aleatorio concepito sulla «venuta ad esistenza di una cosa». In particolare, per quanto riguarda la
compravendita di cosa futura, le parti possono manifestare insofferenza rispetto ad un vincolo – nella specie,
l’obbligo di «non fare» di cui si è detto sopra – che si sta prolungando oltre il tempo che dalle stesse era stato
preventivato. In questa evenienza, le parti – qualora siano d’accordo – potrebbero liberarsi dal vincolo
risolvendo il contratto per mutuo dissenso (art. 1372, comma 1, c.c.; sul punto, cfr., ex multis, le osservazioni
di G. DE NOVA, Il contratto: dal contratto atipico al contratto alieno, Padova, 2011, pp. 235 ss.). Qualora
però tra i contraenti non vi sia accordo sul punto, la questione potrebbe essere risolta in due modi. Con il
primo modo, che potremmo definire formalistico-oggettivo, il giudice eventualmente adito da una delle parti
potrebbe ricorrere a criteri logico-probabilistici al fine di accertare appunto le probabilità di venuta ad
esistenza della cosa; cosicché, una volta acquisita la «certezza probabilistica» che la cosa non verrà ad
esistenza, dovrà dichiarare la nullità del contratto (cfr. Cass. civ., S.U., 11 gennaio 2008, n. 581, la quale ha
stabilito il principio secondo cui «nel processo civile vige la regola probatoria della preponderanza
dell’evidenza o “del più probabile che non”, stante l'equivalenza dei valori in gioco tra le due parti
contendenti. Anche la Corte di Giustizia CE è indirizzata ad accettare che la causalità non possa che
189
poggiarsi su logiche di tipo probabilistico. Detto standard di “certezza probabilistica” in materia civile non
può essere ancorato esclusivamente alla determinazione quantitativa-statistica delle frequenze di classi di
eventi (c.d. probabilità quantitativa o pascaliana), che potrebbe anche mancare o essere inconferente, ma va
verificato riconducendone il grado di fondatezza all’ambito degli elementi di conferma (e nel contempo di
esclusione di altri possibili alternativi) disponibili in relazione al caso concreto (c.d. probabilità logica o
baconiana). Nello schema generale della probabilità come relazione logica va determinata l'attendibilità
dell'ipotesi sulla base dei relativi elementi di conferma (c.d. evidence and inference nei sistemi
anglosassoni)»). Il giudice potrebbe inoltre pervenire al medesimo risultato impostando il discorso in termini
sostanzialistici-soggettivi, ossia muovendo dal presupposto che la compravendita è comunque un contratto
con causa tipica: in tal senso, la nullità della compravendita di cosa futura – che comunque è contratto tipico
– troverebbe la sua ragion d’essere sulla considerazione che il tempo che la cosa sta impiegando per venire
ad esistenza abbia nel frattempo assunto una rilevanza sproporzionata, irragionevole e comunque non
congrua proprio rispetto all’interesse tipico della compravendita (cfr. – tenendo comunque presente che
quelli di «creditore» e «debitore» sono concetti relativi e che nelle more della «venuta ad esistenza della
cosa» si ritengono non ancora sorte le obbligazioni tipiche della compravendita – C. M. BIANCA,
L’obbligazione, pp. 43-44: «la rilevanza del venir meno dell’interesse creditorio sulla sorte
dell’obbligazione significa concretamente che il debitore non è responsabile per l’inadempimento se per
causa a lui non imputabile il creditore non è più interessato alla prestazione perché vi abbia provveduto a
rimpiazzarla o perché non sia più in grado di riceverla o perché il suo interesse è divenuto irrealizzabile per
mezzo della prestazione dovuta»). La situazione è completamente diversa nel caso del contratto aleatorio in
cui le parti aspirano ad un interesse esterno all’evento «venuta ad esistenza di una cosa»: in tale ipotesi il
contratto non potrà certamente essere dichiarato nullo se la cosa non dovesse venire ad esistenza, posto che
tra tale evento e gli interessi perseguiti dalle parti non vi è un intimo nesso di correlazione. Ma quid iuris se
la cosa non dovesse mai venire ad esistenza? In questa evenienza, occorre in primo luogo rilevare che il
rapporto obbligatorio assumerebbe natura perpetua; in secondo luogo, si porrebbe il problema di
comprendere se sia possibile adire il giudice per liberarsi da detto vincolo. Orbene, rispetto alla prima
questione, si è detto che nel nostro ordinamento sarebbe vigente il principio della inammissibilità dei vincoli
perpetui, considerato un principio indisponibile in quanto di ordine pubblico (così F. CARNELUTTI, Del
licenziamento nella locazione d’opere a tempo indeterminato, cit., pp. 378 ss.; F. GALGANO, Diritto privato,
cit., pp. 304 ss.; F. CARINGELLA – G. DE MARZO, Manuale di diritto civile, cit., p. 1359; M. F. HERCOLANI,
La durata delle obbligazioni, cit., pp. 67 ss.); in questo senso, una parte della dottrina ha osservato che «la
mancata determinazione del termine è solo la spia di un’incompleta regolamentazione negoziale, che, in
assenza di un intervento suppletivo legale, comporterebbe la nullità del contratto» (M. LAMANDINI,
Perpetual notes e titoli obbligazionari a lunga o lunghissima scadenza, in Banca, borsa e tit. cred., 1991, I,
p. 617). Tuttavia, la peculiarità dei contratti aleatori risiede – come si è detto – proprio nella volontà dei
contraenti di voler lasciare incompleto il programma negoziale; incompletezza che assume una particolare
rilevanza proprio rispetto ai contratti aleatori atipici. In tale frangente il suddetto principio di inammissibilità
dei vincoli perpetui appare meno meno rigido e vincolante di quanto possa apparire: infatti, già alla fine degli
anni ’60, la giurisprudenza chiariva al riguardo che «nel loro potere di autonomia le parti possono
liberamente determinare il contenuto del contratto in relazione anche alla durata di esso, nei limiti imposti
dalla legge. Questa, in effetti, spesso limita la durata di esso nei contratti tipici da essa regolati ma ove
limiti non sono stabiliti il contratto obbligatorio può essere anche voluto dai contraenti come perpetuo (nel
senso relativo che l’aggettivo assume in relazione all’attività ed ai comportamenti degli uomini» (così Cass.
civ., Sez. I, 30 maggio 1969, n. 1911, in Temi, 1974, p. 24 ss., con nota di DI PAOLO); peraltro, sempre in
quegli anni, la dottrina anglosassone rilevava che «la perpetuità non pone problemi di indeterminatezza, dal
momento che “perpetuo” è un termine definibile» (così J. D. CALAMARI – J. M. PERILLO, The law of
contracts2, St. Paul Minnesota, 1977, pp. 189 ss.). In definitiva, si deve ritenere che al di là dei principi pure
individuati da Autorevole dottrina, «l’ordinamento sembra pronto ad accogliere rapporti perpetui o molto
lunghi nella misura in cui essi soddisfino un interesse sostanziale delle parti […]. Nel contesto di
190
compravendita «senza cosa» sarebbe nulla per espressa previsione di legge (ossia, l’art.
1472, comma 2, c.c.).
O meglio: un contratto «aleatorio» e «vendendi causa» - come si è visto sopra in
relazione ad alcune delle ipotesi sub a) – sarebbe valido nei soli limiti della venuta ad
esistenza della cosa.
Si comprende allora che discorrere di «vendita di speranza» non sia effettivamente
accettabile, in quanto – a tacere del fatto che tale figura non abbia alcun fondamento
positivo – la disciplina della compravendita di «cosa futura» di cui all’art. 1472 c.c. non
contempla affatto l’acquisto di una «speranza», ma proprio di una «cosa»; e la «speranza»
non è una «cosa»297, a meno di non voler riproporre quella fictio che, per altri fini e in ben
altri contesti, era stata elaborata dai giuristi romani («veluti cum quasi alea emitur»)298.
determinati contratti la perpetuità o la lunga durata possono corrispondere all’interesse di entrambe o
almeno d’una parte […]. Sicché negare a priori alle parti di concludere un contratto che a conti fatti può
essere per loro vantaggioso (senza ledere al contempo alcun interesse altrui, pubblico o privato) adducendo
a causa il divieto di perpetuità e la pretesa necessità di salvaguardare la loro libertà futura può
indubbiamente dar luogo a forme di impropria sclerotizzazione dei fenomeni economici e negoziali e a una
paradossale e deteriore ipertutela destinata inevitabilmente a limitare in modo irragionevole l’iniziativa
economica, che è, giova ricordarlo, valore costituzionalmente garantito» (così M. LAMANDINI, Perpetual
notes, cit., pp. 623 ss.; v. anche G. B. PORTALE, “Prestiti subordinati” e “prestiti irrimedibili” (appunti),
in Banca, borsa, tit. cred., 1996, I, pp. 1 ss.). Per quanto invece riguarda la seconda questione – ossia se le
parti abbiano la possibilità di adire il giudice per liberarsi da detto vincolo perpetuo –, si osservi quanto
segue. La perpetuità del vincolo potrebbe in concreto tradursi in una eccessiva gravosità del medesimo: ma,
com’è noto, il legislatore esclude per i contratti aleatori l’applicabilità del rimedio della risoluzione per
eccessiva onerosità (art. 1469 c.c.). Per altro verso, si ritiene che il contratto possa essere dichiarato nullo – e
non già risolto – solo se nel medesimo sia stata dichiarata la causa: in tal modo, infatti, il giudice potrebbe
effettuare quel controllo di tipo sostanzialistico-soggettivo di cui si è detto sopra. Se però il contratto
aleatorio non è stato funzionalizzato, si ritiene che il contratto sia non già nullo, bensì disciplinato dalla
regola fissata all’art. 1933 c.c.: e ciò in quanto tale atto, pur non essendo del tutto indifferente per il diritto,
non sarebbe supportato da un riconoscimento pieno della sua giuridicità. Sul punto, si rinvia a quanto si dirà
infra.
297
Al riguardo, è appena il caso di segnalare che in dottrina si discute se sia ammissibile la vendita di
aspettativa. F. CARINGELLA – G. DE MARZO, Manuale di diritto civile, cit., p. 263: «un’altra fattispecie
assimilabile alla vendita di cosa futura è la vendita di aspettativa giuridica. L’aspettativa giuridica, secondo
la nota definizione di Santoro Passarelli, è la posizione giuridica che viene maturando nella sfera di un
determinato soggetto. L’aspettativa, secondo parte della dottrina, potrebbe essere oggetto di autonoma
circolazione: non costituirebbe quindi una mera speranza, bensì una posizione giuridica soggettiva, oggetto
di immediato trasferimento». Orbene, al riguardo giova innanzitutto precisare che l’aspettativa può essere di
fatto o di diritto: e in questo secondo caso non sarebbe azzardato escludere che il contratto – non
necessariamente una compravendita – abbia natura aleatoria. Infatti, la giuridicità della situazione in itinere
(id est l’aspettativa di diritto) implica un certo margine di prevedibilità sul suo esito, apprezzabile proprio in
riferimento alle regole del diritto positivo (si pensi, ad esempio, alla posizione di aspettativa in cui versa il
titolare di un diritto sospensivamente condizionato: il risultato sperato non è incerto, ma predeterminato dalle
parti secondo un calcolo di convenienza convergente). Diverso è invece il caso della aspettativa di mero
fatto, ossia non giuridicamente disciplinata: il risultato futuro è in questo caso subordinato unicamente al
191
Pertanto, la differenza tra le due figure contemplate nell’art. 1472, comma 2, c.c. non
atterrebbe tanto all’oggetto – la «cosa» nell’un caso e la «speranza» nel secondo –, ma
dipenderebbe esclusivamente dalla volontà delle parti299.
casuale svolgimento degli eventi naturali, che in quanto tali potrebbero anche andare in una direzione – non
preventivata e non preventivabile – del tutto diversa da quella sperata dalle parti. È chiaro però che in questa
ipotesi, qualora nelle more degli eventi dovesse intervenire una vicenda traslativa, questa non avrà ad oggetto
una posizione “giuridica” (che tale non è proprio in quanto il diritto non la disciplina), ma direttamente il
titolo sul quale si fonda il programmato – seppure incerto – effetto finale atteso. In senso contrario, v. A.
LUMINOSO, La compravendita, cit., pp. 5 e 62, il quale cita la vendita di aspettativa tra «le figure che
assumono carattere aleatorio», precisando che «si avrebbe vendita di aspettativa (epperciò di una situazione
giuridica attuale) – contratto (commutativo) immediatamente traslativo – se Tizio alienasse senz’altro a
Sempronio la situazione di “attesa di acquisto”, con tutti i rischi inerenti, che gli deriva dal contratto con
Caio (di guisa che Sempronio sarebbe in ogni caso tenuto a pagare il prezzo a Tizio anche ove la condizione
non si verifichi, così dando luogo ad una figura empiricamente vicina – ma non identica – ad un’emptio
spei)». Deve infine essere osservato che la questione mutua gli stessi problemi teorici sollevati dalla
circolazione del possesso, nella misura in cui anche in questa vicenda la circolazione avrebbe ad oggetto una
situazione di fatto: quella possessoria (sul tema, v. B. TROISI, Circolazione del possesso e autonomia privata,
Napoli, 2003, nonché C. CICERO, La transazione, in Trattato di diritto civile, diretto da R. Sacco, I singoli
contratti, vol. IX, Torino, 2014, pp. 13-14). La questione sarà ripresa in questo capitolo, passim.
298
In questi termini si esprime invece F. SANTORO PASSARELLI, Dottrine generali del diritto civile, cit., p.
64: «alla categoria delle cose future appartiene, secondo la nostra legge la res sperata, appunto come cosa
che può venire ad esistenza, e di essa esempio tipico sono i frutti non ancora separati; non la res, cioè la
semplice speranza che la cosa esista, la cui realizzazione sia senza influenza sulla sorte del negozio: questa
speranza, escludendo la corrispettività delle prestazioni, imprime al negozio carattere aleatorio (articoli
1348, 771, 820 comma 2, 1472)».
299
La giurisprudenza, nei casi in cui si è sbilanciata ad esaminare le differenze che intercorrono tra la
vendita «di cosa sperata» e la vendita «di speranza», ha risentito delle incertezze della dottrina, approdando
a conclusioni che appaiono in una certa misura contraddittorie. Ad esempio, in Cass. civ., Sez. III, 5 aprile
1974, n. 966, viene affermato che «nell’emptio spei, a norma dell’art. 1472, comma 2, c.c., il compratore si
impegna incondizionatamente a pagare un prezzo determinato al venditore anche se la cosa o il diritto
venduto non vengono mai ad esistenza o siano comunque quantitativamente o qualitativamente diversi da
quelli sperati o supposti dal compratore al momento dell’acquisto. Nell’emptio rei speratae, invece, la
vendita è soggetta alla condicio iuris che la cosa venga ad esistenza, per cui se ciò non si verifica il
contratto manca di oggetto e, pertanto, è colpito da nullità. La vendita di massa di cose future (nella specie
di frutti naturali) con corrispettivo determinato a corpo è emptio rei speratae; è, pertanto, nullo se le cose
non vengono ad esistenza mentre conserva la sua validità ed efficacia quando le stesse cose, sia pure in
scarsa quantità, vengono ad esistere». Lo stesso principio viene ribadito anche dalla successiva Cass. civ.,
Sez. III, 15 giugno 1988, n. 4094, nella quale viene affermato che mentre «l’“emptio spei” ricorre quando il
compratore si impegna incondizionatamente a pagare un prezzo determinato al venditore, anche se la cosa o
il diritto venduto non vengano mai ad esistenza», «la vendita di una massa di frutti naturali futuri con
corrispettivo determinato a corpo conserva la propria efficacia a prescindere dalla quantità della massa
venuta ad esistenza, l'inefficacia potendo conseguire, ai sensi dell'art. 1472 comma 2 c.c., solo nel caso in
cui la massa non venga affatto ad esistenza, neppure in scarsa quantità», precisando ulteriormente che in
quest’ultima ipotesi «l'assunzione, da parte dell’acquirente dell’alea della quantità non avviene certo in
astratto ma in relazione ed in funzione dell'oggetto concreto del contratto». Orbene, per quanto concerne la
statuizione di validità ed efficacia della vendita di cosa sperata nel caso in cui la cosa venga ad esistenza «sia
pure in scarsa quantità, vengono ad esistere», deve essere sottolineato che in quei casi specifici il
corrispettivo della vendita era stato pattuito «a corpo»: le parti hanno quindi rimesso al caso l’effettivo
192
Più esattamente, in quella che viene definita dalla dottrina e dalla giurisprudenza come
vendita «di cosa sperata» la volontà dei contraenti rileva sul piano della individuazione dei
criteri sulla base dei quali poter determinare il rapporto di valore tra la moneta e la cosa,
mentre in quella che tradizionalmente viene definita vendita «di speranza» è l’intero
programma contrattuale – e non solo il suddetto rapporto di valore – a dipendere da fattori
governati dalla causalità naturale300.
rapporto di valore tra il prezzo e la quantità delle cose attese. Il contratto è pertanto aleatorio; cionondimeno,
i giudici precisano che lo stesso sarebbe «nullo se le cose non vengono ad esistenza». Le stesse pronunce
appaiono però criticabili allorquando qualificano in termini di «compravendita» (ossia di emptio spei) un
contratto nel quale «la cosa o il diritto venduto non vengono mai ad esistenza». Infatti, se la cosa non viene
ad esistenza la vendita deve intendersi nulla tout court; nullità che, semmai, può essere esclusa solo si
procede a qualificare quel «contratto aleatorio» con il quale una parte si è obbligata incondizionatamente «a
pagare un prezzo determinato al venditore anche se la cosa o il diritto venduto non vengono mai ad
esistenza» in termini diversi dalla compravendita.
300
Sulle differenze tra vendita di cosa sperata e vendita di speranza la dottrina si è sempre rivelata
incerta. In particolare, sin dall’indomani dell’entrata in vigore del codice civile vigente, alcuni Autori hanno
dapprima riproposto pedissequamente lo schema romanistico illustrato nel paragrafo precedente: in questo
senso si esprimeva ad esempio F. MESSINEO, Manuale di diritto civile e commerciale, vol. III, Milano, 1947,
pp. 20-21, per il quale: «la cosa, oggetto della vendita, può essere futura (ad es., uno stabile che è ancora da
costruire; una merce non ancora prodotta); ma si distingue, al riguardo, fra vendita di cosa sperata (rei
sperate) e vendita di speranza (spei). Sono entrambe vendite con carattere aleatorio; però l’alea è maggiore
nel secondo caso; anzi, in questo l’alea costituisce – si può dire – l’oggetto medesimo del contratto. E, se le
parti non hanno voluto concludere un contratto aleatorio, la vendita è nulla, se la cosa non viene ad
esistenza (arg. 1472 capov.). Infatti, la vendita di cosa sperata (che è vendita sotto condizione sospensiva)
importa che un quid sia dovuto al compratore; ad es., la produzione annua di una miniera, già in esercizio,
forma oggetto di vendita di cosa sperata, poiché, per quando possa oscillare l’entità della produzione,
qualche cosa, nell’intento delle parti, è previsto si ricavi; e, se non si ricava nulla, il contratto manca di
oggetto e il venditore nulla può pretendere dal compratore. Per contro, nel caso della vendita di speranza, il
compratore assume sopra di sé il rischio che la speranza non si avveri per nulla: e in tal caso il contratto,
che è perfetto ab initio, mantiene la sua validità e il compratore deve egualmente la prestazione promessa
(prezzo), se la speranza non si avvera; tale è l’esempio, classico, della compera di ciò che darà il gettito di
una rete, o di una battuta di caccia». Successivamente, altri Autori hanno concentrato il dibattuto sulla
qualificazione della sola vendita di speranza: in particolare, da un lato vi è stato chi ha sostenuto che la
fattispecie de qua sarebbe un contrato aleatorio a sé stante (così D. RUBINO, La compravendita, cit., pp. 86
ss, secondo il quale l’emptio spei non sarebbe una vendita ma un tipo contrattuale a sé stante a carattere
aleatorio) mentre dall’altro vi è stato chi ha rilevato che quella in parola sarebbe una vendita
convenzionalmente aleatoria (ex multis, A. LUMINOSO, La compravendita, cit., pp. 72: «la funzione
dell’operazione consiste pur sempre in uno scambio tra alienazione di un diritto e corrispettivo in denaro, si
che l’unica sua peculiarità consiste nell’assunzione, da parte del compratore, del rischio della mancata
venuta ad esistenza del bene, che si traduce in una clausola di inversione del rischio. Ne discende che le
attribuzioni patrimoniali a carico delle parti sono quelle tipiche della vendita. In particolare, il venditore è
obbligato a procurare al compratore il diritto promesso, con la conseguenza che in caso di mancata o
ridotta produzione del bene derivante da fatto imputabile al medesimo, egli sarà tenuto al risarcimento dei
danni e potrà subire la risoluzione per inadempimento»). Più di recente, E. RUSSO, Della vendita, pp. 60-61
ha al riguardo osservato che «le caratteristiche dell’oggetto determinano la distinzione tra l’emptio rei
speratae e l’emptio spei. Tale distinzione può essere posta in relazione alla probabilità che la cosa pervenga
193
In questi termini, il problema diventa allora quello di comprendere quale sia la causa di
quel «contratto aleatorio» menzionato dall’art. 1472, comma 2, c.c. per quelle ipotesi in
cui le parti decidano di obbligarsi nonostante la mancata venuta ad esistenza della cosa,
posto che in tale ipotesi la causa del contratto non può normalmente essere quella tipica
della compravendita, in quanto una compravendita non seguita dalla venuta ad esistenza
della cosa sarebbe retroattivamente nulla ex lege.
La questione – lo si ribadisce – non può essere genericamente e approssimativamente
risolta facendo ricorso alla figura metaforica – e priva di qualsiasi referente normativo –
della «vendita di speranza», dato che il legislatore afferma chiaramente e
inequivocabilmente che non può esservi vendita perfetta – e quindi nessuna attribuzione
patrimoniale causa vendendi – senza il trasferimento di una cosa.
In altri termini, non sarebbe tecnicamente configurabile una compravendita qualora uno
dei termini dello scambio abbia un valore reale nullo.
Invero, così come non è astrattamente configurabile una vendita senza prezzo, a
maggior ragione non sarebbe configurabile una vendita senza cosa301: la sproporzione tra
le due prestazioni può essere anche la più estrema302, ma due controprestazioni devono
comunque sussistere303.
ad esistenza. La res sperata si caratterizza per la notevole probabilità della venuta ad esistenza di essa,
configurandosi il contratto come contratto ad alea limitata. L’emptio spei si caratterizza, invece, per
l’incertezza obiettiva sulla venuta ad esistenza della cosa: e le ipotesi paradigmatiche riguardano le
contrattazioni che hanno per oggetto il prodotto della caccia e della pesca. Certo, la volontà delle parti può
essere determinante per attribuire la qualificazione al contratto stipulato. Ma, al di là della interpretazione
del contratto è senz’altro utile posse la distinzione tra emptio rei speratae e emptio spei in relazione alla
natura della cosa prefigurata nello stesso contratto, e alle sue probabilità di venire ad esistenza». Invero, in
questa sede si ritiene che la differenza tra le due fattispecie non risieda nella misura della probabilità che la
cosa venga ad esistenza: più esattamente, entrambe le figure sono accomunate dal dato che i contraenti
decidono di correlare lo scambio al medesimo evento probabilistico (la venuta ad esistenza della cosa),
differenziandosi per il fatto che nell’emptio rei speratae le conseguenze economiche di tale evento casuale
vengono in varia misura predefinite (il compratore è obbligato a dare il prezzo x se verrà in essere «la cosa
y», che il venditore sarà a sua volta obbligato a trasferire), laddove nell’emptio spei quelle stesse
conseguenze economiche, pur sempre rimesse al caso, vengono puramente e semplicemente accettate (il
compratore è obbligato a dare il prezzo x se verrà in essere «una cosa ‫א‬0», che il venditore sarà in ogni caso
obbligato a trasferire). È appena il caso di precisare che il simbolo “‫א‬0” – da leggersi come “Aleph zero” – è
stato introdotto dal matematico Georg Cantor (1845-1918) per indicare «la potenza di un’unità numerabile».
301
Cass. civ., Sez. I, 20 novembre 1992, n. 12401: «nei contratti a prestazioni corrispettive, il difetto di
equivalenza, almeno tendenziale, delle prestazioni e, a maggior ragione, in difetto “tout court” della
pattuizione di un corrispettivo o, comunque, della ragione giustificativa della prestazione prevista, comporta
l'assoluta mancanza di causa del contratto e, per l'effetto, la nullità dello stesso».
302
V., ex multis, G. B. FERRI, La vendita in generale, p. 211: «il prezzo può, infine, risultare ex post del
tutto sproporzionato (perché di gran lunga inferiore o superiore) alla prestazione del venditore nella ipotesi
di emptio spei; tale sproporzione era tuttavia già prevista, almeno come eventualità, in quella prospettiva
194
Quella che allora viene definita come vendita «di speranza» sarebbe in realtà una
normale compravendita a prestazioni corrispettive, la cui causa richiede pur sempre uno
scambio di cosa contro prezzo; ciò, ovviamente non esclude che l’equilibrio tra le
controprestazioni possa essere rimesso al caso, e in questo caso la vendita potrà
certamente essere qualificata come «aleatoria»304, con tutto ciò che ne consegue in termini
di disciplina.
aleatoria su cui le parti avevano liberamente scelto di fondare il regolamento di interessi, contenuto nella
vendita cui hanno dato vita». Al riguardo, si pensi, ad esempio, alle cosiddette vendite «a prezzo vile» o
«nummo uno», rispetto alle quali – proprio in ragione dell’estrema proporzione tra le prestazioni – «dinnanzi
a uno scambio ineguale tra un bene e un corrispettivo che sia molto inferiore al valore di mercato della cosa
venduta – e però non sia, allo stesso tempo, “del tutto privo di valore intrinseco” – è opportuno interrogarsi
sulle ragioni che sorreggono il regolamento negoziale; laddove le parti abbiano concordato un prezzo
“tenue, vile ed irrisorio”, questa pattuizione richiede l’individuazione del reale intento negoziale e esige la
verifica della “effettiva configurazione e operatività della causa del contratto»: così L. DELOGU, La vendita,
cit., p. 73. Sul tema della sproporzione del prezzo, v. anche Cass. civ., Sez. II, 29 settembre 2004, n. 19601
(«la compravendita a un prezzo inferiore a quello effettivo non integra, di per sé stessa, un negotium mixtum
cum donatione, essendo, all’uopo, altresì necessario non solo la sussistenza di una sproporzione tra
prestazioni, ma anche la significativa entità di tale sproporzione, oltre alla indispensabile consapevolezza,
da parte dell’alienante, dell’insufficienza del corrispettivo ricevuto rispetto al valore del bene ceduto,
funzionale all’arricchimento di controparte acquirente della differenza tra il valore reale del bene e la
minore entità del corrispettivo ricevuto»).
303
Tra l’altro, la stessa nozione di «sproporzione» presuppone che vi siano una relazione tra due
parametri effettivi.
304
Oltre al caso della vendita di cosa sperata con prezzo determinato «a corpo», in dottrina si discute se
anche la «vendita di eredità» (artt. 1542-1547 c.c.) e la «vendita a rischio e pericolo del compratore» (art.
1488, comma 2, c.c.) abbiano natura aleatoria. In particolare, per quanto riguarda la prima, la dottrina e la
giurisprudenza sembrano orientate a riconoscerle natura aleatoria nel solo caso in cui non vi sia la
specificazione dei beni: in tal senso, v. Cass. civ., Sez. II, 10 febbraio 1962, n. 287, in Foro it., 1962, I, pp.
430 ss.: «la vendita di quota al coerede ha carattere aleatorio, e non è, quindi, soggetta all’azione di
rescissione per lesione oltre il quarto, quando oggetto del negozio sia il diritto ereditario astrattamente
considerato nel suo complesso indistinto di attività e passività ed in quanto si prescinda dalla
determinazione specifica dei beni che lo compongono, posto che chi vende un’eredità o una quota di essa,
senza specificazione di oggetti, non essendo tenuto a garantire che la propria qualità di erede non può
essere poi ammessa ad affacciare pretese per lesione di prezzo di cose neppure specificate. Viceversa, è da
escludere che ricorra l’alea quando risulti che la vendita, malgrado il generale riferimento alla quota, abbia
avuto per oggetto una porzione ereditaria già esattamente individuata così in ordine alla certezza che alla
misura spettante al coerede venditore, e relativa a cespiti ereditari ben determinati, conosciuti dagli
acquirenti. Ai fini della suddetta distinzione è irrilevante che nell’atto di vendita sia stato o meno indicato il
passivo ereditario e che il venditore abbia abbia o meno assunto espressamente la garanzia per evizione».
Per quanto invece riguarda la «vendita a rischio e pericolo del compratore», si discute se questa configuri un
contratto atipico o una vendita avente carattere aleatorio (cfr. A. LUMINOSO, La compravendita, cit, pp. 179 e
238). In questa sede, si ritiene che tale fattispecie configuri un contratto atipico, dovendosi però ritenere che
questo non sia aleatorio. Più esattamente, il carattere atipico del contratto deriverebbe dal fatto che «la
vendita a rischio e pericolo dell’acquirente si regga su un profilo funzionale che non comprende l’effetto
traslativo del diritto quale momento essenziale della fattispecie, giacché tale vendita per definizione esonera
l’acquirente da ogni conseguenza – compresa la restituzione del solo prezzo – anche laddove dovesse
195
In ogni caso, resta fermo che qualora l’intento specifico delle parti sia specificamente
quello di realizzare la causa tipica della vendita («trasferimento della proprietà di una
cosa o di un altro diritto verso il corrispettivo di un prezzo»), se il caso non porterà alla
venuta ad esistenza della cosa, il contratto sarà da intendersi nullo per difetto di causa in
concreto, ex art. 1472, comma 2, c.c., interpretato nei termini di cui sopra.
Sulla base di ciò, e sul presupposto che quello contemplato dall’art. 1472, comma 2,
c.c., sia un contratto aleatorio che può ben essere supportato da una causa non
necessariamente vendendi, si devono risolvere diversi quesiti, e segnatamente:
− vi sono delle ragioni giuridiche che possono legittimare il “venditore” a pretendere
il pagamento del “prezzo” o a trattenere l’eventuale avvenuta corresponsione,
anche parziale, del medesimo? E se vi sono, quali sono305?
− per altro verso, il “compratore” ha la possibilità di poter ripetere il “prezzo”
eventualmente corrisposto, in tutto o in parte? E se sì, con quale azione?
La soluzione di tali problemi presuppone, a monte, la risoluzione di quello relativo alla
possibilità di individuare una causa nei contratti aleatori, la quale richiede però una
trattazione specifica e più approfondita: si rinvia pertanto a quanto si dirà nei paragrafi
successivi,e in particolare in quello in cui sarà esaminato il contratto differenziale306.
accertarsi che nessun diritto si è mai trasferito dal venditore all’acquirente: in tale contesto il venditore non
è in grado di assicurare la titolarità del diritto e purtuttavia l’eventuale evizione non travolge il pagamento
del prezzo; ciò significa che quest’ultimo non è assunto a corrispettivo del trasferimento della proprietà
[…]. Nell’ipotesi in esame mancherebbe addirittura l’attribuzione originaria di un diritto a rilievo causale»
(così U. GRASSI, Art. 1488 – Effetti dell’esclusione della garanzia, in Commentario del codice civile diretto
da E. Gabrielli, modulo Dei singoli contratti (artt. 1470-1547), a cura di D. Valentino, Torino, 2011, pp.
274-275). Per quanto invece riguarda il carattere non aleatorio del contratto, deve essere osservato che il
pericolo dell’evizione sussiste a prescindere dal fatto che questo debba essere sopportato (ex lege) dal
venditore o (ex contractu) dal compratore; inoltre, può discorrersi di evizione solo allorquando essa si
verifichi in conseguenza di «una causa preesistente alla conclusione del contratto» (Cass. civ., Sez. II, 26
gennaio 1995, n. 945). Il fatto evizionale è quindi una circostanza prevedibile e non casuale. Sul punto, cfr.
Cass. civ., Sez. II, 31 marzo 1987, n. 3100: «il promissario acquirente di un fabbricato, il quale abbia
espressamente accettato, col contratto preliminare, i rischi connessi al fatto di essere stato il fabbricato
stesso costruito senza licenza (ora concessione) edilizia, non può giustificare il proprio inadempimento
dell'obbligazione di pagare il residuo prezzo entro il pattuito termine essenziale con l'avvenuto sequestro
penale dell'edificio e con il conseguente pericolo di abbattimento del medesimo».
305
Cfr. Cass. civ., Sez. I, 20 novembre 1992, n. 12401, cit.: «la semplice ed unilaterale attribuzione
patrimoniale non può in alcun caso assurgere a causa giuridica del negozio, in quanto non consente di
identificarne lo scopo e stabilirne, di conseguenza, la rilevanza socio-economica e, in ultima analisi, la
liceità. Ne consegue che il contratto col quale si trasferisca ad altri un bene, senza specificazione del titolo
di tale trasferimento, non è assumibile, perciò, nella nozione di contratto atipico e resta, quindi, un atto
nullo per mancanza di causa».
306
V. infra, in questo capitolo.
196
2.1.5. La disciplina civilistica sugli effetti dei contratti aleatori.
Occorre ora fare un cenno sull’altra parte dell’art. 1469 c.c., ossia quella riferita alla
disciplina degli effetti dei contratti aleatori.
In primo luogo, sembra opportuno chiarire quale sia la ratio che permea l’intero sistema
dei contratti aleatori; ratio magistralmente illustrata da Autorevole dottrina nei seguenti
termini: «le parti, avendo accettato rispettivamente di subire l’alea, o di speculare su di
essa, non possono poi considerare il contratto come lesionario o come eccessivamente
oneroso. Ciò che – nel contratto aleatorio – è “incerto” è il risultato quale emergerà ex
post. Il legislatore non vuole che un contratto – equo se valutato ex ante – venga rescisso
o risolto solo perché trovato iniquo ex post»307.
In altri termini, l’ordinamento preclude chiaramente alle parti la possibilità di rinnegare
la propria determinazione negoziale, poi confluita nel contratto, una volta che la previsione
sull’evento ontologicamente incerto si sia successivamente rivelata errata o, più
genericamente, sconveniente: come dire, «alea iacta est»308.
Nella stessa prospettiva deve poi essere inquadrata anche la contrapposizione stessa dei
contratti aleatori a quelli commutativi.
A tal proposito, occorre ribadire che i rimedi rieliquibratori previsti dal legislatore
operano solo per i contratti commutativi – nei quali, com’è noto, la prestazione viene tra le
altre cose predeterminata sulla base di criteri certi – per garantire la sopravvivenza del
vincolo contrattuale minacciato da un evento anormale; diversamente, nei contratti aleatori
non viene in rilievo alcun equilibrio, il quale – come si è appurato – non è né voluto né
tantomeno ricercato dai contraenti.
Con i contratti aleatori, infatti, le parti convengono semplicemente che l’esistenza e/o il
contenuto dell’obbligazione (eventualmente anche a carico di una sola parte) dipenda dal
verificarsi o meno di un determinato evento casuale.
Il legislatore recepisce questo particolare modo di atteggiarsi dell’autonomia privata,
ma al contempo pare ammonire i contraenti che qualora intendano rinunciare, ex ante, alla
307
R. SACCO, La qualificazione, cit., p. 454.
Com’è noto, la locuzione latina sopra menzionata viene attribuita da Svetonio (70-126 d.c.), nel De
vita Caesarum, a Giulio Cesare (100/101-44 a.c.), il quale l’avrebbe proferita dopo aver varcato il
fiume Rubicone in violazione di una la legge che proibiva l'ingresso armato dentro i confini dell'Italia
(circostanza dalla quale poi originò la Seconda Guerra civile romana del 49-45 a.c.): «Tunc Caesar:
“Eatur”, inquit, “quo deorum ostenta et inimicorum iniquitas vocat. Alea iacta est”» («Cesare disse
letteralmente: “andiamo, dove ci chiamano i segni degli Dèi e l’ingiustizia dei nemici. Il gioco è fatto”»:
trad. di M. P. Vigoriti).
308
197
costruzione di un regolamento sulla base di parametri normali, non potranno beneficiare,
ex post, dei rimedi che una tale normalità presuppongono, lamentando strumentalmente
l’iniquità del risultato309.
Charito ciò, deve essere ora ribadito che la prospettiva privilegiata dal legislatore
sembra essere quella degli effetti, dandosi per dato acquisito che un valido rapporto
aleatorio sia già in essere; deve poi essere ulteriormente precisato che rispetto alla
categoria generale dei contratti aleatori il legislatore non opera alcuna preventiva
valutazione in punto di meritevolezza.
Il leitmotiv sembra appunto essere unicamente quello di evitare che la sopravvenuta
manifestazione della non convenienza dell’affare («alea iacta est») non interferisca in
alcun modo con il principio del «pacta sunt servanda» di cui al citato art. 1372, comma 1,
c.c.
Tale circostanza emerge chiaramente anche in alcuni passaggi della Relazione al codice
civile del 1942, e in particolare:
− in tema di azione di rescissione per lesione, dove si afferma di aver costruito una
figura giuridica generale «a contorni compatibili con l’esigenza di non attenuare la
forza obbligatoria dei contratti» ma al contempo ossequiosa della circostanza che
«nella determinazione dei vantaggi di ciascuna parte, operano imponderabili
apprezzamenti soggettivi, non suscettibili di un controllo adeguato»310;
− rispetto all’operatività della clausola rebus sic stantibus311, sulla quale si assume di
aver fondato il rimedio della risoluzione per eccessiva onerosità, allorquando la
309
Cfr. F. GAZZONI, Manuale di diritto privato, cit., p. 833: «a causa dell’aleatorietà, pur essendo le
prestazioni potenzialmente bilaterali ed una in funzione dell’altra, manca uno scambio basato su un
equilibrio predeterminato, come è invece nei contratti commutativi, che aleatori non sono. Ne consegue che
gli squilibri tra le prestazioni sono irrilevanti e pertanto non sarà applicabile la disciplina della rescissione
per lesione e della risoluzione per eccesiva onerosità sopravvenuta».
310
«Si è denominata azione di rescissione quella con cui una delle parti reagisce contro l’iniquità e la
sproporzione del vantaggio conseguito dall’altra per effetto di una condizione subiettiva anormale in cui si
trova la prima […]. Però, una norma generale che avesse autorizzato il riesame del contenuto del contratto
per accertare l’equità o la proporzione delle prestazioni in esso dedotte, sarebbe stata, non soltanto
esorbitante, ma anche pericolosa per la sicurezza delle contrattazioni; tanto più che avrebbe resa necessaria
una valutazione obiettiva delle situazioni contrapposte, là dove spesso, nella determinazione dei vantaggi di
ciascuna parte, operano imponderabili apprezzamenti soggettivi, non suscettibili di un controllo adeguato.
Nella ricerca di una formula che fosse valsa per i casi più gravi di squilibrio o di iniquità, si è fatto capo ai
risultati che la dottrina aveva raggiunti a proposito dei contratti conclusi in stato di pericolo e in tema di
contratti usurari. Si sono così ricavati gli estremi di figure giuridiche generali, a contorni compatibili con
l’esigenza di non attenuare la forza obbligatoria dei contratti». Relazione al codice civile del 1942, n. 656.
311
Sul punto, cfr. F. CARINGELLA – G. DE MARZO , Manuale di diritto civile, cit., p. 976: «se da un lato è
vero che pacta sunt servanda, cioè che il contratto ha forza di legge tra le parti e non può essere
198
stessa viene correlata «agli eventi che non possono assolutamente farsi rientrare
nelle rappresentazioni che ebbero le parti al momento del contratto», precisando
ulteriormente che il rimedio non opera non solo quando «non è superata l’alea
normale del contratto», ma anche quando «il contratto è essenzialmente o
convenzionalmente aleatorio»312.
Premesso ciò, occorre tornare all’esame dell’art. 1469 c.c.
Orbene, l’articolo citato richiama espressamente, al fine di escluderne l’applicazione,
«le norme degli articoli precedenti», riferendosi perciò a tutte le norme della Sezione III
del Capo relativo alla risoluzione del contratto: e quindi sia all’art. 1467 c.c. («contratto
con prestazioni corrispettive»), sia all’art. 1468 c.c. («contratto con obbligazioni di una
sola parte»).
In proposito, deve essere in primo luogo osservato che il secondo degli articoli
richiamati, ossia l’art. 1468 c.c., parla di «contratto», quindi di un atto per il cui
perfezionamento è pur sempre richiesta la presenza di due parti: sicché, com’è pure noto, il
unilateralmente ripudiato da una sola di esse, è anche vero che in ciascun contratto di durata è insita una
clausola implicita (la clausola rebus sic stantibus) che condiziona la permanente efficacia del contratto alla
sussistenza dei presupposti e delle situazioni di fatto tenute presenti e considerate rilevanti al momento della
stipulazione contrattuale. Detta clausola altro non è che una condizione risolutiva tacita della stipulazione
contrattuale, in base alla quale ogni qualvolta ne vengano meno i presupposti di fatto il contratto si deve
considerare risolto. L’escamotage della condizione implicita consente di attribuire rilevanza alle
sopravvenienze senza mettere apertamente in discussione il principio pacta sunt servanda; se si afferma che
la risoluzione del contratto si fonda sulla volontà, ancorché tacita, delle parti, non vi è alcuna ragione di
contrasto con il principio della vincolatività del contratto, in quanto il rimedio risolutorio è semplicemente
applicazione del patto, per l’appunto ai sensi dell’art. 1372 c.c. È tuttavia evidente che la teoria della
clausola rebus sic stantibus, quale condizione implicita generale tipica di tutti i contratti di durata, si basa
su una fictio, perché invero non è reale la volontà delle parti di risolvere il contratto al venir meno di
determinate situazioni; si tratta di una elaborazione dottrinale e pretoria volta a relativizzare il principio
pacta sunt servanda e a conciliarlo con il principio della rilevanza delle sopravvenienze perturbanti».
312
«Infine il contratto si risolve, con gli effetti stessi stabiliti per la risoluzione a causa di
inadempimento, quando la prestazione è divenuta eccessivamente onerosa (art. 1467). Si introduce così, in
modo espresso e in via generale, il principio dell’implicita soggezione dei contratti con prestazioni
corrispettive alla clausola rebus sic stantibus […]. La rigorosa limitazione dell’efficacia della clausola ad
eventi che non possono assolutamente farsi rientrare nelle rappresentazioni che ebbero le parti al tempo del
contratto esclude il pericolo di eccessi: ma garantisce contro tal pericolo anche la rigida valutazione
obiettiva del concetto di eccessiva onerosità, che per il nuovo codice non opera quando non è superata
l’alea normale del contratto (art. 1467, secondo comma) o quando il contratto è essenzialmente o
convenzionalmente aleatorio (art. 1469; vendita a termine dei titoli di credito; rendita)». Relazione al codice
civile del 1942, n. 665.
199
contratto è e resta un atto bilaterale anche nel caso in cui l’obbligazione venga assunta da
uno solo dei contraenti313.
Questo significherebbe che il legislatore del 1942 ha ben contemplato la possibilità che
vi siano contratti aleatori con obbligazioni di una sola parte, ossia contratti – quindi atti
bilaterali – in cui l’alea è destinata ad incidere sulla sola parte che ha assunto
l’obbligazione314.
313
«Si è notato che i contratti bilaterali sono sempre contratti con obbligazioni a carico di entrambe le
parti, allora, ci si chiede se esistono contratti unilaterali (cioè con obbligazioni a carico di una sola parte),
in altri termini, occorre comprendere se la presenza di obbligazioni a carico solo di una parte può
legittimare la creazione di contratti unilaterali. La risposta non può che essere negativa, poiché la presenza
o meno di obbligazioni a carico di entrambe le parti non incide sul procedimento di perfezionamento del
contratto (che per quanto possa essere semplificato) prevede sempre il consenso di due parti contrattuali. I
contratti con obbligazioni a carico di una sola parte restano sempre contratti bilaterali, cioè per il loro
perfezionamento richiedono il consenso di due parti contrattuali. Quindi, la presenza di obbligazioni a
carico di una sola parte non determina la creazione di un contratto unilaterale, eventualmente la presenza a
carico di una sola parte legittima l’uso di un procedimento di perfezionamento del contratto “semplificato”
(come quello previsto dall’art. 1333 c.c.), in cui il consenso dell’altra parte esiste, ma, eventualmente, non è
“formale”, potendo essere anche tacito, (di conseguenza un c.d. contratto unilaterale è solo un contratto che
si forma per silentium, ma ceto non è un contratto che si forma con una sola parte». P. GIULIANO, La causa
e le principali classificazioni dei contratti, in Il contratto, a cura di P. Fava, Milano, 2012, p. 766.
314
«I contratti aleatori, tanto a struttura unilaterale che bilaterale, non possono essere risolti per
eccesiva onerosità, né rescissi per lesione. Una diretta conferma di questo ci viene offerta dalla stessa
disciplina del codice civile la quale, dopo aver disciplinato gli effetti della eccesiva onerosità nei contratti
con obbligazioni di una sola parte (ex art. 1468), al successivo art. 1469, stabilisce che “le norme degli
articoli precedenti” (compresi quindi anche regole previste per la eccessiva onerosità nei contratti
unilaterali), non si applicano ai contratti aleatori, con la conseguenza, dunque, della irrilevanza della
definizione unilaterale o bilaterale del contratto ai fini della applicazione della disciplina discendente dalla
natura aleatoria del contratto»: R. CAFARO – A. TANZA, Le tutele nei rapporti con la banca, cit., p. 129; per
la giurisprudenza, oltre a quella che verrà menzionata nel paragrafo successivo, su tutte v. Cass. civ., Sez. II,
9 aprile 1980, n. 2286: «per poter qualificare aleatorio un contratto non necessita l’elemento della
cosiddetta bilateralità dell’alea, potendosi considerare aleatorio anche un contratto nel quale l’alea sia a
carico esclusivo di una sola delle parti, mentre l’altra ha la possibilità di trarre dal contratto soltanto
vantaggi». Peraltro, secondo una parte della dottrina nel nostro ordinamento sarebbe presente un’ipotesi
tipica (e quindi astratta) di contratto aleatorio unilaterale: si tratterebbe della rendita vitalizia predisposta
mediante donazione (art. 1872, comma 3, c.c.): cfr. al riguardo G. SCALFI, voce Alea, cit., p. 259; sul punto v.
anche Cass. civ., Sez. II, 24 agosto 1998, n. 8357, che nel caso deciso ha qualificato in termini di
commutatività una rendita vitalizia costituita mediante donazione per difetto di alea in concreto: «alla
stregua del principio di autonomia contrattuale, che consente alle parti di avvalersi di strumenti negoziali
non tipizzati, è legittima la costituzione di una rendita vitalizia mista con donazione, da intendersi realizzata
allorché le parti concludono una convenzione intesa a determinare, insieme allo scambio di attribuzioni
patrimoniali tipicamente proprio del contratto di cui agli art. 1872 ss. c.c., va a vantaggio di una di esse
correlativamente eliminando o affievolendo, nella globale economia del rapporto, l'elemento dell’“alea”,
che, con riguardo allo schema delineato dalle testé citate definizioni, può ritenersi sussistente solo quando, a
causa di una ragionevole incertezza sulle possibilità di sopravvivenza del vitaliziato, risulti imponibile una
previsione anticipata dei vantaggi e delle perdite cui le parti si accingano ad andare incontro, non anche
quando, con riguardo a tabelle statistiche concernenti l'andamento della vita media, e tenendo conto delle
200
Detto assunto denoterebbe non solo l’eccentricità di un asserito principio di necessaria
«bilateralità dell’alea» (sul quale v. diffusamente infra)315, ma dimostrerebbe anche che
l’aleatorietà – e, più in generale, la dicotomia aleatorietà/commutatività – non avrebbe
alcuna diretta correlazione logico-giuridica con la sinallagmaticità316, dato che i contratti
aleatori – al pari di quelli commutativi – possono appunto essere sia «con prestazioni
corrispettive» che «con obbligazioni di una sola parte».
La suddetta affermazione non sembra poi che possa essere smentita facendo riferimento
all’altro articolo richiamato dall’art. 1469 c.c., ossia l’art. 1467 c.c. notoriamente dedicato
al «contratto con prestazioni corrispettive».
Nell’ambito di questa norma, infatti, l’alea viene in rilievo in due prospettive diverse e
non sovrapponibili317:
− in un primo senso, l’art. 1467, comma 2, c.c. fa riferimento al criterio dell’«alea
normale»318 per indicare il limite superato il quale può essere invocato il rimedio
della risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta;
− in un secondo e diverso senso, l’art. 1469 c.c. esclude a monte la possibilità di poter
invocare il rimedio di cui all’art. 1467 c.c. per i contratti aleatori.
Orbene, è evidente che un conto è un «contratto non aleatorio nel quale l’alea si riveli
superiore al normale» (di cui all’art. 1467, comma 2, c.c.) e un conto è un «contratto
aleatorio» (oggetto specifico dell’art. 1469 c.c.): nel primo caso, gli «avvenimenti
straordinari e imprevedibili» – non contemplati e non contemplabili dalle parti durante la
costruzione del regolamento contrattuale – incidono negativamente su un equilibrio che le
parti hanno ricercato e voluto e che l’ordinamento intende preservare; nel secondo caso i
contraenti non hanno né ricercato né voluto un equilibrio, intendendo anzi correlare il
condizioni di salute dello stesso vitaliziante, sia invece ragionevole la prognosi di una data finale che
consenta la quantificazione degli oneri e vantaggi suddetti».
315
In questo capitolo, § 2.2.
316
Contra, R. NICOLÒ, voce Alea, cit., pp. 1029-1030; v. anche L. NIVARRA – V. RICCIUTO – C.
SCOGNAMIGLIO, Diritto privato, cit., p. 385, i quali rilevano che nei contratti aleatori – tali per natura o per
volontà delle parti – «l’intento dei contraenti configura ed introduce l’alea come un aspetto essenziale del
sinallagma per cui lo scambio si pone tra una prestazione certa ed una incerta».
317
Peraltro, anche la Relazione al codice civile del 1942, n. 665, quando presenta il rimedio della
risoluzione per eccessiva onerosità, considera le due ipotesi in modo distinto, escludendo che il rimedio
possa operare «quando non è superata l’alea normale del contratto (art. 1467, secondo comma) o quando il
contratto è essenzialmente o convenzionalmente aleatorio (art. 1469; vendita a termine dei titoli di credito;
rendita)»
318
La precisa definizione di «alea normale» è forse ancor più controversa di quella di «alea»: sul punto,
v. i riferimenti in F. VITELLI, Contratti derivati e tutela dell’acquirente, cit., p. 110, sub nota n. 70.
201
contenuto dell’accordo proprio sulle conseguenze prodotte dal verificarsi di particolari
eventi casuali.
Le due fattispecie sono evidentemente differenti e, come si è appena osservato, rilevano
per fini altrettanto diversi: si deve pertanto escludere che per la ricostruzione della
categoria dei «contratti aleatori» assuma rilevanza la nozione di «alea normale»319.
Tuttavia, l’assunto per il quale gli artt. 1467 e 1469 c.c. sarebbero da riferire a due
ambiti differenti – seppur contigui – prospetta immediatamente un’altra questione.
Si è detto che nei contratti aleatori le parti subordinano l’integrazione del regolamento
non a qualunque evento, ma a uno o più particolari eventi: quid iuris, allora, quando il
contratto aleatorio risulti inciso non già dall’evento considerato dai contraenti, ma da altri
eventi «straordinari e imprevedibili» che, in quanto tali, le stesse parti non si sono potute
neppure prefigurare in sede di trattative?
In questa prospettiva, Autorevole dottrina ha rilevato che «non è limpido il motivo per
cui sarebbe sottratto alla rescissione o alla risoluzione quel contratto che sia lesionario o
eccessivamente
320
dell’evento»
oneroso
a
prescindere
dall’aggravio
prodotto
dal
verificarsi
.
Invero, la risposta a detto quesito potrebbe essere la seguente: nel contratto aleatorio
mancherebbe, ontologicamente, qualsiasi equilibrio giuridicamente tutelabile, sicché il
ricorso ai rimedi «rieliquibratori» – che, per definizione, presuppongono appunto che un
equilibrio da preservare vi sia – non è neppure astrattamente ipotizzabile321.
Al contempo, questo non significa che nei contratti aleatori le parti sarebbero
verosimilmente costrette a sopportare sempre e comunque qualsiasi accadimento
«straordinario e imprevedibile».
319
In questi termini si esprimono anche la dottrina maggioritaria e la giurisprudenza: v., ad esempio,
Cass. civ., Sez. II, 5 gennaio 1983, n. 1: «l’alea normale di un contratto che a norma dell'art. 1467, comma 2
c.c. non legittima la risoluzione per sopravvenuta onerosità comprende anche le oscillazioni di valore delle
prestazioni che possono ritenersi originate dalle regolari e normali fluttuazioni del mercato, senza che tale
alea possa confondersi con quell'elemento intrinseco che definisce ed individua i cosiddetti contratti
aleatori. Infatti in questi ultimi l'alea si pone come momento originario ed essenziale che colora e qualifica
lo schema causale del contratto, mentre l'alea normale, che si può dire esista sempre nel momento in cui si
perfeziona un contratto, non potendosi mai escludere che vicende economiche sopravvenute possano
alterare quella situazione di equilibrio che le parti avevano ritenuto concordemente di porre in essere,
rimane un momento del tutto intrinseco al meccanismo ed al contenuto del contratto».
320
R. SACCO, La qualificazione, cit., p. 454.
321
Occorre però precisare che il rimedio della risoluzione per eccessiva onerosità e quello della
rescissione per lesione riposano su diverse rationes, per cui la prospettazione unitaria della questione di cui
sopra non sembrerebbe del tutto opportuna. V. meglio infra.
202
La questione merita di essere approfondita e tal fine si ritiene opportuno richiamare la
sopraccitata distinzione tra contratti aleatori «funzionalizzati» e contratti aleatori «non
funzionalizzati» (o «astratti»).
In primo luogo deve essere rilevato che la menzione della funzione è un dato che, se
non è essenziale per categorizzare il contratto come «aleatorio», può invece essere
dirimente – tra le altre cose – per qualificare le situazioni che originano dalla mera
conclusione del contratto.
Si pensi, ad esempio, al contratto tipico – e «funzionalizzato» – dell’assicurazione,
nell’ambito del quale origina un rapporto che riceve immediatamente tutela
dall’ordinamento, ossia già a partire della conclusione del contratto.
In questo stesso contesto, si consideri ora la fattispecie disciplinata dall’art. 1912 c.c.
(rubricato «terremoto, guerra, insurrezione, tumulti polari»), secondo il quale «salvo patto
contrario, l’assicuratore non è obbligato per i danni determinati da movimenti tellurici, da
guerra, da insurrezioni o da tumulti popolari»322.
Orbene, tale norma contiene due dati: il primo è costituito dalla regola secondo la quale
qualora dovessero verificarsi terremoti, guerre, insurrezioni o tumulti popolari –
considerati ex lege quali eventi «straordinari e imprevedibili» – l’assicuratore «non è
obbligato»; la seconda è che tali eventi potrebbero essere comunque assicurati in via
eccezionale qualora le parti lo volessero (art. 1912 cit.: «salvo patto contrario»)323.
322
«L’elenco contenuto nell’articolo sembra tassativo. Tuttavia si è detto che ai terremoti debbono
essere assimilati altri cataclismi naturali quali le eruzioni vulcaniche, i cicloni, le inondazioni, ecc. anche la
nozione di guerra va intesa in senso lato, comprensiva di qualsiasi situazione che si verifichi tra due Stati
che comporti operazioni militari, sebbene le ostilità siano unilaterali, ovvero manchi una formale
dichiarazione di guerra. Anche la guerriglia partigiana è stata ricompresa nella nozione di guerra, in
particolare quando compiuta con atti di sabotaggio. Nella nozione di guerra va ricompresa anche la guerra
civile»: M. FRANZONI, sub art. 1912 c.c., in Commentario al codice civile, diretto da P. Cendon, IV, Torino,
1991, p. 1680.
323
«La ratio della norma in esame si spiega con il fatto che l’assicurazione è retta dall’osservazione
statistica del calcolo delle probabilità dei sinistri. Pertanto sono di regola coperti i rischi di eventi che si
verificano in misura approssimativamente prevedibile, oltre che relativamente esigua, rispetto alla massa
degli assicurati. Si tratta comunque di una norma derogabile per volontà delle parti, che può estendere la
copertura anche ai rischi straordinari. La norma ha avuto una notevole importanza negli anni
immediatamente successivi al secondo conflitto mondiale, ed anche dopo il terremoto di Messina del 1908.
Anche l’art. 434, ult. co., del c. comm. prevedeva una disposizione identica a quella in commento […]. È
stato più volte affermato [n.d.a. in giurisprudenza] che solo se sussiste un diretto rapporto di causalità fra il
sinistro prodotto da fatti di guerra è operante la norma. Pertanto non è rischio di guerra l’uccisione
dell’assicurato compiuta per vendetta da un soggetto che profittò dello stato di tumulto e di disordine.
Neppure è tale l’uccisione per motivi politici perpetrata dai partigiani durante la lotta di liberazione se
manca la prova del collegamento causale tra lo stato di guerra e il sinistro. In applicazione di questo
principio, è stato deciso che il caso di aggravamento del danno determinato da una delle cause dell’art.
203
Invero, per cogliere il significato esatto della regola (l’assicuratore «non è obbligato»
se si verificano eventi straordinari e imprevedibili) occorre leggere l’art. 1912 c.c. in
combinato disposto con l’art. 1896 c.c. (rubricato «cessazione del rischio durante
l’assicurazione»), che al primo comma prevede che «il contratto si scioglie se il rischio
cessa di esistere dopo la conclusione del contratto stesso, ma l’assicuratore ha diritto al
pagamento dei premi finché la cessazione del rischio non gli sia comunicata o non venga
altrimenti a sua conoscenza. I premi relativi al periodo di assicurazione in corso al
momento della comunicazione o della conoscenza sono dovuti per intero».
Da quanto si è appena illustrato è agevole inferire che l’evento «straordinario e
imprevedibile» – si ribadisce: tale ex lege – verrebbe ad insinuarsi in un rapporto
validamente costituito, interrompendone il normale svolgimento; rapporto che, appunto,
fino a quel momento ha prodotto i suoi rilevanti effetti giuridici.
In breve: nel contratto di assicurazione (che è un contratto aleatorio tipico
funzionalizzato) l’accadimento «straordinario e imprevedibile» determina l’interruzione
della produzione dell’efficacia del contratto: si avrà pertanto la risoluzione del rapporto, e
non già l’invalidità dell’atto.
Peraltro, è possibile giungere allo stesso risultato anche rispetto ai contratti aleatori
funzionalizzati ma atipici, nei quali le parti abbiano appunto fatto esplicita menzione della
causa: in queste fattispecie, infatti, l’indicazione della funzione consentirebbe di
comprendere in ragione di quali accadimenti le parti si siano determinate a contrattare,
sicché sarebbe oggettivamente possibile comprendere – anche in via di presupposizione324
1912 c.c. comporta un rischio ordinario che va pertanto risarcito». M. FRANZONI, sub art. 1912 c.c., cit., p.
1679.
324
«Volendo definire propriamente la presupposizione, può dirsi che essa indica quei fatti o circostanze
che, pur non attenendo alla causa del contratto o al contenuto delle prestazioni, assumono un’importanza
determinante ai fini della conservazione del vincolo contrattuale. La rilevanza di tali presupposti deve essere
ammessa e spiegata in base al contenuto del contratto: a determinati fatti o circostanze, cioè, deve
riconoscersi il valore di presupposti oggettivi del contratto quando tale valore risulta dal contratto
medesimo. In tal senso deve aversi riguardo non tanto ad una volontà reale o “ipotetica” delle parti quanto
al significato del contratto conforme alla sua interpretazione. Affinché una data circostanza acquisti
rilevanza come presupposizione occorre, precisamente, che essa sia comune alle parti o che una parte abbia
riconosciuto l’importanza determinante che la circostanza assume per l’altra. La semplice conoscenza
dell’importanza che una circostanza ha per l’altra parte non vale invece a subordinare a tale circostanza la
sorte del contratto. L’esigenza di affidamento ne risulterebbe violata. Se una parte annette importanza ad
una data circostanza non può infatti presumere di riversarne il rischio sull’altra parte per il solo fatto che
questa ne abbia avuto conoscenza. Una determinata circostanza esterna rileva come presupposizione,
piuttosto, quando in applicazione delle regole d’interpretazione, ivi compresa quella di buona fede, si
accerta che tale circostanza ha un valore determinante ai fini della persistenza del vincolo contrattuale». C.
M. BIANCA, Il contratto, cit., pp. 466-467.
204
– quali tra gli infiniti eventi possibili si siano verosimilmente rappresentate le parti quando
hanno concepito il contratto.
In questo senso, saranno da ritenere «straordinari e imprevedibili» gli accadimenti che
non sono stati oggetto di rappresentazione da parte dei contraenti, cosicché l’eventuale
verificazione di tali eventi «straordinari e imprevedibili» non inciderà certamente sull’atto
(che è e resta valido), ma piuttosto sulla permanenza del concreto rapporto così come è
stato concepito dalle parti medesime; rapporto, in dette ipotesi, che oltre ad essere
strumentale rispetto al risultato finale al quale le parti aspiravano è pure giuridicamente
rilevante.
Nei contratti aleatori «funzionalizzati», siano essi tipici o atipici, il problema
dell’incidenza degli eventi «straordinari e imprevedibili» può essere risolto facendo
ricorso ai principi che governano la causalità: i contraenti, infatti, decidono sì di rimettere
il loro regolamento di interessi al caso, ma ciò non significa che tutti i fattori casuali
verificabili in rerum natura possano assumere rilevanza giuridica per contraenti.
I fattori casuali assumeranno quindi rilevanza nella misura in cui gli stessi siano
ascrivibili alla causa del contratto; chiaramente, l’indagine risulterà più agevole nelle
fattispecie tipiche, mentre sarà necessario “scandagliare” la volontà dei contraenti nelle
ipotesi atipiche.
In questa prospettiva, al fine di poter qualificare un evento come «straordinario e
imprevedibile» occorrerà individuare la classe di eventi cui le parti abbiano voluto fare
riferimento, procedendo successivamente ad una comparazione tra questa e la situazione di
fatto che effettivamente si è verificata325.
325
Per inquadrare correttamente tale assunto, si ritiene opportuno richiamare alcune elementari nozioni di
statistica: «nella statistica descrittiva si hanno serie e seriazioni dei dati osservati. Nella teoria della
probabilità si vogliono ricavare modelli teorici. La statistica descrittiva studia le mutabili/variabili
statistiche sono caratterizzate da frequenze; la teoria della probabilità studia le mutabili/variabili casuali
che sono caratterizzate da probabilità. Come definire la probabilità? In generale per parlare di probabilità
si deve pensare ad un esperimento aleatorio, cioè ad un esperimento i cui risultati siano “casuali”. Per
l’approccio deterministico, l’esperimento ammette un unico risultato certo; per l’approccio probabilistico,
l’esperimento ammette almeno due risultati e vi è incertezza su quale si realizzerà (ad es.: lancio di un
dado). Per descrivere la manifestazione di un esperimento parleremo di eventi. La probabilità è quindi la
misura del presentarsi di un evento. L’obiettivo della teoria della probabilità è quindi quello di costruire
modelli teorici che permettano di calcolare la probabilità di tutti gli eventi sperimentabili. È poi possibile
distinguere tra: eventi elementari (e1, e2,…ei,…), ossia tutti i risultati (manifestazioni) possibili del fenomeno
aleatorio [nel lancio di un dado gli eventi elementari sono (1), (2), (3), (4),(5) e (6)]; eventi generici (A1,
A2,…Ai,…), ossia insiemi o famiglie di eventi elementari [nel lancio di un dado un evento generico può
essere “il risultato pari”, e quindi (2), (4) e (6)]; classi o famiglie di eventi [S(Ω)], ossia insiemi di insiemi
(eventi) ottenuti con operazioni algebriche su altri eventi [la famiglia di eventi è ottenibile come l’insieme di
205
Per altro verso, deve ora essere precisato che tale conclusione è evidentemente
praticabile solo nella misura in cui sussista un rapporto giuridicamente rilevante; e la
rilevanza di detto rapporto intanto è ipotizzabile in quanto sia stata appunto lumeggiata una
funzione.
Ciò significa che rispetto ai contratti aleatori non funzionalizzati, ossia «astratti», si
avrebbe verosimilmente un radicale mutamento di prospettiva: in questa ipotesi, infatti,
non sarebbe possibile individuare ex post la classe di eventi cui le parti hanno inteso
riferirsi, in ragione cioè della funzione del contratto.
Il problema degli eventi «straordinari e imprevedibili», pertanto, non può in questo
caso essere risolto avendo riguardo al principio di causalità.
Tuttavia, a prescindere dalle questioni più strettamente attinenti al tema del controllo di
meritevolezza dei contratti astratti, deve essere tenuto presente che l’astrattezza è una
condizione pur sempre voluta dalle parti: sono gli stessi contraenti, infatti, che decidono di
non fare menzione della causa per la quale si stanno obbligando.
In tale ultima ipotesi è allora verosimile che ad assumere giuridica rilevanza siano solo
il momento iniziale e il risultato finale al quale aspirano le parti, mentre il rapporto che si
instaura medio tempore – ossia tra il momento iniziale, coincidente con la conclusione
dell’accordo, e quello finale, sancito dal verificarsi dell’evento – sarebbe insuscettibile di
essere giuridicamente qualificato: si sarebbe quindi al cospetto di una situazione di
aspettativa di mero fatto.
Più esattamente, nel contratto aleatorio «non funzionalizzato» assumerebbero rilevanza
soltanto il momento iniziale e quello finale della vicenda contrattuale, nel mezzo dei quali
non sarebbero neppure configurabili effetti giuridicamente rilevanti: e questo
semplicemente perché così vogliono le parti.
Orbene, in questa logica, la soluzione del problema degli eventi «straordinari e
imprevedibili» può essere risolta avendo riguardo del momento iniziale dell’operazione
posta in essere dalla parti: è infatti in tale momento iniziale che i contraenti possono
definire le “regole del gioco”, descrivendo l’oggetto dell’accordo; sono sempre e solo i
contraenti, quindi, che stabiliscono quali eventi debbano essere considerati normali e quali
tutti i possibili insiemi ottenibili a partire dagli eventi elementari (nel caso del lancio del dado, l’insieme che
contiene tutti gli eventi elementari, tutti gli eventi costituiti da coppie di valori, di terne di valori, da
quaterne di valori, compreso lo spazio Ω e l’insieme vuoto); eventi particolari, come l’evento impossibile
(insieme vuoto Ø) o l’evento certo (spazio degli eventi elementari Ω, cioè spazio di tutti i possibili risultati)
[nel lancio di un dado, Ω = (1,2,3,4,5,6)]». L. DELDOSSI – R. PAROLI, Lezioni di statistica2, Torino, 2014,
pp. 307-309.
206
«eccezionali e imprevedibili», e nulla esclude che – ad esempio – l’accordo possa
riguardare solo questi ultimi escludendo addirittura i primi326.
Infine, è appena il caso di rilevare che non sempre le soluzioni adottate dal legislatore
possono essere interpretate nel senso suddetto.
A tal proposito, occorre fare un cenno ad un’altra norma nella quale viene
espressamente menzionata la categoria del «contratto aleatorio»: ci si vuol riferire all’art.
1448 c.c., che al comma 4, afferma che «non possono essere rescissi per causa di lesione i
contratti aleatori».
Giova sottolineare che il riferimento al «contratto aleatorio» è contenuto direttamente
all’interno della disciplina del rimedio, a prescindere, quindi, da quanto previsto dall’art.
1469 c.c.
Orbene, com’è noto, la natura e il fondamento del rimedio rescissorio sono tuttora
controversi; in particolare:
− per quanto riguarda la natura, secondo l’orientamento maggioritario la rescissione
sarebbe una forma di invalidità, nella quale verrebbe in rilievo un vizio strutturale e
326
In questo senso, v., ad esempio, il Decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze n. 111 del 1
marzo 2006 («norme concernenti la disciplina delle scommesse a quota fissa su eventi sportivi diversi dalle
corse dei cavalli e su eventi non sportivi da adottare ai sensi dell'articolo 1, comma 286, della legge 30
dicembre 2004, n. 311»), che all’art. 6 disciplina la sorte della scommessa autorizzata proprio nei casi in cui
l’evento su cui si è scommesso dovesse venire posticipato o annullato a causa di accadimenti esterni allo
svolgimento dello stesso: «(1) sono considerate valide le scommesse regolarmente accettate e registrate dal
totalizzatore nazionale. (2) Fermo restando quanto stabilito dal successivo comma 8, l'esito degli
avvenimenti sportivi oggetto di scommessa è quello che si realizza sul campo di gara; le sue eventuali
modificazioni non incidono sull'esito già certificato ai fini delle scommesse. (3) La scommessa su un
avvenimento sportivo è considerata non valida: a) quando l'avvenimento non si è svolto entro i tre giorni
successivi alla data stabilita nel programma ufficiale; b) quando nessun concorrente si è classificato; c) in
caso di inversione di campo nelle competizioni a squadre. (4) La scommessa su un avvenimento non sportivo
è considerata non valida quando l'avvenimento non si verifica, salvo che la scommessa abbia ad oggetto il
mancato verificarsi dell'avvenimento stesso. (5) Nel caso di mancata partecipazione alla competizione di un
concorrente, le scommesse accettate su quel concorrente sono ritenute perdenti. (6) Nel caso di scommesse
su risultati parziali e su altri fatti connessi ad un avvenimento sportivo, la scommessa è comunque valida
quando il risultato oggetto della stessa è già maturato sul campo di gara, anche se, in momenti successivi,
l'avvenimento è sospeso o annullato. (7) Se uno o più avvenimenti oggetto di una scommessa multipla
risultano non validi, la scommessa resta valida e all'avvenimento o agli avvenimenti non validi è assegnata
quota uguale ad 1 (uno). L'applicazione delle maggiorazioni delle vincite per le scommesse multiple di cui
all'articolo 9, comma 4, sono ricalcolate escludendo gli avvenimenti a cui e' assegnata quota 1 (uno). (8) Ai
fini delle scommesse, l'acclaramento degli esiti riguardanti gli avvenimenti sportivi oggetto di scommessa
compete ad AAMS, che provvede a certificarli sulla base delle comunicazioni ufficiali effettuate dagli organi
responsabili dello svolgimento degli avvenimenti ovvero, in assenza di queste ultime, sulla base di elementi,
notizie od informazioni oggettivamente riscontrabili; ai medesimi fini AAMS provvede direttamente ad
acclarare e certificare gli esiti riguardanti gli avvenimenti non sportivi, sulla base di elementi, notizie od
informazioni oggettivamente riscontrabili per l'avvenimento oggetto di scommessa».
207
genetico (id est l’alterazione del processo di formazione della volontà)327, mentre
per quello minoritario il contratto rescindibile sarebbe meramente impugnabile (al
pari del contratto risolubile, riducibile328 o revocabile), non difettando alcun
requisito329;
− per quanto invece concerne il fondamento di entrambe le ipotesi di rescissione
(«contratto concluso in istato di pericolo», ex art. 1447 c.c., e contratto concluso in
«stato di bisogno», di cui all’art. 1448 c.c.), non è ancora stato chiarito se il rimedio
operi per far fronte ad una generica sproporzione tra le prestazioni330, piuttosto che
ad un’alterazione del processo volitivo331 o, infine, per riportare esattamente ad
equità il regolamento contrattuale332.
Ad ogni modo, dottrina e giurisprudenza sembrano concordi nel ritenere che la ratio
dell’inapplicabilità del rimedio rescissorio ai contratti aleatori risieda nel fatto che «nel
contratto aleatorio, la sproporzione delle prestazioni è, sin dal momento della
stipulazione, frutto non già dell’approfittamento di una parte in danno dell’altra, ma della
libera scelta dei contraenti»333.
In realtà, più di un dubbio si pone rispetto a tale conclusione: non si spiegherebbe,
infatti, perché il legislatore precluda il rimedio rescissorio per i contratti aleatori sempre e
comunque, ossia anche rispetto alle ipotesi nelle quali una delle parti sia stata indotta ad
327
V., ad esempio, C. M. BIANCA, Il contratto, cit., pp. 610 e 683.
Si pensi, ad esempio, all’art. 1384 c.c., rubricato «riduzione della penale»: «la penale può essere
diminuita equamente dal giudice, se l'obbligazione principale è stata eseguita in parte ovvero se
l'ammontare della penale è manifestamente eccessivo, avuto sempre riguardo all'interesse che il creditore
aveva all'adempimento».
329
Così L. CARIOTA FERRARA, Il negozio giuridico nel diritto privato italiano, Napoli, 1948 (ristampa
2011), p. 368.
330
L. CARIOTA FERRARA, Il negozio giuridico del diritto privato italiano, cit., p. 574; F. SANTORO
PASSARELLI, Dottrine generali del diritto civile, cit., p. 184.
331
M. ALLARA, La teoria generale del contratto2, Torino, 1955, p. 205.
332
C. M. BIANCA, Il contratto, cit., p. 683, nel senso che «l’irregolarità è data dalla violazione di una
norma sul contenuto del rapporto, e precisamente da una norma che impone alle parti di adeguarsi ad un
criterio equitativo».
333
Così F. CARINGELLA – G. DE MARZO, Manuale di diritto civile, cit., p. 882; nello stesso senso, v.
anche C. M. BIANCA, Il contratto, cit., p. 689. Per la giurisprudenza v., ex. multis, Cass. civ., Sez. II, 9 aprile
1980, n. 2286, cit.: «perché possa aversi contratto aleatorio – atto a paralizzare ai sensi dell’art. 1448
comma 4 c.c. l’azione di rescissione per lesione – è necessario che l’alea, intesa come rischio cui uno o più
contraenti ovvero tutti si espongono, investa e caratterizzi il negozio nella sua interezza e fin dalla sua
formazione, cosicché per la natura stessa del negozio o per le specifiche pattuizioni stabilite dai contraenti
medesimi, divenga radicalmente incerto, per una o per tutte le parti, il vantaggio economico in relazione al
rischio, al quale le parti stesse si espongono»; nello stesso senso, v. anche Cass. civ., Sez. I, 31 maggio
1986, n. 3694.
328
208
accettare una contrattazione siffatta a cagione di una volontà negoziale non del tutto
“lucida”.
A tal proposito, Autorevole dottrina ha osservato che non è chiaro il motivo per cui non
si possa invocare il rimedio rescissorio nel caso in cui «taluno, in stato di bisogno, fosse
costretto a scommettere uno contro dieci anziché uno contro uno»334.
In realtà una risposta vi sarebbe.
Innanzitutto, non si può fare a meno di notare che rispetto all’esempio proposto colui
che ha scommesso – versi o meno in stato di bisogno – non è giuridicamente tenuto ad
adempiere, né i vincitori avrebbero azione per ottenere l’adempimento (art. 1933 c.c.): il
regolamento dei rapporti concreti, pertanto, assume rilevanza su un piano eminentemente
fattuale e la sua esecuzione viene intenzionalmente riservata dal legislatore alla libera
valutazione delle parti335.
La “sanzione” – sia per lo scommettitore in stato di bisogno che dovesse decidere di
non pagare, sia per l’altro scommettitore che decida di farsi pagare comunque,
approfittando dello stato di bisogno che abbia eventualmente indotto il primo a scommette
– sarà quindi di tipo esclusivamente morale e/o sociale: nessuno vorrà più scommettere
con quello scommettitore tanto bisognoso quanto inaffidabile; nessuno vorrà più
scommettere con quello scommettitore impietoso.
Peraltro, non sembra neppure esatto affermare che il giudice non abbia in nessun caso
alcun potere rieliquibratorio a fronte di contrattazioni aleatorie: infatti, per l’ipotesi di
scommessa autorizzata (e quindi azionabile) lo scommettitore (sia esso o meno un
soggetto bisognoso), potrà chiedere eccome al giudice di «rigettare o ridurre la domanda»
qualora la posta «risulti eccessiva» (art. 1934, comma 2, c.c.)336.
334
R. SACCO, La qualificazione, cit., p. 454.
Cfr. Relazione al codice civile del 1942, n. 656, cit., dove viene espressamente affermato che il
rimedio rescissorio è stato concepito, tra le altre cose, nel rispetto di quegli «imponderabili apprezzamenti
soggettivi» che stanno alla base della «determinazione dei vantaggi di ciascuna parte».
336
Sul punto, cfr. C. M. BIANCA, L’obbligazione, cit., p. 797: «a differenza del potere di riduzione ad
equità previsto in tema di clausola penale (art. 1384 c.c.), qui il giudice deve valutare l’eccessività attuale
della pretesa, tenendo conto di obiettivi criteri di normalità e della capacità economica delle parti»; v. anche
L. BALESTRA, Il giuoco e la scommessa nella categoria dei contratti aleatori, cit., pp. 684-685, il quale,
richiamando le opinioni di BUTTARO, VALSECCHI e GENTILI, afferma al riguardo che: «la preoccupazione,
sempre immanente allorquando si tratti di giuoco, di evitare che la scommessa dia luogo a perdite ingenti, è
alla base del temperamento introdotto con la disposizione di cui al comma 2º dell’art. 1934 c.c. Al giudice è
infatti attribuito il potere correttivo di ridurre la domanda o, addirittura, di rigettarla qualora ritenga la
posta eccessiva; a tal fine, la valutazione da effettuare deve tener conto “delle condizioni patrimoniali dei
giocatori e della natura della gara, in relazione anche allo sforzo ed alle spese sopportate per partecipare
alla stessa”. Si tratta, come correttamente osservato, di una previsione disallineata rispetto alla natura
335
209
Infine, deve essere rilevato che l’esperibilità del rimedio rescissorio viene esclusa da
legislatore anche rispetto alla transazione (art. 1970 c.c.)337.
Orbene, in relazione a tale fattispecie la giurisprudenza ha sì chiarito che «la
transazione non può essere impugnata per causa di lesione, in quanto la considerazione
dei reciproci sacrifici e vantaggi derivanti dal contratto ha carattere soggettivo, essendo
rimessa all'autonomia negoziale delle parti»338, ma ha anche precisato che «il principio
della riducibilità della penale eccessiva, avendo carattere generale, è applicabile in tutti i
contratti nei quali sia inserita la suddetta clausola e, quindi, anche quando si tratta di un
contratto di transazione; né a tale operatività osta il disposto dell'art. 1970 c.c. – che
esclude l'impugnabilità della transazione per causa di lesione – trattandosi di norma
eccezionale non suscettibile di estensione analogica e non essendo assimilabili la
fattispecie della lesione ultra dimidium e quella dell'eccessività della penale»339.
Emerge allora chiaramente come tra i poteri rieliquibratori del giudice e l’esclusione
legale dei rimedi rescissori non via sia in realtà alcuna incompatibilità ontologica.
La questione, nonostante presenti notevoli profili di interesse, non può essere
ulteriormente approfondita in questa sede; giova, invece, completare il discorso sulla
categoria generale dei contratti aleatori.
2.2. La distinzione tra «alea unilaterale» e «alea bilaterale»: irrilevanza
giuridica.
Pare ora opportuno esaminare la distinzione tra «alea unilaterale» e «alea bilaterale»,
anticipando sin da ora – anche in ragione di quanto si è sin qui affermato – che la stessa
non può essere condivisa.
A prescindere da quanto verrà meglio precisato subito infra, il principale motivo di tale
non condivisibilità risiede nella circostanza che quella appena richiamata parrebbe essere
una distinzione priva di qualsiasi referente normativo e, pertanto, la sua evocazione
sarebbe un fatto meramente arbitrario: cionondimeno, la dottrina e una parte della
giurisprudenza di merito continua a farne menzione, nonostante la giurisprudenza della
aleatoria del contratto che, peraltro, attribuisce una significativa discrezionalità all’intervento del giudice, il
quale, in alternativa alla reductio ad aequitatem della prestazione pattuita, può addirittura disattendere —
così reintroducendo di fatto il regime dell’art. 1933 c.c. — la domanda completamente».
337
Art. 1970 c.c. – «lesione»: «la transazione non può essere impugnata per causa di lesione».
338
Cass. civ., Sez. III, 22 aprile 1999, n. 3984.
339
Cass. civ., Sez. III, 6 febbraio 1987, n. 1209; conferma il principio la recente Cass. civ., Sez. II, 21
aprile 2010, n. 9504.
210
Corte di cassazione abbia sempre – e senza soluzione di continuità – respinto qualsiasi
possibilità di ritenere ammissibile la dicotomia in parola.
Sotto un altro profilo, la distinzione in esame – quand’anche dovesse essere comunque
ritenuto opportuno farvi ricorso – avrebbe una rilevanza esclusivamente sul piano
strutturale, che quindi sarebbe di per sé inidonea a rivelare l’effettiva meritevolezza di
tutela degli specifici interessi perseguiti in concreto dalle parti; si vedrà, tuttavia, come
alcuni interpreti abbiano adoperato il criterio distintivo in esame come grimaldello per
sindacare il merito di alcune particolari fattispecie di contratto atipico.
Ciò premesso, giova muovere l’indagine da alcune premesse storiche.
La dicotomia tra «contratti aleatori unilaterali» e «contratti aleatori bilaterali» è stata
teorizzata da R. J. Pothier340.
Secondo detto Autore il suddetto criterio distintivo riposerebbe sulla distribuzione
intersoggettiva del «rischio»341; sicché, apparterrebbero alla prima specie quei contratti in
cui solo la prestazione di una delle parti dipenda dal verificarsi di un rischio correlato
all’incertezza di un evento, mentre nella seconda specie sarebbero da ricondurre quei
contratti in cui detto «rischio» sarebbe destinato a ripercuotersi sulla prestazione di
entrambi i contraenti342.
340
«Si osservi in primo luogo esservi due specie di contratti aleatorj: la prima è di quelli co’ quali un de’
contraenti si espone ad un rischio a vantaggio dell’altra parte, la quale le paga o si obbliga a pagarle il
prezzo di questo rischio senza ch’ella si esponga reciprocamente a rischio veruno; tale è il contratto di
assicurazione. Non avvi che una sola parte, cioè l’assicuratore, che assumasi il rischio marittimo degli
effetti dell’assicurato, e questi paga e si obbliga di pagare al primo la così detta prima che è il prezzo di
questo rischio, senza che l’assicurato si esponga dal canto suo a rischio veruno. Dicasi lo stesso del
contratto di prestito a cambio marittimo. La seconda specie di contratti aleatorj è di quelli co’ quali
ciascuna parte s’incarica reciprocamente di un rischio, che è il prezzo di quello di cui l’altra parte si
incarica. Tale è il contratto di rendita vitalizia, che chiamasi altresì a fondo perduto […]. In forza di questo
contratto il venditore corre il rischio di nulla o quasi nulla ricevere per la cosa che ei vende al compratore,
s’ei venisse a morire poco dopo il contratto; e questo rischio che corre il venditore è il prezzo di quello che
corre dal canto suo il compratore di pagare al venditore il doppio o il triplo del prezzo di questa cosa, se
questi vivesse lunghissimo tempo. Il contratto del giuoco è di questa seconda specie. Cadauno de’ giuocatori
corre il rischio di dare all’altro la somma convenuta, se questi rimane vincitore, e siffatto rischio che l’uno
corre, è il prezzo di quello che l’altro giocatore corre dal canto suo, cioè di dargli altrettanto nel caso che ci
sia vincitore». R. J. POTHIER, Trattato del giuoco, in Opere contenenti i trattati del diritto francese2, trad. it.,
tomo II, Livorno, 1842, p. 159.
341
Il presupposto, pertanto, è che il termine «alea» debba essere inteso come «rischio» e non già come
«casualità»; si è però chiarito nelle pagine precedenti che tale sovrapposizione concettuale non è
condivisibile e, anzi, è foriera di diverse aporie ermeneutiche.
342
E. DAMIANI, Contratto di assicurazione e prestazione di sicurezza, 2008, Milano, p. 134;
211
Così, sempre secondo l’Autore sopraccitato, sarebbero contratti unilateralmente
aleatori l’assicurazione e il prestito a tutto rischio343, mentre sarebbero contratti
bilateralmente aleatori quelli di gioco e scommessa e la rendita vitalizia344.
Tale classificazione fu poi dapprima trasfusa nel Code Napoléon del 1804 e
successivamente recepita in Italia con il codice civile del 1865, che all’art. 1102 definiva il
343
M. A. DURANTON, Corso di diritto civile secondo il codice francese, IV ed. napoletana, per cura
dell’Avv. L. Parente, Napoli, 1855, pp. 26-27: «il prestito a tutto rischio è un contratto col quale una delle
parti presta una somma all’altra, soggettando specialmente all’obbligazione cose che fanno parte di una
spedizione marittima sotto la condizione che in caso di perdita delle cose, non si dovrà restituire la somma,
e che nel caso di felice arrivo, si dovrà restituire con un lucro convenuto, il quale può oltrepassare la misura
determinata dalla legge pel maximum dell’interesse convenzionale». Con l’entrata in vigore del codice civile
del 1942, il «prestito a tutto rischio» è divenuto un contratto legalmente atipico (così G. MIGNONE,
L’associazione in partecipazione, cit., p. 83): tale circostanza ha fatto sì che in dottrina si aprisse un dibattito
sulla possibilità di inserire in un contratto di mutuo una clausola con la quale subordinare la sola
obbligazione restitutoria del mutuatario ad un evento futuro e incerto. Più esattamente: «secondo un
consistente indirizzo dottrinario, mentre è ammessa la condizione risolutiva nel contratto di mutuo in
aggiunta al termine finale stabilendo che la restituzione venga anticipata rispetto ad esso ove si verifichi un
evento determinato, non è possibile condizionare la restituzione a un evento futuro ed incerto, come il buon
esito di un affare, senza snaturare il mutuo oneroso, trasformandolo in un contratto aleatorio, il c.d. prestito
a tutto rischio, e il mutuo gratuito, trasformandolo in donazione»: così, V. FRATTAROLO, L’obbligazione di
restituzione, in Il mutuo nella giurisprudenza, di V. Frattarolo e E. Iorio, Milano, 2009, p. 135. Sulla
questione è rinvenibile un unico precedente giurisprudenziale (Cass. civ., 6 giugno 1967, n. 1248), che ha
ritenuto ammissibile detta clausola argomentando come segue: «sotto il profilo giuridico, la proposizione,
secondo cui non sussisterebbe contratto aleatorio ogni qualvolta l’alea non è bilaterale, non può approvarsi
poiché, per costante giurisprudenza, già formatasi sulla base dell’art. 1102 c.c. del 1865, e tenuta ferma in
seguito, il contratto è aleatorio qualora il rischio sia assunto comunque a fondamento del rapporto ed il
vantaggio economico delle controprestazioni sia incerto per entrambe le parti e anche soltanto per una di
esse […]. L’accordo, che si risolve in un prestito a tutto rischio, per cui il mutuante si pone volontariamente
nell’alternativa di riavere la somma mutuata con diritto ad un interesse elevato e ad un premio in
conseguenza della realizzazione molto probabile d’un affare vantaggioso, ovvero di perdere la somma in
caso di sfavore congiuntura, è espressione lecita dell’autonomia contrattuale delle parti, a norma dell’art.
1322 c.c., non urtando contro alcuna norma imperativa; senza dire che il mutuante, anche
indipendentemente dalla possibilità di lucrare interessi in misura superiore a quella legale, può avere pur
sempre un apprezzabile interesse a finanziare un’opera di grande rilievo […] a cui possano ricollegarsi
ulteriori possibilità di affari e di ingenti guadagni, assumendosi anche il rischio di perdere il capitale
mutuato, ove l’opera non possa essere realizzata».
344
G. DI GIANDOMENICO, L’origine storica del contratto aleatorio, cit., p. 18 osserva che quella appena
citata rappresenta una «distinzione […] da cui nasceranno molti equivoci e su cui molto si disputerà. […]
Pothier, infatti, parla di unilateralità del rischio nel contratto di assicurazione sotto la suggestione dello
schema della vendita, vedendo il premio come il prezzo del rischio, ma dimenticando di aver ritrovato già
nel contratto di assicurazione, oltre al rischio corso dall’assicuratore, anche un rischio corso
dall’assicurato, e che consiste nell’ipotesi di pagare il premio in pura perdita, senza nulla ricevere in
cambio, nel caso in cui nessun evento dannoso si fosse verificato».
212
contratto «di sorte o aleatorio» quello nel quale «per ambidue i contraenti o per l’uno di
essi il vantaggio dipende da un avvenimento incerto»345.
Giova segnalare che detta distinzione non aveva, verosimilmente, una valenza
propriamente precettiva, ma meramente classificatoria: non a caso, la dottrina dell’epoca
giustificava la distinzione che qui si esamina in termini prettamente empirici.
Più esattamente, si affermava che nel contratto di assicurazione e in quello di prestito a
tutto rischio (il primo nominato negli artt. 1102 e 1951346 del codice civile del 1865, ma
disciplinato nei codici di commercio del 1865 e 1882347; il secondo solo nominato nell’art.
1102 del codice civile previgente) «non vi può essere incertezza di guadagno o di perdita
per tutte le parti, ma soltanto per una di esse», laddove nella rendita vitalizia e nella
scommessa (entrambe disciplinate dal codice civile del 1865) «àvvi in realtà evento di
lucro o di perdita per ciascuna parte, secondo un incerto avvenimento»348.
345
E. DAMIANI, Contratto di assicurazione e prestazione di sicurezza, Milano, 2008, p. 134, nota n. 108;
v. anche supra, in questo paragrafo, nota n. 15.
346
Art. 1951 c.c. 1865: «se le cose soggette a privilegio od ipoteca sono perite o deteriorate, le somme
dovute dagli assicuratori per indennità della perdita o del deterioramento sono vincolate al pagamento dei
crediti privilegiati od ipotecari secondo il loro grado, eccetto che le medesime vengano impiegate a riparare
la perdita o il deterioramento. Gli assicuratori sono però liberati, qualora paghino dopo trenta giorni dalla
perdita o dal deterioramento, senza che siasi fatta opposizione. Sono altresì vincolate al pagamento dei detti
crediti le somme dovute per causa di espropriazione forzata per pubblica utilità o di servitù imposta per
legge».
347
Più esattamente, relativamente alla disciplina del contratto di assicurazione, deve essere precisato che
in un primo momento questa riguardava solo l’assicurazione marittima (Titolo VIII del Libro II del Codice di
commercio 1865); successivamente, con il codice di commercio del 1882, è stata disciplinata, oltre a quella
marittima (artt. 604-641), anche l’assicurazione in generale e quella terrestre (artt. 417-453). Altre
fattispecie particolari di assicurazione sono state disciplinate in seguito con interventi normativi speciali (v.,
ad esempio, r.d. n. 356 del 1925, nella quale viene prevista l’assicurazione aeronautica).
348
Così M. A. DURANTON, Corso di diritto civile, cit., pp. 26-27. Più esattamente, per quanto riguarda
l’assicurazione «l’evento del lucro o della perdita non esiste indistintamente per l’assicurato e per
l’assicurante; non esiste che per quest’ultimo il quale lucrerà il premio, se non accada qualche disgrazia,
ma perderà il prezzo delle mercanzie se periscano; di maniera che vi sarà un vantaggio per lui nel primo
caso, e perdita effettiva nel secondo. Ma per l’assicurato, non è egli esposto né all’evento del guadagno né a
quello della perdita, per effetto del contratto; giacché avrà sempre le sue mercanzie, o il loro valore se siano
perite, ed anche scemate del premio di assicurazione; il che esclude per lui ogni supposizione di lucro
derivante dal contratto. E riguardo al premio, siccome lo deve sempre in qualunque evento, è chiaro che
esso non può a suo riguardo esser considerato come una perdita dipendente da un evento»; lo stesso
concetto viene affermato rispetto al prestito a tutto rischio, nella misura in cui «è chiaro che il mutuatario
non va esposto ad alcun evento di perdita, tranne il suo tempo, ma che non è l’oggetto diretto del contratto.
Il mutuante soltanto corre l’evento del lucro e della perdita: quello del lucro, perché ritrarrà dal suo
capitale un grande interesse se le mercanzie arrivano in porto felicemente, e quello della perdita, perché
perderà il suo capitale nel caso contrario». Diversamente, accadrebbe nelle altre due ipotesi menzionate:
nella rendita vitalizia, ad esempio, «colui che somministra il capitale o altra cosa, prezzo della costituzione,
può aver lunga vita, e ricevere così annualità cumulate che oltrepassino di molto il valore della somma da
213
Invero, nel codice civile del 1942 non è stata riprodotta la dicotomia tra «contratti
aleatori unilaterali» e «contratti aleatori bilaterali»; tuttavia, la stessa distinzione,
nonostante sia stata privata di qualsivoglia referente normativo, pare aver mantenuto una
certa attrattiva sugli interpreti.
Al riguardo, si rileva sin da ora che la riproposizione nell’attuale diritto dei contratti di
una siffatto atteggiamento ermeneutico è tutt’altro che scevro di conseguenze dogmatiche:
in particolare, la distinzione tra «alea unilaterale» e «alea bilaterale» assume notevole
rilevanza nella misura in cui pone un limite alla possibilità di porre in essere contratti
atipici unilateralmente aleatori: in altri termini, si starebbe per tale via introducendo un
criterio destinato a vincolare la concreta esplicazione dell’autonomia privata.
Più esattamente, aderendo a tale impostazione, si porrebbe per l’interprete il
preliminare problema di verificare se per il nostro ordinamento siano da ritenere
astrattamente
ammissibili
contratti
atipici
unilateralmente
aleatori;
problema,
quest’ultimo, che è recentemente venuto in rilievo anche in materia di derivati
finanziari349.
Orbene, in un primo momento alla questione in parola veniva riconosciuto un ruolo
pressoché marginale: ad esempio, uno dei primi Autori ad aver scritto sul tema ha
menzionato la distinzione tra unilateralità e bilateralità dell’alea quasi en passant,
rilevando che «nel contratto di swap […] il complessivo disporsi degli oneri, dei sacrifici
e dei vantaggi su entrambe le parti ascrive il contratto di swap tra i contratti
contrassegnati da bilateralità dell’alea» ma «ai fini della individuazione della disciplina
in tema di vizi funzionali della causa (risoluzione e rescissione), prevalente e primaria è la
definizione aleatoria del contratto swap, piuttosto che la classificazione come unilaterale
o bilaterale»350.
lui data, comprensivi gl’interessi ordinarii di tale somma: come per contrario se la rendita si estingua
prontamente, avrà egli ricevuto meno di quanto diede; e nella prima ipotesi il debitore della rendita avrà
evidentemente perduto, mentre ché avrà guadagnato nella seconda».
349
V., ad es, Trib. Salerno, 2 maggio 2013 e Trib. Modena, 23 dicembre 2011 (ordinanza): entrambe
verranno analizzate meglio infra.
350
B. INZITARI, Swap (contratto di), cit., pp. 614-619. Più esattamente, l’Autore in questione esamina la
struttura dell’alea al solo fine di argomentare l’esclusione dell’applicabilità dei rimedi rieliquibratori per i
contratti derivati («i contratti aleatori tanto a struttura unilaterale che bilaterale non possono infatti essere
risolti per eccessiva onerosità, né rescissi per lesione»), laddove il giudizio di meritevolezza sugli stessi
viene diversamente prospettato in una logica essenzialmente tipizzante («il carattere evidentemente aleatorio
del contratto di swap, il fatto che questo contratto non rientri in nessuno dei contratti tipici per i quali il
legislatore, prevedendo una disciplina particolare, ha quindi anche valutato la meritevolezza e la
compatibilità con l’ordinamento, impone di esaminare se l’accennata natura aleatoria del contratto sia tale
214
Recentemente, la stessa questione di cui si discorre pare invece aver assunto rilevanza
dirimente, tant’è che una parte della dottrina – sulla scorta di un particolare orientamento
della giurisprudenza di merito, della quale si darà conto subito infra – ha ritenuto di poter
individuare nel nostro ordinamento un principio di bilateralità effettiva dell’alea,
argomentando ex art. 1895 c.c.351; più esattamente, secondo tale orientamento la norma
da configurare l’applicabilità anche del principio della c.d. eccezione di gioco, prevista nel nostro
ordinamento con riguardo, appunto, al gioco ed alla scommessa»).
351
P. CORRIAS, I contratti derivati finanziari nel sistema dei contratti aleatori, cit., p.190. Data
l’importanza del tema, appare opportuno richiamare i passaggi dell’iter argomentativo seguito dall’Autore:
1) l’art. 1895 c.c. – dettato con riguardo all’assicurazione in generale – sancisce, com’è noto, la nullità
del contratto di assicurazione «se il rischio non è mai esistito o ha cessato di esistere prima della
conclusione del contratto». Leggendo tale norma in combinato disposto con un altro articolo, dettato nella
Sezione dedicata all’assicurazione contro i danni, ossia l’art. 1904 c.c. (rubricato «interesse
all’assicurazione», per il quale «il contratto di assicurazione contro i danni è nullo se, nel momento in cui
l’assicurazione deve avere inizio, non esiste un interesse dell’assicurato al risarcimento del danno»), si
potrebbe essere indotti ad intendere la nozione di rischio contenuta nell’art. 1895 c.c. (si ribadisce: norma
sull’assicurazione in generale) come rischio extracontrattuale (da riferirsi cioè alle «conseguenze
economiche negative suscettibili di incidere sull’assicurato in rerum natura»). Tale soluzione non sarebbe
tuttavia accettabile perché siffatta nozione di rischio «non potrebbe involgere e permeare anche il contratto
di assicurazione sulla vita», nel quale «l’evento futuro e incerto non sempre e, comunque, non
necessariamente è idoneo a determinare danni nella sfera dell’assicurato». La conclusione è che il rischio
«in senso extracontrattuale» sarebbe un «presupposto causale di validità» solo nell’assicurazione contro i
danni (art. 1904 c.c.), ma non anche nell’assicurazione in generale;
2) secondo la dottrina dominante, l’art. 1895 cit. farebbe poi riferimento ad una nozione oggettiva di
rischio, nel senso che «ai fini della validità del contratto» sarebbe necessaria la sussistenza di un rischio
assoluto (id est il rischio correlato ad un evento futuro, che è sempre incerto) e mai solo relativo (id est il
rischio correlato ad un evento passato, che può essere considerato incerto solo in termini soggettivi).
Tuttavia, l’Autore rileva che in altre species assicurative (ad es., quelle marittime di cui agli artt. 514 e 1021
c.nav.) sarebbe individuabile il diverso principio del rischio putativo, nell’ambito del quale assumerebbe
rilievo anche l’incertezza solo soggettiva sulla verificazione dell’evento (cfr., in particolare, l’art. 514
c.nav.): ciò dimostrerebbe che l’incertezza oggettiva non sarebbe «un requisito logico e, ancor meno,
ontologico del modello assicurativo, ma una scelta di diritto positivo». Pertanto, una volta appurato che il
rischio in senso assoluto non sarebbe una caratteristica ontologica del modello assicurativo, si deve
concludere che l’art. 1895 c.c., di per sé, non richiederebbe in via generale che il rischio debba esser tale;
piuttosto, è il legislatore ad esigere l’oggettività del rischio ogniqualvolta al contratto assicurativo venga
assegnata una funzione particolare (ad esempio, quella indennitaria o previdenziale). Sicché, la ratio delle
specifiche previsioni che sanciscono la tassativa oggettività del rischio risiederebbe nella necessità di evitare
che le funzioni tipiche assolte da alcune species assicurative (quali, appunto, quella indennitaria o
previdenziale) «vengano snaturate da connotazioni o venature ludiche e/o speculative»;
3) una volta escluso che l’art. 1895 c.c. non dia indicazioni dirimenti sulla nozione di rischio, l’Autore si
interroga su quale sia effettivamente il senso di tale previsione, giungendo così a sostenere che «l’art. 1895
c.c. afferma, nell’ambito dei contratti strettamente assicurativi (danni e vita), il principio della
determinazione per relationem della prestazione in maniera non correlata». Detto in altri termini, secondo
tale impostazione l’art. 1895 c.c. conterrebbe la nozione di alea giuridica, da intendersi appunto come
«collegamento tra la nascita e/o la consistenza della prestazione di una od entrambe le parti e
l’accadimento di un evento incerto»;
215
appena citata – sul presupposto che la medesima, pur essendo dettata specificamente in
materia di contratto di assicurazione, avrebbe una «chiara valenza transtipica» –
rappresenterebbe «il fondamento normativo della necessità dell’alea bilaterale effettiva in
tutte le figure aleatorie, compresi, evidentemente, i contratti derivati»352.
Invero, come si anche è appena riferito, tale principio avrebbe visto la luce dapprima in
alcune pronunce della giurisprudenza di merito – rimaste, almeno inizialmente, isolate –,
nelle quali si è ritenuto di dover impostare l’esame concreto su particolari fattispecie
4) in ragione di tale premessa, l’Autore inferisce che la reale portata «dell’inserimento della norma nel
tessuto codicistico» e il «significato pregnante» della norma medesima risiederebbero in ciò: «essa [n.d.a. la
norma di cui all’art. 1895 c.c.] salvaguarda l’effettività della bilateralità dell’alea, sanzionando con la
nullità le ipotesi nelle quali, in ragione di come può venire concretamente configurato il singolo
regolamento contrattuale, l’incidenza speculare dell’evento sulle posizioni delle parti e, quindi, la possibilità
non solo di guadagni ma anche di perdite per entrambe, dovesse risultare solo apparente».
Invero, tale conclusione non è affatto condivisibile per almeno tre ordini di ragioni. In primo luogo, viene
assegnata arbitrariamente natura di «norma transtipica» all’art. 1895 c.c. (dettato in materia di
assicurazione), sull’altrettanto assertiva ragione che «il contratto assicurativo costituisce il paradigma dei
contratti aleatori»; in realtà, lo stesso principio sembrerebbe specificamente previsto anche in relazione ad
un altro contratto aleatorio tipico, ossia l’art. 1876 c.c., che ugualmente sancisce la nullità della rendita
vitalizia «se la rendita è costituita per la durata della vita di persona che, al tempo del contratto, aveva già
cessato di vivere». Questo escluderebbe di per sé che all’art. 1895 c.c. possa essere assegnato il rango di
principio generale valevole per tutti i contratti aleatori, salvo che non si ritenga l’art. 1876 c.c. – ma ciò non è
evidentemente predicabile – una mera ripetizione. In secondo luogo, quella prevista dall’art. 1895 c.c. (così
come quella di cui all’art. 1876 c.c.) sarebbe appunto una speciale nullità del tipo, ex art. 1428, comma 3,
c.c. («il contratto è nullo negli altri casi stabiliti dalla legge»). Più esattamente, la ratio della nullità di cui si
discorre risiederebbe in ciò: lo schema tipico, in assenza di un elemento funzionale della fattispecie (id est il
rischio), sarebbe inidoneo ad assolvere la specifica funzione tipizzata dal legislatore (ossia, quella
assicurativa). Tuttavia, ciò non esclude che quel concreto contratto possa comunque soddisfare altri interessi
ed assolvere altre funzioni, diversi/e da quelli/a assicurativi/a e cionondimeno ugualmente meritevoli, in virtù
degli artt. 1322, comma 2 e/o 1424 c.c. – quest’ultimo disciplinante, com’è noto, la conversione del contratto
nullo – (sul punto, cfr. E. DEL PRATO, Requisiti del contratto. Art. 1325, in Il codice civile. Commentario,
fondato da P. Schlesinger e diretto da F. D. Busnelli, Milano, 2013, p. 63: «la tipizzazione dei contratti
assorbe, sia pure tendenzialmente, la causa nel tipo: ed infatti l’esempio della nullità dell’assicurazione per
mancanza del rischio (art. 1895 c.c.) conduce dal difetto di causa all’inconfigurabilità del tipo, ma non
impedisce di scorgere un diverso contratto, atipico, o la conversione di esso (art. 1424)»; v. anche S.
VERNIZZI, Il rischio putativo, cit., pp. 246-247, secondo il quale «lungi dall’urgenza di preservare
l’aleatorietà del contratto, la sola effettiva giustificazione della norma di cui all’art. 1895 cod. civ. sarebbe
invero quella di escludere che l’incertezza soggettiva possa costituire valido presupposto delle assicurazioni
di diritto comune»). In terzo e ultimo luogo, l’Autore sostiene che la nullità di cui all’art. 1895 c.c.
«salvaguardi l’effettività della bilateralità dell’alea» nella misura in cui «in ragione di come può venire
concretamente configurato il singolo regolamento contrattuale, l’incidenza speculare dell’evento sulle
posizioni delle parti» venga a «risultare solo apparente». Invero, una prospettazione solo apparente
dell’incidenza dell’evento solleva questioni che prescindono dalla circostanza che l’alea sia o meno
bilaterale: si tratta, esattamente, del vero punctum pruriens dei contratti derivati e che la giurisprudenza,
come si vedrà nel prosieguo, ha cercato di superare attraverso la nozione di alea razionale (v. infra, in questo
capitolo).
352
P. CORRIAS, I contratti derivati finanziari nel sistema dei contratti aleatori, cit., p.190.
216
negoziali atipiche comparse sul mercato verso gli inizi degli anni 2000 (denominate dalla
prassi «4you», «MyWay», «Visione Europa», «Dolce Vita» e così via)353 in termini di
indagine sulla astratta ammissibilità del contratto atipico unilateralmente aleatorio,
risolvendola nel senso che questo – in ogni caso – non sarebbe idoneo a realizzare interessi
meritevoli di tutela354.
353
«I contratti di investimento denominati “MyWay” e “4you”, si sostanziano in più operazioni
economiche tra di loro funzionalmente collegate. Precisamente, da parte della banca proponente
l’investimento, di un mutuo destinato esclusivamente all’acquisto di particolari strumenti finanziari e
costituiti a garanzia della restituzione della somma mutuata. Quale contropartita della concessione del
finanziamento, il risparmiatore, per tutta la durata del rapporto negoziale, è tenuto al pagamento di una
rata costante che comprende un determinato interesse». C. BARBIERI, Investimenti atipici, cit., pp. 289-290.
Sul tema, v. anche R. GHETTI, I “contratti di collocamento” nell’art. 30, comma 6, T.U.F., in Giur. comm.,
2014, 6, pp. 965 ss. e in iusexplorer.it: «si tratta, nella maggioranza dei casi, di prodotti noti per essere
“tossici”, e dunque di investimenti rischiosi. Il 50 % dei prodotti coinvolti [n.d.a. nel contenzioso di inizio
secolo in materia di investimenti finanziari] ha avuto ad oggetto la vendita di obbligazioni emesse dalla
Repubblica argentina (22%), da Cirio (9%), Parmalat e Carrier1 (5,5 % cadauno), da Giacomelli Sport e
da Lehman Brothers (4% cadauno). Il 33% dei casi riguarda poi i c.d. piani finanziari, ossia un insieme di
negozi collegati e finalizzati al compimento di un’unitaria operazione speculativa. Il riferimento è ai ben
noti MyWay, 4You e Visione Europa, che prevedevano, secondo formule simili, la concessione di un
finanziamento finalizzato all’investimento in strumenti finanziari diversi. Il 14% degli strumenti oggetto di
contenzioso riguarda contratti derivati, mentre solo un residuo 3% è costituito da titoli azionari».
354
Invero, «il panorama giurisprudenziale su “My Way” e “4 you” è alquanto incerto, passandosi dalla
validità del contratto alla sua radicale nullità, con in mezzo l’eventuale annullabilità per errore o dolo». C.
BARBIERI, Investimenti atipici, sub art. 1322 in Commentario al codice civile, a cura di P. Cendon, Milano,
2009, p. 291. Per quanto qui rileva, nel senso che il contratto atipico unilateralmente aleatorio non sarebbe
meritevole v., tra gli altri, Trib. Cagliari, 8 gennaio 2014, in Banca, borsa, tit. cred., 2015, III, pp. 368 ss.,
con nota di TUCCI: «è nullo il prodotto finanziario denominato “My Way”, qualora trasferisca in capo al
solo cliente l’alea derivante dal contratto, attribuendo, invece, all’intermediario profili certi quanto alla
redditività futura del proprio investimento, non essendo idoneo a realizzare un interesse meritevole di tutela
secondo l’ordinamento giuridico»; Trib. Brindisi, 4 giugno 2009: «il contratto atipico denominato “4 You”
si configura come un contratto aleatorio unilaterale, in cui l’alea è tutta concentrata nella sfera giuridica
del risparmiatore, che paga un saggio di interesse fisso senza una aspettativa certa di corrispondente
vantaggio, nel mentre la banca si giova di tale saggio (nonché del primario beneficio
dell’autofinanziamento) senza, di contro, obbligarsi – neppure in via ipotetica, secondo i dettami dell’alea ad alcuna corrispondente prestazione nei confronti della controparte. Deve, pertanto, ritenersi nullo per
difetto di causa, non essendo diretto a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo quanto previsto
dall’art. 1322 c.c.»; Trib. Brindisi, 8 luglio 2008, n. 489, in Giur. merito, 2008, 12, pp. 3113 ss., con nota di
SANGIOVANNI: «il “contratto aleatorio unilaterale”, nel quale l’alea – quale elemento attinente alla causa
del contratto – è tutta concentrata nella sfera giuridica del risparmiatore non è meritevole di tutela secondo
l’ordinamento giuridico (art. 1322 c.c.), in quanto l’ordinamento non può ammettere la validità di contratti
atipici che, lungi dal prevedere semplici modalità di differenziazione dei diversi profili di rischio, trasferisca
piuttosto in capo a una sola parte tutta l’alea derivante dal contratto, attribuendo invece alla controparte
profili certi quanto alla redditività futura del proprio investimento». Contra, v. Trib. Torino, 8 maggio 2009:
«parte attrice lamenta fondamentalmente non tanto la mancata rispondenza del contratto di finanziamento
con i principi regolatori dell'ordinamento civile, quanto il disequilibrio dei vantaggi economici riconducibili
alle parti contraenti. Lamenta, in altre parole, la sconvenienza economica del contratto, ma una doglianza
di tal genere non può chiaramente rilevare ai fini di una declaratoria di nullità ex art. 1322 c.c. Ciò che
217
Giova ulteriormente segnalare che il principio de quo ha poi trovato una più estesa
applicazione nelle pronunce – sempre di merito – intervenute dopo la sentenza Sez. Un.
Civ., 19 dicembre 2007, n. 26724355.
conta, infatti, ai fini della valutazione della meritevolezza di tutela da parte dell'ordinamento, è che lo
schema astratto congegnato dalle parti persegua un interesse meritevole di tutela e non che tale schema sia
sicuramente conveniente per entrambe le parti, tant'è che la valutazione circa la convenienza economica di
un contratto, attenendo ai motivi soggettivi che spingono una parte a contrarre e non agli elementi
strutturali del negozio concluso, non può essere addotta a fondamento di una domanda di annullamento del
contratto (Cass., 4 marzo 1995, n. 2518), non essendo presente nel nostro ordinamento un principio in forza
del quale ogni parte ha diritto a concludere affari vantaggiosi e, in caso contrario, a chiedere la nullità o
l'annullamento del negozio stipulato, magari alla luce dell'esito, non sicuro - come nella fattispecie in esame
- fin dalla conclusione del contratto, per lei negativo. La valutazione di meritevolezza, infatti, non deve
essere effettuata ex post sulla base del risultato economico concretamente conseguito, ma ex ante, sulla base
della struttura negoziale astratta posta in essere dalle parti, sicché, essendo detta struttura nel caso di
specie agevolmente sussumibile all'interno della categoria del mutuo di scopo, è evidente l'impossibilità di
una pronuncia di nullità ex art. 1322 c.c.».
355
Sul punto, cfr. T. FEBBRAJO, Violazione delle regole di comportamento nell’intermediazione
finanziaria e nullità del contratto: la decisione delle Sezioni Unite, in Giust. civ., 2008, 12, pp. 278 ss. e in
iusexplorer.it: «né la previgente disciplina contenuta nella l. n. 1/1991, né l'attuale t.u.f. né, tantomeno, il
regolamento Consob n. 16190/2007 (e nemmeno quello precedente n. 11522/1998) specificano quali siano le
conseguenze sul piano contrattuale derivanti dalla violazione degli obblighi di condotta posti a carico
dell'intermediario […]. A colmare il vuoto regolamentare che su questi profili presenta il t.u.f. è stata
chiamata, in tempi recenti, la giurisprudenza. Ciò è avvenuto nell'ambito del contenzioso giudiziario sorto
tra risparmiatori ed intermediari finanziari per il recupero delle somme andate perdute in seguito ai noti
default della Repubblica argentina della “Cirio” e della “Parmalat”», nonché, come precisa in nota
l’Autore, «in relazione a particolari prodotti finanziari rivelatisi penalizzanti per gli investitori, quali quelli
denominati “4you” e “Myway”». Invero, preme sottolineare che già prima dell’intervento della pronuncia
delle Sez. Un. Civ. 26724/2007 (che, com’è noto, ha sancito il principio di non interferenza tra regole di
comportamento e regole di validità: v. supra, cap. II, § 5) è possibile individuare alcuni isolati interventi in
cui viene fatta espressa menzione del «contratto aleatorio unilaterale». Il riferimento, in particolare, è ad
alcune pronunce del Tribunale di Brindisi relative appunto ai piani finanziari «4you» e «MyWay» (v.,
rispettivamente le sentenze della Sez. fall. pronunciata in data 21-28 giugno 2005, nonché quella del 24
ottobre-30 dicembre 2005, n. 1417, nella quale viene espressamente affermata «la volontà di dar seguito a
l'orientamento espresso da questo Tribunale»), per le quali «il contratto atipico in esame realizza una figura
sinora ignota al panorama giuridico italiano, quella, cioè, del “contratto aleatorio unilaterale”. Invero,
l’alea – quale elemento attinente alla causa del contratto – è tutta concentrata nella sfera giuridica del
risparmiatore, che paga un saggio di interesse fisso senza una aspettativa (seppur in termini soltanto
aleatori) di corrispondente vantaggio, nel mentre la banca si giova di tale saggio (nonché del primario
beneficio dell’autofinanziamento) senza, di contro, obbligarsi – neppure in via ipotetica, secondo i dettami
dell’alea - ad alcuna corrispondente prestazione nei confronti della controparte. È evidente, allora, lo
squilibrio contrattuale derivante da tale genere di operazione. Dal che consegue anzitutto la nullità della
clausola contrattuale prevedente l’accettazione, da parte del consumatore, del rischio “di perdite anche
eccedenti l’esborso originario”, per contrarietà alla previsione di cui all’art. 1469 bis, comma 1, c.c. In
secondo luogo, il prevedere il contratto in esame un’alea di tipo soltanto unilaterale non consente, ad avviso
del Collegio, di ritenerlo meritevole di tutela secondo l’ordinamento giuridico (art. 1322 c.c.). Ciò in quanto
l’ordinamento non può ammettere la validità di contratti atipici che, lungi dal prevedere semplici modalità
di differenziazione dei diversi profili di rischio, trasferisca piuttosto in capo ad una sola parte tutta l’alea
derivante dal contratto, attribuendo invece alla controparte profili certi quanto alla redditività futura del
218
proprio investimento. L’insanabile squilibrio iniziale tra le prestazioni oggetto del sinallagma contrattuale
rende allora l’intero contratto in esame – e non soltanto le singole clausole sopra indicate – radicalmente
nullo, non soltanto per contrasto con gli art. 21 e ss. tuf, ma anche per sua contrarietà alla previsione di cui
all’art. 1322 c.c., non essendo detto negozio volto alla realizzazione di interessi meritevoli di tutela secondo
l’ordinamento giuridico». Ma a parte detti interventi – che in questa prima fase appaiono, appunto, isolati –,
la prevalente giurisprudenza di merito precedente a Cass. S.U. 26724/2007 argomentava la nullità delle
operazioni in parole in altro modo. In particolare, Trib. Salerno, 26 settembre 2007 (di qualche mese
antecedente alla pronuncia delle Sezioni Unite) dichiara la nullità del contratto non tanto perché nel
medesimo difetterebbe l’alea bilaterale – e non può certamente essere considerato un riferimento a tale
nozione il fatto che, secondo il giudicante, il contratto risulti genericamente «troppo squilibrato in favore del
contraente che lo ha predisposto» –, quanto piuttosto perché «tra le parti, non si vede come possa, a
ragione, parlarsi di contratto di mutuo tout court, quando non si rinviene nella vicenda alcun elemento
tipico dello schema negoziale del mutuo […]. La vera finalità – deve ritenersi – era invece quella di spingere
l’investitore verso forme di finanziamento, che i fatti successivi hanno chiaramente dimostrato essere ben
poco convenienti per l’altro contraente, così costretto a corrispondere rate di mutuo gravate di interessi
passivi a tassi correnti di mercato, per denaro mai entrato nelle proprie tasche e per un investimento
totalmente in perdita. Così ricostruito lo schema negoziale, non sembra che un tale tipo di contratto possa
ritenersi che sia meritevole di tutela giuridica e che abbia diritto di ingresso nel nostro ordinamento
giuridico […]. Non appare, un tale contratto, comunque meritevole di tutela giuridica, secondo quanto
prescrive l’art. 1322 c.c., in quanto troppo squilibrato in favore del contraente che lo ha predisposto, troppo
lasciato al suo arbitrio e troppo poco tutelante la posizione del terzo investitore, che è l’unico che nella
fattispecie mette a rischio i suoi denari». Riprende questa argomentazione anche la recente pronuncia della
Corte d’appello di Salerno, 30 settembre 2009: «il contratto denominato “4you”, di natura atipica e di
notevole durata, si discosta dallo schema del contratto di mutuo, in quanto dirotta le somme messe a
disposizione verso incontrollate forme di investimento e perché non consente all’investitore alcun intervento
sui tipi di investimento esponendolo, ad onta del conclamato intervento previdenziale, a qualsivoglia
pregiudizio economico. Tale contratto non è quindi meritevole di tutela giuridica ex art. 1322 c.c. in quanto
eccessivamente squilibrato a vantaggio di un contraente, ben oltre la normale alea contrattuale, con
detrimento elevato dell’investitore che merita tutela giuridica anche in considerazione della sua posizione di
consumatore». Ancora: Trib. Firenze, 19 aprile 2005, in ilcaso.it, ha dichiarato la nullità sempre di un piano
denominato «4you» per i seguenti motivi: «il principale scopo della regolamentazione nel campo
dell’intermediazione finanziaria è di assicurare l’affidabilità delle informazioni fornite al cliente,
garantendo la sostanzialità e l’accuratezza dei consigli all’investimento da questi ricevuti. I sistemi
regolamentati si preoccupano di mitigare lo svantaggio informativo sopportato da investitori non sofisticati
nella fruizione dei servizi prestati dagli intermediari finanziari. L’acquirente di servizi finanziari confida
implicitamente che i soggetti sottoposti a vigilanza prudenziale stiano operando correttamente e
professionalmente, cioè agiscano sulla base di un’expertise e di informazioni che a questi manca e non si
avvantaggino di tale condizione. Le previsioni incentrate sulle clausole generali fanno sorgere alcune
questioni […]. La prospettiva da cui muove la disciplina del testo unico delle disposizioni in materia di
intermediazione finanziaria e nella quale sono confluite regole già vigenti e regole di nuove coniazione,
riguarda, in generale, la regolamentazione del mercato finanziario con particolare attenzione alla tutela
degli interessi pubblici sottesi alle regole. La protezione offerta agli investitori è considerata solo di riflesso.
In conclusione l’obbligo di correttezza e quello di trasparenza non hanno solo una dimensione “protettiva”
con specifico riferimento alla formazione della volontà e del convincimento, ma assurgono a un ruolo attivo
di conformazione del rapporto, spostandosi così nella definizione di un modello ottimale ed efficiente di
scambio di mercato. Ne consegue, pertanto, che il comportamento dell’istituto di credito non va valutato
sotto il profilo personale del cliente ma in generale secondo un parametro di tutela garantito dal legislatore.
In tale ottica il contratto in esame deve essere dichiarato nullo». Per quanto riguarda le altre pronunce
antecedenti a Cass. S.U. 26724/2007 che dichiarano la nullità dei piani «4you», «MyWay» et similia per
219
È poi appena il caso di rilevare che le particolari operazioni finanziarie oggetto di
queste controversie356, pur non essendo le stesse certamente assimilabili ai contratti
derivati, sembrerebbero condividere con questi ultimi alcuni profili, e segnatamente:
1) la circostanza che l’offerente sia un istituto di credito (riproponendosi, così, la stessa
situazione di asimmetria informativa di cui si è dato conto in precedenza)357;
2) il fatto che le parti creino «un capitale futuro inesistente ab origine»358;
3) la funzione eventualmente speculativa del complessivo piano finanziario359.
Ma anche a voler prescindere dai profili di similitudine appena segnalati, quel che qui
rileva è proprio l’evocazione di un «principio della necessaria bilateralità dell’alea»,
asseritamente ritenuto presente nel nostro ordinamento dalla sopramenzionata corrente
violazione degli obblighi informativi (e non perché sarebbe un contratto aleatorio unilaterale non meritevole
di tutela) v., ex multis, Trib. Firenze, 21 giugno 2006, e Trib. Pescara, 28 febbraio 2006. La stessa ratio
decidendi è inoltre ravvisabile anche in Trib. Palermo, 17 gennaio 2005 (controversia avente ad oggetto le
cosiddette «obbligazioni Cirio»), nonché in Trib. Avezzano, 23 giugno 2005, Trib. Venezia, 22 novembre
2004 e Trib. Mantova, 12 novembre 2004 (queste ultime relative alle cosiddette «obbligazioni argentine»).
356
La qualificazione giuridica delle operazioni in esame è piuttosto controversa. In particolare, in questa
sede è sufficiente rilevare che «la giurisprudenza [n.d.a. di merito] prevalente non ha ritenuto che nella
specie possa parlarsi di mutuo, perché la somma di denaro presa a prestito viene subito indirizzata verso
una determinata destinazione, già prevista e stabilita nel contratto [laddove] il contratto di mutuo si
caratterizza per il fatto di consentire al mutuatario di ottenere la liquidità occorrente per le proprie finalità
[…]. Viene, altresì, esclusa la ricorrenza […] del c.d. mutuo di scopo e ricorrente tutte le volte in cui lo
scopo del finanziamento assurge a causa del contratto, nel senso che il finanziamento è concesso a
condizione (sine qua non) che la somma venga utilizzata dal mutuatario per una particolare finalità
convenzionalmente pattuita, [mentre] nel caso di specie “la somma asseritamente ‘mutuata’ non è in alcun
modo messa a disposizione del cliente, neppure con la limitazione rappresentata dalla sussistenza di un
particolare. Piuttosto il finanziamento resta sul piano puramente nominale”» (così C. BARBIERI,
Investimenti atipici, cit., p. 289-290). Tuttavia, in altre pronunce, sempre di merito, viene sostenuto
esattamente l’opposto: in particolare, Trib. Pistoia 3 dicembre 2004 ha ritenuto come «non sia corretto
tenere distinti il contratto di finanziamento dai contratti di investimento ad esso collegati, posto che è
pattuito espressamente che il finanziamento sarà utilizzato esclusivamente per l’acquisto e/o la
sottoscrizione degli strumenti finanziari indicati. Ne consegue, pertanto il collegamento tra le varie
operazioni, tale da configurare il finanziamento come mutuo di scopo e comportare che l’eventuale nullità di
una si traduca in una invalidità delle altre».
357
V., supra, cap. II, § 5.
358
Più esattamente, «il piano ha quale obiettivo primario […] la creazione di un capitale futuro
inesistente ab origine, maggiorato dall'incremento sperato del valore delle quote dei fondi»: così Trib.
Parma, 22 settembre 2004, in Danno resp., 2006, 2, pp. 187 ss.
359
In tal senso, v. Trib. Parma, 22 settembre 2004, cit.: «l'elemento di novità del piano – e la sua
originalità – sta nel fatto di consentire al cliente di speculare sull'andamento dei mercati accedendo
immediatamente alla proprietà di strumenti finanziari di cui, in assenza del finanziamento, non potrebbe
disporre. Un normale piano di accumulo sconta inevitabilmente rialzi del mercato (e i ribassi) in modo
mediato, il piano finanziario in questione punta sul lungo termine concentrandosi sull'incremento dei fondi
acquistati ab origine nell'arco di ben quindici anni, quindi con altissima possibilità di plusvalenze rispetto ai
soldi investiti».
220
giurisprudenziale; «bilateralità dell’alea» che, in quanto «necessaria», fungerebbe quindi
da presupposto per un positivo giudizio di meritevolezza per tutti i contratti aleatori atipici
«compresi, evidentemente, i contratti derivati»360.
360
P. CORRIAS, I contratti derivati finanziari nel sistema dei contratti aleatori, cit., p. 191. Come si è già
segnalato, tale principio è stato recentemente applicato dalla giurisprudenza di merito anche in relazione a
controversie in materia di contratti derivati: ad esempio, v. Trib. Salerno, 2 maggio 2013: «in molte decisioni
di merito, anche di questo Tribunale, si è sostenuta la tesi della nullità ex art. 1322 c.c. dei contratti
predisposti dalla banca, quando si è avuto modo di verificare che l'alea tutta concentrata nella sfera del
risparmiatore (c.d. contratto aleatorio unilaterale). Orbene, perché un contratto possa a ragione
considerarsi aleatorio, occorre che il vantaggio o il sacrificio, per ciascuna delle parti, dipenda dall'alea,
dalla sorte. In mancanza di una tale componente, paritaria per entrambe le parti, non può a ragione parlarsi
di contratto aleatorio Nella specie, siffatti contratti sono da tutti ritenuti come assimilabili alla scommessa,
tipico contratto aleatorio, donde dovrebbero presentare una componente di fortuna, divisa in parti uguali
tra i contraenti. Ove una tale suddivisione paritaria dell'alea non sia riscontrabile, senza voler scomodare le
norme in tema di annullabilità del contratto per artifizi o raggiri, deve escludersi che siffatti contratti
possano meritare la tutela del nostro ordinamento, in quanto troppo squilibrati in favore dei singolo
contraente banca, il quale si presenta “al tavolo di gioco” con molte più possibilità di successo rispetto
all'altro giocatore, per aver esso stesso dettato le regole del gioco. Come se non bastasse, le regole del gioco
sono state anche congegnate da un operatore professionale, in danno del cliente sprovveduto, approfittando
della fiducia accordatagli e del fatto che esso fosse privo delle necessarie cognizioni tecnico- giuridiche.
Nella specie – a parere del Tribunale – non sembra possa dubitarsi che il contratto di swap […] rientri nella
illecita categoria dei contratti aleatori unilaterali, in quanto troppo sbilanciato in favore dell'Istituto di
Credito. Invero, il tasso soglia – ovvero quello oltre il quale paga la banca – risulta fissato in maniera
troppo vantaggiosa per il garante, specie per quel che riguarda dal terzo anno di vita in avanti del rapporto,
in quanto prevede un valore mai raggiunto nella storia del parametro, pari al 6,88%. Inoltre, e questo
probabilmente è l’aspetto più inquietante, il contratto prevede una clausola finale di salvezza per la banca,
che la mette al riparo da ogni rischio, in quanto moltiplica per dieci il tasso soglia fissato, così da rendere la
sua garanzia di fatto inarrivabile. Infine, tale clausola è inserita in una formula matematica di ostica
interpretazione anche per il lettore più avveduto, e con componenti – in particolare i titoli di investimento a
trent’anni – di ignota provenienza e, come tale, non verificabili. In tali casi – ritiene il Tribunale – compete
al giudice un controllo particolarmente pregnante di quel contralto, in quanto spesso le conseguenze
negative per la parte debole derivano dall'esame complessivo e comparato delle clausole: tali conseguenze,
dunque, possono sfuggire anche a chi, pur con media diligenza, esamini il contratto prima di sottoscriverlo.
Inoltre, tale considerazione serve anche a confutare l'ovvia eccezione di controparte che trattasi pur sempre
di un contratto liberamente accettato dalla parte, alla quale nulla impediva di sottoscriverlo. Invero, senza
voler “scomodare” le norme in tema di annullamento del contratto per gli artifizi o raggiri posti in essere
da una parte, è facile individuare, come già in precedenza rilevato, comportamenti della banca contrari ai
principi di buona fede e di solidarietà tra consociati. Ciò, peraltro, a tacere del fatto che, probabilmente,
profili di annullabilità del contratto non sarebbero del tutto insostenibili, vista la maniera criptica con la
quale è stato presentato. In conclusione […] va pertanto dichiarata la nullità ex art. 1322 c.c. del contratto
specifico […]. Va sottolineato che non sembra contestabile che alla declaratoria di non meritevolezza del
contratto atipico segua quella della nullità. Trattasi, invero, di un contratto avente causa illecita, in quanto
non riconosciuta dall'ordinamento per contrarietà a nonna imperativa, quale quella che impone la
predisposizione di contratti atipici solo a condizione che persegua interessi meritevoli di tutela (artt. 1322 e
1343 cc.): il contratto con causa illecita, poi, è sanzionato con la nullità, secondo quanto disposto dal
successivo art. 1418 c.c.»; v. l’ordinanza del Trib. Modena, 23 dicembre 2011.
221
Tuttavia, deve essere rilevato che detto principio sembra porsi in profondo contrasto
rispetto all’orientamento “granitico” 361 della giurisprudenza di legittimità.
In particolare, la Corte di cassazione, già all’indomani dall’entrata in vigore del codice
civile del 1942 – nel quale, lo si ribadisce, è venuta meno qualsiasi rilevanza normativa
della distinzione tra alea unilaterale e alea bilaterale –, ha pacificamente riconosciuto (e
quindi ammesso) la astratta meritevolezza degli interessi perseguiti con un contratto
atipico unilateralmente aleatorio.
Più esattamente, nelle pronunce della cassazione di oltre mezzo secolo è possibile
rinvenire la seguente massima: «la giurisprudenza ha da tempo definito la figura del
contratto aleatorio, identificando come tale quel contratto in cui non è noto, cioè è incerto,
il rapporto tra l'entità del vantaggio e quello del rischio al quale ciascuna delle parti si
espone contraendo, sottolineando» – si badi – «che si ha contratto aleatorio anche quando
l'incertezza del risultato economico riguardi uno solo dei contraenti»362.
361
Al riguardo, la soprammenzionata ordinanza del Tribunale Modena del 23 dicembre 2011 si pone
consapevolmente in contrasto con l’orientamento di cui si sta per dar conto («si premette come non ignori
questo giudice come il supremo Collegio abbia avuto a esprimersi nel senso di ritenere la compatibilità, con
la figura del contratto aleatorio, della insistenza dell’alea su un solo contraente»); in detto provvedimento,
infatti, viene ordinato alla banca di non addebitare al cliente somme in dipendenza dei contratti interest rate
swap in quanto «evidente appare l’indole aleatoria del contratto di interest rate swap concluso tra le parti,
siccome trattato in mercati over the counter […]. La remunerazione certa goduta dall’istituto di credito […]
induce ad attribuire al contratto di interest rate swap che occupa indole di contratto aleatorio limitatamente
a una sola parte […]. Si premette come non ignori questo giudice come il supremo Collegio abbia avuto a
esprimersi nel senso di ritenere la compatibilità, con la figura del contratto aleatorio, della insistenza
dell’alea su un solo contraente, [n.d.a. ma in quei casi] si è dedotto quale materia litigiosa un contratto
tipico (vendita), dunque un negozio in cui vi è già da parte del legislatore una valutazione preliminare e
astratta di meritevolezza sociale, e quindi di liceità della funzione economico-sociale, di talché il giudizio di
aleatorietà è stato articolato per finalità estranee al vaglio della legittimità dell’operazione negoziale. Nel
caso che occupa, viceversa, non si controverte di un contratto tipico, bensì di un contratto atipico, soggetto
al vaglio di liceità imposto dall’art. 1322 c.c. Definito tale assetto, si osserva come i contratti aleatori
ripartiscono l’alea fra tutti i contraenti, allorché nel caso che occupa il contratto atipico di interest rate
swap appare insuscettibile di recare un apprezzabile pregiudizio a un contraente, esponendo viceversa solamente - l’altro contraente al rischio di oscillazione dei mercati in misura notevole».
362
In questi termini Cass. civ, Sez. II, 7 giugno 1991, n. 6452, nella quale viene altresì precisato che
«sinteticamente quindi può dirsi che, per aversi contratto aleatorio, è necessario che l'alea – intesa quale
rischio a cui uno o più contraenti, ovvero tutti i contraenti si espongono – investa e caratterizzi il negozio
nella sua interezza e fin dalla sua formazione, sicché per la natura stessa del negozio o per le specifiche
pattuizioni stabilite dai contraenti, divenga radicalmente incerto, per una o per tutte le parti, il vantaggio
economico in relazione al quale esse parti si espongono. L'accertare quando in concreto ricorra, in un
determinato contratto, il carattere aleatorio nei sensi sopra precisati è compito del Giudice del merito, le cui
conclusioni al riguardo sono incensurabili di fronte alla Corte di Cassazione, qualora non siano travagliate
da errori di diritto o da vizi di logica (esattamente in termini: sent. 17 giugno 1959 n. 1875)». Lo stesso
principio ha trovato poi ulteriore conferma anche nella più recente Cass. civ., Sez. I, 26 gennaio 1993, n.
948: «il contratto aleatorio si caratterizza appunto per l'alea, vale a dire per il rischio, connaturale al
222
contratto e ad esso inerente fin dalla sua formazione, cui i contraenti, o uno di essi, si espongono circa il
contenuto e l'entità delle prestazioni, in modo che per ciascuna delle parti, o anche per una sola di esse,
rimane obiettivamente ed assolutamente incerto, al momento della stipulazione, quale sarà il risultato
economico del contratto e se da esso deriverà un vantaggio, o quanto meno un vantaggio proporzionato al
sacrificio da sostenere. Certamente in ogni contratto, anche in quelli commutativi, è insito un margine più o
meno ampio di alea, non sempre il risultato finale pratico-economico effettivamente conseguito dalle parti
corrispondendo a quello che esse rispettivamente si aspettavano. Ma, mentre, nel contratto commutativo
ciascuno dei contraenti è in grado, al momento della stipula, di valutare il rispettivo sacrificio e vantaggio
che può derivare dalle loro prestazioni, l'incertezza del risultato dipendendo in definitiva dalla capacità
soggettiva di valutazione degli elementi già a disposizione delle parti stesse, nel contratto aleatorio quella
valutazione non è possibile a priori, l'entità delle prestazioni, o di una di esse, dipendendo da un evento che
non è noto se ed in quali modalità e termini si verificherà (estrazione di un numero o di un biglietto nella
lotteria, esito di una gara nella scommessa, durata della vita nella rendita vitalizia, e così via); e di tale
evento, che incide o può incidere sull'equilibrio delle prestazioni, le parti accettano ed assumono il rischio.
Anche nei contratti commutativi, peraltro, e specialmente in quelli cosiddetti di durata, ad esecuzione
continuata, periodica o differita, l'equilibrio economico tra le prestazioni, quale previsto e voluto dalle parti
e quale risultante nella configurazione tipica del contratto, può subire un'alterazione imprevista per effetto
di circostanze non esistenti né valutabili al momento della sua formazione, ed in tal caso, ove quella
alterazione oltrepassi i limiti segnati dal rischio ordinario proprio di ciascun contratto, l'ordinamento
reagisce apprestando rimedi, come quello generale della risoluzione o riduzione ad equità per eccessiva
onerosità sopravvenuta (art. 1467 c.c.) o come quello specifico del contratto di appalto della revisione del
prezzo per sopraggiunta onerosità o difficoltà di esecuzione (art. 1664 c.c.), che vangano ad eliminare o
ridurre lo squilibrio. Le parti tuttavia, nel loro potere di autonomia negoziale, ben possono prefigurarsi la
possibilità di sopravvenienza ed assumersene, reciprocamente o unilateralmente, il rischio, modificando in
tal modo lo schema tipico del contratto commutativo mediante l'aggiunta di un rischio che in quello schema
gli sarebbe estraneo e rendendolo per tale aspetto aleatorio, con l'effetto di escludere, nel caso di verificarsi
delle sopravvenienze, l'applicabilità dei meccanismi rieliqubratori previsti nell'ordinaria disciplina del
contratto (cfr. art. 1469 c.c.). L'assunzione del rischio supplementare può formare oggetto di un'espressa
pattuizione, ma può anche risultare per implicito dal regolamento convenzionale che le parti hanno dato al
rapporto e dal modo in cui hanno strutturato le loro obbligazioni; e l'accertamento in concreto della detta
volontà, attraverso l'interpretazione delle clausole contrattuali, costituisce un'indagine di fatto riservata al
giudice del merito, ed incensurabile in sede di legittimità se esente da errori di diritto e da vizi logici». Per
quanto riguarda invece i precedenti più risalenti, v. Cass. civ., 12 settembre 1957, n. 3478; Cass. civ., 17
giugno 1959, n. 1875 (richiamata pedissequamente anche dalla sopraccitata Cass. n. 6452/1991); Cass. civ.,
11 marzo 1966, n. 699: «l’ipotesi del contratto aleatorio ricorre soltanto quando l’alea investa e caratterizzi
il negozio nella sua interezza e fin dal momento della sua formazione, sì che, per la natura stessa del negozio
medesimo o per le specifiche pattuizioni stipulate, sia da considerare assolutamente incerto, per tutti i
contraenti o per taluno di essi, il vantaggio economico in relazione al rischio che il rapporto comporta»;
Cass. civ., 6 giugno 1967, n. 1248, cit. – nella quale, come si è già rilevato supra, è stato espressamente
affermato che «la proposizione, secondo cui non sussisterebbe contratto aleatorio ogni qualvolta l’alea non
è bilaterale, non può approvarsi poiché, per costante giurisprudenza, già formatasi sulla base dell’art. 1102
c.c. del 1865, e tenuta ferma in seguito, il contratto è aleatorio qualora il rischio sia assunto comunque a
fondamento del rapporto ed il vantaggio economico delle controprestazioni sia incerto per entrambe le parti
e anche soltanto per una di esse» –; Cass. civ., 10 aprile 1970, n. 1003: «il contratto aleatorio ricorre
allorquando l’alea insita nella natura stessa del negozio o derivi da specifiche pattuizioni stabilite dai
contraenti e lo caratterizzi nella sua interezza fin dalla formazione, per modo che in relazione al rischio, al
quale si espongono i contraenti, divenga incerto per uno o per tutti i contraenti il vantaggio economico
perseguito. Pertanto, è da escludersi la ipotesi del contratto aleatorio quando ciascuna delle parti all’atto
del perfezionamento del contratto ha avuto la possibilità di valutare il proprio rispettivo sacrificio e
223
Lo stesso principio è stato poi del tutto opportunamente ribadito anche in una
recentissima sentenza relativa ad una controversia avente ad oggetto un particolare
contratto di finanziamento connotato da concreti profili di aleatorietà363: «priva di
contenuto apprezzabile si mostra la critica alla statuizione di rigetto della eccezione di
nullità dei contratti in questione per violazione dell'art. 1322 cod. civ., che la Corte di
merito ha rettamente motivato rilevando, in sintonia con orientamenti già espressi da
questa Corte cui il Collegio aderisce, come “rientri nella autonomia privata convenire la
unilaterale o reciproca assunzione di un prefigurato rischio futuro, estraneo al tipo
contrattuale prescelto, a tal stregua modificandolo e rendendolo per tale aspetto
aleatorio”. Rilievi cui i ricorrenti contrappongono le proprie considerazioni sul carattere
meramente speculativo che il contratto, come interpretato dalla Corte di merito
(finanziamento in lire con clausola parametrica di riferimento alla valuta straniera),
finirebbe per rivestire e sullo squilibrio nelle posizioni delle parti con riguardo al rischio
di svalutazione della Lira, rispetto allo yen cui la banca non sarebbe esposta: tali
considerazioni, tuttavia, non conducono a diverse conclusioni in ordine alla applicazione
nella specie del criterio della meritevolezza di cui all'art. 1322 c.c., comma 2, tanto più
che l'affermazione (sulla quale paiono incentrarsi) circa lo squilibrio nelle posizioni delle
parti non pare tener conto del rischio, a carico della banca, della svalutazione della
vantaggio»; Cass. civ., 8 agosto 1979, n. 4626; Cass. civ., 9 aprile 1980, n. 2286; Cass. 31 maggio 1986, n.
3694, che tra le altre cose afferma che «si ha contratto aleatorio […] quando l’alea, per specifica pattuizione
delle parti ovvero per la natura stessa del negozio, lo caratterizzi nella sua interezza e fin dalla sua
formazione, cosicché risulti radicalmente incerto per una o per tutte le parti, il vantaggio economico, in
relazione al rischio cui le stesse si espongono. Deve pertanto considerarsi aleatorio il contratto in base al
quale sia dovuta una prestazione periodica a carico di una parte ed a favore dell’altra, sino alla morte di
quest’ultima o dei suoi eredi, ancorché sia fissata una durata minima di tale prestazione, dal momento che
la morte dei beneficiari prima della scadenza del termine comporta pur sempre l’estinzione della
prestazione dell’obbligato».
363
Il riferimento è al caso deciso da Cass. civ., Sez. I, 22 luglio 2015, n. 15370. Nel 1991 due s.r.l.
stipulavano due contratti di finanziamento in valuta estera (yen) con una banca, con la quale le due società
intrattenevano già rapporti di conto corrente di corrispondenza. Nel 1995, su impulso delle due società, ha
preso avvia una complessa controversia giudiziaria: in particolare, le due s.r.l. hanno citato in giudizio la
banca in quanto la stessa, al precipuo fino di non subire le conseguenze economiche del grave
peggioramento del cambio lira-yen verificatosi nel corso del rapporto in corrispondenza con l'uscita della
moneta nazionale dal S.M.E, si sarebbe rifiutata di reperire la provvista in yen. Le due s.r.l., pertanto,
chiedevano in primo luogo che venissero cancellate le iscrizioni ipotecarie in favore della banca sui loro
rispettivi immobili, previa dichiarazione di nullità o inefficacia delle iscrizioni medesime, e in secondo luogo
la condanna della banca stessa al risarcimento del danno.
224
moneta straniera rispetto alla Lira che si fosse verificata tra l'erogazione e la restituzione
della somma mutuata»364.
Infine, giova ulteriormente rilevare che alcune recenti pronunce della Corte di
cassazione sembrano aver definitivamente fugato qualsiasi dubbio in ordine alla fallacia
del giudizio di astratta meritevolezza sui contratti aleatori atipici fondato sulla distinzione
tra «alea unilaterale» e «alea bilaterale» anche rispetto alle specifiche controversie aventi
ad oggetto i piani finanziari cui si è fatto riferimento.
In particolare:
− in un caso (avente ad oggetto un piano «MyWay»)365, il ricorrente aveva impugnato
la sentenza della Corte d’appello – che nel frattempo aveva già accolto il gravame
avverso la sentenza di primo grado366 – denunciando «un vizio di erronea,
contraddittoria e carente motivazione sotto altro profilo: la non meritevolezza del
contratto: illiceità/mancanza di causa»; al riguardo, la cassazione ha affermato che
«la doglianza – che lamenta un preteso, omesso rilievo, da parte del giudice
territoriale, di una sorta di “immeritevolezza” genetica della convenzione
negoziale in contestazione, idonea ad integrare gli estremi del contratto aleatorio
con causa illecita o assente, e sol per questo radicalmente nullo – non ha giuridico
fondamento. La motivazione adottata, sul punto, dalla corte [d’appello]
sicuramente scevra da vizi logico-giuridici in questa sede rilevanti, si sottrae tout
court alle critiche mossele, poiché, dopo aver rilevato il carattere “sicuramente
rischioso”, per il cliente, dell'intera operazione, i giudici di appello escluderanno
poi che tale carattere ne potesse inficiare in radice la validità, sub specie della non
364
In questi termini, Cass. civ., Sez. I, 22 luglio 2015, n. 15370, cit., che in motivazione quanto già
affermato da Cass. civ., Sez. III, 25 novembre 2002, n. 16568: «giova considerare come sia pacifico il
principio secondo cui le parti, nel loro potere di autonomia negoziale, ben possono prefigurarsi la
possibilità di sopravvenienza del rischio ed assumersene reciprocamente o unilateralmente lo stesso,
modificando in tal modo lo schema tipico del contratto commutativo, mediante l'aggiunta di un rischio che a
quello schema sarebbe estraneo e rendendolo, per tale aspetto aleatorio, con l'effetto di escludere, nel caso
del verificarsi delle sopravvenienze, l'applicabilità dei meccanismi rieliquibratori previsti nell'ordinaria
disciplina del contratto (cfr. art. 1469 c.c.)».
365
Il riferimento è a Cass. civ., Sez. III, 21 settembre 2012, n. 16049. Giova rilevare che nel testo della
sentenza si fa riferimento a un pronuncia del Tribunale di Brindisi, nell’ambito del quale – come è stato
rilevato supra – è maturato l’orientamento di cui si discute.
366
La Corte d’appello di Lecce, con la sentenza del 14 luglio 2009, n. 407, aveva ritenuto che «pur nella
assoluta assenza della necessaria diligenza e correttezza ex fide bona in capo all'istituto di credito, l'azione
proposta dall'appellato (nullità contrattuale) fosse inidonea a perseguire la violazione dei doveri di
comportamento imposti dalla legge ai soggetti autorizzati alla prestazione dei servizi di investimento
finanziario».
225
meritevolezza di tutela ex art. 1322 c.c., considerato, a tacer d'altro, che la
concessione
di
finanziamento
agli
investitori
è
espressamente
prevista
dall'ordinamento (art. 1, comma 6, lett. c, TUF; art. 47, comma 2, Reg. Consob
11522/1998)»367;
− in un secondo caso368 (avente ad oggetto un piano «4you»), la cassazione ha sancito
il seguente principio di diritto: «non integra, ai fini dell'art. 1322 c.c., comma 2, un
interesse meritevole di tutela da parte dell'ordinamento, per contrasto con i
principi generali ricavatali dagli artt. 47 e 38 Cost., circa la tutela del risparmio e
l'incoraggiamento delle forme di previdenza anche privata, quello perseguito
mediante un contratto atipico fondato sullo sfruttamento delle preoccupazioni
previdenziali del cliente da parte degli operatori professionali mediante operazioni
negoziali complesse di rischio e di unilaterale riattribuzione del proprio rischio
d'impresa, in ordine alla gestione di fondi comuni comprendenti anche titoli di
dubbia o problematica redditività nel proprio portafoglio, in capo a colui a cui il
prodotto è stato espressamente presentato come rispondente alle sue esigenze di
previdenza complementare, quale piano pensionistico a profilo di rischio molto
basso e con possibilità di disinvestimento senza oneri in qualunque momento;
pertanto, non è efficace per l'ordinamento il contratto atipico il quale, in dette
circostanze, consista, tra l'altro, nella concessione di un mutuo, di durata
ragguardevole, all'investitore destinato all'acquisto di prodotti finanziari della
finanziatrice ed in un contestuale mandato alla banca ad acquistare detti prodotti
anche in situazione di potenziale conflitto di interessi».
Giova sottolineare che il principio di diritto sancito dalla pronuncia da ultimo
menzionata non va – evidentemente – nel senso di dichiarare la nullità di un contratto
atipico per il solo fatto che lo stesso risulti strutturato in modo tale da determinare una
«unilaterale riattribuzione» del rischio d'impresa; piuttosto, quel concreto contratto non
sarebbe meritevole poiché risulta concluso, tra le altre cose369:
367
Così Cass. civ., Sez. III, 21 settembre 2012, n. 16049, cit.
Ordinanza Cass. civ., Sez. VI, 30 settembre 2015, n. 19559.
369
L’ordinanza in esame affronta anche il problema della qualificazione giuridica dei piani finanziari ai
quali si è più volte fatto cenno. Non essendo certamente questa la sede per esaminare diffusamente la
questione, è appena il caso di rilevare che la cassazione parrebbe risolverla facendo ricorso alla fattispecie
del «contratto misto»: più esattamente, il contratto atipico de quo sarebbe il risultato della combinazione tra
un contratto di mutuo «di durata ragguardevole» e di un mandato ad acquistare «anche in conflitto di
interessi». Anche in questo caso però vale quanto già affermato nel testo: la cassazione precisa che il
concreto contratto, per quanto possa apparire astrattamente sconveniente e squilibrato, non è di per sé «non
368
226
− «sullo sfruttamento delle preoccupazioni previdenziali del cliente da parte degli
operatori professionali»;
− su una espressa rappresentazione del prodotto al cliente «come rispondente alle sue
esigenze di previdenza complementare, quale piano pensionistico a profilo di
rischio molto basso e con possibilità di disinvestimento senza oneri in qualunque
momento»;
− senza escludere – o, comunque, senza aver correttamente rappresentato – la
possibilità che la sua esecuzione potesse aver luogo in un «situazione di potenziale
conflitto di interessi».
Detto ancor più chiaramente: il giudizio operato Corte di Cassazione nella pronuncia
citata non sembra affatto sostanziarsi in un improbabile controllo ex ante sulla astratta
meritevolezza di un modello contrattuale social-tipico (tale sarebbe il cosiddetto
«contratto aleatorio unilaterale»)370, ma si incentra su una valutazione degli interessi
meritevole di tutela», ma è tale in quanto concluso «in dette circostanze», ossia «mediante» (e si badi che
tale preposizione strumentale compare per ben due volte nel testo della massima in esame) – in ultima analisi
– la violazione di regole comportamentali da parte dell’operatore finanziario. Sul «contratto misto» v., ex
multis, P. GIULIANO, La causa e le principali classificazioni dei contratti, cit., p. 682: «il contratto misto è un
contratto unico, essendo unica la causa o il risultato […], anche se il contratto misto è la fusione o la
combinazione di più schemi causali tipici, non è possibile affermare che il contratto misto è semplicemente
un contratto tipico modificato [cioè bisogna distinguere tra contratto tipico (modificato o meno) e contratto
misto]. Il contratto misto, infatti, si caratterizza per la sua funzione, che è diversa da quella dei tipi
contrattuali che lo compongono in quanto è una funzione unitaria e composita, distante e distinta dalle
cause dei singoli tipi contrattuali che lo compongono».
370
In questi termini Trib. Torino, 17 gennaio 2014, il quale argomenta – non senza contraddizioni – come
segue: «il contratto di swap può essere definito un contratto nominato, ma atipico in quanto privo di
disciplina legislativa (ovvero solo socialmente tipico), a termine, consensuale, oneroso e aleatorio,
contraddistinto per ciò che riguarda l’interest rate swap dallo scambio a scadenze prefissate dei flussi di
cassa prodotti dall’applicazione di diversi parametri ad uno stesso capitale di riferimento (c.d. nozionale),
sicché la funzione del contratto consiste nella copertura di un rischio mediante un contratto aleatorio, con la
finalità di depotenziare le incertezze connesse ai costi dei finanziamenti oppure, in assenza di un rischio da
cui cautelarsi, in una sorta di scommessa che due operatori contraggono in ordine all’andamento futuro dei
tassi di interesse […]. Tanto premesso, deve quindi essere esaminato se il contratto oggetto di causa, come
concretamente prospettato dalle parti e come sopra descritto, non costituisca una deviazione dalla causa
rispondente alla suddetta tipicità sociale (come affermata dall’attrice secondo cui lo schema causale è stato
adoperato dalla banca per finalità non ad esso coerenti, non essendo in grado di realizzare la funzione
dell’interest rate swap a vantaggio del cliente), in quanto deve ritenersi che per la validità di un contratto
non è più sufficiente affidarsi ad uno dei tipi già previsti dalla legge o dalla consuetudine sociale (secondo
un’ottica di causa in astratto, sostanzialmente coincidente con la funzione tipica e sociale del modello
contrattuale prescelto), essendo invece ormai necessario valutare se il contratto abbia determinato un
apprezzabile mutamento nella sfera giuridica dei contraenti sotto il profilo dell’idoneità a perseguire il
risultato economico voluto dalle parti, testando quindi la causa in concreto, pena la nullità del contratto
medesimo per difetto di causa […]. Se, quindi, la causa quale elemento essenziale del contratto non deve
essere intesa come mera ed astratta funzione economico sociale del negozio bensì come sintesi degli
227
concretamente perseguiti dalle parti attraverso lo strumento contrattuale; e tale indagine
concreta non può che essere svolta ex post, tenendo certamente anche conto di tutte le
circostanze nell’ambito delle quali si è formato l’accordo.
Tale passaggio verrà più volte ripreso e approfondito nel prosieguo della presente
trattazione.
3. L’alea tra oggetto e causa del contratto; la causa e l’oggetto dei
contratti derivati.
Sulla base di quanto è stato fino ad ora illustrato, risulterebbe ampiamente dimostrato
che tra la nozione di alea e quella di causa non vi sia alcun nesso di correlazione
necessaria: le concezioni funzionali, così come quelle più recenti che ad una causa fanno
pur sempre riferimento – seppure intesa in termini concreti –, non possono pertanto essere
condivise.
Si è anche tentato di dimostrare che neppure le concezioni (meramente) strutturali
risultano attendibili: in questa sede, infatti, si ritiene che la categoria dei contratti aleatori
si caratterizzi per qualcosa che va oltre la mera «misurazione della prestazione»371.
Orbene, nelle pagine iniziali di questo capitolo si è lasciato in sospeso un importante
interrogativo: ci si è chiesti se nei contratti aleatori il «rischio» – ma sarebbe più
appropriato discorrere di «alea» – incida sull’oggetto o sulla causa del contratto372.
interessi reali che il contratto è diretto a realizzare, e cioè come funzione individuale del singolo specifico
contratto, a prescindere dal singolo stereotipo contrattuale astratto, allora nel caso in cui in cui un contratto
di swap strutturato in modo tale che, concretamente, uno dei contraenti, ovvero tendenzialmente il cliente
dell’istituto di credito, ben difficilmente avrebbe potuto beneficiarne in quanto, a mero titolo esemplificativo,
l’andamento del tasso d’interesse che gli avrebbe determinato un beneficio alla luce delle pattuizioni
contrattuali non era concepito come concretamente realizzabile dagli operatori del sistema (a cominciare
dalla Banca centrale europea), evidentemente è privo di causa in concreto, così come è privo di causa in
concreto qualora la scommessa sottesa allo swap sia strutturata dalla banca in modo tale da alterare,
all’insaputa del cliente, gli equilibri finanziari della scommessa stessa»; in termini non troppo dissimili, v.
anche Trib. Salerno, 2 maggio 2013, cit.: «non sembra possa dubitarsi che il contratto di swap […] rientri
nella illecita categoria dei contratti aleatori unilaterali, in quanto troppo sbilanciato in favore dell'Istituto di
Credito»; Trib. Brindisi, 4 giugno 2009, cit.: «il contratto atipico denominato “4You” si configura come un
contratto aleatorio unilaterale […], nullo per difetto di causa, non essendo diretto a realizzare interessi
meritevoli di tutela secondo quanto previsto dall’art. 1322 c.c.»; Trib. di Brindisi, Sez. fall., 21-28 giugno
2005, cit., e Trib. Brindisi, 24 ottobre-30 dicembre 2005, n. 1417, cit.: «il contratto atipico in esame realizza
una figura sinora ignota al panorama giuridico italiano, quella, cioè, del “contratto aleatorio
unilaterale”[…], radicalmente nullo […] per sua contrarietà alla previsione di cui all’art. 1322 c.c., non
essendo detto negozio volto alla realizzazione di interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento
giuridico».
371
T. ASCARELLI, Aleatorietà e contratti di borsa, cit., p. 439.
228
In ragione di quanto si è sin qui affermato si comprende, però, che il quesito è
probabilmente mal posto: l’aleatorietà, infatti, è una situazione fattuale alla quale si ispira
il complessivo programma negoziale.
Ed allora è verosimile che la soluzione del suddetto quesito non vada necessariamente
incentrata su un elemento piuttosto che sull’altro; la questione, infatti, è ben più complessa
e la risposta non può che essere articolata.
Giova ora precisare che l’indagine di tale profilo non è fine a sé stessa: l’intera
tematica dei contratti derivati, infatti, poggia sulla questione da ultimo prospettata.
In questo senso, e al precipuo fine di inquadrare correttamente lo specifico tema della
qualificazione dei contratti derivati, occorre preliminarmente richiamare alcune criticità
sistematiche attinenti proprio alla causa e all’oggetto del contratto in generale.
Innanzitutto, è noto che oggetto e causa del contratto sono elementi disciplinati
distintamente dal legislatore373.
Quest’ultima costituisce un’osservazione elementare, che nondimeno è stata foriera di
non poche incertezze e contraddizioni374: non a caso, una delle questioni che ha impegnato
la dottrina tradizionale sul punto è proprio quella attinente all’individuazione dell’esatto
discrimen tra causa e oggetto del contratto375.
372
Cfr. C. M. BIANCA, Il contratto, cit. p. 493, «anche quando l’alea costituisce un momento eventuale o
marginale del contratto, essa è pur sempre un elemento che concorre a determinare l’interesse
concretamente perseguito dal contratto, ed è quindi un elemento che incide sulla causa concreta di esso»; V.
ROPPO, Il contratto, cit., p. 424: «il rischio qualifica la causa del contratto aleatorio»; F. GAZZONI, Manuale
di diritto privato, cit., p. 901: «l’elemento del rischio qualifica la stessa operazione economica a livello di
giustificazione causale».
373
«La formula “regolamento contrattuale” è utile soprattutto per la sua capacità di portare a sintesi
una serie di elementi che il linguaggio legislativo distingue, ma che per essere colti nel loro pieno significato
esigono la consapevolezza di nessi reciproci. Tali elementi sono essenzialmente quelli che l’art. 1325
chiama i “requisiti” del contratto: accordo, causa, oggetto e forma; e poi gli “effetti” del contratto, cui
s’intitola – nel quarto libro del codice – il capo V del titolo II». V. ROPPO, Il contratto, cit., p. 311.
374
Sul tema dell’oggetto del contratto, il legislatore del ’42 si è posto in continuità con il legislatore del
1865: già gli interpreti del codice civile previgente «avevano segnalato che nella sistemazione teorica
dell’istituto si tendeva ad operare un’indistinta assimilazione tra concetti tra loro diversi come quelli di
causa e di oggetto del contratto. Il risultato di un simile modo di procedere è stato quello di continuare
nell’equivoco […] di sovrapporre problemi della causa e problemi dell’oggetto, con la conseguenza di dar
luogo ad una “completa confusione”, che finiva per riprodurre nel codice di allora quelle medesime
incertezze ermeneutiche incontrate già dai giuristi francesi nell’interpretazione del codice di Napoleone. Nel
codice attuale questo retaggio storico permane evidente». E. GABRIELLI, Storia e dogma dell’oggetto del
contratto, in Riv. dir. civ., 2004, I, pp. 327-328.
375
V. infra, in questo capitolo.
229
Al riguardo, si pensi ad esempio al requisito della liceità dell’oggetto (art. 1346
c.c.)376: ictu oculi, apparirebbe logicamente insensato riferire un’eventuale illiceità ad un
oggetto (se inteso nel senso più ristretto di bene della vita) in sé e per sé considerato377,
laddove sarebbe stato verosimilmente più opportuno circoscrivere il suddetto requisito al
solo profilo causale (art. 1343 c.c.), salvo che non si accolga – ma il punto, come si vedrà,
non è pacifico – una definizione del concetto di oggetto in termini di «rappresentazione
programmatica del bene»378.
Ciò detto, non è certamente questa la sede per indagare funditus sui controversi
rapporti che intercorrono tra causa e oggetto, trattandosi di un problema più attinente alla
teoria generale del contratto379; salvo quanto verrà precisato nei paragrafi successivi, è qui
sufficiente rilevare che la questione relativa alla individuazione di un discrimen tra oggetto
e causa del contratto è stata invero sdrammatizzata dalla dottrina e dalla giurisprudenza
tradizionali.
Più esattamente, al di là delle questioni teoriche che – in quanto tali – si pongono in
una dimensione prevalentemente astratta380, causa e oggetto vengono tendenzialmente
376
P. GIULIANO, La causa e le principali classificazioni dei contratti, cit., p. 701, il quale osserva che non
è affatto agevole «distinguere l’illiceità della causa da quella dell’oggetto (del resto in entrambi i casi la
sanzione è la nullità dell’atto). A tal fine si potrebbe sostenere che l’illiceità della causa si distingue
dall’illiceità dell’oggetto, perché l’illiceità non investe la cosa o la prestazione, ma investe la funzione del
contratto, oppure si potrebbe affermare che la differenza si coglie considerando che il giudizio sulla causa
implica una valutazione complessiva dello scambio cui il contratto è preordinato, mentre quello sul’oggetto
di rivolge alle singole prestazioni. Però si tratta di differenze solo teoriche».
377
E. GABRIELLI, Storia e dogma dell’oggetto del contratto, cit., pp. 332-333.
378
Si pensi all’esempio di scuola di una compravendita di organi, in cui non sono i beni in sé considerati
(gli organi) ad essere illeciti, ma è semmai l’operazione complessivamente considerata (trasferimento della
proprietà di un organo dietro corrispettivo di un prezzo) ad essere censurata dall’ordinamento (cfr. art. 5
c.c.). Ricostruita in questi termini la questione, si può allora osservare la valutazione dell’oggetto in termini
di liceità possa aver senso solo laddove lo stesso venga inteso come «risultato programmato dalle parti»:
detto in altri termini, è il risultato programmato a dover essere valutato in termini di liceità, e non già il mero
bene. Cfr. A. LUMINOSO, La compravendita, cit., pp. 44 e 73.
379
Secondo G. B. FERRI, Il negozio giuridico, Padova, 2001, p. 151, la nozione di oggetto e di causa del
contratto «finiscono per intrecciarsi e sovrapporsi in un groviglio concettuale da cui risulta difficile
districarsi».
380
«La nozione di oggetto è divenuta ormai una questione più filosofica che giuridica»: così, F.
GAZZONI, Manuale di diritto privato, cit., p. 901, richiamando e condividendo il pensiero di GITTI. Cfr.
anche V. ROPPO, Il contratto, cit., pp. 311-312, secondo il quale «lo sforzo prevalente degli interpreti è, al
riguardo, uno sforzo di analisi, teso a definire singolarmente, e reciprocamente differenziare, gli elementi di
cui sopra. Lo sforzo non è inutile (anche se non sempre sa vincere la tentazione di disperdersi in
elucubrazioni tanto sottili quanto vacue). Ma non meno utile è un contrario sforzo di sintesi, orientato a
interrelare fra loro i diversi “requisiti” del contratto, e questi con gli “effetti” contrattuali, entro un luogo
concettuale che attraverso siffatte interrelazioni valga a definire la realtà complessiva del contratto, ovvero
– se la parola non spaventa – la sua essenza».
230
contemplati dalla dottrina in modo unitario e funzionale, privilegiando cioè il rapporto di
strumentalità intercorrente tra gli elementi qui esaminati381: ad esempio, secondo alcuni
Autori «la mancanza della causa trae sempre origine dalla mancanza dell’oggetto»,
sicché «mancanza della causa e mancanza dell’oggetto sono tutt’uno, o meglio, la
mancanza dell’oggetto comprende e assorbe in sé la mancanza della causa»382.
Per quanto poi riguarda lo specifico tema dei derivati, deve innanzitutto essere
premesso che la dottrina e la giurisprudenza hanno privilegiato l’esame dei profili causali
di detti contratti, a discapito di una più puntuale disamina di quelli attinenti all’oggetto dei
medesimi (quest’ultima venuta in rilievo solo di recente); cionondimeno, nel prosieguo
della trattazione si avrà modo di rilevare che le specifiche questioni relative a quest’ultimo
elemento avrebbero probabilmente sin da subito meritato maggior attenzione.
In considerazione di quanto appena osservato, pare opportuno seguire il percorso
tracciato dalla dottrina e dalla giurisprudenza, per cui – contrariamente a quanto avviene
nelle ordinarie trattazioni di diritto dei contratti, nell’ambito delle quali viene esaminato
prima l’elemento oggettivo e poi quello causale – giova muovere proprio dall’esame della
causa dei contratti derivati.
4. Causa del contratto e causa dei derivati: premessa.
Cosa s’intende, in generale, per «causa del contratto»?
381
Cfr. V. ROPPO, Il contratto, cit., p. 311, il quale, come si è già segnalato, parla al riguardo di «nessi
reciproci».
382
E. CESARO, sub art. 1325 c.c., in Commentario al codice civile, diretto da P. Cendon, IV, Torino,
1991, p. 481, il quale richiama la tesi di F. CARRESI, Il contratto, cit., pp. 619-620. Esamina il problema dalla
prospettiva patologica anche E. CAPOBIANCO, Lezioni sul contratto, Torino, 2014, p. 63, secondo il quale:
«l’illiceità della causa riguarda il profilo funzionale del contratto e si distingue dall’illiceità dell’oggetto.
Non è però agevole tracciare le differenze tra l’illiceità della causa e quella dell’oggetto, sebbene la
questione possa apparire prevalentemente teorica giacché in entrambe le ipotesi di illiceità la conseguenza è
la nullità del contratto». V. anche P. GIULIANO, La causa e le principali classificazioni dei contratti, cit., p.
701, il quale, peraltro, sembra muovere da una concezione della causa in termini sostanzialmente astratti: «si
tratta di differenze solo teoriche, poiché, in concreto, non solo è possibile avere contemporaneamente
l’illiceità dell’oggetto e l’illiceità della causa sia nei contratti tipici sia nei contratti atipici, ma esistono
anche notevoli difficoltà pratiche per distinguere le varie ipotesi. Infatti, occorre notare che all’illiceità
dell’oggetto può corrispondere l’illiceità della causa, ma, non è vero l’inverso, perché un contratto può
avere una causa illiceità, ma non è detto che ad un contratto con causa illecita corrisponda un contratto con
oggetto illecito. Inoltre, se l’illiceità del bene oggetto del contratto (es. donazione di bene futuro) non
determina l’illiceità della causa (soprattutto nei contratti tipici), all’illiceità della prestazione corrisponde
l’illiceità della causa soprattutto nei contratti atipici (es. Tizio paga Sempronio per uccidere Mevio)».
231
Com’è noto, quello appena proposto costituisce un interrogativo che da sempre
tormenta il giurista; e ciò in quanto non esiste una nozione normativa di «causa del
contratto», nonostante il legislatore del ‘42 l’abbia eletta ad «elemento essenziale» del
contratto (art. 1325, n. 2, c.c.).
Dottrina e giurisprudenza si sono quindi fatte carico di cercare di dare una definizione
dell’elemento in parola.
Le tesi che si sono avvicendate nel tempo sono però piuttosto varie e non sempre
risultano tra loro conciliabili: probabilmente, ciò è dipeso dal fatto che «la causa non è un
elemento come un altro (e cioè come l’oggetto o la forma)»383.
In questa sede non sarà certamente possibile ricostruire il complesso dibattito che si è
sviluppato intorno alla nozione di causa del contratto; cionondimeno, giova richiamare
alcuni punti fondamentali della questione.
Innanzitutto, è opinione assolutamente maggioritaria quella secondo cui il nostro
legislatore avrebbe384 accolto il cosiddetto principio causalistico, secondo il quale
qualsiasi spostamento di ricchezza deve essere giustificato; più esattamente, l’ordinamento
«ammette e riconosce e tutela solo gli spostamenti di ricchezza fondati su una qualche
ragione giustificativa»385.
L’adesione al principio causalistico pone però l’interprete innanzi all’ulteriore
problema della individuazione dei limiti entro i quali le parti sono libere di funzionalizzare
i loro rapporti in relazione agli scopi individuali, i quali, com’è noto, possono essere i più
vari386.
383
A. DI MAJO, Causa del negozio giuridico, cit., p. 2; vedi anche F. FERRARA JR., Teoria dei contratti,
Napoli, 1940, p. 127, che ha definito la causa del contratto come un «oggetto vago e misterioso».
384
Tra le impostazioni più risalenti, alcune ( cosiddette «anticausaliste») hanno sostenuto che la causa del
contratto non avrebbe un’autonoma rilevanza, in quanto consisterebbe «nell’accordo delle parti diretto a
concludere un determinato contratto per i più svariati motivi»: al riguardo, v. M. C. DIENER, Il contratto in
generale, cit., p. 341, nonché C. M. BIANCA, Il contratto, cit., p. 451.
385
E. ROPPO, voce Contratto, in Digesto, disc. Priv., sez. civ., Torino, 1996, p. 112, il quale precisa che
quello appena richiamato «è principio generale del nostro sistema, e di ogni sistema fondato sopra postulati
di razionalità»; v. anche A. DI MAJO, Causa del negozio giuridico, cit., p. 1, per il quale ogni spostamento
patrimoniale deve essere sorretto da una causa in senso economico-materiale, nonché C. M. BIANCA, Il
contratto, cit., p. 447, il quale, dopo aver definito la causa come «la ragione pratica del contratto, cioè
l’interesse che l’operazione contrattuale è diretta a soddisfare», afferma che «la causa deve essere sempre
presente nel contratto, sia questo tipico o atipico. La causa è infatti espressamente indicata tra gli elementi
essenziali del contratto (art. 1325, n. 2, c.c.), e la sua mancanza comporta di regola la nullità dell’atto (art.
1418, comma 2, c.c.) ».
386
A. DI MAJO, Causa del negozio giuridico, cit., p. 1; v. anche F. CARINGELLA, Il contratto, in Studi di
diritto civile, IV, Milano, 2007, p. 6, secondo il quale «può dirsi che la causa è “il perché” del contratto,
ossia l’elemento essenziale che giustifica ogni spostamento di ricchezza all’interno della singola operazione
232
In tal senso, la causa del contratto costituisce l’elemento attraverso il quale è possibile
«guardare complessivamente al ruolo degli atti di privata autonomia (contratti e negozi) e
al loro rapporto complessivo con gli interessi (individuali) delle parti con
l’ordinamento»387; rapporto, quest’ultimo, che secondo alcuni implicherebbe la soluzione
del problema della rilevanza giuridica del contratto388.
Invero, pur condividendo tali generalissimi assunti teorici, i principali orientamenti
dottrinali e giurisprudenziali sulla causa del contratto tendono a divergere, tra le altre
cose389, su un piano prettamente ideologico: si vedrà, infatti, che le varie tesi proposte
presuppongono l’adesione ad una precisa politica dei rapporti che dovrebbero intercorrere
tra i privati e l’ordinamento giuridico390.
Orbene, nell’ambito delle concezioni oggettive, la principale – e per lungo tempo
prevalente – teoria è stata quella della causa come obiettiva funzione economico-sociale
del contratto391, la quale, oltre a configurare l’elemento causale in termini astratti392,
sarebbe ispirata ad una «concezione dirigistica e paternalistica dell’autonomia privata»393.
negoziale», nonché C. M. BIANCA, Il contratto, cit., p. 448, secondo il quale «il riferimento alla causa
impone di intendere l’atto di autonomia privata nella sua realtà di strumento di finalità pratiche, e di
valutarlo giuridicamente tenendo conto di tale realtà». La questione sarà comunque esaminata in modo più
approfondito nel prosieguo del presente capitolo.
387
A. DI MAJO, Causa del negozio giuridico, cit., p. 2.
388
«La causa costituisce fondamento della rilevanza giuridica del contratto. Affinché il contratto sia
riconosciuto come giuridicamente impegnativo non è sufficiente che sussista l’accordo ma, come si è detto,
occorre anche che l’accordo sia giustificato da un interesse apprezzabile. È in questo senso che la causa
diventa elemento essenziale del contratto. Ne consegue pertanto la nullità del contratto che è diretto a
realizzare un interesse non meritevole di tutela»: in questi termini, C. M. BIANCA, Il contratto, cit., p. 448 e,
funditus, pp. 458-461.
389
Com’è noto, la dottrina suole distinguere le teorie sulla causa in «soggettive», le quali assegnerebbero
rilievo al dato psicologico che determina la parte a prestare il consenso, e «oggettive», le quali prescindono
dalle «rappresentazioni mentali dei contraenti»: così, V. ROPPO, Il contratto, cit., p. 343; v. anche C. M.
BIANCA, Il contratto, cit., pp. 449-450.
390
A. DI MAJO, Causa del negozio giuridico, cit., p. 2; v. anche F. CARINGELLA, Il contratto, cit., p. 6,
nota 2, il quale osserva che il concetto di causa sarebbe «un concetto “teleologicamente orientato”, in
ragione del fatto che la definizione adottata risponde a delle precise esigenze di carattere politicoeconomico, avvertite dall’ordinamento giuridico in un particolare momento storico».
391
Com’è noto, si tratta della teoria elaborata da E. BETTI in Teoria Generale del negozio giuridico, cit.,
p. 180: «la causa o ragione del negozio s’identifica con la funzione economico-sociale del negozio intero
[…], nella sintesi de’ suoi elementi essenziali, come totalità e unità funzionale in cui si esplica l’autonomia
privata. La causa è, in breve, la funzione d’interesse sociale dell’autonomia privata».
392
«Dai rapporti della vita si deve enucleare e mettere in luce in modo certo ciò che è giuridicamente
rilevante, e si deve riconoscerlo con sicurezza nel suo nucleo giuridico, prescindendo dalla varietà esterna
di situazioni, circostanze, oggetti e persone. Per soddisfare una tale esigenza, in tutti gli ordinamenti
giuridici primitivi si prendono in considerazione solo gli elementi più grossolani del rapporto, quelli che
cadono apertamente sotto i sensi; al contrario non si tiene conto di quelli più evanescenti. In questo caso
233
Più esattamente, ma senza pretesa di esaustività, secondo tale impostazione la causa
altro non sarebbe che la funzione394 del contratto, da intendersi appunto in termini:
− obiettivi, in quanto prescinde dagli scopi e, soprattutto, dai motivi che hanno
determinato le parti a contrarre395;
l’astrazione dei giuristi lotta con la visione spontanea, empirica, che le pone ostacoli e ad un tempo le offre
mezzi e vie che le sono indispensabili»: in questi termini, E. BETTI, Teoria Generale del negozio giuridico,
cit., p. 179. Pertanto, la causa sarebbe «astratta in quanto fotografa la funzione astrattamente considerata,
come schema asettico e costante di regolamentazione di interessi, che prescinde dal contesto concreto, dalle
circostanze esistenti, dalle finalità pratiche perseguite dai contraenti». R. ROLLI, Causa in astratto e causa
in concreto, cit., p. 67. Si badi, inoltre, che «astratto» non è sinonimo di «oggettivo»: in riferimento alla
causa, infatti, quest’ultimo termine assume il significato più ristretto di irrilevanza del foro interno dei
contraenti, laddove l’astrattezza si riferisce ad ulteriori circostanze, anche oggettive (quindi non
necessariamente di natura psichica), che ugualmente non dovrebbero assumere rilevanza causale (si pensi
alle circostanze di tempo e di luogo in cui viene concluso il contratto).
393
V. ROPPO, Il contratto, cit., p. 345; ID., voce Contratto, cit., p. 114: «questa concezione della causa
era fortemente segnata da un’ipoteca ideologica […]. Vi si rifletteva la propensione a ridurre e subordinare
il ruolo dell’autonomia privata, ingabbiandolo negli angusti spazi segnati da un modo rigido, astratto e
illiberale di intendere la socialità e i rapporti individuo/collettività». Per un approfondimento storicosistematico della questione, si rinvia a G. B. FERRI, Il codice civile italiano del 1942 e l’ideologia
corporativa fascista, in Eur. e dir. priv., 2012, II, pp. 319 ss.
394
Autorevole dottrina ha criticato l’assimilazione della nozione di «causa» a quella di «funzione»; in tal
senso, v. ad esempio R. SACCO, La causa, in Trattato di diritto privato, diretto da P. Rescigno, X, Torino,
1982, p. 314: «una seconda e più vigorosa corrente si impadronì invece dell’idea di una “causa” come
insieme degli effetti dell’atto, considerati non come “oggetto voluto”, ma come “funzione” del negozio […].
Finché si parla di consenso, contenuto del consenso, effetti voluti, effetti del negozio, le parole usate sono
intellegibili. Quanto tra il consenso e gli effetti si inserisce una “funzione”, ecco che la nozione di questa
“funzione” ha bisogno di essere chiarita. Certo, anche un’idea dapprincipio oscura può spiegarsi e
chiarirsi. Ma con la nozione di “causa oggettiva”, “causa funzione”, le cose sono andate altrimenti. Per
ogni nuova ondata d’inchiostro versato su di essa, la nozione è diventata più oscura e sfuggente, mentre le
argomentazioni che la riguardano sono espresse in un gergo ogni volta più ermetico. Si può dire in ogni
caso che la causa intesa come funzione finirà per identificarsi o con il contenuto del contratto, o con i suoi
effetti. La concezione oggettiva della causa ha perciò giustificato un nuovo movimento anticausalistico, il
quale nega spazio alla “funzione”, stretta com’essa è fra il voluto e gli effetti». Sulla causa come funzione
del contratto v. anche infra.
395
Cfr. C. M. BIANCA, Il contratto, cit., p. 450; v. anche F. SANTORO PASSARELLI, Dottrine generali del
diritto civile, cit., pp. 127-128, secondo il quale «la funzione che la legge prende in considerazione, nel
regolare l’autonomia privata, è quella immediatamente adempiuta dal negozio, quella che il negozio è
idoneo da sé e ugualmente in tutti i casi a realizzare. Le funzioni ulteriori, variabili da caso a caso, cui
l’autonomia privata si indirizza, dipendenti da questa funzione immediata e costante, non sono e, per la loro
estraneità al congegno negoziale, non possono essere prese in considerazione dalla legge nello stabilire la
figura e le categorie del negozio. In questo senso, ma tenendo presente che la causa è, come si è detto, la
ragione determinante del soggetto al negozio, può essere accolta la proposizione corrente che la causa è un
elemento oggettivo del negozio: oggettivo, perché connaturata a una determinata figura di negozio, dà alla
stessa la sua impronta. Invece, quelle funzioni ulteriori, che non mancano mai, ma sono diverse da caso a
caso, e in questo senso sono eventuali, non informando di sé il negozio, non sono che circostanze soggettive,
le quali assumono la figura ed il nome di motivi». Giova inoltre segnalare che la ratio delle teorie oggettive
risiede nella necessità di assicurare la certezza delle relazioni: osserva infatti V. ROPPO, Il contratto, cit., p.
234
− economici, perché il contratto è pur sempre un affare che dà profitto alle parti
contraenti396;
− sociali, in quanto «il contratto deve realizzare un interesse che sia utile alla stregua
dell’apprezzamento sociale»397.
Intesa in questi termini, pertanto, la causa assolverebbe fondamentalmente ad una
funzione di controllo sostanziale dell’autonomia privata398; più esattamente, sarebbero da
ritenersi validi e meritevoli di tutela «solo i contratti che realizzano interessi socialmente
utili» secondo l’ordinamento giuridico vigente399.
Occorre però subito segnalare che anche lo specifico tema del controllo di
meritevolezza400, unitamente a quello più generale sulla nozione di causa, è tra i più
controversi del diritto dei contratti: un esame puntuale e approfondito della questione
richiederebbe uno studio apposito.
39 che «se il contratto può essere cancellato per fattori che appartengono alla sfera psichica delle parti, in
ogni contratto ciascuna parte soggiace al rischio che i suoi diritti contrattuali vengano azzerati per fattori
impalpabili, incontrollabili, inconoscibili; ciascuna parte vive il proprio contratto nella sgradevole e
scoraggiante dimensione dell’incertezza».
396
In questi termini R. SACCO, Il contratto3, in Trattato di diritto civile, II, Torino, 2004, p. 572.,
richiamato da F. CARINGELLA, Il contratto, cit., p. 6.
397
C. M. BIANCA, Il contratto, cit., p. 451. Peraltro, l’Autore che ha elaborato la teoria che qui si esamina
ha affermato che «l'autonomia privata non è tutelata se non in quanto persegua funzioni utili socialmente e
rispondenti all'economia nazionale e all'ordine pubblico, non essendo più sufficiente, come in regime
liberale, il limite puramente negativo che la causa del negozio non sia illecita. In particolare, i negozi
giuridici non debbono mai diventare strumenti di sfruttamento e di sopraffazione dell'un privato da parte
dell'altro: si dovrà osservare, per quanto possibile, il criterio di proporzionalità fra il sacrificio patrimoniale
dell'una parte e il rendimento utile per l'altra, e combattere l'autotutela privata ovunque essa assuma forme
di sopraffazione socialmente pericolose»: E. BETTI, Sui principi generali del nuovo ordine giuridico, in Studi
sui principi generali dell'ordinamento giuridico fascista, Pisa, 1943, p. 329.
398
C. M. BIANCA, Il contratto, cit., p. 450; v anche A. DI MAJO, Causa del negozio giuridico, cit., p. 7.
399
Tale lettura troverebbe inoltre una chiara conferma nella Relazione al codice civile del 1942, nella
quale, al n. 603, con riferimento alla possibilità per i privati di ricorrere a contratti atipici, richiamando
pressoché pedissequamente il pensiero di BETTI, viene affermato quanto segue: «il nuovo codice, peraltro,
non costringe l’autonomia privata a utilizzare soltanto i tipi di contratto regolati dal codice, ma le consente
di spaziare in una più vasta orbita di formare contratti di tipo nuovo se il risultato pratico che i soggetti si
propongono con essi di perseguire sia ammesso dalla coscienza civile e politica, dall’economia nazionale,
dal buon costume e dall’ordine pubblico (art. 1322, comma secondo): l’ordine giuridico, infatti, non può
apprestare protezione al mero capriccio individuale, ma a funzioni utili che abbiano una rilevanza sociale e,
come tali, meritino di essere tutelate dal diritto […]. Quando il contratto non rientra in alcuno degli schemi
tipici legislativi, essendo mancato il controllo preventivo e astratto della legge sulla rispondenza del tipo
nuovo di rapporto alle finalità tutelate, si palesa invece necessaria la valutazione del rapporto da parte del
giudice, diretta ad accertare se esso si adegui ai postulati dell’ordinamento giuridico».
400
Sul tema, v. A. GUARNERI, voce Meritevolezza dell’interesse, in Digesto, disc. priv., sez. civ., XI,
Torino, 1994, pp. 324 ss.
235
Cionondimeno, in questa sede si ritiene necessario fare almeno un cenno alle principali
posizioni della dottrina sul tema.
Orbene, secondo l’orientamento in parola, che concepisce appunto la causa come
obiettiva funzione economico-sociale, il giudizio sulla meritevolezza del contratto sarebbe
da tenere distinto da quello sulla liceità dello stesso: «per chi tenga presente la socialità
della funzione normativa, l’art. 1343 c.c. non può significare, a contrario, che il diritto
riconosce ogni causa di contratto, purché non sia “illecita”, cioè riprovata dalla legge o
dalla coscienza sociale. La liceità è bensì condizione necessaria ma non condizione
sufficiente di per sé sola a giustificare il riconoscimento del diritto. Per ottenere questo la
causa deve rispondere a un’esigenza durevole della vita di relazione, a una funzione
d’interesse sociale che solo il diritto – attraverso l’apprezzamento interpretativo della
giurisprudenza […] – è competente a valutare nella idoneità a giustificare positivamente
la sua tutela»401.
Invero, è noto che la teoria della causa come obiettiva funzione economico-sociale è
stata variamente criticata dalla maggior parte della dottrina.
In particolare, sul piano tecnico-dogmatico, è stato osservato che ragionando nei termini
suddetti «la causa finisce per appiattirsi sul tipo»402, con l’improponibile403 conseguenza
che non sarebbe mai configurabile una causa illecita in presenza di contratti tipici404;
401
E. BETTI, Teoria Generale del negozio giuridico, cit., p. 197. Gli esempi di contratti non illeciti ma
comunque immeritevoli vengono poi proposti dalla stessa Relazione al codice civile del 1942, n. 603, cit.: «si
pensi, ad esempio, ad un contratto col quale alcuno consenta, dietro compenso, all’astensione di un’attività
produttiva o a un’applicazione sterile della propria attività personale o a una gestione antieconomica o
distruttiva di un bene soggetto alla sua libera disposizione, senza una ragione socialmente plausibile, ma
solo per soddisfare il capriccio o la vanità della controparte».
402
V. ROPPO, Il contratto, cit., p. 343. «Il tipo contrattuale è in ampio senso il modello di un’operazione
economica ricorrente nella vita di relazione […]. Il tipo contrattuale si distingue in legale o sociale. Il tipo
contrattuale legale è un modello di operazione economica che si è tradotto in un modello normativo, cioè in
un modello di contratto previsto e disciplinato dalla legge. Il tipo sociale è invece un modello affermatosi
nella pratica degli affari ma non regolato specificamente dalla legge. Il tipo viene solitamente riferito al
primo significato. Quando si parla di contratto tipico s’intende quindi contratto tipico legale o, con
espressione equivalente, contratto nominato»: C. M. BIANCA, Il contratto, cit., p. 473.
403
In questi termini, V. ROPPO, Il contratto, cit., p. 344.
404
Di tale evenienza sembra peraltro essere consapevole lo stesso legislatore del 1942: nella Relazione al
c.c., al n. 603 cit., viene infatti affermato che «un controllo della corrispondenza obiettiva del contratto alle
finalità garantite dall’ordinamento giuridico è inutile se le parti utilizzano i tipi contrattuali legislativamente
nominati e specificamente disciplinati: in tal caso la corrispondenza stessa è stata apprezzata e riconosciuta
dalla legge col disciplinare il tipo particolare di rapporto e resta allora da indagare […] se per avventura la
causa considerata non esista in concreto o sia venuta meno». In ogni caso, aderendo all’impostazione
proposta da BETTI, la socialità della funzione del contratto costituirebbe un limite per l’autonomia privata
anche rispetto ai contratti atipici, nella misura in cui alla medesima non può «essere riconosciuta una
236
inoltre, in una prospettiva che tiene conto anche dei risultati pratici, è stato rilevato che
escludere indiscriminatamente dal perimetro causale qualunque elemento extralegale
(ossia, non espressamente contemplato dalla disciplina normativa del tipo), da un lato
comporterebbe l’impoverimento e l’irrigidimento dello strumento contrattuale405, mentre
dall’altro determinerebbe il depotenziamento della tutela dei contraenti406.
La teoria della causa come obiettiva funzione economico-sociale del contratto è stata
però criticata soprattutto sotto il profilo ideologico: in quest’ottica, il problema diventa un
tutt’uno con quello della perimetrazione esatta del concetto di «utilità sociale»407.
La dottrina di ispirazione liberale ha infatti contestato in radice l’idea stessa di
funzionalizzare il contratto per finalità e scopi che trascendono la dimensione individuale:
più esattamente, è stato rilevato che la funzionalizzazione del contratto ad interessi diversi
e ulteriori da quelli perseguiti in concreto dalle parti altererebbe il rapporto tra
illimitata libertà di scelta degli scopi da perseguire. Nessun ordine giuridico si può prestare a procacciare
ai singoli, a loro richiesta, la protezione giuridica per la realizzazione di ogni e qualsiasi scopo negoziale.
[…] Ciò perché la protezione giuridica deve essere concessa non al capriccio dei privati, ma solo a quegli
scopi economici che per la loro rilevanza sociale appaiano adatti ad essere organizzati sotto l’egida del
diritto». E. BETTI, La tipicità dei negozi giuridici romani e la cosiddetta atipicità del diritto odierno, in
Annali Macerata, 1966, p.p. 19-20.
405
V. ROPPO, Il contratto, cit., p. 344.
406
«La concezione della causa come funzione [economico-sociale] non aiuta a risolvere nessun problema
né logico, né pratico […]. Figlia di questa concezione della causa [è] l’idea per cui la donazione ha come
causa il donare, l’alienazione ha come causa il trasferire, il patto di prelazione ha come causa il far nascere
la prelazione, la procura ha come causa la costituzione del potere rappresentativo. Il giurista sembra qui
procedere come l’ubriaco che vede doppio; sì che vede il contenuto del negozio come causa di se stesso!
[…] La concezione della causa come generica funzione appare incapace di applicazioni pratiche, poiché
ogni dichiarazione di volontà sarà dotata di un contenuto, e la “funzione” appare una ridondante
ripetizione di questo contenuto […]; ne sarebbe prova inequivocabile l’assenza di pronunce che abbiano
fondato la soluzione del caso posto alla loro attenzione sulla teoria della funzione economico-sociale»: in
questi termini, R. SACCO, Il contratto, cit., pp. 639-646 e 788.
407
F. GAZZONI, Osservazioni sull’art. 2645-ter c.c., in Giust. civ., 2006, II, p. 168: «la norma [n.d.a.
l.’art. 1322, comma 2, c.c.] fu inserita nel codice civile sulla base di presupposti ben diversi da quelli
riferibili al tipo, anche perché il legislatore partiva da una palese confusione disciplinare, non avendo
chiara la distinzione tra tipo e causa. La norma, dunque, aveva carattere ideologico, mirando a introdurre,
a livello dei principi, linee guida del corporativismo produttivistico e antiliberale. Così come l’imprenditore
doveva uniformarsi a quei principi e rispondeva verso lo Stato dell’indirizzo della produzione e degli scambi
(art. 2088 c.c.), parimenti i contraenti non potevano perseguire liberamente i propri interessi, pur se leciti,
perché, prima ancora che leciti, essi dovevano essere meritevoli di tutela. Del resto l’art. 1322, comma 2,
c.c., a differenza dell’art. 2088 c.c., si salvò dall’abrogazione, sol perché la meritevolezza doveva essere
valutata in base alle norme dell’ordinamento giuridico e non già a quelle corporative. L’art. 1322 comma 2,
c.c. era dunque niente altro se non la traduzione in norme delle teorie bettiane sulla funzione economicosociale della causa, nella versione fascista, secondo cui, come scriveva Betti, l’autonomia privata non
poteva essere tutelata se non in quanto perseguisse funzioni utili socialmente e rispondenti all’economia
nazionale».
237
ordinamento e autonomia privata, finendo così per porre in discussione la nozione stessa
del contratto quale atto di autonomia privata408.
Con l’entrata in vigore della Costituzione, ispirata com’è noto gli ideali liberaldemocratici409, si è avuto un parziale mutamento di prospettiva.
In particolare, l’avvento della Costituzione del 1948 non solo ha imposto una
“ristrutturazione” della gerarchia delle fonti (cfr. art. 1 preleggi)410, ma ha anche
408
G. B. FERRI, Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico, cit., p. 254; R. SACCO, La causa, cit., p.
314; A. DI MAJO, Causa del negozio giuridico, cit., p. 7; C. M. BIANCA, Il contratto, cit., p. 459. V. anche F.
GAZZONI, Manuale di diritto privato, cit., p. 816: «in questa visione senza dubbio l’interesse privato si
dissolve in pubblico e il contraente diviene un funzionario dello Stato».
409
Al fine di porre in rilievo la differente impostazione ideologica che presiede alle differenti teorie sulla
causa maturate, rispettivamente, prima e dopo l’entrata in vigore della nostra Carta costituzionale, si ritiene
opportuno riportare alcuni passaggi di N. BOBBIO, Liberalismo e democrazia, Milano, 2006, passim: «il
liberalismo è una dottrina dello stato limitato sia rispetto ai suoi poteri sia rispetto alle sue funzioni. La
nozione corrente che serve a rappresentare il primo è “stato di diritto”; la nozione corrente per
rappresentare il secondo è “stato minimo” […]. Il liberalismo, come teoria dello stato (e anche come chiave
di interpretazione della storia), è moderno, mentre la democrazia come forma di governo è antica […]; il
liberalismo dei moderni e la democrazia degli antichi sono stati spesso considerati antitetici [mentre] la
democrazia moderna non solo non è incompatibile con il liberalismo ma può essere considerata sotto molti
aspetti, almeno sino a un certo punto, la naturale prosecuzione. A una condizione: che si prenda il termine
“democrazia” nel suo significato giuridico-istituzionale e non in quello etico […]. [Tuttavia] il problema dei
rapporti tra liberalismo e democrazia diventa molto complesso, e già ha dato luogo, e c’è ragione di credere
che continuerà a dar luogo, a dibattiti inconcludenti. E infatti in questo modo il problema del rapporto tra
liberalismo e democrazia si risolve nel difficile problema del rapporto tra libertà ed eguaglianza, un
problema che presuppone una risposta univoca a queste due domande: “Quale libertà? Quale
eguaglianza?” […]. In che senso allora la democrazia può essere considerata come il proseguimento e il
perfezionamento dello stato liberale tanto da giustificare l’uso dell’espressione “liberal-democrazia” per
designare un certo numero di regimi attuali? […]. Questo nesso reciproco tra liberalismo e democrazia è
possibile, perché entrambi hanno un punto di partenza comune: l’individuo. Riposano, entrambi, su una
concezione individualistica della società […]. Mentre l’organicismo considera lo stato come un corpo in
grande composto di parti che concorrono ciascuna secondo la propria destinazione in relazione
d’interdipendenza con tutte le altre, alla vita del tutto, e pertanto non attribuisce alcuna autonomia agli
individui uti singuli, l’individualismo considera lo stato come un insieme di individui, e come un risultato
della loro attività e dei rapporti che essi stabiliscono tra loro».
410
In tal senso, v. U. BRECCIA, Art. 1322 – Autonomia contrattuale, in Commentario del codice civile
diretto da E. Gabrielli, modulo Dei contratti in generale, a cura E. Navaretta e A. Orestano, I, Torino, 2011,
pp. 67-68: «il problema del rapporto fra il principio codificato dell’autonomia contrattuale e le disposizioni
costituzionali può porsi in vario modo. Si prospetta, in primo luogo, in termini di garanzia della libertà dei
contraenti e funge, in tal caso, da criterio di controllo della legittimità di leggi che debbano considerarsi
incompatibili con tale principio […]. Certo è che, in tale più ampia linea di riflessione, l’autonomia
contrattuale, è fra quelle che più sembrano aver subito l’influenza dei fattori di trasformazione delle
istituzioni giuridiche e delle tendenze politiche e culturali. Il codice civile, anteriore a una carta
costituzionale gerarchicamente sopraordinata, poteva rinviare soltanto ai limiti legali – in senso stretto –
dell’autonomia contrattuale. Il mutamento radicale del sistema porta a escludere ormai l’interpretazione
restrittiva del nomen “legge”. Le perplessità sulla rilevanza della costituzione, in questa materia, derivano,
238
determinato la riconduzione dell’autonomia privata nell’ambito dei diritti di libertà
dell’individuo411.
Le due cose, insieme, hanno comportato per un verso la possibilità di sindacare le leggi
che disciplinano in vario modo l’esercizio dell’autonomia privata, mentre per altro verso
impongono di configurare il controllo sugli atti dei privati secondo nuove logiche412.
piuttosto, da un forte scetticismo sull’effettiva incidenza pratica di un tale tessuto normativo nella sfera dei
rapporti fra contraenti privati».
411
Ex multis, v. V. ROPPO, Il contratto, (ed. 2001), cit., p. 23-24, per il quale il principio dell’accordo
(art. 1321 c.c.) indicherebbe, in primo luogo, «l’esistenza di una sfera di libertà dei soggetti di fronte al
potere pubblico e alla legge: significa che c’è un ambito entro cui la sorte delle posizioni giuridiche
patrimoniali dei soggetti dipende dalle scelte volontarie e libere degli stessi soggetti interessati, e non da
fattori esterni che si sovrappongano alla loro volontà e libertà»; v. anche A. NATALE, Autonomia privata e
diritto ereditario, Padova, 2009, p. 19, secondo cui «fuori del campo strettamente giuridico, possiamo
identificare il concetto di autonomia privata nella libertà di esplicare la propria personalità morale e nel
potere di autoregolamentare i propri interessi, vale a dire nella possibilità di decidere sul se, e sul come,
perseguire un certo scopo; si osservi che mentre nell’Ottocento il principio di libertà si caricava di valenze e
significati strettamente legati all’idea di democrazia e di emancipazione, la moderna dottrina della libertà
(specie di quella contrattuale) si dimostra meno sensibile ai valori, e più preoccupata di difendere la libertà
a fronte dell’invadenza di poteri dello Stato e di pubbliche autorità», nonché R. NICOLÒ, Diritto civile, in
Raccolta di scritti, II, Milano, 1980, p. 1510, il quale afferma che il termine «autonomia» debba essere inteso
«nel triplice significato di libertà della esplicazione dei valori individuali, di potere, come signoria su beni,
di potestà di autodeterminarsi per il regolamento dei propri interessi, rispetto alla quale si pone un
problema di limiti che ne condizionano la estensione».
412
V. ROPPO, Il contratto, (ed. 2001), cit., pp. 79-81; U. BRECCIA, Art. 1322 – Autonomia contrattuale,
cit. p. 68: «nei sistemi giuridici che, al pari del nostro, sottopongono le leggi al controllo di legittimità, è
tuttavia inevitabile che il rapporto delle fonti eteronome con la libertà contrattuale, nel porre problemi di
compatibilità con un quadro di principi sovraordinato, abbia fornito argomenti sul possibile carattere di
un’eventuale garanzia costituzionale. Prevale l’opinione che si tratti di una garanzia indiretta, nel senso che
l’autonomia contrattuale in materia commerciale sia strumentale rispetto all’iniziativa economica, cosicché
ogni limite posto alla prima si risolva in un limite della seconda e sia legittimo solamente se sia conforme
agli scopi previsti dalla Costituzione». Sulla ratio del controllo di legittimità delle leggi nei sistemi liberaldemocratici, v. N. BOBBIO, Liberalismo e democrazia, cit., pp. 37-40: «per stato di diritto s’intende
generalmente uno stato in cui i poteri pubblici vengono regolati da norme generali (le leggi fondamentali o
costituzionali) e debbono essere esercitati nell’ambito delle leggi che li regolano, salvo il diritto del
cittadino di ricorrere a un giudice indipendente per far riconoscere e respingere l’abuso o l’eccesso di
potere […]. Peraltro, quando si parla di stato di diritto nell’ambito della dottrina liberale dello stato,
occorre aggiungere alla definizione tradizionale una determinazione ulteriore: la costituzionalizzazione dei
diritti naturali, ovvero la trasformazione di questi diritti in diritti giuridicamente protetti, cioè in veri e
propri diritti positivi. Nella dottrina liberale stato di diritto significa non solo subordinazione dei poteri
pubblici di ogni grado alle leggi generali del paese che è un limite puramente formale, ma anche
subordinazione delle leggi al limite materiale del riconoscimento di alcuni diritti fondamentali considerati
costituzionalmente, e quindi in linea di principio “inviolabili” (questo aggettivo si trova nell’art. 2 della
costituzione italiana) […]. I meccanismi costituzionali che caratterizzano lo stato di diritto hanno lo scopo
di difendere l’individuo dagli abusi del potere, sono, in altre parole, garanzie di libertà, della cosiddetta
libertà negativa, intesa come sfera di azione in cui l’individuo non è costretto da chi detiene il potere
coattivo a fare quello che non vuole o non è impedito di fare quello che vuole».
239
In particolare, rispetto a tale ultimo profilo, l’idea di un controllo legale ex ante
sull’autonomia privata, teso cioè a verificare l’effettiva funzionalizzazione del contratto al
perseguimento di un «interesse sociale oggettivo e socialmente controllabile»413, cede il
passo ad una diversa forma di sindacato sul concreto regolamento posto in essere dalle
parti, da effettuarsi ex post dal giudice414.
Su tali basi ideologiche415 ha trovato sviluppo la teoria della causa concreta, secondo la
quale la causa del contratto sarebbe «la concreta composizione di contrapposti interessi
che attraverso il meccanismo contrattuale vengono contemporaneamente soddisfatti»416.
Orbene, l’adesione alla tesi appena richiamata reca con sé diverse conseguenze.
In primo luogo, il contratto verrebbe ricondotto al suo naturale ruolo di strumento per
la realizzazione di interessi eminentemente individuali417.
In secondo luogo, la riaffermazione della dimensione essenzialmente privata del
contratto, nei termini appena precisati, implica che l’analisi dell’elemento causale non può
essere proficuamente condotta secondo il metodo dell’astrazione418, ma dovrebbe essere
413
E. BETTI, Teoria Generale del negozio giuridico, cit., p. 183.
«Nel momento in cui il negozio viene redento dal giogo dell’ideologia dirigistica e ritorna ad essere
considerato mezzo di realizzazione di interessi privati, anche la causa rientra nell’alveo dell’accordo,
abbandonando la veste di strumento esterno di indirizzamento dell’agire dei privati, per assumere il ruolo di
oggetto del controllo da parte dell’ordinamento». N STEFANELLI, La parabola della causa, in Persona e
mercato, 2014, 4, p. 230.
415
Sul punto, ancor più chiaramente, v. G. B. FERRI, Tradizione e novità nella disciplina della causa del
negozio giuridico (dal cod. civ. 1865 al cod. civ. 1942), in Riv. dir. comm., 1986, I, pp. 141 ss.: «caduto il
sistema politico-economico cui originariamente si riferiva il codice civile del 1942, recuperati, con la
costituzione repubblicana, i valori di libertà e democrazia, l’autonomia privata, come del resto l’iniziativa
economica privata e la proprietà, hanno perduto quel ruolo di funzione che il modello corporativo e
dirigistico aveva loro attribuito. Inserita in un sistema che coniuga l’affermazione del ruolo centrale della
personalità umana con i doveri di solidarietà politica, economica e sociale, l’autonomia negoziale ha
recuperato fondamentali caratteri che la tradizione le aveva conferito […]. In questo quadro la causa, come
elemento essenziale del negozio, assume una fisionomia rinnovata».
416
F. CARINGELLA, Il contratto, cit., p. 8; v. anche V. ROPPO, Il contratto, cit., p. 344, per il quale la
causa concreta sarebbe «la ragione che concretamente giustifica il particolare contratto in esame, alla luce
delle specificità rilevanti che lo connotano (lo scambio fra quella cosa e quel prezzo, nel particolare
contesto di circostanze e finalità e interessi in cui quelle parti lo hanno programmato)», e C. M. BIANCA, Il
contratto, cit., p. 452, secondo cui «occorre piuttosto riconoscere nella causa la ragione concreta del
contratto. In tal senso è decisivo osservare che la nozione di causa quale funzione pratica del contratto può
avere una sua rilevanza solo in quanto si accerti la funzione che il singolo contratto è diretto ad attuare».
417
«Il contratto è, prima di tutto, terreno di confronto e scontro di egoismi privati. Ciascuna parte vi si
accosta per assecondare i suoi propri impulsi, per soddisfare i suoi propri bisogni, per conseguire i suoi
propri fini: in una parola, per realizzare i suoi propri interessi». V. ROPPO, Il contratto, cit., p. 356.
418
L’astrazione è quel metodo per il quale sarebbe possibile «scorporare il ius dalle informazioni
strettamente contingenti, esaminando il fatto dall’angolo di visuale dell’esperto di diritto, senza lasciarsi
fuorviare da elementi meramente esteriori e pertanto giuridicamente irrilevanti»; tuttavia, ricorrendo a tale
414
240
più opportunamente svolta seguendo il metodo casistico, ossia caso per caso419, muovendo
cioè dalle peculiarità che caratterizzano il concreto assetto di interessi così come costituito
dalle parti420.
Anche in questa prospettiva si pongono però ulteriori questioni.
Un primo problema – di tipo formale – è quello relativo all’individuazione degli
elementi della fattispecie contrattuale concreta che possono assumere rilevanza
nell’ambito dell’analisi causale421.
Al riguardo, com’è noto, sono state proposte due teorie422: la prima, più risalente, è
quella soggettiva (o dello «scopo ultimo»), secondo la quale nella perimetrazione della
metodo «si può incorrere in errori: ad esempio, se si astrae troppo o troppo poco. L’eccessiva
generalizzazione, che elimini elementi qualificanti la fattispecie, può essere pericolosa perché si partirebbe
da presupposti sbagliati finendo per giungere ad una soluzione anch’essa sbagliata. Correlatamente,
un’astrazione per difetto non riuscirebbe a rendere la singola soluzione idonea ad un’utilizzazione finale».
A. BELLODI ANSALONI, Scienza giuridica e retorica forense. Appunti da un corso di Metodologia giuridica
romana, Rimini, 2012, p. 71.
419
Nel ragionamento casistico «il caso è sempre e comunque al centro della riflessione
giurisprudenziale: anzi, proprio la convinzione che il ius è nascosto all’interno del fatto concreto comporta
la necessità di procedere alla definizione e scansione del medesimo nei suoi elementi costitutivi». A.
BELLODI ANSALONI, Scienza giuridica e retorica forense, cit., p. 70.
420
«La civilistica, dopo che per circa trent’anni sulla nozione di causa si sono intessuti lunghi discorsi
spesso al limite della dissertazione teorico-filosofica, si è resa conto che la definizione della causa del
contratto è una definizione giudiziaria, che il contenuto della causa va rinvenuto razionalizzando in regulae
juris le statuizioni della giurisprudenza che ne fanno applicazione». R. ROLLI, Causa in astratto e causa in
concreto, cit., p. 253. È appena il caso di rilevare che la tensione tra il metodo dell’astrazione e quello
casistico ha sempre accompagnato lo studio del diritto: v. ad esempio C. A. CANNATA, Per una storia della
scienza giuridica europea. I. Dalle origini all’opera di Labeone, Torino, 1997, p. 285 ss., il quale così
scrive: «l’idea che la soluzione di un singolo caso possa servire come modello per risolvere casi futuri, era
già chiara nella giurisprudenza romana almeno da quando Catone Liciniano pubblicò i propri responsi.
Una simile idea può venire percepita come quella del valore del precedente, nel senso di una proposizione
del tipo “a caso uguale soluzione uguale”: ma il giurista non l’intende così: perché il giurista sa bene che
un modello di soluzione casistica adatto ad applicarsi a casi uguali serve troppo poco; bisogna almeno che
esso si possa applicare a casi analoghi; ma già per questo piccolo passo si deve poter stabilire in che cosa
consista l’analogia fra i due casi […]. L’operazione di applicare un modello di soluzione casistica ad altri
casi implica un procedimento di generalizzazione della soluzione particolare, che è fecondo di conseguenze.
Si tratta di un procedimento che permette di derivare la soluzione del caso simile una regola […]. La
proposizione che enuncia il caso e la sua soluzione può venire generalizzata mediante un procedimento di
astrazione, cioè eliminando dal caso le note specifiche che non hanno rilevanza in ordine alla soluzione
[…]. L’operazione consiste in sé stessa in un’applicazione del procedimento induttivo […] mantenendo la
stessa soluzione dopo aver eliminato un elemento del fatto che concorre a determinarla si otterrebbe una
regola falsa».
421
«Ciò che importa sapere è la funzione pratica che effettivamente le parti hanno assegnato al loro
accordo. Ricercare l’effettiva funzione pratica del contratto vuol dire, precisamente, ricercare l’interesse
concretamente perseguito. Non basta, cioè, verificare se lo schema usato dalle parti sia compatibile con uno
dei modelli contrattuali ma occorre ricercare il significato pratico dell’operazione con riguardo a tutte le
finalità che – sia pure tacitamente – sono entrate nel contratto». C. M. BIANCA, Il contratto, cit., p. 453.
241
causa assumerebbe rilevanza anche la rappresentazione psichica dei singoli contraenti423;
la seconda è quella semi-oggettiva, la quale, nel definire la causa come sintesi degli
interessi perseguiti dalle parti con il contratto «così come concretamente concepito» dalle
stesse, assegna rilevanza ai soli motivi comuni a entrambi i contraenti424, con esclusione,
quindi, degli «intimi motivi individuali» delle singole parti425.
Invero, è stato precisato che l’adesione alla tesi della causa in concreto, in generale, non
può e non deve comunque pregiudicare le esigenze di certezza e stabilità del contratto426:
422
Deve essere precisato che la distinzione tra teoria della causa astratta e teoria della causa concreta non
significa contemporaneamente distinguere tra teorie oggettive e soggettive: più esattamente, mentre la prima
ripartizione (astratto/concreto) si riferisce al metodo logico attraverso il quale analizzare una fattispecie o un
concetto (nella specie, quello di causa), la seconda (oggettivo/soggettivo) attiene al piano degli elementi della
fattispecie che si ritiene di dover considerare in seno al metodo prescelto. Così, nell’ambito della teoria della
causa astratta l’analisi muoverà dalla fattispecie normativa astratta per qualificare – e quindi disciplinare – il
caso concreto, mentre seguendo la tesi della causa in concreto l’interprete, per poter individuare la disciplina
applicabile nel caso specifico, prenderà le mosse dalla fattispecie concreta. Orbene, è evidente che nell’uno e
nell’altro caso si porrà comunque il problema di individuare quali elementi della fattispecie assumano
rilevanza in sede interpretativa; così potranno aversi impostazioni oggettive (fondate sui soli dati
esteriorizzati e obiettivati nel contratto) o soggettive (basate sul foro interno dei contraenti) tanto nella
prospettiva astratta quanto in quella concreta.
423
«Secondo la teoria soggettiva […] la causa viene intesa, in definitiva, come la motivazione del
consenso. D’altro canto si avverte anche la necessità di distinguere la causa rispetto ai tanti e variabili
motivi che possono indurre il soggetto a contrattare. La causa viene quindi identificata nello scopo che entra
nel contratto in quanto entra nel contenuto dell’atto di volontà». C. M. BIANCA, Il contratto, cit., p. 449.
424
«Tra i due poli “opposti”» – ossia, tra l’approccio rigorosamente oggettivo, che contraddistingue la
tesi della causa astratta, e quello indiscriminatamente soggettivo – «la via maestra da seguire è, ancora una
volta, quella “mediana”, adottando una definizione di causa che, al contempo, non trascuri gli interessi
avuti di mira dalle parti e non tradisca le caratteristiche di generalità ed astrattezza che si richiedono
nell’analisi di un elemento essenziale del contratto. A fornire risposta ad una tale esigenza sovviene la teoria
semioggettiva o della funzione economico-individuale, secondo cui causa del contratto è la concreta
composizione di contrapposti interessi che attraverso il meccanismo contrattuale vengono
contemporaneamente soddisfatti. Come si vede, la teoria in esame sposta l’attenzione dallo sterile schema
contrattuale al concreto e dinamico assetto di interessi programmato dalle parti: la causa non è più sintesi
di effetti negoziali, ma di interessi che il contratto, così come concretamente concepito dalle parti, è idoneo a
realizzare. Gli effetti negoziali, tanto cari alla teoria della funzione economico-sociale, in quest’ottica
diventano il “risvolto fattuale” degli interessi avuti di mira dalle parti, la loro realizzazione pratica. Quello
che, invece, realmente conta è che il contratto abbia effettiva attitudine a realizzare un concreto assetto di
interessi». F. CARINGELLA, Il contratto, cit., p. 8.
425
«I “motivi” sono le ragioni individuali che spingono il singolo contraente ad addivenire alla
stipulazione, laddove la causa è la finalità comune ad entrambe le parti». F. CARINGELLA, Il contratto, cit.,
p. 9.
426
«Che la causa fosse uno strumento in grado di attribuire ampio potere di intervento al giudice
sull’autonomia privata si è sempre avvertito, tanto che per questo la causa ha subito l’avversione
tradizionalmente opposta all’applicazione delle clausole generali, unitamente al sospetto che essa potesse
frapporre un ostacolo alla certezza del diritto». R. ROLLI, Causa in astratto e causa in concreto, cit., p. 152.
Partendo da tale assunto, si osservi che la certezza del diritto potrebbe essere ulteriormente compromessa
nella misura in cui nella perimetrazione della causa venissero ricondotti, indiscriminatamente, elementi di
242
in tal senso, la dottrina prevalente ha giustamente rilevato che «“concreto” non
s’identifica con “soggettivo”; la concretezza può (e quindi deve) declinarsi in termini di
oggettività»427.
Per altro verso, altri Autori hanno altrettanto opportunamente osservato che un
concetto di causa meramente oggettivo è «strumento insufficiente per risolvere problemi
che riguardano l’individuazione di interessi “apprezzabili” sulla base di una corretta
analisi economica del contratto in termini di costi-benefici»428.
Orbene, proprio nel tentativo di contemperare le esigenze di stabilità delle
contrattazioni con quelle di tutela degli interessi particolari dei contraenti, la dottrina più
recente sembra aver optato, nell’ambito della tesi della causa concreta, per l’approccio
semi-oggettivo.
In ogni caso, appare chiaro che l’adesione alla teoria della causa in concreto impone di
rimeditare429 il cosiddetto principio di irrilevanza dei motivi430, sul quale non è possibile
soffermarsi diffusamente in questa sede.
tipo soggettivo: in tal senso, cfr. A. DI MAJO, Causa del negozio giuridico, cit., p. 9, il quale afferma che
«esigenze connesse alla sicurezza degli scambi, alla gelosa difesa dell’autonomia della volontà, alla
diffidenza verso il potere dei giudici, hanno indotto la dottrina ad esasperare la contrapposizione tra causa e
motivi e ad assegnare soltanto alla causa, oggettiva ed astratta, la funzione di circoscrivere l’ambito degli
interessi apprezzabili».
427
V. ROPPO, Il contratto, cit., p. 344, il quale precisa ulteriormente che «la concezione concreta della
causa non significa un ritorno alla concezione soggettiva della causa: cioè l’impropria valorizzazione delle
motivazioni strettamente individuali di una parte, delle sue personali rappresentazioni psichiche, dei suoi
interessi particolari coltivati in foro interno».
428
A. DI MAJO, Causa del negozio giuridico, cit., p. 9.
429
Sui rapporti tra causa concreta e motivi, cfr. C. M. BIANCA, Il contratto, cit., p. 461: «tradizionalmente
l’irrilevanza dei motivi è stata spiegata considerando il motivo un impulso psichico che non si traduce
nell’atto di volontà negoziale. Per la teoria della causa tipica l’irrilevanza dei motivi andrebbe senz’altro
ricercata nella loro estraneità alla causa. La legge s’interessa esclusivamente della funzione tipica del
contratto, e non degli scopi variabili che di volta in volta possono indurre le parti a contrarre. Questo
criterio di distinzione cade se si ha invece riguardo alla causa concreta del contratto. Precisamente, se si ha
riguardo alla funzione pratica che le parti hanno effettivamente assegnato al loro accoro, devono rilevare
anche i “motivi”, se questi non siano rimasti nella sfera interna di ciascuna parte ma si siano obiettivizzati
nel contratto, divenendo interessi che il contratto è diretto a realizzare». V. anche G. PASSAGNOLI, Il
contratto illecito, in Trattato del contratto, diretto da E. Roppo, Milano, 2006, p. 474: «proprio l’adozione di
una nozione concreta di causa, se comporta una condivisibile netta inversione di tendenza rispetto al
tradizionale dogma della irrilevanza dei motivi, rende evidente che i motivi cui può riferirsi l’art. 1345 sono
solo quelli incapaci di penetrare nel contenuto contrattuale, quindi di integrarne la causa concreta».
430
In particolare, secondo il principio di irrilevanza dei motivi – la cui ratio, com’è noto, riposa sulla
necessità di garantire la sicurezza degli scambi – può trovare tutela giurisdizionale solo ciò che è stato
oggettivato nel contratto. Tuttavia, una rigida applicazione di detto principio, alla quale consegue una netta e
schematica distinzione tra causa e motivi, non tiene conto della realtà economica e sociale in cui avvengono
gli affari: ad esempio, se in una compravendita ci si fermasse ad apprestare protezione soltanto agli interessi
243
Un secondo problema – questo di tipo sostanziale – è quello relativo al perimetro entro
il quale piò essere effettuato il controllo della fattispecie contrattuale concreta.
Più esattamente, il punctum pruriens resta quello della rilevanza sul contratto del
concetto di «utilità sociale», espressamente contemplato dall’art. 41 Cost., per il quale,
com’è noto, «l’iniziativa economia privata è libera», ma la stessa «non può svolgersi in
contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla
dignità umana»431.
Nonostante il rinnovato contesto ordinamentale, una parte della dottrina ha comunque
continuato a sostenere che il giudizio di meritevolezza e quello di liceità debbano pur
sempre restare concettualmente distinti432; secondo un altro orientamento, invece, si
tratterebbe di giudizi sovrapponibili ed equivalenti433.
contemplati direttamente nella causa – scambio di cosa contro prezzo –, rimarrebbero privi di tutela tutti
quegli interessi diversi, appunto, dalla consegna del bene e dal pagamento del prezzo. Ancora: se l’interesse
oggettivo del mutuante è quello di ottenere gli interessi e la restituzione del tantundem, un interesse diverso
(ad esempio, la destinazione della somma) non sarebbe “apprezzabile”, in quanto non accede naturaliter alla
causa. Cfr. A. DI MAJO, Causa del negozio giuridico, cit., p. 9; M. BESSONE, Adempimento e rischio
contrattuale, Milano, 1969, p. 275.
431
«L’introduzione in Costituzione del limite dell’utilità sociale, con la problematica ed incerta
interpretazione giuridica che deriva dalla sua “irriducibile poliedricità”, non sembra, dunque, equivalente
ai principi fondamentali dell’ordinamento che la legge avrebbe il compito di garantire. Piuttosto, l’“utilità
sociale” diventa il parametro giuridico attraverso il quale tali principi trovano trasposizione nelle fonti del
diritto chiamate a regolare - ma non a funzionalizzare - lo svolgimento dell’attività economica. La tutela
dell’utilità sociale non può che segnare la frontiera dell’iniziativa privata e stabilire, così, dove essa cessa
di essere legittima. Lo Stato può spostare tale frontiera ma non varcarla a differenza di quanto accadeva,
invece, negli ordinamenti corporativi o ad economia pianificata». F. ZATTI, Riflessioni sull’art. 41 Cost.: la
libertà di iniziativa economica privata tra progetti di riforma costituzionale, utilità sociale, principio di
concorrenza e delegificazione, in forumcostituzionale.it; v. anche A. GUARNERI, voce Meritevolezza
dell’interesse, cit., pp. 327 ss., nonché, infra, in questo capitolo.
432
In questo senso si esprime, ad esempio, M. NUZZO, Utilità sociale e autonomia privata, Milano, 1975,
p. 92, secondo il quale «l’ordinamento vigente si caratterizza per l’assunzione tra i fini dello stato della
tutela di interessi che, nella valutazione operata dal legislatore, non possono realizzarsi da soli attraverso
l’esercizio del potere di autonomia […]. Se ne deve dedurre che in sede di valutazione dell’atto si dovrà
accertare anche se l’interesse individuale perseguito sia compatibile con la tutela degli altri interessi la cui
realizzazione è assunta come proprio fine dell’ordinamento. Individuato fra i criteri ordinanti nel sistema, in
cui si sostanzia il concetto di ordine pubblico […], quello del non contrasto con l’utilità sociale, la stregua
per la valutazione di liceità dell’interesse che si realizza in quel determinato assetto sarà data dalla
compatibilità di questo con gli interessi riassunti nella formula “utilità sociale”»; secondo altri – che pure
ritengono di dover mantenere separati il giudizio di meritevolezza da quello di liceità – il parametro
dell’utilità sociale non atterrebbe alla valutazione della meritevolezza, ma direttamente a quello della liceità,
sicché un contratto in contrasto con l’utilità sociale sarebbe non già immeritevole, bensì radicalmente illecito
(così, ad esempio, F. GAZZONI, Manuale di diritto privato, cit., p. 816: «quanto all’utilità sociale come
ulteriore criterio di controllo del concreto contenuto disciplinare, a fianco ed oltre alla liceità, è impossibile
ipotizzare contratti socialmente dannosi, ma non illeciti, mentre per quelli socialmente futili (con cui ci si
accorda, ad esempio, sull’orario in cui si può suonare il violino o sul fatto che ciascuno dei contraenti darà
244
Dal canto suo, la giurisprudenza – nelle rare volte in cui si è trovata a dover ad
approfondire esplicitamente il problema434 – ha superato la questione operando una sorta
di sintesi tra le due impostazioni appena menzionate: meritevolezza e liceità sarebbero
infatti «due aspetti strettamente compenetrati, e possono parzialmente coincidere, sì che,
in conclusione, alla loro valutazione può procedersi con unico esame»435.
Chiarito ciò, giova ora rilevare che sempre la giurisprudenza ha recepito le suddette
evoluzioni dottrinali sulla nozione di causa con estremo ritardo: è solo di recente, infatti,
che nelle varie pronunce (di merito e di legittimità) è possibile riscontrare l’abbandono
della tesi della causa come funzione economica sociale del contratto – variamente
declinata e comunque depurata dai suoi primordiali presupposti ideologici436 – a favore
della tesi della causa concreta in chiave semi-oggettiva437.
da mangiare ai canarini dell’altro in caso di assenza), il problema è solo quello della giuridicità del vincolo
e della patrimonialità della prestazione»).
433
Ad esempio, secondo V. ROPPO, Il contratto, cit., pp. 402-403, «sarebbe un errore pensare che
ulteriori limiti alla libertà di concludere contratti atipici derivino dalla norma che li ammette solo se “diretti
a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico” (art. 1322, comma 2, c.c.). Come
già detto, questa è la tesi che considera la causa strumento per garantire l’utilità sociale del contratto:
mentre i contratti tipici svolgerebbero senz’altro una funzione socialmente utile (dunque avrebbero una
causa apprezzabile) perché approvata dal legislatore nel momento in cui riconosce e disciplina il tipo, lo
stesso non potrebbe dirsi per i contratti atipici, che non vantano siffatta approvazione legislativa. Per essi
occorrerebbe un controllo di validità ulteriore e più stringente, diretto a verificare se siano portatori di una
specifica, positiva utilità sociale. Si è già detto per quali ragioni in un sistema come il nostro – né dirigistico
né moralistico – questa tesi vada respinta, e possono trovare spazio anche contratti conclusi per soddisfare
bisogni e interessi esclusivamente individuali – fino ai limiti della frivolezza o del capriccio – senza
realizzare alcuna significativa utilità sociale. Un contratto – tipico o atipico che sia – merita
disapprovazione non in quanto socialmente indifferente, ma solo in quanto socialmente dannoso o
pericoloso: cioè in quanto illecito. Perciò i contratti atipici non “diretti a realizzare interessi meritevoli di
tutela”, e perciò vietati ex art. 1322, comma 2, c.c., non sono altro che quelli contrari a norme imperative o
all’ordine pubblico o al buon costume. Si obietterà che in questo modo l’art. 1322 comma 2 diventa un
inutile doppione dell’art. 1343. Se anche fosse, una norma inutile perché ripetitiva sarebbe pur sempre
preferibile a una norma con significati ripugnanti al sistema. Ma non è impossibile attribuire all’art. 1322
comma 2 un autonomo senso. Partendo dal rilievo che le norme imperative di solito sono riferite in prima
battuta ai contratti tipici, la norma ha il senso di avvertire che la loro osservanza non può essere elusa solo
perché le parti, anziché concludere il contratto tipico di riferimento, concludono un contratto aitpico
produttivo di analoghi risultati giuridico-economici».
434
«Pur in mancanza di un’elaborazione ampia del concetto di meritevolezza, l’analisi delle decisioni
attesta che la giurisprudenza dinanzi ad un contratto innominato utilizza un test bifasico». P. FAVA,
Lineamenti storici, comparati e costituzionali del sistema contrattuale verso la european private law, in Il
contratto, a cura di Id., Milano, 2012, p. 25.
435
Così Cass. civ., 5 luglio 1971, n. 2091, in Foro it., I, 1971, p. 2195 ss.; v. anche Cass. civ., 19 ottobre
1974, n. 2859.
436
Ex multis, v. Cass., 13 giugno 1957, n. 2213, per la quale «la causa del negozio giuridico è la funzione
economica sociale che il diritto riconosce rilevante ai suoi fini e che sola giustifica la tutela dell’autonomia
privata; essa ha un fondamento obiettivo, caratterizza i negozi giuridici e ne differenzia ciascun tipo.
245
L’illiceità giuridica della causa è data propriamente dal fatto che la determinazione causale di chi compie il
negozio è rivolta a un risultato pratico oggettivamente contrario alle norme contemplate dal legislatore
l’illiceità dello scopo pratico immediato, cioè del’interesse concreto sottostante alla causa, si comunica a
questo e trasforma il negozio in uno strumento di fini antisociali, la cui attuazione è riprovata e combattuta
dall’ordine giuridico, risolvendosi sostanzialmente in un abuso della funzione strumentale del negozio»; v.
anche Cass., 18 febbraio 1983, n. 1244 e, più di recente, Cass., 4 aprile 2003, n. 5324, secondo cui «la causa
del contratto si identifica con la funzione economico sociale che il negozio obiettivamente persegue e che il
diritto riconosce come rilevante ai fini della tutela apprestata, rimanendo ontologicamente distinta rispetto
allo scopo particolare che ciascuna delle due parti si propone di realizzare; ne consegue che si ha illiceità
della causa, sia nelle ipotesi di contrarietà di essa a norme imperative, all’ordine pubblico e al buon
costume, sia nella ipotesi di utilizzazione dello strumento negoziale per frodare la legge, qualora entrambe
le parti attribuiscano al negozio una funzione obiettiva volta al raggiungimento di una comune finalità
contraria alla legge», richiamata peraltro dalla successiva Cass., 13 febbraio 2009, n. 3646. Sul punto, cfr. F.
GAZZONI, Osservazioni sull’art. 2645-ter c.c., cit., pp. 168, il quale rileva che «la formula bettiana della
funzione economico-sociale ha avuto un largo successo, perché usata tralatiziamente sul piano
terminologico da parte di chi ne ignora le origini e il significato e ignora gli illuminanti studi di Gino
Gorla».
437
Al riguardo, si segnalano Cass., S.U., 18 marzo 2010, n. 6538, secondo la quale «in tema di
dichiarazione di inefficacia degli atti a titolo gratuito, ai sensi dell’art. 64 legge fall., la valutazione di
gratuità od onerosità di un negozio va compiuta con esclusivo riguardo alla causa concreta, costituita dalla
sintesi degli interessi che lo stesso è concretamente diretto a realizzare, al di là del modello astratto
utilizzato, e non può quindi fondarsi sull’esistenza, o meno, di un rapporto sinallagmatico e corrispettivo tra
le prestazioni sul piano tipico ed astratto, ma dipende necessariamente dall’apprezzamento dell’interesse
sotteso all’intera operazione da parte del “solvens”, quale emerge dall’entità dell’attribuzione, dalla durata
del rapporto, dalla qualità dei soggetti e soprattutto dalla prospettiva di subire un depauperamento,
collegato o meno ad un sia pur indiretto guadagno ovvero ad un risparmio di spesa», nonché Cass., Sez. III,
12 novembre 2009, n. 23941, che definisce la causa del contratto come «lo scopo pratico del negozio, la
sintesi, cioè, degli interessi che lo stesso è concretamente diretto a realizzare (c.d. causa concreta), quale
funzione individuale della singola e specifica negoziazione, al di là del modello astratto utilizzato». Tra le
prime pronunce che aderiscono alla tesi della causa in concreto, v. Cass., 19 febbraio 2000, n. 1898, secondo
la quale «il giudice, nel procedere alla identificazione del rapporto contrattuale, alla sua denominazione ed
all’individuazione della disciplina ch lo regola, deve procedere alla valutazione “in concreto” della causa,
quale elemento essenziale del negozio, tenendo presente che essa si prospetta come strumento di
accertamento, per l’interprete, della generale conformità a legge dell’attività negoziale posta effettivamente
in essere, della quale va accertata la conformità ai parametri normativi dell’art. 1343 c.c. (causa illecita) e
1322, comma 2, c.c. (meritevolezza di tutela degli interessi dei soggetti contraenti secondo l’ordinamento
giuridico)», nonché Cass., 8 maggio 2006, n. 10490, la quale, pur aderendo alla tesi della causa in concreto,
si dimostra in una certa misura ancora “fedele” alla tradizionale teoria della funzione economico sociale: più
esattamente, secondo tale ultima pronuncia la causa sarebbe «sintesi (e dunque ragione concreta) della
dinamica contrattuale, e non anche della volontà delle parti. Causa, dunque, ancora iscritta nell’orbita della
dimensione funzionale dell’atto, ma, questa volta, funzione individuale del singolo, specifico contratto posto
in essere, a prescindere dal relativo stereotipo astratto, seguendo un iter evolutivo del concetto di funzione
economico-sociale del negozio che, muovendo dalla cristallizzazione normativa dei vari tipi contrattuali, si
volga a cogliere l’uso che di ciascuno di essi hanno inteso compiere i contraenti adottando quella
determinata, specifica (a suo modo unica) convenzione negoziale».
246
Gli effetti di tale ritardo, peraltro, rischiano di essere ulteriormente amplificati a seguito
delle più recenti innovazioni di matrice europea438: più esattamente, mentre la
giurisprudenza nazionale – come si è poc’anzi rilevato – ancora stenta a metabolizzare la
tesi della causa concreta439, nell’ambito della disciplina dei contratti europei440 la causa
pare nel frattempo aver perso la sua centralità441, a tutto vantaggio di un controllo del
contratto imperniato sul contenuto442.
438
«Le ragioni dell’incidenza del diritto comunitario sul diritto dei contratti vanno rinvenute in talune
delle stesse ragioni di sussistenza dell’Unione Europea, e cioè nella finalità (indicata nell’art. 2 del Trattato
dell’Unione) di promuovere “l’instaurazione di una unione economica e monetaria”, “un progresso
economico e sociale” e di “pervenire ad uno sviluppo equilibrato e sostenibile”. In virtù di questa finalità,
le apparenti limitazioni dell’autonomia privata, apportate dagli interventi normativi comunitari che si sono
nel tempo susseguiti, vanno considerate in un quadro complessivo di ridefinizione degli ambiti di
quest’ultima, del tutto coerente con il dettato costituzionale nella parte in cui sancisce che l’iniziativa
economica, pur libera, non possa porsi in contrasto con l’utilità sociale o recar danno alla sicurezza, alla
libertà e alla dignità umana (art. 41 cost.)». E. CAPOBIANCO, Lezioni sul contratto, cit., p. 140.
439
Ad esempio, anche nella più volte citata Corte d’Appello di Milano, 18 settembre 2013, n. 3459, è
possibile leggere quanto segue: «questa Corte considera imprescindibile, ai fini del decidere, evitare di
assumere, aprioristicamente, che [i costi impliciti] debbano costituire oggetto di una semplice informazione
intendendo, invece, verificare se essi non costituiscano elementi essenziali del contratto. E non nella
prospettiva, che può rivelarsi sfuggente, della causa in concreto, bensì muovendo dalla constatazione che il
Legislatore del TUF menziona tali contratti indipendentemente dall'intento dell'investitore, sia esso di
copertura o speculativo, imponendo, così, all'interprete di ricercare una comune ratio legis del loro
riconoscimento legislativo».
440
La dottrina ha rilevato che le proposte di disciplina europee e internazionali in materia di contratto
«sono volte ad espungere la causa dagli elementi essenziali del contratto, sia per l’ideologia iperliberistica
che ha costituito la cifra ultima di tali interventi normativi, sia per la ritenuta difficoltà di individuare, nel
quadro giuridico europeo, criteri di controllo politico in senso ampio del contenuto del contratto. In
particolare, la causa non è menzionata né dai Principi di diritto europeo dei contratti (c.d. Principi Lando)
[…], né dai Principi dei contratti commerciali internazionali (c.d. Principi Unidroit)». L. NONNE, Contratti
tra imprese e controllo giudiziale, Torino, 2013, p. 40; nello stesso senso v. anche M. NUZZO, La causa, in Il
diritto europeo dei contratti d’impresa. Autonomia negoziale dei privati e regolazione del mercato, Atti del
Convegno di studio tenutosi a Siena il 22-24 settembre 2004, a cura di P. Sirena, Milano, 2006, pp. 195 ss.
441
Anche la riproposizione delle teorie anticausaliste, a prescindere dalle varie articolazioni in cui queste
vengono argomentate, pare sottintendere un unitario fondamento ideologico: il riferimento è al liberalismo
economico (liberismo). In tal senso, cfr. M. LIBERTINI, Il ruolo della causa negoziale nei contratti d’impresa,
in Jus, 2009, pp. 273 s.s., secondo il quale l’ideologia immanente al nuovo diritto dei contratti si fonderebbe
sull’accettazione di un ordine spontaneo, che ripudia qualsiasi controllo di merito sull’assetto contrattuale
voluto dalle parti; ordine spontaneo caratterizzato da determinazioni contrattuali e pronunce
giurisprudenziali, entrambe basate sul principio di buona fede. Per completezza, può essere utile rilevare che
il liberalismo economico è sempre stato storicamente contrapposto al liberalismo individuale: «da tempo si
definisce invero il liberalismo politico come la dottrina il cui principio di tutela dei diritti civili si combina
con la constatazione che la loro promozione necessita di norme poste da un ente superiore – storicamente lo
stato eventualmente considerato un male necessario – chiamato a soddisfare tra l’altro “l’esigenza del
governo parlamentare. Laddove il liberalismo economico o liberismo si accredita invece come teoria
dell’ordine spontaneo – l’ordine del mercato considerato una istituzione neutrale rispetto ai fini – che pone
l’accento sui diritti economici a detrimento di quelli umani. Ciò al fine di attuare la “teoria che il modo
247
Nella stessa logica, anche il controllo sulla meritevolezza del contratto avrebbe mutato
fisonomia443: secondo gli orientamenti dottrinali più recenti la questione in parole
andrebbe infatti radicalmente reimpostata muovendo da una «profonda riconsiderazione
del rapporto tra legge scritta e principio di libertà contrattuale […]. Il problema del
migliore di promuovere lo sviluppo economico e il benessere generale è quello di rimuovere gli ostacoli
all’iniziativa privata, abbandonandola a sé stessa”. Alcuni reputano che la contrapposizione tra liberalismo
politico ed economico sia ormai superata […]. Ci sembra al contrario che la contrapposizione sia viva ed
attuale e che non possa essere altrimenti, almeno fino a quando il liberismo verrà concepito come una
dottrina antistatalista». A. SOMMA, Introduzione critica al diritto europeo dei contratti, Milano, 2007, p. 4.
Sul punto, v. anche C. ANTONI, L’avanguardia della libertà, Napoli, 2000, p. 54, secondo il quale «il
conflitto tra economia ed etica è appunto l’eterno dramma della nostra esistenza […] sempre divisa tra
vitali bisogni ed interessi della nostra individualità ed i doveri che la trascendono».
442
«Nella disciplina dei contratti europei non è dato rinvenire alcun espresso riferimento al concetto di
causa, anzi si segnala che il controllo tradizionalmente imperniato sulla causa si sarebbe spostato sul piano
del contenuto del contratto (come dimostrerebbero le clausole abusive) o su quello dei diritti e doveri delle
parti, quali l’informazione e il recesso. Questo diverso atteggiarsi dei contratti europei sarebbe tangibile
evidenza di un fenomeno evolutivo del declino della causa. Discutere ancor oggi del requisito causale
potrebbe apparire anacronistico di fronte al sopravanzare di contrattazioni asimmetriche ed all’emersione
di regole di mercato che, essendo imperniate sull’equilibrio equità e giustizia contrattuale, sembrano aver
messo da parte definitivamente il controllo causale»: in questi termini, E. LA ROSA, Percorsi della causa nel
sistema, cit., p. 21; v. anche D. HENRICH, Il contratto in Europa, in Riv. dir. civ., 2008, I, p. 652, per il quale
la causa sarebbe addirittura una mera «zavorra storica»; G. SICCHIERO, Tramonto della causa del contratto?,
in Autonomia contrattuale e diritto privato europeo, Padova, 2005; M. NUZZO, La rilevanza della causa nel
diritto europeo dei contratti d’impresa, in Il diritto europeo dei contratti d’impresa: autonomia negoziale dei
privati e regolazione del mercato, a cura di P. Sirena, Milano, 2006; E. NAVARRETTA, Le ragioni della causa
e il problema dei rimedi. L’evoluzione storica e le prospettive nel diritto europeo dei contratti, in Riv. dir.
comm., 2003, 1, pp. 981 ss. Sulla nozione di contenuto del contratto, v. infra, in questo capitolo.
443
È appena il caso di segnalare che rapporti tra autonomia privata, meritevolezza e liceità sono venuti
specificamente in rilievo anche in alcuni recenti interventi normativi. In questa sede ci si limita a segnalarne
due: il primo è l’art. 2645-ter c.c. («trascrizione di atti di destinazione per la realizzazione di interessi
meritevoli di tutela riferibili a persone con disabilità, a pubbliche amministrazioni, o ad altri enti o persone
fisiche»), nell’ambito del quale si ripropongono le stesse questioni ermeneutiche sollevate in generale dal
concetto di meritevolezza (requisito, quest’ultimo, espressamente contemplato dalla norma): al riguardo, si
rinvia F. GAZZONI, Osservazioni sull’art. 2645-ter c.c., cit., pp. 168-172. Il secondo è l’art. 3, comma 1, del
decreto legge 13 agosto 2011, n. 138 («ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo
sviluppo»), convertito con legge 14 settembre 2011, n. 148 e ulteriormente modificato, tra le altre, dalla L. 24
marzo 2012, n. 27, nel quale è stato stabilito che «in attesa della revisione dell'articolo 41 della Costituzione,
Comuni, Province, Regioni e Stato, entro il 30 settembre 2012, adeguano i rispettivi ordinamenti al principio
secondo cui l'iniziativa e l'attività economica privata sono libere ed è permesso tutto ciò che non è
espressamente vietato dalla legge nei soli casi di: a) vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli
obblighi internazionali; b) contrasto con i principi fondamentali della Costituzione; c) danno alla sicurezza,
alla libertà, alla dignità umana e contrasto con l'utilità sociale; d) disposizioni indispensabili per la
protezione della salute umana, la conservazione delle specie animali e vegetali, dell'ambiente, del paesaggio
e del patrimonio culturale; e) disposizioni relative alle attività di raccolta di giochi pubblici ovvero che
comunque comportano effetti sulla finanza pubblica». Il comma 2 dell’art. appena citato precisa che «il
comma 1 costituisce principio fondamentale per lo sviluppo economico e attua la piena tutela della
concorrenza tra le imprese». Sul punto, cfr. ». F. ZATTI, Riflessioni sull’art. 41 Cost., cit.
248
giurista non può essere quello della individuazione degli atti giuridici leciti e meritevoli di
protezione, ma, nel presupposto delle loro liceità e meritevolezza, quello della
delimitazione esatta dell’ambito e delle procedure operative della libertà di contrarre ciò
che si vuole, quando si vuole, come e con chi si vuole»444.
Orbene, la lunga ma doverosa premessa sin qui svolta assume una peculiare rilevanza
anche rispetto al caso specifico dei contratti derivati.
In particolare, il travagliato percorso seguito nel corso degli anni dalla dottrina e dalla
giurisprudenza – le quali, per tentare di qualificare445 i derivati, hanno appunto privilegiato
444
In questi termini U. LA PORTA, Globalizzazione e diritto. Regole giuridiche e norme di legge
nell'economia globale. Un saggio sulla libertà di scambio e sui suoi limiti, Napoli, 2005, pp. 127-130. Più
esattamente, secondo l’Autore, il principio di libertà contrattuale «deve porsi, nella considerazione
dell’interprete e dello stesso legislatore, quale unica fonte di rilevanza giuridica della disciplina
contrattuale, superando ogni ritrosia relativa al legame, instaurato proprio dall’art. 1322, tra il potere di
autodeterminazione privata e legge scritta; in ciò ricordando le elaborazioni che i sostenitori della teoria
precettivista del negozio giuridico avevano già compiuto alla fine dell’800. Il problema del giurista non può
essere quello della individuazione degli atti giuridici leciti e meritevoli di protezione, ma, nel presupposto
delle loro liceità e meritevolezza, quello della delimitazione esatta dell’ambito e delle procedure operative
della libertà di contrarre ciò che si vuole, quando si vuole, come e con chi si vuole. Due corollari che
discendono da questa convinzione: il primo, consistente nella necessità che l’attenzione del giurista, più che
dell’atto, si diriga alla individuazione della disciplina del procedimento di esplicazione della libertà di
contrarre; il secondo, consistente nella necessità di verificare modalità e procedimento di esplicazione della
libertà privata, anche quando il privato ricorra a schemi contrattuali noti e nominati. Il nuovo ordine
economico mondializzato pone esigenze di tutela degli interessi privati non più legate al riconoscimento di
liceità e meritevolezza di atti giuridici, oggettivamente considerati, ma soprattutto legate alle concrete
modalità di esplicazione della libertà contrattuale, anche in relazione ad atti perfettamente leciti e
meritevoli, conclusi però in condizioni di sostanziale disparità di punti di partenza tra i contrattanti, come
dimostrato dal proliferare di legislazione speciale, diretta, negli ultimi decenni ed in vario modo, alla
protezione di “contraenti deboli”, diversamente identificati, di volta in volta, in soggetti economici
differenti, a seconda dell’ambito di riferimento della normativa […]. Il mutamento dell’atteggiamento
legislativo, in materia di disciplina della libertà contrattuale, consentirebbe di recuperare la giuridicità dei
patti contrattuali, che oggi pretendono di autoqualificarsi sul piano formale, ampliando lo spazio
dell’autonomia privata, probabilmente assegnando ad essa una capacità “creativa” della regola, che oggi
non ha, entro i limiti della sua corretta e legale esplicazione».
445
Il tema della qualificazione verrà ripreso e approfondito infra. Già in questa sede pare comunque
opportuno richiamare le principali definizioni del concetto di qualificazioni offerte dalla dottrina e dalla
giurisprudenza prevalenti: «la qualificazione del contratto è l’operazione logica con cui l’interprete – di
fronte a un concreto contratto – ne afferma o nega la riconducibilità ad un determinato tipo contrattuale. La
sua funzione principale è stabilire se al contratto sia applicabile la disciplina di qualche tipo; e se si, di
quale tipo»: V. ROPPO, Il contratto, cit., p. 407; «la qualificazione implica la definizione del modello della
fattispecie legale, e la ricostruzione degli elementi di fatto rilevanti»: R. SACCO, Qualificazione del
contratto, in Dig. civ., agg., 2010, Torino, p. 884. V. anche C. M. BIANCA, Il contratto, cit., p. 472, secondo
il quale «la qualificazione deve essere tenuta distinta rispetto all’interpretazione del contratto. Essa è infatti
una valutazione giuridica mentre l’interpretazione è una valutazione di fatto. La qualificazione presuppone
l’avvenuta interpretazione, e cioè l’avvenuto accertamento del contenuto del contratto, ed ha per oggetto
tale contenuto». Anche la giurisprudenza ha tentato di fornire una definizione dell’operazione ermeneutica
249
l’esame dei profili causali di detti contratti, anziché altri – ha inevitabilmente risentito
proprio delle questioni più generali attinenti alla stessa nozione di causa.
Invero, si è già avuto modo di rilevare446 che probabilmente non è proficuo seguire
una logica astratta e tipizzante in relazione a contratti che, proprio in quanto originano
dalla prassi – e quindi risentono necessariamente dell’influenza degli interessi perseguiti
dalle parti –, non hanno un modello di riferimento con cui confrontarsi447; ciononostante,
occorre ora dare conto dei vari tentativi di qualificazione dei contratti derivati – lo si
ribadisce: tutti fondati sull’elemento causale – che si sono avvicendati negli ultimi anni.
4.1. Le funzioni dei contratti derivati e il problema della qualificazione.
Come è stato più volte riferito, i contratti derivati sono stati esaminati per lungo tempo
secondo i parametri della causa in astratto, quindi in una logica fondamentalmente
tipizzante: in tale prospettiva, dottrina e giurisprudenza hanno quindi cercato di
individuare le funzioni più ricorrenti svolte dai contratti in esame.
Muovendo da tale premessa, deve essere innanzitutto segnalato che in dottrina è
affermazione ricorrente quella secondo la quale i derivati finanziari nascono come
operazioni tese a soddisfare esigenze di copertura (hedging), destinate cioè non a creare
de qua: in particolare, secondo Cass., 5 luglio 2004, n. 12289, «la qualificazione del contratto è una
operazione ermeneutica volta ad identificare il modello legale astratto di contratto all’interno del quale
sussumere il contratto in concreto stipulato, al fine di assoggettare quest’ultimo alla disciplina dettata dal
primo; tale operazione strutturalmente si articola in tre fasi, la prima delle quali consiste nella ricerca della
comune volontà dei contraenti, la seconda nella individuazione della fattispecie legale e l’ultima consiste nel
giudizio di rilevanza giuridica qualificante gli elementi di fatto in concreto accertati; le ultime due fasi si
traducono nell’applicazione di norme di diritto e sono come tali sindacabili in sede di legittimità, mentre la
prima fase si traduce in un accertamento in fatto, come tale riservato al giudice di merito e sindacabile in
cassazione solo sotto il profilo del difetto di motivazione o della violazione dei canoni legali di ermeneutica
contrattuale»; v. anche Cass., 22 giugno 2005, n. 13399, che – ispirandosi verosimilmente agli insegnamenti
di BIANCA, nella misura in cui differenzia il momento interprativo da quello qualificatorio in senso stretto –
scinde il procedimento di qualificazione in due fasi, ossia «la prima – consistente nella ricerca e nella
individuazione della comune volontà dei contraenti – è un tipico accertamento di fatto riservato al giudice di
merito, sindacabile in sede di legittimità solo per vizi di motivazione in relazione ai canoni di ermeneutica
contrattuale di cui agli artt. 1362 ss. c.c.; la seconda è quella della qualificazione che procede secondo il
modello della sussunzione, cioè del confronto tra fattispecie contrattuale concreta e tipo astrattamente
definito dalla norma per verificare se la prima corrisponde al secondo».
446
V. Cap. I, passim.
447
Tuttavia, la dottrina più recente ha correttamente rilevato che «se l’individuazione di una funzione
tipica può essere strumento utile nel momento della qualificazione del negozio – che rappresenta il momento
di comprensione da parte dell’ordinamento dell’operazione divisata dalla parti, in quanto consente alle
parti di attribuire all’accordo una disciplina legale – essa si rivela elemento incolore in ordine alla
valutazione degli interessi effettivamente in gioco». N STEFANELLI, La parabola della causa, cit., p. 230.
250
nuovi rischi – situazione che invece sta alla base delle operazioni di trading448 – , bensì a
gestire in modo più efficiente quelli esistenti449.
Anche le varie pronunce giurisprudenziali che negli anni si sono occupate dei derivati
finanziari riflettono tale evoluzione, ossia quella che vede tali contratti in un primo
momento come strumenti di sola copertura, poi anche di speculazione450: così, se in una
prima fase i contratti derivati non hanno sollevato particolari problemi di meritevolezza e/o
liceità – ma anzi ne viene enfatizzata la funzione protettiva e di copertura451 – la
preponderante emersione, in un secondo momento, di derivati impiegati per finalità
essenzialmente speculative ha posto l’interprete nella condizione di dover valutare la
compatibilità di tali operazioni con i principi del nostro ordinamento, stante l’asserita
elevata pericolosità – al confine appunto con la liceità – dei contratti che qui si
esaminano452.
La questione appena descritta si posta con particolare riferimento allo swap453.
Invero, si è già posto in evidenza454 che sotto il profilo economico i suddetti contratti
assolverebbero una unitaria e generica funzione di «sicurezza e garanzia»455, oltre a
448
Quando si parla di funzione speculativa (trading) si fa riferimento, in generale, sia alla speculazione in
senso tecnico, sia all’arbitraggio. Sul punto, v. supra, cap. I, § 2.2.3.
449
T. PADOA SCHIOPPA, I prodotti derivati: profili di pubblico interesse, cit., p. 70; v. anche S. GILOTTA,
In tema di interest rate swap, cit., p. 135: «il contratto di interest rate swap nasce e si sviluppa per far fronte
ad esigenze di copertura da rischi derivanti dalle oscillazioni dei tassi di interesse»; M. COSSU, Domestic
curency swap e disciplina applicabile, cit., p. 168, la quale, trattando di un contratto swap, definisce appunto
«naturale» la funzione di hedging. Sul punto, v. anche quanto si dirà infra.
450
A. PIRAS, Contratti derivati, cit., p. 2225.
451
Ad esempio, in una sentenza in tema di domestic currency swap è stato affermato che «l’attuazione
della finalità essenziale (causa) del contratto» consiste nella «neutralizzazione di un rischio valutario o
finanziario […]. L’impulso speculativo che induce il soggetto a concludere il contratto non fa venir meno in
alcun modo la causa tipica di esso, che resta quella della copertura dei rischi […]. La funzione economico
sociale dei contratti (intesa come neutralizzazione di un rischio valutario o finanziario) è certamente
meritevole di tutela». Trib. Milano, 20 febbraio 1997, in Banca, borsa, tit. cred., 2000, II, p. 91; per una
pronuncia più recente, v. Trib. Torino, 17 gennaio 2014, cit.: «il contratto di swap può essere definito un
contratto nominato, ma atipico in quanto privo di disciplina legislativa (ovvero solo socialmente tipico), a
termine, consensuale, oneroso e aleatorio, contraddistinto per ciò che riguarda l’interest rate swap dallo
scambio a scadenze prefissate dei flussi di cassa prodotti dall’applicazione di diversi parametri ad uno
stesso capitale di riferimento (c.d. nozionale), sicché la funzione del contratto consiste nella copertura di un
rischio mediante un contratto aleatorio, con la finalità di depotenziare le incertezze connesse ai costi dei
finanziamenti oppure, in assenza di un rischio da cui cautelarsi, in una sorta di scommessa che due
operatori contraggono in ordine all’andamento futuro dei tassi di interesse».
452
A. PIRAS, Contratti derivati, cit., p. 2225.
453
In particolare, la dottrina e la giurisprudenza che si sono occupate del profilo causale lo hanno fatto
prevalentemente in relazione allo swap; si ritiene tuttavia di poter estendere le relative considerazioni anche
al future e all’option.
454
V., supra, Cap. I, § 3.3.
251
costituire un’alternativa efficiente rispetto ad altre specie di contratti di investimento nei
mercati finanziari456; da un punto di vista più strettamente giuridico, invece, gli stessi
possono essere impiegati sia come strumenti di copertura, sia a fini meramente
speculativi457.
Strettamente correlata alla identificazione della funzione dello swap – e, più in
generale, dei contratti derivati – appare poi la questione relativa alla sussistenza o meno di
una connessione458 tra il medesimo e il rapporto sottostante (solitamente, un contratto di
mutuo)459.
Al riguardo, in via di prima approssimazione si è accennato460 che il finanziatore (ad
esempio, il mutuante) resta totalmente estraneo al contratto di swap (nella specie, un
interest rate swap), in quanto lo scambio, avente ad oggetto il pagamento del differenziale
in favore di una delle parti, interviene solo tra coloro che concludono il derivato in
questione: lo scambio dei tassi di interesse, pertanto, non produrrebbe alcun effetto diretto
sul contratto di finanziamento che sta a monte dello swap, posto che quest’ultimo trova
appunto attuazione attraverso il mero pagamento, previa liquidazione, del differenziale tra
i tassi d’interesse scambiati461.
Cionondimeno, occorre per altro verso appurare se le vicende attinenti, in senso lato, al
rapporto originario abbiano una qualche rilevanza sul contratto derivato: detto ancor più
chiaramente, si deve verificare se il contratto di finanziamento sottostante abbia una
qualche rilevanza sul contratto di swap solo nei limiti in cui alcuni elementi del primo (ad
esempio, tipologia del tasso d’interesse, ammontare del finanziamento, scadenza di
quest’ultimo, etc.) vengono considerati nell’oggetto del secondo462, oppure se sia
455
Coll. Arb., 19 luglio 1996, in Riv. dir. priv., 1997, p. 570, con nota di G. CAPALDO.
In particolare, alcuni Autori hanno rilevato che i contratti differenziali, in generale, consentono di
ottenere gli stessi risultati, e a costi assai inferiori, di una compravendita a pronti o a termine nei mercati
secondari di titoli, crediti o valute, oltre a svolgere, in subordine, «un’utile funzione di informazione sul
futuro andamento delle loro quotazioni, così aumentandone l’efficienza». D. PREITE, Recenti sviluppi in
tema di contratti differenziali semplici, cit., p. 176.
457
Oltre a rinviare a quanto già detto sul punto nella presente trattazione, passim, v., tra i tanti, E.
FERRERO, Profili civilistici dei nuovi strumenti finanziari, cit., p. 635.
458
Sul punto, v. infra, in questo capitolo.
459
M. C. MALANDRUCCO, Rischio finanziario e contratti di swap, cit., p. 481.
460
Cfr., supra, cap. I, § 3.3.
461
Cfr. supra, cap. I, § 3.3.
462
M. C. MALANDRUCCO, Rischio finanziario e contratti di swap, cit., p. 474; E. FERRERO, Profili
civilistici dei nuovi strumenti finanziari, cit., p. 636. V. anche E. GIRINO, I contratti derivati, (ed. 2001), cit.,
pp. 55 e 109.
456
252
opportuno estendere l’ambito di detta rilevanza sino a ricomprendervi anche la
connessione cui si è genericamente fatto cenno463.
Invero, i profili attinenti alla connessione tra rapporto sottostante e contratto derivato
non sono stati particolarmente approfonditi dalla dottrina464, mentre la giurisprudenza di
merito – anche la più risalente – sembra aver impostato il problema funzionale muovendo
fondamentalmente dall’analisi di tale connessione.
E proprio sulla scorta della suddetta connessione tra rapporto sottostante e contratto
derivato si ritiene possibile individuare verosimilmente tre diversi orientamenti.
In particolare:
− secondo un primo orientamento tale rapporto dovrebbe avere sempre piena
rilevanza giuridica, dovendosi ritenere non meritevoli – se non addirittura nulli – i
contratti derivati nei quali non sia rinvenibile alcuna connessione tra sottostante e
derivato;
− per una seconda tesi, invece, andrebbe esclusa qualsiasi rilevanza di detto rapporto,
cosicché i contratti derivati sarebbero da ritenersi validi e meritevoli di tutela a
prescindere dalla sussistenza di un nesso tra sottostante e contratto derivato;
463
«Si noti come nella pratica, il rapporto tra contratto derivato e operazione di finanziamento sia
sempre particolarmente sfumato, quantomeno da un punto di vista giuridico. Nonostante il collegamento
economico, cioè, non si può parlare, sul piano giuridico, di vera e propria accessorietà del derivato rispetto
al sottostante: l'analisi dei modelli più diffusi nella prassi mostra come spesso siano le stesse parti ad
escludere il collegamento tra i due contratti». A. PARZIALE, Interest rate swap, cit.
464
Invero, si tratta, come si vedrà, di un punto tutt’altro che pacifico. In particolare, alcuni autori hanno
rilevato che «l’intrinseca connessione tra i due contratti» – ossia quello di finanziamento e lo swap – «non
rappresenta peraltro un dato meramente descrittivo o strutturale della fattispecie, ma ne pone in evidenza un
aspetto di disciplina. I contratti di swap hanno infatti ragione di esistere in quanto finalizzati a evitare gli
effetti negativi delle eventuali oscillazioni dei rapporti di cambio e dei tassi di interesse sugli oneri derivanti
dal contratto di finanziamento, per cui rispondono all’esigenza di realizzare un globale disegno finanziario
ed economico […]; perciò, le eventuali vicende del finanziamento si trasferiscono anche sui contratti di
swap a esso eventualmente collegati, così che se viene meno il contratto di finanziamento, e quindi la
ragione dell’amministrazione dei rischi a questo connessi, allora il contratto di swap resta privo di alcuna
quantificazione»; altri autori, invece, hanno sostenuto che «referente funzionale dello swap è la situazione di
rischio d’interesse correlata e parametrata alla struttura dell’esposizione debitoria […] che, per quanto in
ultima analisi generato da contratti, con questi non si identifica né agli stessi è riducibile, appartenendo ad
una dimensione estranea e trasversale rispetto al piano giuridico-negoziale». Per la prima posizione, M. C.
MALANDRUCCO, Rischio finanziario e contratti di swap, cit., pp. 481 e 482; per la seconda tesi, S. GILOTTA,
In tema di interest rate swap, cit., p. 139. Più di recente, v. G. DE NOVA, Il contratto. Dal contratto atipico al
contratto alieno, cit., pp. 62 ss., il quale tra le altre cose rileva che «non sussiste collegamento, perché di
collegamento tra contratti si può parlare in senso tecnico solo tra contratti entrambi in vigore. Se mai si
pone il problema, delicato ed importante, se la causa in concreto del secondo contratto possa risentire del
contratto precedente».
253
− infine, per una impostazione intermedia, il nesso tra il sottostante e il derivato
fungerebbe da criterio per ricondurre il contratto derivato, tramite la qualificazione
della sua funzione, o nella fattispecie tipica dell’assicurazione – quando detto nesso
sussiste – o in quella della scommessa azionabile – quando non è possibile
ravvisare alcun legame tra il rapporto sottostante e il contratto derivato; tuttavia, in
quest’ultimo caso – ferma comunque restando l’astratta meritevolezza del derivato
– il contratto potrebbe risultare nullo per mancanza di causa in concreto,
allorquando in sede interpretativa dovesse emergere una discrasia funzionale tra
l’interesse effettivamente perseguito dalle parti e l’attitudine del concreto contratto
a realizzarlo.
Prima di esaminare partitamente le tesi appena menzionate, occorre sin d’ora segnalare
che le prime due sembrano muoversi nella prospettiva tipizzante della causa in astratto,
nella misura in cui pretendono di assegnare ex ante una funzione – sia essa di garanzia o di
mero scambio – ai contratti derivati.
Invero, come verrà meglio illustrato infra, anche la terza impostazione non pare
affrancarsi completamente da questa logica, laddove la causa della concreta operazione
atipica viene comunque ricondotta in una fattispecie tipica465.
In ogni caso, in tale modo di procedere, comune appunto a tutti e tre gli orientamenti
appena individuati, sarebbe immanente un’aporia: da un punto di vista logico-sistematico,
infatti, assegnare aprioristicamente una funzione tipica al contratto concretamente posto in
essere, risulta – in difetto, lo si ribadisce, di un modello astratto di derivato finanziario – in
linea di massima arbitrario466.
465
«La qualificazione del contratto è principalmente quella che lo assegna ad un determinato tipo
contrattuale. Questa qualificazione procede in base alla causa concreta del contratto»: C. M. BIANCA, Il
contratto, cit., p. 473.
466
Ad esempio, per quanto riguarda la seconda tesi, v. la pronuncia del Trib. Milano, 20 febbraio 1997,
cit., la quale, sul presupposto che lo swap sarebbe nato nella prassi con il precipuo scopo di «assicurare agli
imprenditori che operano in “dare” e in “avere” con l’estero la possibilità di coprirsi anticipatamente con i
rischi connessi alle variazioni dei cambi e di tenerli sotto controllo», pretende di individuare la funzione
tipica di detto contratto in quella di garanzia, laddove la speculazione sarebbe un mero «impulso» soggettivo
delle parti: più esattamente, «l’impulso speculativo che induce il soggetto concludere il contratto non fa
venir meno in alcun modo la causa tipica di esso, che resta quella della copertura dei rischi di cambio: se,
da una parte, ci può essere uno speculatore, dall’altra parte, ci potrà essere probabilmente un altro
speculatore; certamente, dietro all’incrociarsi delle singole contrattazioni, si troverà, alla fine, un operatore
economico che si vuole coprire dai rischi di cambio e che non potrebbe, in concreto, farlo se non vi fossero,
appunto, degli speculatori che, per speranza di guadagno, sono disponibili ad assumere in proprio i rischi
che l’imprenditore intende evitare». Per quanto invece riguarda la terza impostazione, cfr. Trib. Lucera, 26
aprile 2012, secondo cui gli swap sarebbero «contratti che svolgono una funzione non meramente
254
4.1.1. La tesi soggettiva: il derivato come contratto «naturalmente» di
copertura suscettibile di essere alterato in senso speculativo.
Orbene, secondo la prima delle tesi sopra elencate, tra il rapporto sottostante e il
contratto derivato dovrebbe sempre sussistere un nesso avente piena rilevanza giuridica,
affinché il derivato medesimo possa esser ritenuto valido467 e meritevole di tutela468.
In altri termini, i contratti derivati assolverebbero, di norma469, una funzione di
copertura, la quale presupporrebbe sempre un collegamento funzionale con il rapporto
speculativa ma assicurativa (“hedging”), cioè di copertura»), nonché la sentenza del Trib. Lanciano, 6
dicembre 2005, cit., secondo la quale l’Interest Rate Swap sarebbe «una forma di assicurazione, che il
cliente stipula, per coprirsi dal rischio che un eccessivo rialzo dei tassi incida troppo sul mutuo esistente,
costringendolo a pagare interessi troppo elevati e da lui non sopportabili».
467
Al riguardo, v. la critica di E. GIRINO, Le radici negoziali dello strumento finanziario derivato: per
una rilevanza della disciplina in chiave contrattualistica, in Informazione e trasparenza nei contratti
asimmetrici bancari, finanziari e assicurativi e diritti del consumatore europeo, a cura di O. M. Calliano,
Milano, 2013, p. 85:«la nullità o meno di un derivato non può naturalmente essere desunta dal fine per il
quale il derivato è stato stipulato: l’assenza del rapporto di correlazione, quindi, può determinare la nullità
del contratto solo se una norma ad hoc commini la nullità, ovvero potrà determinare un inadempimento del
contratto solo se l’anteriore pattuizione aveva un contenuto preclusivo. Ma dire, come si è sentito dire e
visto scrivere, che il derivato, in quanto speculativo, sarebbe di per sé nullo è un assunto inconfutabilmente
contrario all’ordinamento positivo».
468
Cfr. E. GIRINO, I contratti derivati, cit., pp. 244-245: «l’assenza di una connessione esplicita del
contratto con reali e preesistenti posizioni di rischio e la possibilità che simili posizioni neppure esistessero
suggeriva di rinvenire nel derivato senza titolo sottostante una forte similitudine con il contratto
differenziale semplice a sua volta ricondotto, da parte della dottrina anteriore, alla fattispecie del gioco e
della scommessa: con il conseguente, catastrofico effetto di ritenere applicabile allo swap l’art. 1933 c.c. e
con esso negare alla parte creditrice il diritto all’azione giudiziari. Nella sostanza, il meccano
argomentativo muoveva dalla constatazione che nel domestic currency swap non esisterebbe alcuna reale
corrispettività. Le parti non mutuano un capitale, individuano un importo di riferimento (capitale
convenzionale) quale puro parametro di calcolo e l’obbligazione di pagare può gravare in capo all’una o
all’altra in funzione semplicemente dell’andamento di un indicatore esterno (il corso della divisa), soggetto
a variabili che sfuggono alla volontà delle parti. Il rischio non preesisterebbe affatto alla stipula
dell’accordo (come preesiste ad esempio rispetto alla stipula di un contratto assicurativo), bensì verrebbe
artificiosamente creato dalle parti con la stipula dell’accordo medesimo. Ergo: il contratto non sarebbe
altro che una scommessa. Da siffatta, profondamente errata, premessa, la dottrina elaborò dapprima un
distinguo, giungendo ad affermare – sia pur implicitamente – la configurabilità di due categorie di swap:
l’una comprendente i contratti finalizzati all’effettiva copertura dei rischi di cambio, come tali causalmente
giustificati e quindi leciti; l’altra comprendente i contratti privi di tale finalità, stipulati per intenti
puramente speculativi, causalmente ingiustificati e dunque assimilati alla scommessa con conseguente
diniego di tutela giudiziaria».
469
N. SQUILLACE, La legge 2 gennaio 1991, n. 1, e i contratti di swap, in Giur. comm., 1996, II, p. 87:
«con i contratti di swap i contraenti perseguono, normalmente, il fine di coprire un rischio (di cambio o di
fluttuazione di tassi di interesse) nascente da un rapporto di debito/credito in modo da contenerlo entro
limiti prestabiliti; cionondimeno, gli stessi possono essere conclusi anche a fini meramente speculativi
qualora non siano correlati con alcun rapporto sottostante del o dei contraenti (non è necessario, infatti, che
l’intento di copertura di un rischio sia comune ad entrambe le parti)»; nello stesso senso A. PERRONE,
255
sottostante470; in assenza di tale collegamento, la funzione asseritamente normale dello
swap subirebbe un’alterazione in senso speculativo, sicché ben potrebbe trovare
applicazione l’eccezione di gioco ex art. 1933 c.c.471.
Giova subito precisare che tale impostazione è rinvenibile in alcune pronunce di merito
intervenute nella prima metà degli anni novanta472, quando cioè non era ancora entrato in
Contratti di swap con finalità speculativa ed eccezione di gioco, nota a Trib. Milano, 24 novembre 1993 e 26
maggio 1994, in Banca, borsa, tit. cred., 1995, II, p. 84, secondo il quale «i domestic currency swap e i
commodity swaps risultano nella pratica normalmente diretti alla copertura dei rischi derivanti dalla
fluttuazione di cambi e dei pressi delle materie prime; in linea teorica anche tali contratti possono tuttavia
consentire operazioni di mera speculazione»; v. anche supra, in questo capitolo.
470
È verosimile che alla base di tale impostazione vi sia la sovrapposizione tra la nozione di «copertura»
e quella di «garanzia». Invero, il concetto di garanzia «implica, innanzitutto, una relazione di profonda
dipendenza genetica dell’obbligazione di garanzia nei confronti dell’obbligazione principale garantita […].
La causa cavendi, infatti, presuppone un collegamento negoziale di accessorietà tra l’obbligazione di
garanzia e l’obbligazione principale»: in questi termini, E. DAMIANI, Contratto di assicurazione e
prestazione di sicurezza, cit., pp. 167-167; sul punto v. anche P. CORRIAS, Garanzia pura e contratti di
rischio, cit., p. 408, il quale rileva che la causa cavendi, in ambito fideiussorio, «viene concretamente
realizzata tramite la connessione che la legge instaura tra l’obbligazione originaria e la situazione
soggettiva del fideiussore». Sulla questione, v. anche supra, cap. I, § 4, nella parte in cui vengono illustrate le
differenze tra i derivati hedging e il contratto di assicurazione.
471
G. CAPALDO, Contratto di swap e gioco, nota a Coll. Arb., 19 luglio 1996, in Riv. dir. priv., 1997, pp.
591-592; v. anche M. ANGERETTI, Swap transactions ed eccezione di gioco, cit., p. 53, secondo il quale «la
stipulazione di un contratto di swap per fini speculativi può integrare i caratteri tipici della scommessa
laddove il differenziale a credito non rappresenti più l’eliminazione del rischio, o uno strumento di gestione
finanziaria, ma diventi l’unico fine-speranza dei contraenti».
472
Il riferimento è a due ordinanza pronunciate dal Tribunale di Milano. In particolare, con una
(pronunciata il 24 novembre 1993) è stata rigettata un’istanza di ingiunzione di pagamento di somme non
contestate (art. 186-ter c.p.c.) avanzata da un istituto di credito convenuto in giudizio sulla base delle
seguenti motivazioni: «[l’attore] afferma che le operazioni di swap non erano finalizzate a coprire i rischi
delle oscillazioni dei cambi inerenti ad affari commerciali con soggetti stranieri, trattandosi di operazioni
meramente speculative; [l’istituto di credito convenuto] ammette che il contratto quadro ed i singoli contratti
di swap sono stati conclusi [da parte attrice] per mera finalità speculativa; ritenuto che pertanto non possa
essere accolta l’istanza […] d’ingiunzione di pagamento del residuo credito alla luce dell’eccezione
formulata [dall’attore] a norma dell’art. 1933 c.c., in quanto allo stato si deve escludere che le operazioni di
swap fossero obbiettivamente finalizzate ad assicurare al cliente la copertura od il controllo di rischi
connessi alla variazione dei cambi rispetto ad obbligazioni sottostanti; respinge l’istanza di ingiunzione di
pagamento proposta dalla convenuta»; con un’altra (pronunciata in data 26 maggio 1994) è stato respinto un
ricorso per sequestro conservativo sulla base delle seguenti argomentazioni: «[la società debitrice] si è
opposta all’accoglimento del ricorso, deducendo la nullità del contratto per difetto di causa o per non
meritevolezza di tutela ex art. 1322, 2° comma, c.c., e, comunque, ha eccepito la “non azionabilità della
pretesa ex art. 1933 c.c.” […]. È peraltro pacifico che il contratto in esame non è collegato all’esistenza di
obbligazioni della [creditrice] nei confronti di terzi, come obbligazioni inerenti a mutui o più in generale a
finanziamenti. Lo swap stipulato dalle parti, quindi, stabilisce il regolamento dell’incidenza delle variazioni
dei tassi di interesse nella sfera patrimoniale del cliente, con fini meramente speculativi. Vale a dire, si deve
escludere che lo swap [in oggetto] sia finalizzato all’esigenza di coprire concreti rischi d’impresa dipendenti
dalle variazioni nel tempo del tasso degli interessi, considerato che l’operatività del contratto prescinde
dall’effettiva esistenza di obbligazioni (per mutui o finanziamenti) della [creditrice] verso terzi […]. Da ciò
256
vigore l’art. 18, comma 4, del d.lgs. 23 luglio 1996, n. 415 («recepimento della direttiva
93/22/CEE del 10 maggio 1993 relativa ai servizi di investimento del settore dei valori
mobiliari e della direttiva 93/6/CEE del 15 marzo 1993 relativa all'adeguatezza
patrimoniale delle imprese di investimento e degli enti creditizi», noto anche come
“decreto EUROSIM”), con il quale è stato espressamente473 previsto che «nell'ambito della
prestazione di un servizio di investimento, agli strumenti finanziari derivati nonché a
quelli analoghi individuati ai sensi dell'art. 2, comma 3, non si applica l'art. 1933 del
codice civile»474.
Rispetto alla norma appena citata, deve essere ulteriormente segnalato che la dottrina
ne ha apprezzato principalmente gli effetti pratici – consistenti nella piena tutelabilità dei
rapporti originati dai contratti derivati, conseguente appunto all’inapplicabilità
dell’eccezione di gioco ai medesimi –, trascurandone però inspiegabilmente i suoi
importanti riflessi sistematici: l’articolo sopraccitato, infatti, ha riguardo ai soli derivati
negoziati «nell'ambito della prestazione di un servizio di investimento», lasciando quindi
aperta la questione della applicabilità dell’eccezione di gioco per i contratti stipulati fuori
discende che il contratto in esame non corrisponde obbiettivamente ed in concreto ad una causa che
giustifichi la piena tutela delle ragioni di credito, dovendosi piuttosto qualificare come ipotesi di
“scommessa” non azionabile ex art. 1933 c.c. Invero, le parti si sono assoggettate all’alea delle variazioni
del tasso degli interessi non per la necessità di coprire effettivi rischi d’impresa, ma solo per collegare
l’attribuzione di un vantaggio patrimoniale (lucro) alla sorte (cioè appunto all’alea del corso degli
interessi). È appena il caso di sottolineare, poi, come la conclusione non contrasti con l’orientamento
dottrinale favorevole a riconoscere piena tutela al contratto di swap, considerato che il giudizio espresso in
questa sede non esclude la configurabilità di contratti di swap che (diversamente da quello in esame)
assolvono una funzione di sicurezza e di garanzia economica, perché collegati con effettivi rapporti
obbligatori (di prestito o di import/export) sottostanti). Per quanto detto è infondata la pretesa della
[creditrice] di ottenere dalla [debitrice] il pagamento della somma indicata, a fronte dell’eccezione sollevata
dalla resistente ex art. 1933 cod. civ.».
473
Prima dell’entrata in vigore della suddetta norma era tutt’altro che pacifico che l’inapplicabilità
dell’eccezione di gioco valesse anche per i contratti derivati: l’art. 23, comma 4, della L. 2 gennaio 1991, n. 1
(«Disciplina dell'attività di intermediazione mobiliare e disposizioni sull'organizzazione dei mercati
mobiliari»), infatti, escludeva espressamente l’applicabilità dell'art. 1933 c.c. per i soli «contratti indicati nel
comma 1», ossia per i «contratti uniformi a termine su strumenti finanziari collegati a valori mobiliari
quotati nei mercati regolamentari, tassi di interesse e valute, ivi compresi, quelli aventi ad oggetto indici su
tali valori mobiliari, tassi di interesse e valute». La questione verrà ripresa e approfondita nel prosieguo: in
questa sede, è appena il caso di rilevare che la norma appena menzionata fa esplicito riferimento a «contratti
uniformi», mentre all’epoca, proprio con riferimento allo swap, «nonostante il crescente volume del mercato,
nel nostro Paese risultano mancare l’uniformità del modello negoziale e la libera trasferibilità del
contratto»: così A. PERRONE, Contratti di swap con finalità speculativa ed eccezione di gioco, cit., p. 88.
474
Com’è noto, tale norma è oggi contenuta nell’art. 23, comma 5, tuf («nell'ambito della prestazione dei
servizi e attività di investimento, agli strumenti finanziari derivati nonché a quelli analoghi individuati ai
sensi dell'articolo 18, comma 5, lettera a), non si applica l'articolo 1933 del codice civile»), sul quale ci si
soffermerà diffusamente infra.
257
dal suddetto ambito e, a monte, quella più generale della loro qualificabilità in termini di
scommessa.
Così, sin dall’entrata in vigore dell’art. 18, comma 4, d.lgs. 23 luglio 1996, n. 415
(oggi trasfuso nell’art. 23, comma 5, tuf) è stato costantemente – e apoditticamente –
affermato che l’art. 1933 c.c. non si applica ai contratti derivati perché così «è stato
espressamente formulato dal legislatore», sul presupposto che «è ben diverso lo scopo di
chi intende migliorare i risultati di operazioni sostanzialmente di cambio […] da chi si
affida alla mera alea per lucrare “speculativamente”, e cioè rimettendosi alla sorte,
partecipando a giochi d’azzardo e di scommesse»475.
Invero, detta norma pone l’interprete innanzi a una preliminare questione
particolarmente complessa, dalla soluzione della quale discendono importanti conseguenze
proprio in tema di qualificazione: ci si riferisce al problema della identificazione degli
eventuali «“caratteri comuni” degli strumenti finanziari derivati che hanno indotto il
legislatore a richiamare, per renderla inapplicabile a tale fattispecie, la disciplina di
“gioco e scommessa”»476.
Tale punto verrà ripreso e approfondito nei paragrafi successivi; in questa sede deve
invece essere rilevato che la tesi qui esaminata sovrastima la connessione tra sottostante e
derivato.
Più esattamente, ritenere che la presenza di detta connessione sia una caratteristica
tipizzante dei contratti derivati477 non corrisponde a quanto effettivamente avviene nella
prassi: si è infatti avuto modo di appurare più volte che «l'analisi dei modelli più diffusi
nella prassi mostra come spesso siano le stesse parti ad escludere il collegamento tra i
due contratti»478.
Peraltro, pur in assenza di un connessione obbiettivata nel contratto, la qualificazione
del medesimo non dovrebbe comunque essere condotta sulla base della mera volontà dei
contraenti: al riguardo, oltre a quanto già segnalato in ordine ai profili di instabilità e
475
In questi termini, Coll. Arb., 19 luglio 1996, cit., p. 584; tra i tanti, v. anche R. AGOSTINELLI, Le
operazioni di swap, cit., p. 120, secondo il quale «il contratto di scommessa “verte” su un gioco […]. Nello
swap, l’elemento ludico necessario per poter parlare di scommessa, manca assolutamente».
476
E. BARCELLONA, Contratti derivati puramente speculativi, cit., p. 112.
477
V. Trib. Milano, 26 maggio 1994, cit., secondo la quale «si deve escludere che lo swap [in oggetto] sia
finalizzato all’esigenza di coprire concreti rischi d’impresa dipendenti dalle variazioni nel tempo del tasso
degli interessi, considerato che l’operatività del contratto prescinde dall’effettiva esistenza di obbligazioni
(per mutui o finanziamenti) della [creditrice] verso terzi […]. Da ciò discende che il contratto in esame [si
deve] qualificare come ipotesi di “scommessa” non azionabile».
478
A. PARZIALE, Interest rate swap, cit.; v. anche E. GIRINO, I contratti derivati, cit., p. 16, nonché supra,
passim.
258
incertezza insiti nella costruzione della causa secondo parametri esclusivamente
soggettivi479, giova ribadire che la ricerca della comune volontà delle parti attiene alla fase
meramente interpretativa del contratto, laddove il momento della qualificazione in senso
stretto impone di individuare anche gli elementi di fatto che caratterizzerebbero la
fattispecie concreta480.
4.1.2. La tesi oggettiva: i derivati come contratti sinallagmatici.
L’irrilevanza della funzione.
La seconda delle tesi sopraccitate, di origine dottrinale, sostiene invece che andrebbe
esclusa qualsiasi rilevanza al rapporto tra sottostante e derivato.
In particolare, detta impostazione muove dal presupposto per cui lo swap sarebbe un
contratto sinallagmatico – dato che le parti si obbligano reciprocamente a scambiarsi un
differenziale481 – ; e nei contratti sinallagmatici, in generale, la causa dell’obbligazione di
una parte andrebbe individuata nell’obbligazione dell’altra482.
In linea di principio, ciò rappresenta un dato utile al solo fine di ricostruire la struttura
della causa del contratto, ma nulla direbbe circa la sua effettiva consistenza483;
cionondimeno, sempre secondo la tesi in questione sarebbe superfluo andare a cercare la
479
V. supra, in questo capitolo; cfr. inoltre la sopraccitata pronuncia del Tribunale di Milano del 24
novembre 1993, la quale rinviene nel contratto una funzione speculativa sulla base delle mere dichiarazioni
delle parti: «[l’attore] afferma che le operazioni di swap non erano finalizzate a coprire i rischi delle
oscillazioni dei cambi inerenti ad affari commerciali con soggetti stranieri, trattandosi di operazioni
meramente speculative; [l’istituto di credito convenuto] ammette che il contratto quadro ed i singoli contratti
di swap sono stati conclusi [da parte attrice] per mera finalità speculativa ».
480
V. supra, in questo capitolo.
481
F. CAPUTO NASSETTI, Profili civilistici, cit., p. 70; ID., Profili legali degli interest rate swaps e degli
interest rate and currency swaps, in Il dir. del comm. internazionale, 1992, p. 80; ID., Un salto indietro di
trent’anni, cit., p. 296; B. INZITARI, Swap (contratto di), cit., p. 601; R. AGOSTINELLI, Le operazioni di swap,
cit., p. 121. Pare aderire a tale impostazione anche Trib. Milano, 20 febbraio 1997, cit., p. 90.
482
A. DI MAJO, Causa del negozio giuridico, cit., p. 2; v. anche V. ROPPO, Il contratto, cit., pp. 417-418,
il quale definisce la «classe dei contratti con prestazioni corrispettive (o di scambio, o sinallagmatici,)»
come «quelli in cui la prestazione di una parte è scambiata con la prestazione dell’altra (controprestazione).
Le due prestazioni sono in rapporto di reciprocità, nel senso che ciascuna è fatta in ragione dell’altra, per
contraccambiarla; e in rapporto d’interdipendenza, nel senso che ciascuna si regge sull’altra. La causa dei
contratti sinallagmatici è dunque lo scambio giuridico fra le prestazioni: i problemi che colpiscono una
prestazione, colpendo un termine dello scambio, colpiscono per ciò stesso, direttamente, la causa del
contratto».
483
«Una generica funzione di scambio non può infatti giovare ad indicare una specifica causa, essendo,
perlomeno, comune a diverse categorie di negozi». R. ROLLI, Causa in astratto e causa in concreto, cit., p. 5.
259
causa dei derivati (nella specie, dello swap) al di là del mero scambio posto concretamente
in essere dalle parti484.
Più esattamente, secondo questa teoria lo swap – ma il discorso varrebbe anche per gli
altri contratti derivati – avrebbe una propria causa tipica di scambio, che deriva ma al
contempo prescinde da qualsivoglia collegamento con il contratto di finanziamento a
monte485.
In particolare, dalla totale irrilevanza del collegamento tra sottostante e derivato
discende che la causa dello swap risiederebbe nello «scambio in sé», dovendosi ritenere
esclusa qualsiasi valenza qualificatoria alla funzione, sia essa speculativa o di copertura486;
e ciò proprio sul presupposto che «la variazione dei tassi di cambio e di interesse, pur
incidendo genericamente sulla reciproca posizione dei contraenti, non riesce tuttavia a
484
«Il meccanismo della determinazione delle prestazioni delle parti si può esaurire al momento della
conclusione del contratto. Si può, pertanto, affermare che scopo tipico immanente (cioè la causa) del
contratto di swap è lo scambio di pagamenti, il cui ammontare è determinato sulla base di parametri di
riferimento diversi […]. Si ritiene che sia necessaria anche una indagine sulla c.d. causa concreta, ossia la
realtà viva di ogni singolo contratto e cioè gli interessi reali che di volta in volta il contratto è diretto a
realizzare al di là del modello tipico adoperato. Ciò non significa, peraltro, che i motivi individuali, che
rimangono nella sfera individuale di ciascuna parte, rientrano nella causa del contratto. La causa concreta
del contratto di swap in esame può specificarsi nello scambio di pagamenti destinato alla gestione del
rischio finanziario. Questa funzione tipica si attua attraverso i parametri di riferimento che determinano le
prestazioni […]. Lo scopo perseguito dalle parti, infatti, appartiene generalmente ad una delle seguenti
ipotesi: lo swap è utilizzato al fine di proteggersi da una variazione dei tassi di interesse e/o di cambio
oppure lo swap è utilizzato per speculare su tali variazioni. Entrambe le parti possono usarlo come
copertura dei rischi suddetti o per speculare avendo vedute opposte sull’andamento dei tassi, oppure una
parte specula e l’altra contemporaneamente cerca protezione. Il motivo, sia esso di copertura, speculazione,
arbitraggio, ecc., non incide sul tipo contrattuale né sulla sua causa, rimanendo indifferente rispetto alla
struttura negoziale». F. CAPUTO NASSETTI, Un salto indietro di trent’anni, cit., pp. 292-293.
485
V., ad esempio, Trib. Milano, 20 febbraio 1997, cit., p. 90, secondo cui «per meglio inquadrare la
materia del contendere, stante la carenza di precedenti specifici in materia, occorre preliminarmente
richiamare la funzione che lo swap assolve nella prassi dei mercati finanziari in cui funge quale valore di
scambio: lo swap, infatti, si delinea come una convenzione tra due parti che si obbligano reciprocamente a
corrispondere, alla scadenza di un termine prefissato, una somma di denaro in moneta nazionale di
ammontare pari alla differenza tra il valore in lire di una somma in valuta estera, al tempo della conclusione
del contratto, e il valore in lire della stessa somma di valuta estera, a scadenza predeterminata. Da questa
definizione, pertanto, esula ogni riferimento a una causa ulteriore e, in particolare, a un necessario
collegamento tra l’operazione finanziaria e un contratto commerciale internazionale».
486
Copertura, speculazione e arbitraggio non sarebbero, secondo questa impostazione, funzioni, ma
piuttosto motivi (o scopi individuali); e «il motivo, sia esso di copertura, speculazione, arbitraggio, ecc., non
incide sul tipo contrattuale né sulla sua causa, rimanendo indifferente rispetto alla struttura negoziale». F.
CAPUTO NASSETTI, Un salto indietro di trent’anni, cit., p. 293.
260
penetrare nella struttura del contratto, ossia non partecipa allo scambio operato dalle
parti»487.
In definitiva, per la tesi che ora si esamina gli swap sarebbero contratti di mero
scambio commutativo, e non aleatorio488, in relazione ai quali non assumerebbero alcuna
rilevanza le funzioni in concreto perseguite dalle parti.
Inoltre, sempre secondo l’impostazione in discorso, pur dovendosi classificare il
contratto come «commutativo», non si porrebbero comunque questioni rispetto alla
possibilità di esperire il rimedio della risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta ex
art. 1467 c.c., nel senso che il medesimo non sarebbe comunque applicabile «perché la
variazione dei tassi di interesse o di cambio non può considerarsi un avvenimento
straordinario e nel contempo imprevedibile. Anzi è proprio la variabilità degli stessi che
sta a monte della causa negoziale e che giustifica lo scambio delle obbligazioni di
pagamento determinate o determinabili in base a tali parametri»489.
Invero, non può sfuggire come nella tesi in esame sia immanente un’evidente
contraddizione: per un verso, infatti, si sostiene che la variabilità dei tassi (d’interesse o di
cambio) «sta a monte della causa negoziale» e «giustifica lo scambio» in sé, laddove per
altro verso viene affermato che la medesima variabilità «non riesce tuttavia a penetrare
nella struttura del contratto, ossia non partecipa allo scambio operato dalle parti»490.
487
In questi termini, F. CAPUTO NASSETTI, Un salto indietro di trent’anni, cit., p. 293, il quale precisa
ulteriormente quanto segue: «le prestazioni delle parti sono determinate all’inizio del contratto ed ogni parte
conosce quali vantaggi otterrà dalla stipula del contratto e quali sacrifici ciò comporti. Chiaramente non
manca un fattore di incertezza economica e l’utile finale dipenderà da circostanze future, ma ciò è comune
ad ogni altro contratto a termine. È sufficiente rilevare che la dottrina prevalente configura l’alea nei
contratti aleatori tipici come un momento essenziale del sinallagma che lo condiziona ab initio. L’alea
normale del contratto si caratterizza, invece, essenzialmente quale momento esterno alle determinazioni
poste in essere dalle parti per dare una concreta realizzazione al loro assetto di interessi perché, a seguito
della presenza di un simile tipo di alea, non si produce una vera e propria trasformazione in senso causale
del negozio. Sostenere che lo scambio dei rischi sia la causa del contratto di swap significa svilire la vera
causa del contratto facendo assurgere quella che è l’alea normale ad elemento causale della fattispecie».
488
Sul punto, v. anche supra, in questo capitolo.
489
F. CAPUTO NASSETTI, Un salto indietro di trent’anni, cit., p. 298.
490
Oltre a ciò, v. anche E. BARCELLONA, Contratti derivati puramente speculativi, cit., p. 141, il quale
critica apertamente la tesi in esame con le seguenti argomentazioni: «affermare che lo “scambio in sé”
costituisca ex se causa lecita equivale, implicitamente, a leggere abrogativamente la norma (imperativa!)
sulla “causa”. Non v’è, invero, alcun contratto del quale possa affermarsi il difetto di uno “scambio in sé”.
Si badi bene: se lo scambio in sé costituisse davvero ex se causa lecita, allora, anche gioco e scommessa –
dei quali, certamente, ben potrebbe dirsi che poggiano su una logica di “scambio in sé” – sarebbero dotati
di una simile causa, e non si comprenderebbe allora in alcun modo la diversa scelta del legislatore. La tesi
del cd. “sinallagma puro” si scontra, insomma, con la circostanza (che pare francamente incontestabile)
che l’ordinamento non protegge affatto qualsivoglia sinallagma (inteso come mero scambio di vincoli
261
A prescindere da ciò, tale teoria non sarebbe condivisibile al pari di quella che
attribuisce sempre rilevanza al collegamento tra sottostante e derivato: infatti, entrambe le
tesi sin qui richiamate – pur approdando a conclusioni totalmente differenti – muovono dal
medesimo presupposto logico, ossia l’adesione – più o meno dichiarata – alla teoria della
causa astratta.
In particolare, la prima tesi esaminata – come si è visto – sovrastima la connessione tra
sottostante e derivato, in quanto considera la presenza di detta connessione – comunque
rimessa alla mera volontà delle parti – una caratteristica tipizzante dei contratti derivati491.
La seconda tesi appare invece criticabile nella misura in cui – al contrario di quella
appena richiamata – riconduce la funzione concretamente perseguita dalle parti
nell’ambito dei motivi individuali, respingendone quindi qualsiasi rilevanza492: da ciò
discenderebbe l’inutilità di qualsiasi indagine sulla sussistenza o meno di una connessione
tra sottostante e derivato.
Tuttavia, si è già segnalato come pure una qualificazione che prescinda totalmente
dagli interessi concretamente perseguiti dalle parti si riveli in ogni caso falsa493: in
particolare, detta impostazione – come tutte le operazioni di ermeneusi ispirate al metodo
dell’astrazione pura – si rivela fallace nella misura in cui omette di considerare una
porzione della situazione fattuale da cui trae origine il negozio.
reciproci), bensì il solo sinallagma dotato di “causa”. La tesi del fondamento causale dello “scambio in sé”
finisce, pertanto, con il risultare un mero (arbitrario) espediente retorico per sottrarsi ad una verifica di
meritevolezza di tutela – a torto o a ragione, ancor oggi – richiesta dal legislatore».
491
V. supra, in questo stesso capitolo.
492
«Entrambe le parti hanno un interesse economico alla conclusione del contratto e cioè sanno che —
comunque vadano le cose — hanno ottenuto il valore positivo che volevano raggiungere, valore che consiste
nello stesso scambio. Se una parte ha contratto allo scopo di proteggersi dalla variazione dei tassi di
interesse e/o di cambio la protezione rimane, indipendentemente dal fatto che se non la avesse fatta si
sarebbe trovata in una posizione migliore. In altre parole se non fosse stata prudente nel proteggersi
avrebbe guadagnato di più. Se una parte ha contratto con l’aspettativa che ciò che si impegna a pagare avrà
in futuro un valore economico inferiore a ciò che riceve a nulla rileva il successivo evolversi dei prezzi se
non ai fini economici personali del soggetto contraente. Se una parte specula attraverso lo swap e l’altra,
invece, non specula, non si vede perché lo scopo di una soltanto delle parti debba essere tale da definire il
contratto come aleatorio […]. Lo scopo perseguito dalle parti — sia esso di protezione o di speculazione —
viene soddisfatto attraverso lo scambio in sé. È ben noto che i moventi subiettivi e psicologici, che abbiano
spinto le parti a stipulare un accordo contrattuale, non si identificano col requisito essenziale della causa di
esso e non hanno, di regola, rilevanza giuridica […]. Descrivere il fenomeno a partire dagli scopi delle parti
non consente di cogliere la costante di tali operazioni e ne pregiudica la ricostruzione da un punto di vista
unitario […]. Il contratto esaurisce la sua funzione con lo scambio dei flussi di pagamento e la causa tipica
immanente che caratterizza questo contratto è appunto lo scambio dei pagamenti, che di per sé ha ragion
d’essere ed ha una sua positiva funzione sociale». F. CAPUTO NASSETTI, Un salto indietro di trent’anni, cit.,
p. 296.
493
V., supra, in questo capitolo, passim.
262
Invero, per individuare la funzione del contratto – di qualsiasi contratto – non si
dovrebbe comunque prescindere dagli interessi concretamente perseguiti dalle parti494: vi è
infatti una stretta correlazione tra l’interesse economico sottostante e lo strumento tecnicogiuridico prescelto dalle parti per soddisfarlo495.
494
Al riguardo, v. anche Cass., 16 aprile 2007, n. 9088: «agli effetti della qualificazione del contratto,
infatti, è necessario ricostruire gli interessi comuni e personali, che le parti avevano inteso regolare con il
negozio».
495
Cfr. G. BOZZI, La fideiussione in generale, in Trattato di diritto privato, diretto da P. Rescigno, XIII,
Torino, 1982, p. 216. A conferma di ciò, si pensi a quanto è ad esempio accaduto rispetto al contratto
autonomo di garanzia, che, com’è noto, si differenzia dalla fideiussione proprio per l’assenza di accessorietà,
ossia per essere il primo – a differenza della seconda – svincolato dal rapporto garantito: solo di recente la
dottrina e la giurisprudenza lo hanno ritenuto generalmente ammissibile, non senza però aver previamente
abbandonato la tesi della causa in astratto in favore di quella della causa in concreto. Al riguardo, v. E. LA
ROSA, Percorsi della causa nel sistema, cit., pp. 45-46: «la funzione qualificatoria della causa concreta
emerge emblematicamente con riguardo alla controversa figura del contratto autonomo di garanzia
(Garantievertrag), modello negoziale di importazione germanica, per lungo tempo ritenuto dalla dottrina
maggioritaria e dalla giurisprudenza inammissibile nel nostro ordinamento, perché privo di fondamento
causale. Il principio di causalità, in virtù del quale l’autonomia privata non può operare spostamenti
patrimoniali privi di “ragione giustificatrice”, ha indotto dottrina e giurisprudenza a ritenere nullo il
contratto per mancanza di causa. Anche in questa fattispecie, espressione dell’autonomia negoziale ex art.
1322 c.c., occorre intendersi sul concetto di causa e sui suoi criteri di identificazione, tradizionalmente
individuati per il contratti atipici con riferimento agli schemi legalmente prefissati. Lo spirito, giova
ribadirlo, è sempre quello della causa intesa come funzione economico-sociale, che finisce con il negare di
fatto ai contratti atipici, per via di riconduzione forzosa ad un tipo legale, quello spazio che formalmente ed
espressamente è riconosciuto all’autonomia dall’art. 1322, comma 2, c.c. Meccanismo che ha indotto a
ravvisare nella fideiussione l’unico modello di riferimento, intravedendo nel legame di accessorietà con il
debito principale il tratto distintivo che connota la causa dei contratti di garanzia. Evidentemente si discorre
di causa astratta senza indagare sullo schema concretamente adottato dalle parti e sullo specifico intento da
esse perseguito. L’avere affrontato il problema della causa del negozio autonomo di garanzia sotto il
riflesso della relazione con il rapporto fondamentale ha condotto ad affermare la sua astrazione, il che deve
indurre a indagare sulla causa concreta all’interno del negozio. L’ossimoro celato nella formula “garanzia
autonoma” induce a ricercare la causa in un rapporto sottostante, poiché ontologicamente il concetto di
garanzia esprime una relazione di accessorietà, ma non trova rispondenza nella concreta finalità del
Garantievertrag di autonomizzare il negozio dal rapporto principale. Perciò la causa va individuata
nell’obiettivo specifico al quale è preordinato questo meccanismo contrattuale, rifuggendo da tentativi
aprioristici di generalizzazione e di necessaria riduzione ad un tipo, involgenti una errata valutazione della
causa». Per quanto riguarda la giurisprudenza, v. ex multis, Cass., S.U., 18 febbraio 2010, n. 3947, cit.,
secondo cui «il contratto autonomo di garanzia (c.d. Garantievertrag), espressione dell’autonomia
negoziale ex art. 1322 c.c., ha la funzione di tenere indenne il creditore dalle conseguenze del mancato
adempimento della prestazione gravante sul debitore principale […]; la causa concreta del contratto
autonomo di garanzia è quella di trasferire da un soggetto ad un altro il rischio economico connesso alla
mancata esecuzione di una prestazione contrattuale, sia essa dipesa da inadempimento colpevole oppure no,
mentre con la fideiussione, nella quale solamente ricorre l’elemento dell’accessorietà, è tutelato l’interesse
all’esatto adempimento della medesima prestazione principale».
263
Si badi peraltro che anche la giurisprudenza che ha tratto ispirazione da tale
impostazione pare comunque aver preso atto della insufficienza, a fini qualificatori, del
riferimento alla mera sinallagmaticità dello swap.
Al riguardo, è possibile rinvenire pronunce in cui lo swap viene in un primo momento
definito come una «convenzione tra due parti che si obbligano reciprocamente a
corrispondere, alla scadenza di un termine prefissato, una […] differenza […]. Pertanto,
esula ogni riferimento a una causa ulteriore», salvo poi intrattenersi comunque sull’esame
dei profili funzionali – quasi a voler tenere distinti il concetto di causa da quello di
funzione496 –, giungendo così ad affermare che «la funzione economico sociale dei
contratti (intesa come neutralizzazione di un rischio valutario o finanziario) è certamente
meritevole di tutela e impedisce l’applicabilità delle eccezioni di gioco o scommessa»497.
Cosicché, secondo questa stessa giurisprudenza, sul presupposto che «l’impulso
speculativo che induce il soggetto a concludere il contratto non fa venire meno in alcun
modo la causa tipica di esso, che resta quella della copertura dei rischi di cambio», i
derivati sarebbero sempre meritevoli di tutela: la (asseritamente) tipica causa di scambio
sarebbe sempre498 supportata da un’altrettanto (asseritamente) tipica funzione di copertura,
che tale resterebbe anche laddove la parte sia mossa da un eventuale «impulso
speculativo»499.
Per completezza, giova segnalare le affinità e le divergenze tra tale ultima pronuncia e
l’orientamento soggettivo per primo esaminato500.
496
«Le considerazioni interpretative, pertanto, non possono prescindere da una corretta definizione del
contratto di swap, tenendo conto della funzione economico-giuridica normalmente svolta»: Trib. Milano, 20
febbraio 1997, cit. Sulla distinzione concettuale tra la nozione di «causa» a quella di «funzione», v. supra, in
questo capitolo.
497
In questi termini Trib. Milano, 20 febbraio 1997, cit.
498
Sempre Trib. Milano, 20 febbraio 1997, cit., precisa infatti che «il contratto di swap non può rientrare
nello schema della scommessa perché l’artificiale creazione del rischio, nella scommessa, consiste
unicamente nell’avere subordinato l’esecuzione di una determinata prestazione ad un evento naturale e
umano che non è di per sé destinato ad incidere direttamente sul loro patrimonio e che viene considerato
solo come il termine di riferimento per determinare il vincitore».
499
Così Trib. Milano, 20 febbraio 1997, cit., p. 92, che sul punto chiarisce ulteriormente quanto segue:
«se, da una parte, ci può essere uno speculatore, dall’altra parte ci potrà essere probabilmente un altro
speculatore; certamente, dietro all’incrociarsi delle singole contrattazioni, si troverà, alla fine, un operatore
economico che si vuole coprire dai rischi di cambio e che non potrebbe, in concreto, farlo se non vi fossero,
appunto, degli speculatori che, per speranza di guadagno, sono disponibili ad assumere in proprio i rischi
che l’imprenditore intende evitare».
500
In particolare, in quella sede si è detto che i contratti derivati assolverebbero, di norma, una funzione
protettiva, la quale presupporrebbe sempre un collegamento funzionale con il rapporto sottostante; in assenza
di tale collegamento, la funzione asseritamente normale dello swap subirebbe un’alterazione in senso
264
Più esattamente, come quello, la giurisprudenza appena richiamata ritiene che i
contratti
derivati assolverebbero, di norma, una funzione di copertura, ma in tale ultimo caso – e in
ciò starebbe la fondamentale differenza – detta funzione sarebbe totalmente indipendente
da un collegamento giuridicamente rilevante con altri rapporti sottostanti, seppure la stessa
risulti economicamente connessa ad un’attività d’impresa501: per questo stesso motivo,
sviluppando l’iter argomentativo della pronuncia da ultimo citata, la mera volontà delle
parti non sarebbe comunque idonea ad alterare detta funzione in senso speculativo.
4.1.3. La tesi semi-oggettiva: la connessione tra il rapporto sottostante e il
contratto derivato nella prospettiva della causa concreta.
Orbene, da quanto è sin qui emerso, e salvo quanto verrà precisato più avanti502, nei
contratti derivati la connessione di cui si discorre parrebbe avere la seguente fisionomia:
sul piano giuridico, la volontà dei privati è tendenzialmente nel senso di escludere qualsiasi
interferenza tra l’operazione sottostante e il contratto derivato503; sul piano economico,
invece, vi sarebbe un ineludibile nesso tra il rapporto sottostante e il contratto derivato504.
speculativo, sicché ben potrebbe trovare applicazione l’eccezione di gioco ex art. 1933 c.c.; in nota, si è
anche segnalato che tale impostazione parrebbe presupporre una sovrapposizione tra la nozione di
«copertura» e quella di «garanzia».
501
La pronuncia in questione, infatti, fa espresso riferimento ad una copertura in senso economico, che
nulla avrebbe a che fare con la nozione giuridica di «garanzia» di cui si è fatto cenno nelle note precedenti:
in tal senso, viene affermato che il contratto di swap è nato «allo scopo preciso di assicurare agli
imprenditori che operano in “dare” e in “avere” con l’estero la possibilità di coprirsi anticipatamente
contro i rischi connessi alle variazioni dei cambi e di tenerli sotto controllo […]. La funzione di controllo dei
rischi connessi alle variazioni nel tempo dei rapporti di cambio tra le valute viene assunta e svolta da
un’impresa (banca o società intermediaria dei valori mobiliari), la quale è professionalmente investita del
compito di gestire una grande massa di contratti. Solo quest’ultima, infatti, è in grado di raccogliere una
serie di contratti di swap che, in mancanza di tale operatore, sarebbero praticamente irrealizzabili per la
materiale impossibilità di reperimento, da parte dell’interessato, di un partner desideroso di coprirsi, in
senso opposto, del rischio di cambio per l’identica quantità della stessa valuta con riferimento allo stesso
periodo. La funzione [di detta impresa] consente proprio l’attuazione della finalità essenziale (causa) del
contratto, vale a dire, la neutralizzazione di un rischio valutario o finanziario e, anzi, è di per sé un
presupposto ineliminabile perché il contratto possa, in concreto, realizzare la propria causa». È appena il
caso di notare che tale impostazione non contempla, evidentemente, la possibilità che un contratto derivato
possa anche essere stipulato tra privati, al di fuori cioè della prestazione di servizio di investimento.
502
V. infra, in questo capitolo, allorquando, nel tentativo di ricostruire il cosiddetto nesso di derivazione,
si dirà che questo si caratterizza sul piano economico in ragione di una ineludibile connessione oggettiva tra
il bene originario e il bene derivato (id est, appunto, il differenziale).
503
Giova segnalare, al riguardo, una fattispecie particolare in cui è la legge stessa ad istituire un
collegamento necessario tra lo swap e il sottostante contratto di finanziamento: il riferimento è all’art. 41,
comma 2, L. 28 dicembre 2001, n. 448 (Finanziaria 2002), secondo cui «gli enti di cui al comma 1 possono
265
È proprio in tale prospettiva che dovrebbe essere inquadrato il terzo orientamento, il
quale muove proprio dalla peculiare connessione economica505 tra il rapporto sottostante e
il derivato per individuare la funzione in concreto svolta da detto contratto506.
emettere titoli obbligazionari e contrarre mutui con rimborso del capitale in unica soluzione alla scadenza,
previa costituzione, al momento dell’emissione o dell’accensione, di un fondo di ammortamento del debito, o
previa conclusione di swap per l’ammortamento del debito».
504
Cfr. quanto si dirà infra, in questo capitolo.
505
Al riguardo, cfr. F. BOCHICCHIO, Gli strumenti derivati, cit., pp. 308, secondo il quale «il
collegamento tra due contratti, che così si crea negli strumenti finanziari con finalità di copertura,
collegamento unilaterale alla luce della strumentalità della stipula del contratto relativo allo strumento
derivato rispetto alla stipula del contratto relativo alla posizione sottostante, è di mero fatto e non di diritto,
in quanto la mancanza di validità e/o efficacia del contratto relativo alla posizione sottostante “da coprire”
con lo strumento derivato non incide in nessun modo sulla validità ed efficacia dei contratti relativi allo
strumento derivato, proprio per l’autonomia finanziaria che contraddistingue quest’ultimo».
506
Tra le pronunce più recenti, si segnalano Corte d’Appello Trento, 3 maggio 2013, n. 141, per la quale
«nella specie, il contratto intercorso tra le parti aveva dichiaratamente la finalità hedging, ovvero, come si
legge nella proposta contrattuale accettata dall’appellante, “la copertura del rischio di tassi di interesse
derivante dalla… esposizione debitoria” dell’appellante stessa a seguito della stipula del contratto di mutuo
fondiario […]; e d’altra parte proprio per “tutelare il proprio patrimonio dagli eventuali effetti delle
variazioni del tasso di interesse che potrebbero intervenire” l’appellante aveva sottoscritto il “contrattoquadro derivati OTC su tassi di interesse per non consumatori operatori non qualificati” […], in esecuzione
del quale fu poi appunto sottoscritto il contratto di cui si discute […]. Balza evidente che la “elevata
correlazione” tra lo strumento finanziario utilizzato e l’oggetto della copertura non sussisteva affatto né per
capitale di riferimento, né per durata, né per tasso di interesse, sì che, come rilevato dal CTU, “l’operazione
in oggetto pare difficilmente inquadrabile nell’alveo di quelle classificate dalla Consob come ‘di
copertura’” […]. Non par dubbio che la funzione hedging del contratto de quo facesse del tutto difetto,
essendo in realtà il contratto stesso caratterizzato da finalità speculative – Trading -, sì che deve rilevarsi la
mancanza di causa del contratto stesso e la sua nullità ex art. 1418 cpv., in relazione all’art. 1325 n. 2 c.c.»;
Trib. Brindisi, 29 gennaio 2013, nella quale si afferma chiaramente che «non dirimente appare la
considerazione per cui anche se il contratto di IRS “fosse stato stipulato con finalità di copertura del mutuo
ciò non oscura il fatto che ogni contratto abbia la sua individualità, abbia la sua disciplina e siano
assolutamente autonomi. (…) Il contratto di mutuo ed il contratto di IRS sono in grado di “sopravvivere
l’uno all’altro”. E’ noto, infatti, come il collegamento negoziale non incida sull’autonomia strutturale dei
contratti, i quali – in sé perfetti e singolarmente produttivi di effetti giuridici – conservano una loro causa
autonoma, una loro specifica individualità giuridica e restano soggetti alla disciplina propria del rispettivo
schema negoziale. Nondimeno, poiché le parti perseguono un risultato economico unitario e complessivo che viene appunto realizzato attraverso una pluralità coordinata di contratti - questi sono, al contempo,
finalizzati ad un unico regolamento dei reciproci interessi […]. Quanto all’eventuale mancanza di causa del
contratto ove stipulato con finalità speculative - ipotesi vagliata, ma solo in astratto ed in linea generale dal
primo Giudice - va ribadito come il contratto di swap stipulato inter partes non abbia funzione speculativa o
di investimento (c.d. trading), ma una finalità di copertura (c.d. hedging); profilo funzionale che, a seguito
del venir meno del negozio presupposto, è venuto a mancare. Ciò, in applicazione della c.d. causa in
concreto che configura lo scopo pratico del negozio - la sintesi, cioè, degli interessi che lo stesso è
concretamente diretto a realizzare - quale funzione individuale della singola e specifica negoziazione, al di
là del modello astratto utilizzato»; Trib. Novara, 19 luglio 2012, nella quale viene affermato che «affinché le
operazioni in interest rate swap e, più in generale, quelle in strumenti finanziari derivati, possano definirsi
con funzione di copertura di specifici rischi e non meramente speculative, devono essere osservate le
prescrizioni di cui alla comunicazione Consob n. DI/99013791 del 26 febbraio 1999, tra le quali vi è la
266
elevata correlazione tra le caratteristiche tecnico-finanziarie dell'oggetto della copertura e lo strumento
finanziario utilizzato. In proposito, va rilevato che nel caso di un contratto di leasing immobiliare con
canoni a cadenza trimestrale, al fine di determinare la correlazione tra il contratto di swap ed il rischio che
si intende assicurare, risulta decisivo il timing dei flussi, giacché una apprezzabile discrasia tra le scadenze
dei pagamenti e la conseguente inevitabile variazione dei tassi che si verifica in tale lasso di tempo potrebbe
impedire l'effetto di copertura»; Trib. Lucera, 26 aprile 2012, per cui «è dato pacifico (anche ai fini della
corretta interpretazione della volontà delle parti) e non contestato in atti che, dal punto di vista della causa
concreta che li sostiene, i suddetti contratti sono stati previsti nel contratto di finanziamento “al fine di
cautelare le parti contro il rischio di variazioni dei tassi di interesse, inerenti alla linea base (linea capitaleinteressi) fino alla data di rimborso finale della linea base” e che quindi trattasi di contratti che svolgono
una funzione non meramente speculativa ma assicurativa (“hedging”), cioè di copertura dei rischi rispetto
alle oscillazioni – anche molto significative – che possono caratterizzare l’andamento dei tassi di interesse
(variabili) che (solitamente) connotano operazioni di finanziamento come quella in esame, così da realizzare
un reciproco interesse delle parti cioè, da un lato, quello (della società che beneficia dell’erogazione del
finanziamento) di eliminare – o quantomeno ridurre – le conseguenze negative derivanti dai tassi variabili
alti, dall’altro lato (dell’intermediario) quello di realizzare l’obiettivo di mantenere sempre ragionevolmente
lucrativo il finanziamento che ha concesso […]. In ragione di ciò, deve assumersi in modo altrettanto
pacifico l’esistenza di un collegamento negoziale tra strumento di finanziamento e quelli di copertura, che
ha natura non solo economica ma negoziale ravvisandosi un’interdipendenza funzionale fra i medesimi,
utilizzati in combinazione strumentalmente volta a realizzare lo scopo pratico unitario, costituente la causa
concreta della complessiva operazione, specifica ed autonoma rispetto a quella dei singoli contratti; in altri
termini, richiamando concetti che hanno ispirato autorevole dottrina, oggetto del collegamento è proprio
l’operazione economica considerata nel complesso dei vari atti che la compongono e nel risultato pratico
conseguito in cui la volontà delle parti è diretta a realizzare un programma unitario che si distingue per
oggetto, causa, e per l’inscindibilità dell’assetto economico raggiunto concretamente dai contraenti […]. È
indubbio, per come pacificamente ammesso dalle parti resistenti, sia pure nella diversità di interpretazioni
circa la qualificazione giuridica dell’operazione di finanziamento concordata tra le parti (finanza di
progetto, mutuo di scopo, ecc.) che vi sia un collegamento necessario (in quanto posto tra le condizioni di
efficacia del finanziamento stesso) tra essa e stipula dei contratti accessori e di garanzia e di copertura dei
rischi inerenti alla variazione dei tassi di interesse, pur giungendo all’opposta conclusione che trattisi
comunque di contratti che conservano reciproca autonomia sotto il profilo della causa e del regime della
rispettiva efficacia; cosicché, nonostante la mancata erogazione del finanziamento, in funzione del quale
sono stati sottoscritti i rispettivi contratti di “hedging”, questi ultimi continuerebbero ugualmente a spiegare
i loro effetti giuridici fino alla scadenza del contratto […]. Tuttavia, tale conclusione, che prospetta un
recupero di autonomia dei contratti derivati a seguito della mancata erogazione del finanziamento, appare
contraddittoria – oltre che non sostenibile sul piano logico – non essendo sorretta da alcuna giustificazione
causale la permanenza giuridica di un contratto di copertura dai rischi derivanti dal tasso variabile per la
durata del finanziamento, pur in assenza di quest’ultimo; del resto, come è stato perspicuamente osservato,
in un’ottica di revisione dei concetti su esposti pur condivisa dalla più recente giurisprudenza di merito, i
contratti derivati, stante il loro carattere di atipicità, possono essere accettati dall’ordinamento solo se sono
meritevoli di tutela, e nella specie di I.R.S., solo il fatto che essi perseguano un obiettivo di riduzione dei
rischi fa affermare la loro meritevolezza di tutela ed impedisce di ritenerli privi di causa»; Trib. Salerno, 21
giugno 2011, secondo il quale «il contratto swap che assuma esclusivamente funzione di copertura rispetto
al mutuo erogato, in quanto diretto a eliminare o quantomeno a ridurre le conseguenze negative derivanti da
tassi d’interesse variabili eccessivamente alti, deve considerarsi collegato ed accessorio al contratto di
finanziamento. Ne consegue che qualora le parti non abbiano dato attuazione al contratto di mutuo, la
circostanza non può non influire sul contratto swap, la cui funzione di copertura è, pertanto, venuta meno, in
quanto non vi è alcun adempimento da garantire o alcuna restituzione di importi mutuati».
267
Preliminarmente, deve essere ulteriormente ribadito che anche quest’ultimo
orientamento, al pari di quelli prima esaminati, pare muoversi in una logica tipizzante;
tuttavia, quest’ultimo si differenzierebbe dagli altri – e in particolar modo dalla prima delle
tesi sopraccitate – nella misura in cui assegna rilevanza anche alla assenza (oltre che alla
presenza) di una qualsivoglia connessione tra il sottostante e il contratto derivato.
In particolare, quando si è descritto il primo orientamento, si è detto che la connessione
tra sottostante e derivato dovrebbe avere sempre piena rilevanza giuridica, dovendosi
ritenere non meritevoli o finanche nulli i contratti derivati nei quali la stessa non sia
rinvenibile; nella tesi che ora si esamina, invece, la connessione in questione viene
contemplata per qualificare ex se il contratto, fungendo la stessa alla stregua di un criterio
che consentirebbe di distinguere tra derivati di copertura – nel caso in cui detta
connessione sussista – e derivati speculativi – nel caso in cui detta connessione manchi –
507
.
507
Peraltro, tale approccio sembra pure fondare le Comunicazioni Consob nn. DI/98065074 del 6 agosto
1998, DI/99013791 del 26 febbraio 1999 e DEM/1026875 dell’11 aprile 2001, nelle quali viene affermato
che «le operazioni su strumenti finanziari derivati ordinate dal cliente potranno essere considerate di
copertura quando: a) siano esplicitamente poste in essere al fine di ridurre la rischiosità di altre posizioni
detenute dal cliente; b) sia elevata la correlazione tra le caratteristiche tecnico-finanziarie (scadenza, tasso
d’interesse, tipologia ecc.) dell’oggetto della copertura e dello strumento finanziario utilizzato a tal fine; c)
siano adottate procedure e misure di controllo interno idonee ad assicurare che le condizioni di cui sopra
ricorrano effettivamente». Sulla natura giuridica delle Comunicazioni Consob, cfr., ex multis, G. CARLOTTI –
A. CLINI, Diritto amministrativo. Volume I – parte sostanziale, Rimini, 2014, p. 473: «accanto alla attività
regolamentare, la Consob svolge un’attività interpretativa che si esercita con deliberazioni, comunicazioni,
raccomandazioni che, pur non avendo la forza coercitiva del regolamento, hanno un’importanza
fondamentale nella cosiddetta moral suasion. In questo caso, il regolatore coincide con il suo interprete
principale. In una comunicazione la Consob affermava che “pur non rientrando tra le attività dovute, la
Commissione è consapevole che la risposta fornita ai quesiti posti dai soggetti del mercato rappresenta uno
strumento che concorre allo svolgimento delle attribuzioni istituzionali, in quanto consente di fornire
indirizzi interpretativi ed applicativi di norme e di rendere omogenei i comportamenti degli operatori,
contribuendo così alla tutela degli investitori”. La Commissione si riservava, inoltre, “di esaminare anche
quesiti relativi a fattispecie ipotetiche o astratte nei casi in cui, a so giudizio, la risposta a tali quesiti potesse
consentire di definire indirizzi interpretativi di particolare rilevanza e di interesse generale”. Infatti, il più
delle volte, le comunicazioni interpretative della Consob non si limitano a fornire risposte ai quesiti, quindi
a risolvere casi concreti, ma anche ad interpretazioni in astratto. Questa attività di soft regulation, che in
passato trovava la sua legittimazione sulla competenza tecnica e sul prestigio di cui gode la Consob, anche
se esercitava una moral suasion sui comportamenti degli operatori, non li vincolava giuridicamente; con il
recepimento delle direttive MiFID il considerando 128 dispone che le autorità competenti sono tenute ad
emanare orientamenti interpretativi sulle disposizioni della presente direttiva, al fine di chiarirne
l’applicazione pratica dei requisiti a particolari tipi di imprese e circostanze, evitando così che l’incertezza
della regolamentazione riduca l’efficienza delle imprese di investimento. L’attività interpretativa della
Consob continua a non avere valore giuridicamente vincolante nei confronti dei terzi, anche dopo la
direttiva, ma è facile immaginare che l’elusione de precetti interpretativi della Consob possa avere, se resa
pubblica, una ricaduta negativa sulla reputazione dell’intermediario nel mercato».
268
Tale ultima impostazione, inoltre, risolverebbe a monte il problema della meritevolezza
degli interessi perseguiti con il contratto, allorquando inquadra i derivati in cui sarebbe
presente una connessione nell’ambito del contratto tipico dell’assicurazione, mentre
riconduce quelli in cui tale connessione manchi (o non risulti in giudizio) nella fattispecie
della scommessa azionabile; più esattamente, se nella prima ipotesi nessuno ha mai
dubitato della effettiva meritevolezza dei derivati, in virtù della loro mera equiparazione al
meccanismo assicurativo508, per quanto riguarda la seconda l’impasse viene superata
argomentando sull’art. 23, comma 5, tuf, che – come si è già segnalato – esclude
l’applicabilità dell’art. 1933 c.c. rispetto agli strumenti finanziari derivati negoziati
«nell'ambito della prestazione di un servizio di investimento»509.
Si tratta, a ben vedere, di un’impostazione che utilizza il dato concreto (id est la
sussistenza o l’assenza della connessione tra sottostante e derivato nella specifica
operazione negoziale) in una logica tipizzante: così, nella giurisprudenza di merito è stato
affermato il principio secondo cui «il contratto di interest rate swap, quando in concreto
non serve a coprire un’attività imprenditoriale dall’alea connessa alle fluttuazioni dei
tassi di interesse e di cambio, ha un fine meramente speculativo ed è assimilabile alla
scommessa»510.
Anche in tale impostazione, pertanto, emerge la sopra segnalata aporia: infatti,
anch’essa muove dal presupposto che i contratti derivati abbiano naturalmente una
funzione di copertura e che tale funzione intanto sussista in quanto vi sia un nesso tra
sottostante e derivato (ad esempio, la connessione tra i rischi contemplati dallo swap e
quelli riferibili ad un’attività d’impresa); dove tale nesso dovesse venire escluso dalle parti
508
Cfr., ad esempio, T. PADOA SCHIOPPA, I prodotti derivati, cit., p. 62: «i derivati non solo non
generano nuovi rischi, ma permettono (permettono, non assicurano) una distribuzione migliore di quelli
esistenti. In questo, come in altri aspetti, essi appartengono non alla sfera del gioco d’azzardo, ma a quella
dell’assicurazione, un campo dell’economia e della finanza senza la quale né la famiglia né l’impresa
potrebbero prosperare». V. anche B. INZITARI, Swap (contratto di), cit., 620; E. FERRERO, Contratto
differenziale, cit., p. 489, nonché supra, cap. I, passim.
509
«È stato chiarito per legge già con il d.lgs. n. 425 del 1996 (ora art. 23, comma 5°, d.lgs. n. 58 del
1998) che tale eccezione non si applica ai derivati conclusi nell’ambito dell’attività dei servizi di
investimento – vale a dire, come appena visto, sempre, essendo gli altri derivati offerti al pubblico in modo
professionale, non ammissibili –, in quanto stipulati nell’ambito di un’attività meritevole di tutela e
regolamentata, soggettivamente ed oggettivamente, a salvaguardia dei risparmiatori». F. BOCHICCHIO, Gli
strumenti derivati, cit., pp. 307-308.
510
V. Trib. Lanciano, 6 dicembre 2005, cit., p. 133, dove viene affermato che lo swap sarebbe «un
contratto tipicamente aleatorio, che assume la funzione, si ripete, di un contratto di assicurazione, se
stipulato da un imprenditore in relazione ad un mutuo contratto con la Banca, perché lo copre dall’alea
connessa alle fluttuazioni dei tassi di interesse e di cambio e che invece è assimilabile alla scommessa, se
stipulato a mero scopo speculativo, al di fuori di tale funzione legata all’attività imprenditoriale».
269
– o non dovesse emergere in sede ermeneutica –, al contratto dovrà invece essere
certamente assegnata una funzione meramente speculativa.
E sempre in una prospettiva tipizzante, si ribadisce, viene risolto anche il problema
della astratta meritevolezza della funzione concretamente assolta dal contratto; questione
che, come si è visto, troverebbe soluzione mediante la riconduzione dei derivati in
fattispecie tipiche nelle quali ricorrerebbero, rispettivamente, la funzione di copertura e
quella speculativa.
Secondo tale impostazione, in definitiva, le parti, attraverso uno schema atipico,
starebbero perseguendo una causa tipica, corrispondente o a quella del contratto di
assicurazione (artt. 1882-1931 c.c.) o a quella della scommessa azionabile (art. 1933 c.c. in
combinato disposto con l’art. 23, comma 5, tuf).
4.1.4. (Segue) La qualificazione dei contratti derivati nella prospettiva
della causa in concreto «può rivelarsi sfuggente»511.
Invero anche l’impostazione da ultimo citata, che pure del tutto condivisibilmente
inquadra la connessione tra il rapporto sottostante e il contratto derivato nella prospettiva
della causa concreta, non convince pienamente sul piano logico-sistematico: e ciò proprio
nella misura in cui si pretende di ricondurre fattispecie atipiche – o, come affermato da
autorevole dottrina, aliene512 – come i derivati finanziari in fattispecie tipiche nelle quali
ricorrerebbero, rispettivamente, la funzione di copertura e quella speculativa.
511
Corte d’Appello di Milano del 18 settembre 2013, n. 3459.
Cfr. G. DE NOVA, Il contratto: dal contratto atipico al contratto alieno, cit., pp. 54-60: «ma c’è un
fenomeno, già oggi sempre più diffuso, e che ha per sé il futuro. Parlo del contratto alieno, e cioè del
contratto elaborato sulla base della prassi angloamericana, senza tenere in alcun conto il diritto italiano,
ma al quale si applica il diritto italiano, di solito a seguito di un’espressa scelta delle parti. A questo
fenomeno ho creduto di dare il nome di “contratto alieno” per sottolineare con l’aggettivo “alieno” sia che
si tratta di un contratto altro, straniero (il calco è dunque alius), sia di un contratto in qualche modo
extraterrestre (il calco è dunque alien). L’indagine che ho condotto sui contratti alieni mi ha portato a
concludere che non è frequente il caso di contratti alieni bloccati alla frontiera per contrasto con il diritto
imperativo italiano: perché magari dopo qualche sosta, più o meno lunga, in dogana i contratti alieni
ottengono di potere entrare in Italia. Sono già entrati in Italia dal sale and lease back, ai performance bond,
ai contratti derivati, ai contratti costitutivi del leverage buy out, per fare solo qualche esempio […]. I
contratti alieni vengono trattenuti un qualche tempo in dogana, ma poi alla fine si lasciano entrare in Italia.
Per i contratti derivati c’era il problema, classico, del diniego di azione: ma il problema è stato superato
molto presto, perché sin dalla normativa Eurosim del 1996 è stato scritto che l’art. 1933 non si applica. La
frontiera si è aperta e i derivati sono entrati in Italia. Con ciò non sono ovviamente risolti tutti i problemi,
perché rimane da verificare se l’applicazione delle norme imperative del diritto italiano crei difficoltà».
512
270
La tesi appena esaminata presenta infatti lo stesso “vizio di fondo” delle altre sopra
esaminate, ossia quello di assegnare aprioristicamente – e quindi arbitrariamente – una
funzione tipica al contratto derivato, sulla base della quale poi operare la qualificazione del
contratto concretamente posto in essere.
Tale approccio ermeneutico, come si è visto, a volte viene espressamente manifestato
(quando si parla di «causa tipica» dei derivati), mentre altre volte risulta dissimulato da
locuzioni come «funzione naturale», «funzione principale», «funzione ricorrente», e così
via513.
Tuttavia, tale approccio inficerebbe in radice l’intero procedimento di qualificazione
dei derivati finanziari, nella misura in cui il momento della sussunzione514 verrebbe
appunto condizionato515 dall’interprete ai vari pregiudizi516 sedimentatisi nel corso degli
anni sul tema che qui si esamina.
513
V. supra, passim. Si badi, peraltro, che una critica simile era già stata formulata da F. GALGANO, Il
negozio giuridico, in Trattato di Diritto Civile e Commerciale, diretto da A. Cicu – F. Messineo, XVI,
Milano 1988, p. 418, in relazione ai contratti con causa mista: in particolare, l’Autore ha sottolineato l’intima
contraddittorietà dell’orientamento che sottopone detti contratti alla disciplina relativa alla causa giudicata
«prevalente». Più esattamente, anche il quel caso il procedimento di qualificazione sarebbe inficiato dalla
precostituzione di schemi di giudizio che rischiano di falsare il concreto regolamento posto in essere dai
privati.
514
La sussunzione consiste nel «confronto tra fattispecie contrattuale concreta e tipo astrattamente
definito dalla norma, per verificare se la prima corrisponda al secondo»: così V. ROPPO, Il contratto, cit., p.
408. Per quanto riguarda la sussunzione come momento del procedimento di qualificazione, v. infra, in
questo stesso paragrafo.
515
Cfr. al riguardo V. OMAGGIO, Interpretazione giuridica, in Atlante di filosofia del diritto. Selezione di
voci, a cura di U. Pomarici, Torino, 2013, p. 353 il quale, richiamando il pensiero di Josef Esser e Karl
Engisch, rileva che: «la correttezza della sussunzione dipende dalla formulazione delle premesse
(Zurechtung der Prämissen) e dall’apprezzamento delle circostanze di fatto, elementi eminentemente
valutativi, non offerti dal legislatore. Tra la fattispecie astratta (Tatbestand) e quella concreta prende corpo
un terzo termine specifico Sacbverbalt, ossia la circostanza di fatto giuridicamente rilevante, che svolge un
compito di collegamento tra i fatti e le norme e attiva un procedimento circolare e non più lineare, non
basato sulla priorità logica della fattispecie astratta, ma su un’interazione».
516
Sul punto, v. P. MADDALENA, I percorsi logici per l’interpretazione del diritto nei giudizi davanti la
Corte costituzionale, Relazione tenuta alla XV Conferenza delle Corti costituzionali europee “La giustizia
costituzionale: funzioni e rapporti con le altre pubbliche autorità”, Bucharest, 23 – 25 maggio 2011: «in
ogni applicazione del diritto c’è un momento analogico, e quindi uno spazio di interpretazione dovuta alla
perizia ed alla cultura dell’interprete, alla conoscenza dell’ordinamento nella sua globalità e specialmente
nei suoi principi quali espressione di scelte di valori. Affiora qui il concetto di precomprensione, nel senso
che non si può disconoscere l’esistenza di una disposizione iniziale dell’interprete ad intendere il testo in un
certo modo. Importante è che la precomprensione non diventi un pregiudizio, un orientamento capriccioso
dell’interprete». Sui rapporti tra precomprensione e pregiudizio nel procedimento interpretativo v. anche A.
GENOVESE, L’interpretazione del contratto standard, 2008, Milano, pp. 79-80, sub nota n. 83: «per
precomprensione si intende […] una comprensione originaria, che precede l’attività esegetica
dell’interprete e la orienta attraverso le anticipazioni di senso che in essa si formano. La precomprensione,
271
Così, in primo luogo non convince appieno la sussunzione dei derivati con funzione di
copertura nell’ambito della figura tipica del contratto di assicurazione (artt. 1882 s.s.
c.c.)517, e ciò anche alla luce del più recente dibattito dottrinale e giurisprudenziale avente
ad oggetto la possibilità di individuare una unitaria causa assicurativa518.
valutata dal punto di vista della teoria della conoscenza, appare un pregiudizio sul contenuto del testo, come
tale anticipatoria ed a scapito dei risultati dell’interpretazione. Dal punto di vista ontologico, tuttavia, è
momento insopprimibile nel quale si rivela la struttura anticipatoria della comprensione. Per quanto appena
visto, conseguentemente, la precomprensione rimuove le prime ombre sul contenuto del testo e, fornendo un
orientamento iniziale nell’interprete, mette in moto il processo interpretativo».
517
Ad esempio, accostano esplicitamente la funzione di copertura a quella assicurativa Trib. Lucera, 26
aprile 2012 («trattasi di contratti che svolgono una funzione non meramente speculativa ma assicurativa
(“hedging”), cioè di copertura») e Trib. Lanciano, 6 dicembre 2005, p. 132 («è pacifico che tra le parti fu
stipulato un contratto denominato Interest Rate Swap […]. Si tratta, in sostanza, di una forma di
assicurazione, che il cliente stipula, per coprirsi dal rischio che un eccessivo rialzo dei tassi incida troppo
sul mutuo esistente, costringendolo a pagare interessi troppo elevati e da lui non sopportabili»). Sulle
differenze tra i contratti derivati e l’assicurazione si rinvia a quanto già detto nel cap I, § 4.
518
«Il tema della causa del contratto di assicurazione è al centro di un significativo sforzo speculativo
volto ad individuare una funzione unitaria dell’assicurazione e ad unificare, sotto il profilo della causa, il
contratto di assicurazione contro i danni e quello di assicurazione sulla vita. Il dibattito è tuttora aperto e
vede contrapposte numerose posizioni, tutte accomunate dal tentativo di sciogliere il nodo gordiano sulla
configurabilità dei diversi tipi di assicurazione come pluralità distinta di istituti giuridici, raggruppati dal
legislatore, solo per comodità, sotto la rubrica “Dell’assicurazione” o, al contrario, come singole
specificazioni di una figura unitaria di portata generale. Passando in rassegna le principali teorie, meritano
di essere riportate in estrema sintesi, la teoria dell’impresa, che concepisce la causa del contratto in
relazione all’impresa la quale assurge ad elemento unificatore delle varie tipologie di contratto assicurativo
[…]. In particolare, secondo l’impostazione in parola, la causa di tutte le fattispecie di assicurazione è
l’assunzione continuativa della garanzia di rischi omogenei da parte dell’assicuratore per il tramite di
un’organizzazione imprenditoriale. Una tale concezione della causa si scontra con l’opinione di coloro che
ritengono che la qualificazione imprenditoriale di una delle parti negoziali esuli dalla causa del contratto
[…]. La teoria indennitaria individua la causa del contratto di assicurazione, nella duplice veste di
assicurazione contro i danni e assicurazione sulla vita, nella funzione di risarcimento del danno
all’assicurato […]. Infine, la teoria del trasferimento e della sopportazione del rischio individua la causa del
contratto di assicurazione […] nell’assunzione da parte dell’assicuratore di un rischio di altri, vale a dire
dell’assicurato […]. La giurisprudenza maggioritaria, in adesione al recente orientamento in tema di
definizione della causa del contratto, identifica la causa del contratto di assicurazione nella funzione
concreta realizzata dal singolo negozio assicurativo e, così, lungi dall’individuare una causa unitaria
unificatrice dell’assicurazione contro il danno e di quella sulla vita, definisce la causa come sintesi degli
interessi reali che il singolo contratto è diretto a realizzare»: R. GIOVAGNOLI – C. RAVERA, Il contratto di
assicurazione. Percorsi giurisprudenziali, Milano, 2011, pp. 8-9. Per quanto riguarda la giurisprudenza, cfr.
Cass. civ., Sez. Lavoro, 22 dicembre 2006, n. 27458, la quale, aderendo evidentemente alla teoria della causa
astratta, afferma che «la causa del contratto di assicurazione privata consiste nel trasferimento del rischio
dall’assicurato all’assicuratore e, pertanto è indubbio che il rischio stesso debba preesistere alla stipula del
contratto, pena la sua nullità. Quello che, invece, deve essere successivo alla conclusione di siffatto
contratto, e sempre al fine di evitare la configurabilità della sua nullità per essersi l’eventualità di un fatto
sfavorevole (nel quale consiste, appunto, il rischio) già verificatasi, è l’evento»; v. anche Cass. civ., Sez. III,
12 novembre 2009, n. 23941, la quale più di recente, diversamente dalla precedente pronuncia, argomenta
manifestando la piena adesione alla teoria della causa in concreto: «la fedele trascrizione della motivazione
272
Non è certamente questa la sede per affrontare nello specifico tale questione; è qui
sufficiente rilevare che le nozioni di assicurazione, garanzia e copertura vengono spesso
utilizzate come sinonimi519, mentre in realtà ognuna di esse presenterebbe delle
significative peculiarità proprio rispetto al rapporto che si intende, rispettivamente,
assicurare, garantire o coprire520.
del giudice di appello, di cui sopra, evidenzia come quel giudice abbia considerato in astratto la causa del
contratto assicurativo stipulato tra le parti. Questa individuazione non risulta conforme ai criteri elaborati
da questa Corte, che con sentenza n. 10490/06 ha, in modo approfondito e convincente, avuto modo di
statuire che la causa “ancora iscritta nell'orbita della dimensiono funzionale dell'atto” non può non essere
che “funzione individuale del singolo, specifico contratto posto in essere, a prescindere dal relativo
stereotipo astratto, seguendo un iter evolutivo del concetto di funzione economico-sociale del negozio che,
muovendo dalla cristallizzazione normativa dei vari tipi contrattuali, si volga al fine a cogliere l'uso che di
ciascuno di essi hanno inteso compiere i contraenti adottando quella determinata, specifica (a suo modo
unica) convenzione negoziale” […]. Intesa in tal senso la nozione di causa del negozio, appare allora
evidente, nel caso in esame, che il giudice dell'appello nel valutare il contratto concluso avrebbe dovuto
interrogarsi sul perché lo S. avesse concluso quel contratto, quali esigenze lo avessero indotto ad assicurarsi
in quel modo, ovvero quale fosse la funzione concreta che quel contratto, peraltro, contenente espressioni
ambigue, veniva a svolgere nel contemperamento degli interessi in gioco anche con la sua aleatorietà. Di ciò
non vi è traccia perché la motivazione valorizza la causa astratta del contratto, liquidando come irrilevanti,
a tal fine, le “motivazioni personali” evidenziate in quella sede ed ancor prima avanti al tribunale, dalla
attuale ricorrente».
519
Ex multis, v. F. VITELLI, Contratti derivati e tutela dell’acquirente, cit., p. 23, secondo il quale «la
valutazione che presiede alla stipulazione o all’acquisto di un derivato è sempre, quindi, condizionata da
una stima previsionale. Tale meccanismo di previsione futura del valore del bene permette allo strumento
derivato di poter conseguire due distinte funzioni: una di tipo protettivo (o di garanzia), l’altra più
propriamente di tipo speculativo. La funzione protettiva, che viene indicata nei termini finanziari
anglosassoni con l’espressione hedging, ossia copertura, rende con chiarezza la funzione di controllo
dell’evento futuro ed incerto, nella specie la fluttuazione del valore di un bene o di una grandezza economica
[…]. Tale funzione di copertura è estremamente simile alla funzione assicurativa». Come si può agilmente
rilevare, l’Autore – ponendosi in continuità rispetto ad una tradizione dottrinale consolidata – considera la
funzione di copertura sovrapponibile a quella di garanzia e queste, a loro volta, sarebbero assimilabili a
quella assicurativa.
520
In particolare, per quanto riguarda i rapporti tra causa assicurativa e causa cavendi, la dottrina ha
rilevato come la prima stia recentemente «guadagnando sempre più terreno» a scapito della seconda,
rilevandosi, in tema di contratto autonomo di garanzia, che «la causa di garanzia ha mantenuto il suo spazio
ben definito (conservando un legame con il rapporto principale) a differenza dell’altra che, espandendosi in
maniera esponenziale, si è dimostrata la sola capace di esprimere e soddisfare le crescenti esigenze
finanziarie che richiedono l’assunzione di impegni puri e l’esecuzione di prestazioni di sicurezza che, a
prescindere da qualsiasi legame dal rapporto di base, infondano nel beneficiario la tranquillità di poter
contare – in ogni caso – su un ristoro economico nella denegata ipotesi di verificazione dell’evento»: E.
DAMIANI, Contratto di assicurazione e prestazione di sicurezza, cit., pp. 169-173. Per quanto riguarda la
funzione di copertura pura, ossia considerata indipendentemente da qualsiasi accostamento ad altre figure
tipiche (in primis: l’assicurazione), allo stato rilevano solo le già richiamate Comunicazioni Consob nn.
DI/98065074 del 6/8/1998, DI/99013791 del 26/2/1999 e DEM/1026875 dell’11/04/2001, nelle quali si
afferma che il derivato con funzione di copertura presuppone, tra le altre cose, una «elevata la correlazione
tra le caratteristiche tecnico-finanziarie (scadenza, tasso d’interesse, tipologia ecc.) dell’oggetto della
copertura e dello strumento finanziario utilizzato a tal fine»; tuttavia, manca ancora un preciso indice
273
L’unico dato certo è che la funzione di copertura sarebbe reputata pienamente lecita e
meritevole di tutela dall’ordinamento, mentre lo stesso non potrebbe invece essere
affermato con altrettanta sicurezza rispetto alla funzione speculativa521.
Il problema dell’incerta meritevolezza della funzione speculativa viene tuttavia
bypassato dalla tesi che inquadra la connessione tra il rapporto sottostante e il contratto
derivato nella teoria della causa in concreto, laddove imposta la questione in una
prospettiva essenzialmente rimediale: si è infatti già accennato che il derivato trading
potrebbe risultare nullo per mancanza di causa in concreto, allorquando in sede
interpretativa dovesse emergere una discrasia funzionale tra l’interesse effettivamente
perseguito dalle parti e l’attitudine del concreto contratto a realizzarlo522.
Tuttavia, a ben vedere l’individuazione della causa concreta dello specifico contratto
supera ma non risolve il problema più generale della qualificazione dei contratti
derivati523: ed allora, quid iuris se, per ipotesi, le parti volessero effettivamente negoziare
normativo cui fare riferimento, sicché non è ancora del tutto chiaro come debba essere inquadrata la
correlazione tra il derivato hedging e il rapporto sottostante. Tale incertezza, peraltro, emerge anche nelle più
recenti pronunce di merito: ad esempio, secondo la già citata ordinanza pronunciata dal Trib. Milano in data
28 novembre 2014, «anche laddove i contratti in derivati in parola facessero genericamente riferimento
all’esposizione debitoria della ricorrente, senza specificare gli specifici rapporti cui offrire “copertura”,
non perciò tale funzione deve ritenersi preclusa, avendola le parti calibrata per relationem in modo da
eliminare [per la parte] il rischio di innalzamento dei tassi di interesse e quindi degli oneri finanziari da essa
sopportati in relazione ad un ammontare debitorio predeterminato ed individuato con precisione», mentre
secondo l’ordinanza del Tribunale di Torino del 6 giugno 2014 «la capacità dell’IRS di assolvere la funzione
di copertura convenuta in contratto è dimostrata dalla perfetta corrispondenza tra il mutuo e il connesso
contratto swap, il cui nozionale era destinato a diminuire progressivamente in aderenza del piano di
ammortamento del mutuo. In particolare, la funzione di copertura del derivato si concretizza nella certezza
per il cliente di pagare, per tutta la durata del mutuo, un determinato tasso fisso, indipendentemente
dall’andamento dei tassi di interesse cui era invece agganciato il mutuo a tasso variabile» (massima a cura
di N. SCOPSI in ilcaso.it). In definitiva, ad oggi non è ancora chiaro se ai fini della configurazione della
funzione di copertura sia sufficiente un generico richiamo del rapporto sottostante o se sia invece necessaria
la «perfetta corrispondenza tra il mutuo e il connesso contratto swap».
521
Ex multis, v. F. CAPRIGLIONE, I prodotti “derivati”, cit., p. 365, il quale, con riferimento, ai titoli
sintetici, afferma che «colui che tratta le note sintetiche per solito è mosso dalla volontà di speculare ed
utilizza detti strumenti per assumere rischi, spesso preclusi da disposizioni di diritto interno o da circoscritte
deleghe di poteri».
522
V., supra, le citate Corte d’Appello Trento, 3 maggio 2013, n. 141; Trib. Brindisi, 29 gennaio 2013;
Trib. Lucera, 26 aprile 2012; Trib. Salerno, 21 giugno 2011, nonché la più risalente Trib. Lanciano, 6
dicembre 2005.
523
Sul punto, v. E. GABRIELLI – R. LENER, Mercati, Strumenti finanziari e contratti di investimento dopo
la MIFID, in I contratti del mercato finanziario2, I, a cura di E. Gabrielli e R. Lener, nel Trattato dei
contratti, diretto da P. Rescigno e E. Gabrielli, Torino, 2010, pp. 39-40: «un’autorevole parte della dottrina
individua nella causa l’elemento idoneo ad individuare il tipo. Sempre la diversità di causa, rispetto a tipi
contrattuali tradizionali, è il criterio che consente a dottrina più recente di affermare la tipicità di nuove
figure contrattuali, anche quando, peraltro, tale tipicità appare fortemente in dubbio e contestata da ampia
274
un derivato meramente speculativo? Come dovrebbe essere strutturato il contratto? E lo
stesso sarebbe meritevole di tutela sempre e comunque, al pari di un derivato con funzione
di copertura, o solo in presenza di certi presupposti?
È proprio in questo quadro che sembra collocarsi la più volte citata pronuncia della
Corte d’Appello di Milano del 18 settembre 2013, n. 3459, nella quale è contenuto il
seguente passaggio motivazionale: «occorre, altresì, preliminarmente, compiere lo sforzo
di definire la natura giuridica del contratto derivato otc. Solo la sua qualificazione
giuridica consentirà, invero, di chiarire quali elementi appartengano alla causa del
negozio e, conseguentemente, stabilire se e quale difetto degli elementi caratterizzanti il
contratto valga ed inficiarne la causa, in termini di vizio genetico, ovvero si risolva in una
mera violazione delle regole di condotta dell'intermediario. Ciò vale in particolare per la
misura dell'alea assunta dalle parti nel derivato over the counter e per i c.d. costi
impliciti. Relativamente ad essi, questa Corte considera imprescindibile, ai fini del
decidere, evitare di assumere, aprioristicamente, che questi elementi debbano costituire
oggetto di una semplice informazione intendendo, invece, verificare se essi non
costituiscano elementi essenziali del contratto. E non nella prospettiva, che può rivelarsi
sfuggente, della causa in concreto, bensì muovendo dalla constatazione che il Legislatore
del tuf menziona tali contratti indipendentemente dall'intento dell'investitore, sia esso di
copertura o speculativo, imponendo, così, all'interprete di ricercare una comune ratio
legis del loro riconoscimento legislativo».
parte della dottrina. Anche la giurisprudenza sembra costantemente e fortemente orientata a rinvenire nella
causa, intesa come funzione concreta del contratto, lo strumento di individuazione e di enucleazione del tipo,
tanto che a volte nelle proprie motivazioni riprende, e ricorda, quanto affermato nella relazione al codice ed
afferma che “la distinzione per tipi è fondata sull’elemento funzionale […] e non concerne gli aspetti
strutturali, la cui regolamentazione è riservata al legislatore rispetto agli stessi contratti atipici”. In tempi
recenti, in verità, questo argomento è stato sottoposto ad accurate analisi nel tentativo di rinvenire nuovi
itinerari di indagine e suggerire criteri di qualificazione diversi. La tendenza ad un ripudio dello strumento
della causa, dapprima implicitamente manifestatati attraverso il richiamo ad una molteplicità di dati
individuanti, è stata successivamente ripresa e sviluppata mediante l’applicazione del c.d. metodo
tipologico. In tal modo, rinunciando ad individuare un unico elemento tipizzante dotato di operatività
generale, si è ricorso ad una serie di tratti distintivi, classificati a seconda che attengano: al contenuto del
contratto, alla qualità delle parti, alla natura del bene oggetto del contratto,al fattore tempo, al modo di
perfezionarsi del contratto. Questa linea metodologica, che raccoglie in parte spunti offerti dalla dottrina
tedesca, pur meritevole di aver avviato, per le interessanti riflessioni proposte, un proficuo dibattito sui temi
della tipicità, rinnovandone così l’interesse, non appare tuttavia in grado, per i risultati finora raggiunti, di
modificare l’atteggiamento condiviso da gran parte della dottrina di convinta adesione alla teoria
tradizionale. Ancora oggi, dunque, sembra doversi ritenere indispensabile il riferimento alla causa per
l’individuazione del tipo».
275
Orbene, il passaggio appena menzionato contiene una palese critica alla teoria della
causa in concreto, ritenendo – non a torto – che la stessa, da un punto di vista
metodologico, «può rivelarsi sfuggente».
Ed invero, come si è già sopra accennato, la teoria della causa in concreto conduce a
risultati certamente utili sotto il profilo rimediale, ma è possibile revocare in dubbio che la
stessa possa sempre fungere da valido criterio ermeneutico.
Tale assunto necessita di un ulteriore approfondimento.
In termini generali, si è già segnalato524 che secondo autorevole dottrina «la
qualificazione deve essere tenuta distinta rispetto all’interpretazione del contratto. Essa è
infatti una valutazione giuridica mentre l’interpretazione è una valutazione di fatto. La
qualificazione presuppone l’avvenuta interpretazione, e cioè l’avvenuto accertamento del
contenuto del contratto, ed ha per oggetto tale contenuto»525.
La giurisprudenza526 pare aver fatto propria questa teoria, allorquando distingue
l’interpretazione in senso stretto – consistente, in generale, nella ricerca della comune
volontà dei contraenti – dalla qualificazione; quest’ultima, in particolare, consterebbe di
due momenti: un preliminare giudizio di fatto, nell’ambito del quale vengono individuati
gli elementi che caratterizzerebbero la concreta operazione negoziale ai quali attribuire
rilevanza; una successiva valutazione di diritto, che si risolverebbe nella cosiddetta
sussunzione, consistente nel «confronto tra fattispecie contrattuale concreta e tipo
astrattamente definito dalla norma per verificare se la prima corrisponde al secondo»527.
Invero, secondo altra parte della dottrina, interpretazione e qualificazione andrebbero
considerate in modo unitario: «la stretta correlazione tra fatto e norma – e quindi tra fatto
ed effetto, tra fatto e rapporto – rivela l’unitarietà del procedimento interpretativo […].
Va negata la pretesa precedenza dell’interpretazione sulla qualificazione: la conoscenza
dell’atto non può prescindere dalla valutazione. Con ciò non si intende rovesciare la tesi
524
V. supra, in questo capitolo.
C. M. BIANCA, Il contratto, cit., p. 472; v. anche E. BETTI, Teoria generale del negozio giuridico, cit.,
pp. 245 ss.; L. CARIOTA FERRARA, Il negozio giuridico nel diritto privato italiano, cit., p. 729 ss.
526
Oltre a Cass., 22 giugno 2005, n. 13399 e Cass., 5 luglio 2004, n. 12289, già citate, v. anche Cass., 19
novembre 2004, n. 21896; Cass., 3 novembre 2004, n. 21064; Cass., 9 agosto 2004, n. 15381; Cass., 21
luglio 2004, n. 13579; Cass., 15 aprile 2004, n. 7157; Cass., 12 dicembre 2003, n. 19086; Cass., 18
novembre 2003, n. 14472; Cass., 16 settembre 2002, n. 13543; Cass., 15 ottobre 2001, n. 12518; Cass. 2
dicembre 2000, n. 15410.
527
In questi termini Cass., 22 giugno 2005, n. 13399, la quale richiama pedissequamente V. ROPPO, Il
contratto, cit., p. 429 (ed. 2001) e 408 (ed. 2011). Sul punto, v. anche Cass., 5 luglio 2004, n. 12289.
525
276
tradizionale sostenendo che la qualificazione precede l’interpretazione: esse sono, invece,
aspetti di un’operazione unitaria»528.
L’adesione alla tesi che considera il procedimento interpretativo in un’operazione
unitaria comporterebbe il superamento del rigido schematismo dell’orientamento
attualmente prevalente in giurisprudenza (il quale – come si è visto – distingue tra giudizio
di fatto e di diritto), nella misura in cui anche «la qualificazione è influenzata da elementi
di fatto» così come «l’interpretazione è influenzata da fattori giuridici»529.
Orbene, il riferimento al suddetto dibattito non deve apparire superfluo in questa sede:
l’adesione all’una o all’altra impostazione, infatti, ha importanti riflessi sulla costruzione
della causa concreta e sul suo effettivo valore ermeneutico.
Così, secondo la prima delle tesi appena menzionate «la causa concreta del contratto è
normalmente accertata mediante il riferimento al tipo: se le parti scelgono un dato tipo di
operazione economica la funzione del contratto tende a corrispondere a quella che
caratterizza il tipo», precisandosi ulteriormente che la qualificazione «non incide
sull’interpretazione», ma è appunto la causa concreta del contratto che «uniformandosi
normalmente alla funzione di un dato tipo economico, concorre a segnare il significato
oggettivo dell’atto. Si conferma allora la circolarità del procedimento interpretativo, che
passa comunque per la causa concreta del contratto e non per un tipo astratto»530.
La causa concreta implicherebbe dunque uno stretto legame con la causa astratta, nella
misura in cui l’accertamento della prima dovrebbe in ogni caso transitare per la
sussunzione nella seconda.
Tuttavia, è evidente che tale meccanismo intanto è destinato a funzionare in quanto
esista una causa tipica cui poter fare riferimento: si pensi, ad esempio, al contratto
528
P. PERLINGIERI – V. RIZZO, Manuale di diritto civile2, Napoli, 2000, pp. 99-100; v. anche N. IRTI,
Principi e problemi di interpretazione contrattuale, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1999, p. 1144, secondo il
quale «determinazione del significato e attribuzione di qualifica giuridica appartengono al medesimo
processo».
529
Più esattamente, l’unitarietà del procedimento interpretativo comporterebbe che sia l’interpretazione in
senso stretto che la qualificazione sarebbero, entrambi, giudizi di fatto e di diritto: in questi termini V.
ROPPO, Il contratto, cit., p. 438, per il quale «la qualificazione è influenzata da elementi di fatto. E
l’interpretazione è influenzata da fattori giuridici: perché anche se punta ad accertare la realtà storica di
ciò che le parti hanno effettivamente voluto, deve procedere a tale accertamento nel rispetto di norme che
[…] sono vere e proprie norme giuridiche, la cui inosservanza dà luogo a errore di diritto del giudicante. In
breve. Sia l’interpretazione sia la qualificazione non si riducono a un unico indifferenziato giudizio, ma sono
piuttosto la risultante di più sub giudizi: alcuni di fatto, altri di diritto. All’interno sia dell’una sia dell’altra
deve perciò distinguersi (e può non essere facile) fra sfera del merito e sfera della legittimità, onde
selezionare ciò che è sindacabile in Cassazione da ciò che non lo è».
530
C. M. BIANCA, Il contratto, cit., p. 434, nota n. 105.
277
autonomo di garanzia531, fattispecie atipica ma causalmente e funzionalmente sussumibile
nel tipo fideiussorio, salvo che per un elemento strutturale532.
Più esattamente, nel caso del Garantievertrag, la prassi internazionale ha prodotto
effetti modificativi su una fattispecie tipica di diritto interno – quella, appunto, della
fideiussione533 –: i profili problematici, pertanto, hanno riguardato la possibilità di poter
derogare legittimamente ad un profilo centrale della disciplina del tipo534; e in tale
prospettiva, la teoria della causa concreta ha costituito un utile supporto ermeneutico sul
quale poter ritenere legittima detta deroga, nella misura in cui ha reso possibile
531
Si è infatti già rilevato supra che i problemi sollevati dal contratto autonomo di garanzia hanno trovato
soluzione mediante la sussunzione della causa concreta del contratto autonomo di garanzia nel modello
tipico della fideiussione. Al riguardo, v. E. LA ROSA, Percorsi della causa nel sistema, cit., pp. 45-46,
nonché Cass., S.U., 18 febbraio 2010, n. 3947, cit.
532
«Con l’espressione contratto autonomo di garanzia si è inteso, nella sua teorizzazione originaria,
indicare una specifica categoria negoziale in cui andrebbero ricondotte tutte le ipotesi di fideiussione prive
del connotato dell’accessorietà»: G. PASCALE, Il contratto di fideiussione, Padova, 2010, p. 195; negli stessi
termini, ex multis, v. anche V. PICCININI, I rapporti tra banca e clientela. Asimmetria e condotte abusive,
Padova, 2008, p. 120.
533
Tra i tanti, v. in particolare F. GIORGIANNI – C. M. TARDIVO, Diritto Bancario, Milano, 2012, p. 370:
«nel commercio bancario e finanziario, in deroga ai caratteri propri del modello negoziale tipico, si sono da
anni diffuse, sulla base di una più ampia prassi del commercio internazionale, contratti di garanzia
contenenti, tra l’altro, clausole mediante le quali le parti convengono: a) che la validità delle obbligazioni di
garanzia non è inficiata dalla invalidità dell’obbligazione principale; b) che al garante non è consentito di
evitare il pagamento opponendo eccezioni relative al rapporto garantito; c) che il garante è tenuto ad
onorare la garanzia sulla base di una semplice richiesta del garantito, anche in caso di opposizione del
debitore principale. Come efficacemente rilevato, per effetto di tali clausole le parti nella determinazione del
contenuto contrattuale “convengono sia di ‘staccare’ il rapporto di garanzia dal rapporto principale,
rendendolo insensibile alle vicende di quest’ultimo…sia di impedire contestazioni da parte del garante circa
la sussistenza dei presupposti che legittimano il garantito ad ottenere il pagamento della garanzia”,
realizzando in tal modo una completa “autonomia”del rapporto garantito rispetto al rapporto principale».
V. anche G. B. PORTALE, Fideiussione e Garantievertrag nella prassi bancaria, in Le operazioni bancarie, II,
1978, Milano, p. 1062 ss.
534
Il riferimento è, in particolare, all’art. 1939 c.c., che nel primo capoverso prevede che «la fideiussione
non è valida se non è valida l'obbligazione principale». Sul punto, oltre agli Autori già citati che hanno
scritto sul contratto autonomo di garanzia, v. P. MESSINA, Le operazioni finanziarie nel diritto dell'economia,
2011, Padova, p. 189: «il vero punto su cui si è concentrata l’attenzione della dottrina per valutare
l’ammissibilità del contratto autonomo di garanzia nel nostro ordinamento è costituito dal profilo causale.
Ci si è in particolare chiesti se il contratto de qui fosse conciliabile con il principio generale secondo cui
cum nulla subest causa, constare non potest obligatio, desumibile dall’art. 1325, n. 2, per cui ogni
attribuzione patrimoniale deve essere sorretta da una idonea causa per essere ritenuta valida. Mentre la
dottrina minoritaria riteneva che il contratto autonomo di garanzia non fosse ammissibile nel nostro
ordinamento in quanto, in assenza dell’accessorietà prevista nella fideiussione, la garanzia sarebbe priva di
una causa in grado di giustificare la prestazione del terzo; di contro la dottrina maggioritaria ha da sempre
ritenuto l’ammissibilità del contratto in esame nel nostro ordinamento».
278
l’attribuzione di rilevanza ad un rapporto (quello garantito) che, pur restando esterno al
contratto, giustificherebbe in concreto l’intera operazione535.
Orbene, come si è più volte accennato536, anche i derivati finanziari nascono dalla
prassi.
Tuttavia, in quest’ultimo caso la prassi – a differenza di quanto è accaduto nel caso
appena segnalato del contratto autonomo di garanzia – non ha prodotto effetti meramente
modificativi su un tipo già presente nel nostro ordinamento: con i derivati finanziari,
infatti, le parti costituiscono, nell’esercizio della loro autonomia privata, una nuova entità
economica – ossia il differenziale – attraverso l’utilizzo di un contratto non soltanto
atipico, ma addirittura inedito537.
Ed è proprio l’assenza di un derivato finanziario «allo stato puro»538 – o, quantomeno,
di altro tipo contrattuale realmente affine – a rendere fallace l’operazione di sussunzione e
«sfuggente» il criterio della causa in concreto, nella misura in cui tanto l’impostazione
della prima quanto l’accertamento della seconda richiederebbero il necessario richiamo di
un tipo contrattuale.
Invero, abbandonando la tradizionale (e tutt’ora maggioritaria) prospettiva che tende a
tener schematicamente distinti i momenti dell’interpretazione e della qualificazione per
aderire alla tesi che li considera in modo unitario539, si potrebbe prescindere dalla non
sempre agevole ricerca del tipo.
535
P. MESSINA, Le operazioni finanziarie nel diritto dell'economia, cit., p. 190: «si capisce come il
contratto autonomo di garanzia non sia privo di causa, ma presenti piuttosto una causa esterna costituita
dal rapporto garantito cui le parti debbono fare riferimento nel contratto di garanzia stesso»; cfr. anche
Cass., S.U., 18 febbraio 2010, n. 3947, cit.
536
V., in particolare, il capitolo I, passim.
537
Invero, secondo F. GAZZONI, Manuale di diritto privato, cit., p. 816: «quanto osservato con riguardo
alle fattispecie giurisprudenziali dimostra che il contratto atipico in senso assoluto (che non riecheggia cioè
alcuno schema tipico) non esiste. La spiegazione è nel fatto che qualsivoglia interesse economicamente di
una certa rilevanza non può essere sporadico e puramente individuale. Per il fatto stesso di nascere e di
svilupparsi all’interno dei traffici commerciali, esso per forza di cose è comune a una molteplicità di
soggetti, di tutti quei soggetti che operano nel commercio e che a ben vedere costituiscono l’ossatura della
collettività sociale. Di conseguenza è inevitabile che detto interesse finisca per raccordarsi con uno dei tipi
legali che tali interessi generali tutelano». Tuttavia, è lecito dubitare della correttezza di detto assunto. In
particolare, l’Autore prende le mosse dalle «fattispecie giurisprudenziali» per giungere ad affermare non
esistono contratti assolutamente atipici; ma è proprio nelle pronunce giurisprudenziali che – come si sta
cercando di dimostrare – spesso si annida il vizio logico che inficerebbe l’intero procedimento di
qualificazione, ossia la costruzione tendenzialmente arbitraria del momento sussuntorio.
538
In questi termini, con specifico riferimento agli swaps, R. AGOSTINELLI, Le operazioni di swap, cit., p.
113; v. anche capitolo I, passim.
539
Secondo C. CAPOBIANCO, Il contratto dal testo alla regola, Milano, 2006, pp. 92-94 «appare ormai
da abbandonare la prospettiva tendente a distinguere sia logicamente che cronologicamente
279
Più esattamente, secondo l’approccio unitario, «interpretazione e qualificazione non
sono che aspetti di un medesimo procedimento conoscitivo unitario caratterizzato da una
“sequenza non rettilinea ma circolare” che mira alla definitiva messa a punto del
regolamento risultante dal complessivo intreccio “fatto di continui rimandi fra
interpretazione qualificazione e integrazione”»540.
L’indagine dell’interprete, pertanto, non può che muovere dal concreto contratto, del
quale verrà data una «primitiva e rudimentale»541 qualificazione destinata ad essere
perfezionata da un’ulteriore momento interpretativo, e così fino all’ottenimento di quello si
ritiene possa essere il risultato finale.
Il metodo appena indicato consentirebbe di superare a monte la tecnica della
sussunzione, che si rivela insufficiente proprio quando manchi, come nel caso di specie,
una disciplina del tipo, nonché fallace, nella misura in cui «si rischia di far violenza
l’interpretazione dalla qualificazione. Una volta riconosciuto che il regolamento si caratterizza per la sua
giuridicità, difficilmente e con scarsa utilità pratica possono tenersi artificiosamente distinte
l’interpretazione e qualificazione come realtà ontologicamente a sé stanti, né sarebbe facile e neppure utile
tracciare un confine tra un prius e un posterius […]. Che sussista uno stretto collegamento tra
interpretazione e qualificazione è del resto testimoniato dalla stessa normativa in argomento: si pensi
all’art. 1369 per il quale le espressioni contenute nell’atto assumono significato in relazione alla – natura e
all’oggetto del negozio –, o all’art. 1371 che fa dipendere l’interpretazione dell’atto dalla qualificazione,
onerosa o gratuita, dell’atto stesso». L’Autore richiama e sintetizza le argomentazioni di P. PERLINGIERI,
Interpretazione e qualificazione: profili dell’individuazione normativa, in Il diritto dei contratti tra persona
e mercato, Napoli, 2003, p. 5 ss.; G. SCALFI, La qualificazione dei contratti nell’interpretazione, MilanoVarese, 1962, p. 121; L. BIGLIAZZI GERI, L’interpretazione d
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