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Azienda Pubblica
Teoria ed esperienze di management
4.2012
Rivista trimestrale
anno XXV
numero 4
ottobre • dicembre
2012
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Paolo Maggioli
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(riportato nell’ultima pagina)
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Ambiti e missione della rivista Azienda Pubblica
Sono sempre più forti le esigenze di modernizzazione e di riforma delle amministrazioni
pubbliche e di tutti i soggetti che operano nell’interesse pubblico a seguito di stimoli derivanti
dai cambiamenti dei valori individuali e collettivi, dell’apertura della società e dei mercati,
della maggiore mobilità delle persone e dei beni, dell’innovazione tecnologica e delle forme
organizzative in cui si svolge l’attività sociale ed economica, dei media, ecc.
AZIENDA PUBBLICA si propone di contribuire a dare risposte a tali esigenze concentrando l’attenzione sulla migliore utilizzazione delle risorse economiche (dimensione
dell’efficienza), per dare risposte di alto livello qualitativo e quantitativo ai bisogni di singoli
cittadini, famiglie, imprese e altri corpi intermedi della società (dimensione dell’efficacia e
della funzionalità), della soddisfazione, mantenendo condizioni di equilibrio economico di
lungo periodo (dimensione dell’economicità). La Rivista intende farlo partendo dal profondo
convincimento che solo le persone sono in grado di promuovere e realizzare il cambiamento
sostanziale. I metodi, gli strumenti e le tecniche giuridiche, economiche, aziendali e manageriali esistono, sono anche molto affinati. Ma sono i valori, le conoscenze, le motivazioni,
i reali comportamenti delle persone che consentono un loro corretto uso con la finalità di
migliorare il benessere e la qualità di vita di comunità locali, nazionali, sovranazionali.
Occorre aumentare il numero delle persone per le quali esercitare una funzione e garantire i diritti significa acquisire la cultura del “servizio”, inteso sul piano dei valori e sul
piano dell’operatività e renderle maggioranza rispetto a quelle che ancora si richiamano
a modelli di amministrazione validi nel passato ma non più coerenti con i problemi posti
oggi dalla società o rispetto a quelle che difendono privilegi o interessi particolari. Una via
efficace per raggiungere questo obiettivo è quella di presentare ad amministratori di carica
politica, dirigenti, personale che opera in varie posizioni nel settore pubblico, risultati di
ricerche rigorose sul piano scientifico, rilevanti rispetto ai problemi quotidiani dei Lettori,
influenti in senso migliorativo sui processi decisionali e operativi.
Nella convinzione che non vi sia nulla di più pratico di una buona teoria, a condizione
che le teorie siano costruite sui fatti, Azienda Pubblica si caratterizza come una Rivista che
accoglie sia articoli di contenuto teorico che aiutino gli operatori a sistematizzare e a consolidare le proprie esperienze e competenze concrete, sia i risultati di ricerche empiriche
basate su rigorose metodologie quantitative e qualitative.
Una Rivista accademica capace di aprirsi e dialogare con decisori delle politiche, manager e operatori del settore pubblico e dei settori privati che hanno fini di pubblico interesse.
Tramite un rigoroso sistema di referaggio secondo gli standard internazionali, la Rivista
intende pubblicare contributi di alto valore scientifico che siano comprensibili da chi ogni
giorno deve far funzionare al meglio le istituzioni che garantiscono una società libera, in
cui siano rispettate le regole, tollerante nei confronti della multiculturalità e della molteplicità
di valori ed interessi, democratica in senso sostanziale.
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Azienda Pubblica 4.2012
Azienda Pubblica
4.2012
Teoria ed esperienze di management
Rivista trimestrale
anno XXV
numero 4
ottobre • dicembre
2012
Sommario
Editoriale
Eugenio Anessi Pessina
Editoriale
375
Saggi
Giacomo Boesso
Fabrizio Cerbioni
Andrea Menini
Antonio Parbonetti
“Filantropia per decreto”: analisi della
relazione tra governance e strategie erogative
nelle fondazioni di origine bancaria
Romilda Mazzotta
Il dilemma politica-mercato nelle Imprese dei
Servizi Pubblici Locali quotate. Quali i possibili
rimedi di governance
403
Sistemi di welfare e accontability delle aziende
non profit: verso una rendicontazione
condivisa e partecipata dei servizi
alla persona
423
Giacomo Manetti
Simone Toccafondi
Il coinvolgimento degli stakeholder
nelle aziende non profit: alcune evidenze
empiriche attraverso analisi di contenuto
443
Davide Maggi
Accountability e strumenti di rendicontazione
sociale nelle province italiane
467
Marco Pedemonti
Rita Varone
La politica di knowledge management
nell’Agenzia delle entrate: gli strumenti
di comunicazione organizzativa
485
Silvana Signori
379
Fonti di approfondimento
Spoglio riviste
503
In libreria
505
Editoriale
Editoriale
Eugenio Anessi Pessina
Il quarto e ultimo numero del 2012 dedica ampio spazio alle aziende
non profit. L’approccio funzionale all’interesse pubblico, infatti, evidenzia
come tali aziende possano partecipare a pieno titolo al perseguimento
dell’interesse pubblico. Più in generale, il non profit può contribuire a
superare la semplificazione dicotomica pubblico-privato e a perseguire il
reciproco riconoscimento fra componente privata e pubblica del sistema
socio-economico. In un periodo di risorse sempre più scarse (nel pubblico e
nel privato), del resto, si rafforza la necessità di ricercare risposte sinergiche
ad attese presumibilmente crescenti per quantità e complessità.
In quest’ottica, il primo articolo (“Filantropia per decreto”: analisi della
relazione tra governance e strategie erogative nelle fondazioni di origine
bancaria) si focalizza sulle Fondazioni di Origine Bancaria (FOB). Ogni
anno, il sistema delle FOB gestisce un ammontare molto ingente di risorse
(oltre 50 miliardi di euro nel 2010) e garantisce un volume significativo
di erogazioni (1,3 miliardi nel 2010), connotandosi come il filantropo più
importante a livello nazionale e come attore di rilievo nel settore non profit.
Per le FOB diventa quindi fondamentale disporre di strutture strategiche e
operative idonee al raggiungimento delle proprie finalità. L’analisi svolta
mette innanzi tutto in luce come il ruolo che le FOB devono svolgere per
perseguire la propria missione si differenzi in funzione del contesto socioeconomico di riferimento. Nei contesti geografici più ricchi è sufficiente un
approccio “erogativo”, ossia di supporto finanziario (oltre che, naturalmente,
di selezione e controllo) verso progetti proposti da altri soggetti del terzo
settore, che in questi contesti si caratterizzano per una presenza ampia e
qualificata. Altrove, invece, è necessario che le FOB assumano un ruolo più
“operativo”, cioè partecipino più direttamente alla promozione e allo sviluppo dei progetti. A tal fine, tuttavia, si rivelano determinanti le caratteristiche
del sistema di governance quali un patrimonio di conoscenze diffuse da
parte dei componenti del board, network estesi, processi affinati di controllo
e di valutazione, nonché una riconosciuta autorevolezza del Presidente. In
altri termini, perché le FOB possano svolgere efficacemente un ruolo operativo è cruciale sia la qualità delle persone sia l’effettivo funzionamento
degli organi di governo. Coerentemente con l’impostazione complessiva
della Rivista, l’articolo propone dunque considerazioni rilevanti tanto sotto
il profilo scientifico, quanto nelle implicazioni per manager e policy-maker.
Sui temi della governance e del rapporto pubblico-privato interviene
anche il secondo articolo (Il dilemma politica-mercato nelle Imprese dei
Servizi Pubblici Locali quotate. Quali i possibili rimedi di governance). In
questo caso, l’elemento di criticità che viene analizzato è la necessità di
contemperare, nelle Imprese di Servizi Pubblici Locali (ISPL), le aspettative
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Azienda Pubblica 4.2012
Editoriale
dei soci pubblici con quelle dei soci privati, la tutela dell’interesse pubblico
con la remunerazione del capitale investito, l’accountability politica con
l’autonomia del management. In linea di principio, a tale contemperamento
potrebbero utilmente contribuire gli assetti di governance, tramite opportune soluzioni di carattere istituzionale, strutturale e processuale. L’articolo
evidenzia però come, nelle ISPL quotate italiane, tali assetti siano ancora
prevalentemente orientati a soddisfare le esigenze di carattere politico (per
esempio nella composizione dei consigli di amministrazione) più che quelle
di economicità della gestione.
Di nuovo alle aziende non profit sono invece dedicati il terzo e quarto
articolo, con una particolare attenzione al coinvolgimento degli stakeholder.
Il terzo articolo (Sistemi di welfare e accountability delle aziende non profit:
verso una rendicontazione condivisa e partecipata dei servizi alla persona)
osserva innanzi tutto come al ruolo “pubblico” o di “pubblico interesse” delle
aziende non profit si correli un dovere di accountability. Evidenzia inoltre
due aspetti: da un lato, la presenza di un ampio patrimonio di competenze
e di linee guida in materia di rendicontazione sociale delle aziende non
profit; dall’altro, la pluralità degli attori coinvolti nell’erogazione dei servizi
pubblici e la conseguente importanza che assume la capacità di agire in
rete (network). Di qui la riflessione su opportunità e criticità di un possibile
sistema di common and shared accountability per i servizi pubblici, ossia
di una forma condivisa e partecipata di rendicontazione che rispecchi la
collaborazione (e, quindi, la corresponsabilità) di tutti i soggetti pubblici e
privati coinvolti nella realizzazione dei servizi pubblici.
L’effettivo coinvolgimento degli stakeholder nella gestione delle aziende
non profit, peraltro, è tutt’altro che semplice, come chiaramente evidenziato
dal quarto articolo (Il coinvolgimento degli stakeholder nelle aziende non
profit: alcune evidenze empiriche attraverso analisi di contenuto). L’articolo
prende spunto dalla distinzione tra stakeholder management e stakeholder
engagement: con il primo, l’azienda non profit cerca di gestire le aspettative
dei propri stakeholder e le questioni sociali ed economiche da loro sostenute,
contemperandone le posizioni; con il secondo, più ambiziosamente, l’azienda non profit cerca di coinvolgere gli interlocutori nei processi decisionali,
rendendoli partecipi della gestione aziendale, condividendo informazioni,
dialogando e creando un modello di responsabilità reciproca. Attraverso un’indagine empirica, gli autori mostrano come, anche nel contesto internazionale
e anche in aziende non profit classificabili come eccellenti per l’attenzione
che prestano agli aspetti formali e sostanziali del reporting socio-ambientale,
il coinvolgimento degli stakeholder resti piuttosto limitato. Più specificamente,
dalla ricerca emergono interessanti politiche e prassi di interazione con gli
stakeholder, soprattutto con riferimento alla composizione degli organi di
governo e alla formulazione delle strategie (meno, invece, proprio nella
rendicontazione di sostenibilità); prevale però un approccio di stakeholder
management più che un effettivo stakeholder engagement che preveda un
sistema di diritti e doveri reciproci tra l’azienda e i propri portatori di interesse.
Azienda Pubblica 4.2012
376
Editoriale
Ai temi dell’accountability e della rendicontazione è dedicato anche il
quinto articolo (Accountability e strumenti di rendicontazione sociale nelle
province italiane), che si focalizza però sul settore pubblico e specificamente
sulle province. Attraverso un’indagine empirica, l’articolo evidenzia innanzi
tutto una buona diffusione della rendicontazione sociale (56 province, pari
al 51%), senza particolari differenziazioni tra le macro-aree geografiche del
Paese. Non sempre, però, la rendicontazione è svolta con continuità: alcune
province l’hanno abbandonata prima che potesse essere assorbita nelle
pratiche amministrative dell’ente e quindi incidere sui processi decisionali, di
programmazione e di controllo. L’analisi segnala inoltre come particolarmente problematiche la scarsa comunicazione e l’elevata autoreferenzialità. La
comunicazione non è efficace: sebbene le province segnalino come finalità
preminente del bilancio sociale proprio la comunicazione con il cittadino
(trascurando generalmente così gli stakeholder interni), i modelli di riferimento comunemente adottati privilegiano i contenuti più che il coinvolgimento
degli stakeholder; la rendicontazione è raramente articolata per categorie
di stakeholder; la diffusione poggia spesso sul solo sito internet istituzionale,
tra l’altro non sempre di facile fruizione. L’autoreferenzialità scaturisce invece
dalla mancanza di una verifica esterna che attesti l’attendibilità di quanto
rendicontato, anche per l’assenza di standard per la certificazione. Di conseguenza, la rendicontazione sociale rischia di rimanere un’esercitazione
fine a se stessa, svolta seguendo una moda e senza una reale volontà di
realizzare un processo di rendicontazione sociale in ottica di accountability,
né tanto meno di stakeholder engagement.
Mentre i primi cinque articoli ruotano intorno a tematiche almeno parzialmente comuni (governance, accountability, rendicontazione), l’ultimo (La
politica di knowledge management nell’Agenzia delle entrate: gli strumenti
di comunicazione organizzativa) si focalizza sulla gestione del personale.
Come è noto, una criticità particolarmente rilevante dei processi di aziendalizzazione della PA sta proprio nella debolezza dei sistemi operativi di
gestione del personale: molte aziende pubbliche si limitano alla sola “amministrazione del personale”, non utilizzano adeguatamente i dati di cui
dispongono, non riescono a monitorare nemmeno l’evoluzione demografica
del proprio personale né, a maggior ragione, il contributo delle persone
alla creazione del valore aziendale. Utilizzando l’esperienza innovativa
avviata dall’Agenzia delle Entrate in tema di knowledge management, gli
autori mostrano invece come sia possibile e opportuno iniziare a investire
anche in quest’area.
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Azienda Pubblica 4.2012
Saggi
“Filantropia per decreto”: analisi della relazione tra governance e strategie erogative
“Filantropia per decreto”: analisi della relazione tra governance e strategie
erogative nelle fondazioni di origine bancaria *
Giacomo Boesso
Professore Associato in Economia Aziendale, Dipartimento di Scienze Economiche e Aziendali, Università degli Studi
di Padova
Fabrizio Cerbioni
Professore Ordinario in Economia Aziendale, Dipartimento di Scienze Economiche e Aziendali, Università degli Studi
di Padova
Andrea Menini
Ricercatore in Economia Aziendale, Dipartimento di Scienze Economiche e Aziendali, Università degli Studi di
Padova
Antonio Parbonetti
Professore Associato in Economia Aziendale, Dipartimento di Scienze Economiche e Aziendali, Università degli Studi
di Padova
Sommario: 1. Introduzione. – 2. Teorie di riferimento. – 3. Le ipotesi. – 4. Metodologia. – 5. Risultati. – 6. Conclusioni.
Il lavoro cerca di isolare gli aspetti della governance che contribuiscono a caratterizzare l’approccio
alla filantropia delle principali fondazioni di origine bancaria Italiane. Considerando il crescente
coinvolgimento di questi istituti privati nel perseguimento di finalità di interesse generale, l’analisi
empirica proposta analizza le relazioni tra diverse strategie filantropiche (ricettiva, reattiva, imprenditoriale e collaborativa) e: [a] competenze degli amministratori; [b] processi di funzionamento dei
CdA; [c] leadership ed autorevolezza del Presidente.
This paper examines whether effective governance plays a major role in driving the strategies of
foundations when it comes to choosing between reactive or proactive philanthropy models for the
public interest. More specifically, we investigate the relationships between philanthropic strategies
(expressive, receptive, entrepreneurial and collaborative) and [a] board capital (competences
and networks), [b] board processes (planning, control, evaluation, etc.), and [c] chairman power
(entrenchment and tenure).
* Lo scritto è frutto del lavoro congiunto degli Autori. In particolare sono da attribuire a G. Boesso i §§ 1 e 2, a A.
Parbonetti il § 3, a A. Menini i §§ 4 e 5 ed a F. Cerbioni il § 6. La ricerca è stata finanziata dal Progetto di Ateneo
2008 dell’Università degli Studi di Padova e dal Progetto Congiunto 2010 di Fondazione Cassa di Risparmio di Padova
e Rovigo e Fondazione Cassa di Risparmio di Modena.
Parole chiave: Governo – Fondazioni – Filantropia
Key words: Governance – Foundations – Philanthropy
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Azienda Pubblica 4.2012
“Filantropia per decreto”: analisi della relazione tra governance e strategie erogative
Saggi
1. Introduzione
Il tema della governance delle Fondazioni di Origine Bancaria (FOB) è di
grande attualità in questo momento in Italia. Le politiche statali in tema di
welfare aperte al contributo dei privati e la capacità delle fondazioni di
accreditarsi come interlocutori centrali nel terzo settore hanno progressivamente reso le FOB un punto di riferimento per chi ha intenzione di sviluppare
progetti di rilevanza sociale a cui non sono riconducibili ritorni economici. In
un momento in cui alle fondazioni si rivolge una messe di operatori sempre
più ampia, diventa fondamentale disporre di strutture strategiche ed operative
idonee al raggiungimento degli scopi prefissati. La letteratura è concorde
sull’importanza rivestita a questo proposito da adeguati sistemi di governance
(CEP 2000; Porter e Kramer 1999) ed anche l’associazione di categoria
delle fondazioni stesse (l’ACRI) testimonia una forte attenzione al tema.
Questo lavoro estende la ricerca in tema di governance delle FOB. L’obiettivo principale è quello di esaminare, tramite un questionario compilato
da 51 delle 88 FOB Italiane (58%), il ruolo svolto dalla governance nel
definire differenti approcci all’attività filantropica. Più in particolare, si analizzano le relazioni tra l’approccio alla filantropia adottato dalle fondazioni
e selezionate caratteristiche di governo: [a] competenze degli amministratori
e loro network di relazioni (tra cui, le competenze manageriali piuttosto che
politiche, ecc.); [b] processi di funzionamento dei CdA (tra cui, i sistemi di
pianificazione e controllo; il reperimento ed utilizzo delle informazioni da
parte degli amministratori; la valutazione degli amministratori; il numero
delle riunioni, ecc.); [c] leadership ed autorevolezza del Presidente (intese
come numero di anni di permanenza in carica e grado di co-partecipazione
alle decisioni del CdA).
Le FOB italiane rappresentano un ambiente di ricerca unico, soprattutto
a causa della loro storia particolare. Nate circa 20 anni fa, quando il
legislatore decise di privatizzare il settore bancario pubblico e di separare
l’attività bancaria da quella filantropica, le fondazioni hanno vissuto momenti di evoluzione importantissimi. All’inizio, il loro ruolo principale è stato
quello di gestire le azioni della banca conferitaria. In seguito tale ruolo si
è progressivamente evoluto, sia per una progressiva diversificazione nel
portafoglio di investimenti, che in molti casi le ha allontanate dalla gestione
bancaria, sia per una sempre più importante attività di erogazione e di
sostegno al settore pubblico e non profit. (1)
Il mondo delle FOB è rilevante anche per l’entità delle risorse gestite, che
nel 2010 ammontavano ad oltre 50 miliardi di euro, in grado di generare
redditività per oltre 2 miliardi ed erogazioni superiori a 1,3 miliardi (XVI
Rapporto annuale ACRI). Queste dimensioni rendono le FOB il filantropo
più importante a livello nazionale e le connotano come attore di rilievo nel
settore non profit. In aggiunta, la loro particolare genesi ci fornisce una
1 Per approfondimenti si raccomanda l’ampia documentazione disponibile sul sito www.acri.it.
Azienda Pubblica 4.2012
380
Saggi
“Filantropia per decreto”: analisi della relazione tra governance e strategie erogative
ulteriore motivazione per studiare la governance delle FOB. L’assenza di un
fondatore, infatti, famiglia o società che sia, fa sì che i processi di governo
siano fondamentali per definire il ruolo e i modelli di operatività assunti
dalle fondazioni stesse.
Lo studio della governance in queste istituzioni può, pertanto, consentire
di analizzare sia i problemi di agenzia (la relazione tra attori istituzionali,
il ruolo del Presidente e la strategia delle FOB) sia le relazioni che le FOB
intrattengono con gli stakeholder (il bilanciamento tra le necessità sociali e
la strategia delle fondazioni). Pochi studi hanno esaminato sino ad oggi la
governance nelle FOB (Cerbioni et al. 2010; D’Angelo e Amatucci 2007;
Monge 2010) e nessuno ha mai cercato di analizzare se ed in quale modo
un dato assetto di governo possa essere associato a particolari approcci
alla filantropia.
La nostra analisi mette in evidenza come elevate e differenti competenze
nei CdA, adeguati processi di governo e capacità di leadership nei soggetti
apicali si associno più spesso a modelli di filantropia “operativa”. Ciò potrebbe implicare che una elevata eterogeneità delle competenze all’interno
dei board, forti relazioni con gli interlocutori esterni, comprovata esperienza
del Presidente e processi di governo efficaci possono aumentare la capacità
delle fondazioni di gestire progetti complessi. In aggiunta a questi aspetti
più tipicamente attinenti alla governance, i risultati mettono in luce come
nelle province più ricche le fondazioni sembrano, viceversa, più propense
ad adottare modelli di filantropia “erogativa”, probabilmente a causa del
vasto numero di organizzazioni non profit qualificate che si rivolgono a loro.
I risultati del lavoro possono pertanto contribuire a comprendere meglio il
problema della governance nelle organizzazioni non profit. Come suggerito
da Ostrower e Stone (2010), infatti, la ricerca in tema di governance manca
ancora di adeguate indagini empiriche e di una prospettiva teorica fondata.
2. Teorie di riferimento
Il presente studio si basa sui contributi di due filoni di ricerca internazionali
mai verificati empiricamente in Italia, quello sulla strategia che guida l’azione
filantropica (che nel modello sarà considerata variabile dipendente) e quello
sulla corporate governance (le variabili indipendenti).
Strategie filantropiche
Sulla base della ricerca svolta dal Centre for Effective Philanthropy sulle maggiori fondazioni statunitensi (2000) e da quanto sostenuto dalla letteratura
italiana sul ruolo emergente in campo sociale delle FOB (Barbetta 2001), il
lavoro parte dalla considerazione che le fondazioni, al fine di raggiungere
i loro scopi sociali, possono implementare differenti approcci strategici alla
filantropia basati su differenti priorità sia nell’elargizione di fondi sia nelle
modalità di sviluppo dei progetti. Si comprende come questi aspetti siano
381
Azienda Pubblica 4.2012
“Filantropia per decreto”: analisi della relazione tra governance e strategie erogative
Saggi
di fondamentale importanza nel determinare il ruolo svolto dalla fondazione, soprattutto in contesti nei quali il welfare pubblico progressivamente si
riduce o tende ad azzerarsi ed il ruolo del mecenatismo assume importanza
fondamentale nello sviluppo di progetti a valenza sociale. (2)
La prima dimensione qui proposta, “elargizione”, definisce il modo in cui
la fondazione si relazione agli interlocutori esterni ed è misurata osservando
le differenti priorità attribuite ai progetti finanziati a seconda che si tratti di:
• progetti autonomi e replicabili ai quali la fondazione partecipa come
promotore e finanziatore (ad esempio, l’analisi di diverse soluzioni
per l’assistenza sanitaria agli anziani non autosufficienti finanziando
ospedali ma anche, in alternativa, ambulatori periferici mobili, ONLUS
per l’assistenza domiciliare, ecc., per poi valutarne i diversi esiti);
• progetti complessi e partecipati (ad esempio lo sviluppo di infrastrutture locali come porti, aeroporti, ponti, teatri, ecc.);
• progetti propri proposti e sviluppati dalle stesse fondazioni (ad
esempio l’organizzazione di mostre, restauri o di eventi culturali
selezionando i migliori partner operativi ed affiancandoli);
• finanziamenti alla ricerca (ad esempio borse, bandi ed assegni di
ricerca);
• elargizioni “non condizionate” (ad esempio il finanziamento di
iniziative proposte alla FOB da qualificati operatori non profit con o
senza un bando che inviti a presentare proposte specifiche).
Mentre le prime tre tipologie si riferiscono a fondazioni che cercano
di svolgere un ruolo “operativo” sul territorio, le ultime due si riferiscono
a fondazioni “erogative” che si propongono principalmente di supportare
attività meritevoli di attenzione proposte dagli operatori del terzo settore
(associazioni, gruppi, ecc.). Le FOB italiane adottano indistintamente tutte
queste tipologie d’intervento, come si desume dal capitolo sulle “Attività
Istituzionali” del Rapporto redatto annualmente da ACRI e presentato durante
il loro “Congresso Nazionale”. Non si è però mai investigato con quale priorità esse ponderano tra le diverse forme di intervento. Tali interventi sociali,
inoltre, sono rendicontati da ciascuna fondazione con maggiore dettaglio nel
proprio Bilancio di Missione reso obbligatorio dal d.lgs. 153/99 il cui art.
9 prevede “un’apposita sezione [che illustri] gli obiettivi sociali perseguiti…
e gli interventi realizzati, evidenziando i risultati ottenuti nei confronti delle
diverse categorie di destinatari”.
Nel mix dei diversi strumenti e modi d’intervento è chiaro che molto
dipende anche dal livello di professionalità offerto dagli operatori del terzo
settore. Se questo, infatti, fosse inerme o povero di idee, il compito della
fondazione come propulsore a livello locale diventerebbe più importante.
Al contrario, in presenza di operatori professionali e competenti, la tipolo2 Ferma restando l’impossibilità delle FOB di sostituirsi al pubblico, pena l’azzeramento
dell’intero proprio patrimonio in tempi rapidissimi.
Azienda Pubblica 4.2012
382
Saggi
“Filantropia per decreto”: analisi della relazione tra governance e strategie erogative
gia di sostegno potrebbe essere diversa, in quanto i progetti candidati ai
finanziamenti spesso godrebbero di caratteristiche tali da renderli attrattivi
senza bisogno di ulteriori iniziative. In questo senso i bandi, le gare ed
i successivi controlli promossi dalle fondazioni agiscono da stimolo e da
volano per la progressiva professionalizzazione degli enti non profit che
ambiscono ad un finanziamento.
La seconda dimensione di analisi proposta si riferisce alle “attività di
supporto ai progetti” e mette in luce, invece, come le fondazioni ripartiscano
il loro tempo dedicato alle elargizioni essenzialmente su tre fasi: 1. ex ante,
2. in itinere; 3 ex post. In particolare, la fase ex ante è fortemente collegata
alla selezione dei progetti (mediante bandi di gara, avvisi di partecipazione, richieste di collaborazione, comitati di progettazione interni, ecc.);
la fase in itinere è collegata al finanziamento (con gli opportuni obiettivi
intermedi, verifiche intermedie, milestone, ecc.); quella ex post è dedicata
a comprendere l’efficacia dei progetti finanziati (con appositi strumenti di
valutazione dell’impatto sociale delle proprie iniziative, noto in letteratura
come outcome, o la più semplice rilevazione del numero di erogazioni
effettuate sul territorio, output, talvolta unico dato disponibile se i benefici
dell’intervento sono misurabili solo nel lungo periodo come per gli interventi
di ricerca, sanità o istruzione).
Anche la distinzione tra “valutazione” ex ante ed ex post trova spazio
nelle linee guida sul bilancio di missione proposto da una commissione di
esperti agli associati ACRI nel IX Rapporto annuale. È importante, a questo
proposito, sottolineare come le fondazioni possano avere pratiche differenti
nell’allocare il tempo tra le tre fasi, in quanto diverso può essere l’interesse
a svolgere controlli. In particolare, ai fini dell’analisi che seguirà, questo
studio identifica due pratiche tra loro estreme, i controlli “specializzati” e
quelli “omogenei”. I controlli specializzati si riferiscono a situazioni in cui
le fondazioni concentrano le loro attività prevalentemente (o unicamente)
in una delle tre fasi, mentre i controlli sono omogenei quando le fondazioni
bilanciano la loro attenzione su tutte e tre le fasi.
Intersecando le due dimensioni, è possibile distinguere quattro differenti
approcci alla filantropia strategica: ricettiva, reattiva, imprenditoriale e
collaborativa (si veda la figura 1).
Figura 1 – Modelli di filantropia strategica
Priorità nelle elargizioni
Attività di supporto (ex ante,
in itinere, ex
post)
Incondizionato
(modello erogativo)
Autonomo
(modello operativo)
Omogenee
Reattiva
Collaborativa
Specializzate
Ricettiva
Imprenditoriale
383
Azienda Pubblica 4.2012
“Filantropia per decreto”: analisi della relazione tra governance e strategie erogative
Saggi
Filantropia ricettiva
La letteratura internazionale considera filantropia ricettiva quell’approccio
secondo il quale le erogazioni vengono deliberate sulla base di propositi
comuni (visioni o valori) tra donante e beneficiario. Raymond (2010) sottolinea come alla base di questo approccio strategico vi sia la condivisione dei
valori tra gli interlocutori. Di conseguenza, questo tipo di approccio tende a
privilegiare il maggior numero possibile di beneficiari e focalizza il controllo
su fasi specifiche, in particolare sui processi di selezione e di controllo ex
ante. È chiaro, in sintesi, che questo approccio privilegia i beneficiari dotati di credibilità agli occhi del donante e che contribuiscono a diffondere
i medesimi valori. La maggioranza delle FOB italiane, coerentemente con
questo profilo, rispondono in maniera eterogenea alle richieste di molteplici
associazioni ed ONLUS presenti sul territorio supportando iniziative locali a
carattere culturale, sportivo, sociale, ecc. Le stesse FOB, tuttavia, associano
a questi finanziamenti interventi di altro tipo come di seguito descritti.
Filantropia reattiva
L’essenza della filantropia reattiva è l’enfasi posta sul verificare e progressivamente raffinare un modello di riferimento basato su ciò che si apprende
sul campo (Lerner 2005). Di conseguenza, una fondazione che adotta
questo tipo di approccio fornisce linee di condotta ai potenziali beneficiari,
descrivendo cosa si propone di attuare. Questo approccio si associa ad un
sistema di controllo che fornisce in modo omogeneo informazioni su tutte
le fasi, anche se permane una forte preferenza a finanziare il maggior
numero di progetti possibile. In particolare, l’approccio reattivo fa sì che il
donante richieda numerose informazioni di dettaglio. Traslando il profilo
nel caso italiano, si può osservare come diverse FOB si sono specializzate
in determinati ambiti di intervento – con finanziamenti pluriennali tesi a
favorire determinati comportamenti degli operatori, ad esempio, nella ricerca alimentare o mediante il supporto a specifici percorsi di studio per il
recupero ambientale o le scienze giuridiche – e selezionano accuratamente
i partner da finanziare e monitorare nel tempo.
Filantropia imprenditoriale
La filantropia imprenditoriale è un approccio che si propone di incrementare la
visibilità o di migliorare l’immagine della fondazione. Il carattere di imprenditorialità consiste nel cercare di essere efficaci nel produrre soluzioni ai problemi
sociali (Lerner 2005). In generale, questo tipo di approccio porta le fondazioni
ad agire come “imprenditori istituzionali”, valutando al contempo opportunità
e vincoli e focalizzando le attività proprie e di altri attori su temi di rilievo
sociale (Westley e Antadze 2010). In particolare, il filantropo imprenditoriale
assegna alta priorità ai processi di selezione dei partner operativi e dedica
Azienda Pubblica 4.2012
384
Saggi
“Filantropia per decreto”: analisi della relazione tra governance e strategie erogative
maggiori risorse alle prime fasi (ex ante e in itinere). Il suddetto approccio, in
Italia, potrebbe essere anche suggerito da una particolare povertà del contesto
economico e culturale dell’area di riferimento, nella quale è importante svolgere
una funzione “attiva” in carenza di qualificati partner non profit. Coerentemente,
alcune FOB italiane hanno deciso di stimolare direttamente ambiti di sviluppo
locale reputati bisognosi di interventi “attivi”: dalla costruzione di case alloggio
per disabili e minori disagiati al social housing.
Filantropia collaborativa
La necessità di allocare al meglio risorse limitate ha generato nel tempo un
progressivo coinvolgimento dell’attività delle fondazioni con quelle dei beneficiati e di altre istituzioni, generando l’avvio di collaborazioni nell’ambito
sociale (Frumkin 2006). Questo tipo di strategia si correla all’implementazione
di sistemi di controllo efficaci e ad una forte preferenza a finanziare progetti
complessi che possono essere replicati in futuro se si rivelano di successo.
Questo tipo di approccio si caratterizza per una allocazione di tempo e risorse in tutte le fasi. C’è da sottolineare che, se da un lato questo approccio
strategico porta a massimizzare il ritorno atteso dalle risorse investite, numerosi
sono i problemi di controllo, soprattutto nella misura in cui la dimensione del
donante sia minima (Robinson 2001). Coerentemente, alcune FOB italiane
si sono fatte carico di importati progetti strutturali per lo sviluppo economico
e sociale dei propri territori: dalla ristrutturazione di porti ed aeroporti alla
conservazione di determinati eco-sistemi o, ancora, la sperimentazione del
“buono di servizio” e delle “prestazioni domiciliari” sociali e sanitarie.
L’assunzione alla base della nostra ricerca è che gli approcci strategici di
tipo imprenditoriale e collaborativo siano più complessi rispetto agli altri in
quanto individuare, seguire e valutare progetti è un’attività più ampia rispetto a
quella di selezionare e finanziare il maggior numero possibile di beneficiari e
richiede maggiori risorse umane, manageriali, operative ed organizzative. Ciò
non costituisce, ovviamente, un giudizio di valore. Non si vuole, in altri termini,
sostenere che i primi siano migliori rispetto agli altri. Siamo infatti perfettamente
consapevoli che la condivisione di valori rappresenti un elemento richiesto da
tutti gli operatori del terzo settore. Siamo anche consapevoli che, nel dialogo
continuo con il territorio, le competenze degli interlocutori esterni giocano
un ruolo fondamentale nel posizionare l’attività di una fondazione. Sembra,
piuttosto, che le risorse necessarie per sviluppare gli approcci “più evoluti”
siano più complesse in termini di specificità, di capacità e di conoscenza.
Per lo stesso motivo, si considera l’approccio collaborativo quello più evoluto,
mentre la filantropia ricettiva, basandosi semplicemente sulla condivisione di
valori, rappresenta l’approccio che necessita di minori risorse manageriali.
È altrettanto ovvio, tuttavia, che una maggiore qualificazione manageriale
potrebbe distinguere una fondazione ricettiva da un’altra rendendo la prima,
verosimilmente, più efficiente e proattiva nella propria azione ricettiva.
385
Azienda Pubblica 4.2012
“Filantropia per decreto”: analisi della relazione tra governance e strategie erogative
Saggi
3. Le ipotesi
La strategia di qualsiasi organizzazione dovrebbe essere ispirata e guidata
da un sistema di governance efficace.
Conger et al. (1998) sostengono che un consiglio di amministrazione
efficace necessita di conoscenza e di esperienza da parte dei suoi membri
e deve fondare i propri lavori su processi che forniscano le necessarie
informazioni per l’esercizio dell’attività decisionale. Dal momento che la
governance è un sistema di caratteristiche interrelate, questo lavoro analizza le relazioni che possono sussistere tra caratteristiche di governance
(in particolare board capital, processi e potere del presidente) e tipo di
approccio alla filantropia.
Approccio alla filantropia e competenze del board (board capital)
Il consiglio di amministrazione svolge due funzioni fondamentali (Zahra
e Pearce 1989). In primo luogo, gli amministratori supportano i manager
nella strategia aziendale (attività di advisory); in secondo luogo, il CdA
svolge una funzione di controllo sull’attività e sulle performance (monitoring).
Questo ultimo elemento mette in luce il problema di agenzia.
La letteratura sul non profit ha discusso l’applicabilità di queste due
funzioni anche alle organizzazioni del terzo settore e pubbliche identificando vari modelli di governance (Cornforth 2003; Riccaboni e Galgani
2010; Ricci e Landi 2009) che sottolineano la grande varietà dei ruoli
assegnati al CdA. In particolare, la letteratura in tema di non profit sostiene che i ruoli e le responsabilità dei CdA consistono anche in funzioni
legali e di assistenza: assicurando che siano utilizzate risorse adeguate;
sovrintendendo alla qualità della comunicazione economico-finanziaria;
stabilendo standard etici; assicurandosi che l’attività dell’organizzazione
sia in linea con la sua missione e monitorando l’operato dell’Amministratore Delegato (AD).
Questa ampia varietà di ruoli assegnati al board richiederebbe una
vasta eterogeneità di competenze negli amministratori. Per descrivere
la varietà di contributi che ciascun membro del CdA apporta all’organizzazione, Hillman e Dalziel (2003) hanno introdotto nella letteratura
di strategic management il concetto di board capital. In particolare, gli
autori sostengono che la somma dei capitali umani (abilità e competenze
degli amministratori) e sociali (relazioni con l’ambiente esterno) possono
approssimare la capacità del CdA di apportare risorse all’azienda, condizionandone la strategia. Gli autori dimostrano che maggiore board capital
nel CdA porta ad approcci strategici più sfidanti. Questo ci consente di
formulare la seguente ipotesi:
Hyp1: Maggiore capitale umano e sociale nel CdA è associato positivamente con approcci strategici alla filantropia più evoluti.
Azienda Pubblica 4.2012
386
Saggi
“Filantropia per decreto”: analisi della relazione tra governance e strategie erogative
Processi di governance
La letteratura mette in evidenza la rilevanza dei processi di funzionamento
dei CdA nel determinare la loro efficacia. Per esempio, Vafeas (1999)
dimostra che il numero di riunioni influenza il modo in cui opera il CdA,
quindi il suo impatto sulla performance. Rutherford e Buchholtz (2007)
analizzano l’importanza della qualità delle informazioni disponibili per gli
amministratori. Golden e Zajac (2001) forniscono l’evidenza empirica che
l’attenzione del CdA agli argomenti strategici e la valutazione del board
sono positivamente correlate ai cambiamenti di approccio strategico.
Green e Griesinger (1996) sostengono che le attività e le relazioni
esterne degli amministratori influenzano l’efficacia dei board anche nelle
organizzazioni non profit. In aggiunta, dimostrano empiricamente, sulla
base di interviste, che la valutazione dell’AD da parte dei consiglieri, la
partecipazione di questi ultimi alla pianificazione di breve e di medio lungo
periodo, l’interazione e lo sviluppo delle attività del CdA rappresentano le
loro incombenze più importanti subito dopo la definizione della mission e
delle politiche aziendali.
La conseguenza logica di questi risultati di ricerca è che attività e processi
più elaborati conducono ad approcci strategici più evoluti e sfidanti. Sulla
base di ciò si formula la seguente ipotesi:
Hyp2: Processi sofisticati di governance sono positivamente associati a
approcci alla filantropia più evoluti.
Potere del Presidente
Secondo Conger et al. (1998), in tema di letteratura “profit”, un board efficace necessita di essere presieduto da una persona autorevole ed in ogni
caso l’azienda deve raggiungere un adeguato bilanciamento di poteri tra
il CdA ed il leader. Nelle organizzazioni non profit il potere si manifesta
prevalentemente nella capacità dell’AD o del Presidente (in caso di assenza
del primo) di influenzare le decisioni (Middleton 1987).
Sugli effetti del potere del leader sul coinvolgimento del board nella
strategia, tuttavia, la letteratura non è unanime. Da una parte, ad esempio,
esistono posizioni come quella proposta da Dalton e Kesner (1987), secondo
i quali un Presidente autorevole può influenzare il giudizio indipendente
del board, condizionando le decisioni (Westphal 1998). Dall’altra parte,
ci sono studi come quello di Zahra e Pearce (1991) che sottolineano che
senza un Presidente o un AD autorevoli gli amministratori ingaggiano dibattiti
e discussioni che fanno emergere molteplici punti di vista, condizionando
negativamente la capacità di prendere decisioni.
Riguardo alle organizzazioni non profit, le evidenze empiriche di Siciliano
(2008) mostrano come un leader forte favorisca un ruolo attivo degli amministratori ed una stabilità nella leadership (Alexander et al. 1993), fattori che
consentono la presa di decisioni di medio lungo termine. In particolare, questo
387
Azienda Pubblica 4.2012
“Filantropia per decreto”: analisi della relazione tra governance e strategie erogative
Saggi
ultimo contributo è rilevante considerando le peculiarità delle FOB italiane,
dal momento che la loro particolare costituzione (filantropia per decreto) ha
causato, soprattutto in una prima fase, una carenza di strategia e di leadership
(Barbetta 2001). Questa carenza è stata spesso colmata da un Presidente
autorevole che ha agito anche da AD e che è stato sovente riconfermato
mandato dopo mandato. Sulla base di ciò si formula la seguente ipotesi:
Hyp3: Il potere del Presidente è positivamente associato con approcci
alla filantropia strategica più evoluti.
4. Metodologia
Campione
Si sono raccolte informazioni sulla governance e sull’approccio alla filantropia
sottoponendo un questionario a tutte le 88 FOB. Una versione preliminare del
questionario stesso è stata presentata all’ACRI per un confronto e successivamente testata su un campione pilota di quattro fondazioni. Sia i Presidenti che
i Segretari/Direttori generali hanno potuto rispondere alla versione finale del
questionario, che è stata disponibile on line da gennaio a giugno 2010. (3)
Dopo tre iniziative di richiamo si sono ottenuti 51 questionari compilati (58%).
Il modello empirico
Seguendo la classificazione proposta in figura 1, si è identificata la tipologia
delle strategie filantropiche (SF) di ciascuna FOB, incrociando le priorità
nelle elargizioni con le principali attività di supporto, così come indicate dai
presidenti nel questionario. Successivamente a tale classificazione, abbiamo
testato le ipotesi calcolando le stime di modelli logit ordinati (tutte le statistiche – sono corrette per eteroschedasticità) del seguente modello multivariato:
SF =α + β1 Capitaleumano e sociale + β2 Processigovernance + β3 Presidenteleadership
+ β4 Presidenteautorevolezza + λ Ambiente + γ1 Dimensione + γ2 Redditività
+ γ3 Politica +ε (1)
Dove:
SF
= Strategie filantropiche date le attività di supporto
e le priorità sulle elargizioni
Capitaleumano e sociale
= Capitale umano e sociale del board
Processigovernance
= Processi di funzionamento del CdA
Presidenteleadership
= Leadership del Presidente
(segue)
3 Copia dello strumento di ricerca composto da 39 domande è disponibile contattando gli
autori.
Azienda Pubblica 4.2012
388
Saggi
“Filantropia per decreto”: analisi della relazione tra governance e strategie erogative
Presidenteautorevolezza
= Autorevolezza del Presidente
Ambiente
= Ricchezza della provincia in cui opera la fondazione
Dimensione
= Logaritmo naturale del patrimonio netto
Redditività
= Rapporto tra avanzo e patrimonio netto
Politica
= Presenza di competenze/relazioni politiche nell’Organo
di Amministrazione
Variabile dipendente
Le FOB possono implementare differenti approcci alla filantropia sulla base
delle due dimensioni precedentemente discusse: “priorità nelle elargizioni”
e “attività di supporto dei progetti”. Tutte le variabili di seguito raccolte
sono coerenti con precedenti studi sul governo nel non profit e adatte per
misurare i fenomeni descritti (CEP 2000; Cerbioni et al. 2010, Cornforth
2003; Monge 2010; Ostrower e Stone 2010).
Per la prima dimensione abbiamo utilizzato le priorità assegnate ai
diversi tipi di elargizioni. Per effettuare la classifica della priorità, da più
forte a più debole, si è chiesto ai Presidenti di assegnare un punteggio a
cinque tipologie di progettualità: [5] Progetti sperimentali ma autonomi
(Autonomi), [4] Progetti complessi e partecipati (Complessi), [3] Progetti
proposti dalle stesse FOB (Propri), [2] Finanziamenti alla ricerca (Ricerca),
[1] Finanziamenti incondizionati (Incondizionati). Si è normalizzato da 0
a 1 il seguente indice per misurare le priorità (Priorità):
Priorità =5*Autonomiimportanza + 4*Complessiimportanza + 3*Propriimportanza
+ 2*Ricercaimportanza + 1*Incondizionatiimportanza (2)
Suddividendo in due il campione utilizzando la mediana (0,35) si ottiene
il sottocampione di fondazioni che preferiscono progetti incondizionati (0)
o progetti autonomi (1).
Per la seconda dimensione si sono utilizzate le risposte specifiche delle
FOB sulla percentuale di tempo che queste dedicano alle tre attività correlate allo sviluppo dei progetti (selezione, finanziamento e monitoraggio),
riassunte in un indice di concentrazione (Attività) normalizzato tra 0 e 1: (4)
Attività = 1 - ( ex-ante2 + in progress2 + ex-post2) (3)
In altre parole, Attività è uguale a 1 quando la FOB alloca in modo
uguale il tempo tra le tre fasi (ex ante = 33%, in progress = 33%, ex post
= 33%). Suddividendo il campione in due utilizzando la mediana (0,87)
si identifica il sottocampione delle fondazioni che adottano un’attività di
controllo omogenea (1) o un’attività di controllo specializzata (0).
La variabile dipendente che misura il grado di evoluzione delle strategie
4 Il massimo dell’indice è 0,67 posto uguale a 1.
389
Azienda Pubblica 4.2012
Saggi
“Filantropia per decreto”: analisi della relazione tra governance e strategie erogative
filantropiche (SF) è data dalla combinazione delle variabili Priorità e Attività. Nel caso in cui il punteggio di entrambe le variabili sia inferiore alla
rispettiva mediana, ovvero la FOB effettui attività di supporto specializzate
e adotti un modello erogativo caratterizzato da una preferenza per progetti
incondizionati, la FOB sarà classificata come “ricettiva”. Nel caso in cui
il punteggio di entrambe le variabili sia superiore alla rispettiva mediana
ovvero la FOB effettui attività di supporto omogenee e adotti un modello
operativo caratterizzato da una preferenza per progetti autonomi, la FOB
sarà classificata come “collaborativa”. Nel caso in cui solo il punteggio di
una delle due variabili sia superiore alla mediana della stessa, la FOB verrà
classificata come “reattiva” se effettua attività di supporto omogenee per
progetti incondizionati oppure come “imprenditoriale” se adotta un modello
operativo, caratterizzato da una preferenza per progetti autonomi, ed una
attività di supporto specializzata. In linea con quanto descritto nel paragrafo
precedente, il grado di “evoluzione” delle strategie filantropiche (SF) è dato
dal ranking dei quattro cluster identificati ovvero, dal meno evoluto al più
evoluto: ricettivo, reattivo, imprenditoriale e collaborativo. La figura 2 mostra
i quattro cluster e la loro dimensione (N=51).
Figura 2 – Modelli di filantropia strategica
Campione = 51 fondazioni di origine
bancaria
Priorità nelle elargizioni
Incondizionato
(modello erogativo)
Autonomo
(modello operativo)
Attività di supporto (ex ante,
in itinere,
ex post)
Omogenee
Reattiva (11)
Collaborativa (13)
Specializzate
Ricettiva (13)
Imprenditoriale (14)
Variabili di ricerca
Per ottenere le variabili indipendenti del modello si è focalizzata l’attenzione
su tre principali aspetti della governance: [1] board capital, [2] processi di
governo e [3] potere del Presidente.
Per prima cosa si è misurato il board capital (Capitaleumano e sociale) come
la somma di due componenti: profilo del board e dimensione del board,
assunta questa come proxy del network potenziale. La componente “profilo”
è la somma normalizzata (da 0 a 1) delle competenze presenti nell’Organo
di Amministrazione tra le seguenti: manageriali, finanziarie, giuridiche,
artistiche, politiche, ambientali e tecniche. La componente “dimensione” è
il numero normalizzato (da 0 a 1) dei componenti dell’Organo di Amministrazione e dell’Organo di Indirizzo. In particolare, si è sottratto il numero
minimo di membri dei due Organi (Organo di Indirizzo e Organo di Amministrazione) e diviso il risultato per la differenza tra il numero massimo
(79) ed il numero minimo di componenti (8).
Azienda Pubblica 4.2012
390
Saggi
“Filantropia per decreto”: analisi della relazione tra governance e strategie erogative
In secondo luogo, si sono misurati i processi di governance (Processigovernance)
come media normalizzata (da 0 a 1) di specifiche caratteristiche e pratiche di corporate governance (come misurate tramite scala Likert dai
rispondenti sul questionario). In particolare si è considerato: [a] il livello
di soddisfazione verso i meccanismi di pianificazione e controllo; [b] il
livello dell’attività di formazione per i nuovi amministratori; [c] pratiche
collegate alla raccolta di informazioni (es. utilizzo di ricerche proprie o
di ricerche esterne in relazione ai disagi emergenti sul territorio obiettivo);
[d] l’accuratezza delle informazioni agli amministratori; [e] la frequenza
della valutazione dei board; [f] la frequenza di partecipazione di opinion
leader esterni alle riunioni; [g] la frequenza di meeting con i beneficiari;
[h] la frequenza con cui si svolgono sessioni di approfondimento; [i]
l’implementazione di software per il controllo delle performance; [l] il
coinvolgimento di istituzioni esterne e [m] il numero di riunioni dei comitati.
In terzo luogo, il potere del Presidente è stato misurato in due modi:
Presidenteleadership e Presidenteautorevolezza. La prima variabile (Presidenteleadership)
è misurata come media tra una variabile dummy che indica l’assenza o la
presenza di un direttore generale/segretario ed il grado di delega di decisioni al Presidente (misurato su di una scala Likert su 5 punti da “sempre” a
“mai”). La seconda (Presidenteautorevolezza) è una variabile dummy uguale a 1
se il Presidente ha svolto un numero di mandati superiore a uno.
Variabili di controllo
Le variabili di controllo utilizzate sono le seguenti: Ambiente, Dimensione,
Redditività e potenziali connessioni con la Politica.
L’Italia è composta da 110 province, eterogenee tra loro in termini di
sviluppo socio economico. Di conseguenza, una delle variabili di controllo
è il livello di benessere provinciale, misurato come prodotto interno lordo
procapite nel 2009 (Ambiente).
La variabile Dimensione è misurata tramite il logaritmo naturale del
patrimonio netto della FOB; la Redditività con il rapporto tra avanzo e
patrimonio della fondazione. In aggiunta, Politica è determinata da una
variabile binaria che assume il valore 1 se almeno un membro dell’Organo
di Amministrazione ha competenze politiche.
5. Risultati
Analisi descrittive
Nella tabella 1 – panel A sono riportate le statistiche descrittive delle variabili. Riguardo la variabile dipendente, le statistiche descrittive mostrano
che le FOB implementano attività di controllo eterogenee ed hanno priorità
strategiche differenti. In particolare, meno del 50% delle fondazioni allocano
391
Azienda Pubblica 4.2012
Saggi
“Filantropia per decreto”: analisi della relazione tra governance e strategie erogative
sistematicamente il tempo in modo omogeneo sulle tre fasi. (5)
Nella tabella 1 – panel B sono riportate le statistiche descrittive, per
ciascun approccio alla filantropia, delle variabili utilizzate per determinare
le strategie filantropiche (Attività di supporto e Priorità nelle elargizioni),
delle variabili di governance e delle variabili di controllo.
Riguardo alla governance delle fondazioni (le variabili indipendenti), i
risultati in tabella 1 - panel B sembrano suggerire relazioni non lineari rispetto agli approcci identificati nel ranking (ricettivo, reattivo, imprenditoriale e
collaborativo). In particolare, si evidenzia una relazione ad U con concavità
verso il basso tra le strategie filantropiche e il board capital (Capitaleumano e sociale)
e con concavità verso l’alto tra strategie filantropiche e autorevolezza del
Presidente (Presidenteautorevolezza). I test Kruskal – Wallis mostrano differenze
significative tra i gruppi soltanto per la variabile board capital.
La tabella 1 – panel B mostra che, in media, le FOB di dimensioni maggiori
in termini di patrimonio (Patrimonio netto) e di erogazioni (Elargizioni) adottano
in genere approcci “imprenditoriali”. Tuttavia, le FOB che operano in province
meno ricche (PIL procapite) ed hanno una performance reddituale (Redditività)
non elevata, anche se di piccola dimensione, sembrano implementare approcci più “collaborativi”. In aggiunta, nei board di FOB con approcci “reattivi”
e “imprenditoriali” appare una maggior presenza di competenze politiche
nell’Organo di Amministrazione (Politica); ciò nonostante, il test Kruskal – Wallis
rifiuta una differenza statisticamente significativa tra i gruppi.
Tabella 1 – Statistiche descrittive
PANEL A – Statistiche descrittive del campione di 51 fondazioni
Variabile
media
sd
p10
p25
p50
p75
p90
Attività
0.752
0.234
0.375
0.625
0.875
0.937
0.937
Priorità
0.397
0.225
0.150
0.200
0.350
0.550
0.750
Capitaleumano e sociale
0.814
0.318
0.408
0.596
0.825
1.040
1.239
Processigovernance
0.358
0.093
0.229
0.292
0.360
0.429
0.472
Presidenteleadership
0.382
0.398
0.000
0.000
0.250
0.500
1.000
Presidenteautorevolezza
0.647
0.483
0.000
0.000
1.000
1.000
1.000
Ambiente
10.195
0.168
9.963
10.064
10.234
10.300
10.333
Dimensione
18.934
1.655
17.357
17.999
18.866
19.825
20.981
Redditività
0.042
0.026
0.014
0.027
0.040
0.053
0.071
Politica
0.431
0.500
0.000
0.000
1.000
1.000
1.000
(segue)
5 Si considera un’allocazione omogenea del tempo quando la differenza tra il tempo allocato
a due attività è inferiore al 31%. Per esempio sono considerate omogenee allocazioni tipo
“50% - 30% - 20%” (Attività pari a 0.93) e “40% - 40% - 20%” Attività pari a 0.96) , mentre
sono considerate specializzate allocazioni tipo “50% - 40% - 10%” (Attività pari a 0.87) e
“60% - 20% - 20%” (Attività pari a 0.84). Pertanto si ritengono allocazioni omogenee quando
la variabile Attività è superiore a 0.93.
Azienda Pubblica 4.2012
392
Saggi
“Filantropia per decreto”: analisi della relazione tra governance e strategie erogative
Variabili: Attività = Punteggio sull’attività di sviluppo dei progetti; Priorità = punteggio sulle priorità nelle elargizioni; Capitaleumano e sociale = somma normalizzata tra il
profile del board (numero di competenze diverse) e del network potenziale (numero
di componenti dell’Organo di Indirizzo e di Amministrazione); Processigovernance =
media normalizzata delle caratteristiche e pratiche relative al governo della fondazione; Presidenteleadership = media tra una variabile binaria che identifica se il direttore generale/segretario è presente e il grado di delega di decisioni al Presidente;
Presidenteautorevolezza = variabile binaria uguale a 1 se il Presidente è in carica da più
di un mandato; Ambiente = logaritmo del Prodotto Interno Lordo procapite della
provincia di riferimento della Fondazione nel 2009; Dimensione = logaritmo del
patrimonio netto nel 2009; Redditività = rapporto tra avanzo e patrimonio netto nel
2009; Politica = Presenza di competenze politiche nell’Organo di Amministrazione.
PANEL B – Valori medi delle variabili analizzate per ogni modello di
strategia filantropica
Variabile
Numero di FOB
Ricett.
13
Reatt.
Impren.
Collabor.
Kruskal
Wallis
test
-
11
14
13
Attività di supporto
Ex-ante (%)
49%
30%
39%
35%
*
In-itinere (%)
32%
50%
38%
33%
**
Ex-post (%)
19%
20%
23%
32%
***
Preferenza per progetti
erogativi
1,231
2,909
2,077
3,923
***
Preferenza per progetti
autonomi
4,154
3,182
4,231
2,692
***
0.626
0.807
0.972
0.836
*
Priorità nelle elargizioni
Governance
Capitaleumano e sociale
Processigovernance
0.329
0.360
0.354
0.389
Presidenteleadership
0.365
0.409
0.357
0.404
Presidenteautorevolezza
0.692
0.636
0.500
0.769
14.721
15.988
29.176
8.818
592.924
751.53
1038.094
283.737
Controllo
Elargizioni (milioni €)
Patrimonio netto (milioni €)
Redditività
4.90%
4.41%
3.93%
3.66%
Ambiente, PIL procapite (€)
29592
28528
26408
24252
0.308
0.545
0.643
0.231
Politica
**
Livelli di significatività: * p<0.10, ** p<0.05, *** p<0.01
Variabili: Ex-ante, In-itinere, Ex-post = % tempo allocate ad ogni attività; Preferenza per… = scala Likert 5min-1max; Capitaleumano e sociale = somma normalizzata tra il
profile del board (numero di competenze diverse) e del network potenziale (numero di componenti dell’Organo di Indirizzo e di Amministrazione); Processigovernance
393
Azienda Pubblica 4.2012
“Filantropia per decreto”: analisi della relazione tra governance e strategie erogative
Saggi
= media normalizzata delle caratteristiche e pratiche relative al governo della
fondazione; Presidenteleadership = media tra una variabile binaria che identifica se
il direttore generale/segretario è presente e il grado di delega di decisioni al
Presidente; Presidenteautorevolezza = variabile binaria uguale a 1 se il Presidente è in
carica da più di un mandato; Elargizioni (milioni €) = ammontare delle elargizioni
nel 2009; Patrimonio netto (milioni €) = Patrimonio netto del 2009; Redditività =
rapporto tra avanzo e patrimonio netto nel 2009; PIL procapite (€) = logaritmo del
Prodotto Interno Lordo procapite della provincia di riferimento della fondazione
nel 2009; Politica = Presenza di competenze politiche nell’Organo di Amministrazione.
Analisi Multivariata
Per testare le ipotesi si propongono nella tabella 2 i risultati di modelli logit
ordinati. (6) I dati sembrano mettere in luce un’influenza significativa delle
variabili board capital, processi di governance e leadership del Presidente
nel determinare l’approccio alla filantropia adottato.
In particolare, Capitaleumano e sociale e Processigovernance sono significativamente
correlati in modo positivo con le strategie imprenditoriali e collaborative.
Di conseguenza, le ipotesi 1 e 2 possono essere accettate. In altre parole,
un patrimonio di conoscenze diffuse da parte dei componenti del board,
network estesi e processi sofisticati di governance (quali l’adozione di
software per il controllo di gestione) sembrano favorire il finanziamento di
progetti più complessi.
Anche il potere del Presidente sembra essere correlato all’approccio
strategico adottato, consentendo l’accettazione dell’ipotesi 3. Sebbene
Presidenteleadership non sia statisticamente associato all’approccio strategico,
il periodo di tempo in cui il Presidente rimane in carica (Presidenteautorevolezza)
è statisticamente correlato con l’approccio alla filantropia. In altre parole,
sembra che, in media, la presenza di un Presidente in carica da più tempo
si associ ad un approccio più collaborativo.
L’analisi multivariata conferma anche l’importanza della variabile ambientale. Invece, come riportato dai modelli (2), (3) e (5), non sembrano
sussistere relazioni tra dimensione, redditività e l’approccio alla filantropia.
Sebbene test appropriati non abbiano evidenziato problemi di multicollinearità, questi risultati potrebbero dipendere dal fatto che la dimensione è
fortemente correlata in modo positivo con la variabile board capital, mentre
la variabile redditività è correlata negativamente con Presidenteleadership. Infine,
i modelli (4) e (5) non sembrano mostrare alcuna relazione significativa tra
approccio alla filantropia e connessioni col sistema politico.
6 L’analisi univariata con la tabella di correlazione è disponibile contattando gli autori.
Azienda Pubblica 4.2012
394
Saggi
“Filantropia per decreto”: analisi della relazione tra governance e strategie erogative
Tabella 2 – Coefficienti di modelli logit ordinali che studiano l’associazione
tra strategie filantropiche e caratteristiche della governance
Ambiente
Capitaleumano e sociale
Processigovernance
Presidenteleadership
Presidenteautorevolezza
(1)
(2)
(3)
(4)
(5)
SF
SF
SF
SF
SF
-11.3***
-11.5***
-11.8***
-11.3***
-11.8***
(-4.79)
(-4.94)
(-5.00)
(-4.79)
(-5.07)
3.75***
3.48***
4.02***
3.8***
3.96***
(4.22)
(3.46)
(3.81)
-4.21
-3.18
7.88**
6.99*
7.23*
7.67**
6.94
(2.14)
(1.71)
(1.91)
-2.02
-1.6
0.659
0.594
0.2
0.648
0.199
(1.05)
(0.89)
(0.26)
-1.06
-0.26
1.41**
1.41**
1.48**
1.37**
1.45**
(2.27)
(2.24)
(2.33)
-2.03
-2.04
Dimensione
0.133
0.0327
(0.60)
-0.14
Redditività
-22
-21
(-1.22)
(-1.10)
Politica
-0.119
-0.0554
(-0.19)
(-0.09)
-110***
-110***
-116***
-110***
-116***
(-4.75)
(-4.79)
(-4.99)
(-4.80)
(-4.97)
-108***
-108***
-114***
-108***
-114***
(-4.75)
(-4.79)
(-4.99)
(-4.76)
(-4.94)
-107***
-106***
-112***
-106***
-112***
(-4.70)
(-4.74)
(-4.94)
(-4.71)
(-4.89)
Significatività
del modello
0.0000047
0.0000068
0.000032
0.0000082
0.00011
Pseudo - R2
0.25
0.25
0.26
0.25
0.26
Fondazioni
51
51
51
51
51
cut1
cut2
cut3
Standard Error robust, Statistiche-t in parentesi, Significatività dei coeff.:
*p<0.10,**p<0.05,***p<0.01
Variabili: SF = Strategie filantropiche: [0] Ricettiva, [1] Reattiva, [2] Operativa e [3]
Collaborativa; Ambiente = logaritmo del Prodotto Interno Lordo procapite della provincia
di riferimento della Fondazione nel 2009; Capitaleumano e sociale = somma normalizzata tra il
profile del board (numero di competenze diverse) e del network potenziale (numero di componenti dell’Organo di Indirizzo e di Amministrazione); Processigovernance = media normalizzata delle caratteristiche e pratiche relative al governo della fondazione; Presidenteleadership
(segue)
395
Azienda Pubblica 4.2012
“Filantropia per decreto”: analisi della relazione tra governance e strategie erogative
Saggi
= media tra una variabile binaria che identifica se il direttore generale/segretario è presente e il grado di delega di decisioni al Presidente; Presidenteautorevolezza = variabile binaria
uguale a 1 se il Presidente è in carica da più di un mandato; Dimensione = logaritmo del
patrimonio netto nel 2009; Redditività = rapporto tra avanzo e patrimonio netto nel 2009;
Politica = Presenza di competenze politiche nell’Organo di Amministrazione.
Analisi di robustezza
Nonostante un tasso di risposta del 58% la numerosità del campione è
abbastanza bassa. Pertanto, abbiamo stimato i coefficienti di modelli alternativi. I coefficienti della regressione lineare, probit ordinato, logit e probit
ordinati con errori standard stimati con tecnica bootstrap sono tuttavia in
linea con quelli presentati nella colonna (1) della tabella 2 (7).
6. Conclusioni
Grazie alle importanti risorse finanziarie di cui dispongono, le FOB hanno
progressivamente assunto un ruolo decisivo in termini di sostegno del territorio qualificandosi sia come “merchant bank sociali” attive nel finanziamento
di progetti complessi, quali importanti infrastrutture (porti e aeroporti), sia
come “erogatori” al servizio delle eccellenze del terzo settore (Barbetta
2001; Porter e Kramer 1999), sperimentando diverse possibili soluzioni
a problemi sociali emergenti (come l’assistenza agli anziani domiciliare,
locale o centralizzata). Il presente lavoro mette in luce come per raggiungere
questi risultati le FOB: [1] implementano differenti approcci alla filantropia
e [2] supportano i differenti modelli filantropici con processi di governance
eterogenei tra loro.
In funzione delle differenze nel modello strategico adottato, è stato possibile raggruppare le FOB, distinguendole sulla base delle priorità che guidano
le elargizioni (FOB erogativa vs FOB operativa) e delle attività condotte
(omogenee vs specializzate). Dall’intersezione di queste due dimensioni
abbiamo potuto classificare l’approccio alla filantropia delle fondazioni
sulla base di quattro modelli strategici: ricettivo, reattivo, imprenditoriale
e collaborativo.
Il lavoro ha poi verificato se una governance efficace sia associata a
modelli strategici differenti. In particolare, si è studiata la relazione tra
approccio alla filantropia e: caratteristiche di competenze e di relazioni
all’interno del board (misurato isolando le diverse possibili competenze dei
consiglieri: manageriali, finanziarie, giuridiche, artistiche, politiche, ecc.);
qualità dei processi di pianificazione e controllo (esistenza di budget, piani
pluriennali, contabilità analitica, ecc.); capacità di raccogliere, diffondere
ed utilizzare in modo efficace le informazioni (esistenza di report periodici
d’informazione al consiglio, loro contenuto, ecc.); attività di valutazione
7 I dati sono disponibili contattando gli autori.
Azienda Pubblica 4.2012
396
Saggi
“Filantropia per decreto”: analisi della relazione tra governance e strategie erogative
da parte dell’organo amministrativo (sul Presidente e sul proprio operato);
caratteristiche dei Presidenti (da quanto sono in carica e con quale grado
di autonomia).
In relazione alle pratiche di governo, i risultati mettono in luce che le
FOB sono in grado di adottare approcci strategici più operativi (imprenditoriali o collaborativi) qualora il mix di competenze all’interno dei board
sia variegato e qualora sussista una forte capacità di creare relazioni con
i vari interlocutori esterni. In altre parole, competenze e relazioni esterne
sembrano costituire un mix fondamentale per affiancare il settore non profit
in progetti sfidanti. Anche l’implementazione di efficaci processi di governance (quali l’adozione di strumenti di controllo; la valutazione periodica
dei risultati, ecc.) ed una forte autorevolezza del Presidente sembrano
rappresentare elementi in grado di determinare l’adozione di approcci
strategici più complessi.
Si è posto in evidenza, inoltre, come le FOB che operano in province più ricche siano più predisposte a porre in essere approcci di tipo
ricettivo o reattivo. Questa ultima evidenza potrebbe dipendere dal
fatto che, nelle aree più ricche, operano molte più organizzazioni non
profit rispetto alle aree depresse ed è ragionevole attendersi che queste
organizzazioni (tendenzialmente dotate di strutture organizzative più
adeguate) esercitino forti pressioni sulle FOB per ricevere finanziamenti
mediante il modello ricettivo (l’organizzazione non profit presenta una
domanda particolarmente qualificata per metodo e obiettivi e attende
l’eventuale erogazione).
In particolare, i risultati supportano la precedente letteratura, mettendo
in luce come la governance giochi un ruolo di tutto rilievo nello spiegare
l’approccio alla filantropia, anche in un contesto particolare come le FOB.
La rilevanza del potere del Presidente assume un particolare rilievo
nel contesto italiano, nel quale, a causa della particolarità della genesi di
questo tipo di fondazioni, il presidente ha spesso svolto il ruolo trainante
che nelle altre fondazioni è svolto dal fondatore (famiglia o società). Ovviamente, tale ruolo e la leadership che ne è scaturita potrebbero essere
interpretati in modo diverso considerando le singole figure e le situazioni
specifiche ma, in media, una leadership più consolidata è associata ad
approcci strategici più sofisticati. Questo fattore di “perpetrazione del
potere”, connaturato al rinnovo dei mandati, ha subito nel tempo forti
critiche, che rendono l’interpretazione di questi risultati contro intuitivi
e meritevoli di attenta riflessione. Il presente studio, tuttavia, mette in
luce come questo elemento rappresenti un fattore di potenziale crescita
nell’approccio delle FOB alle strategie di erogazione più evolute, soprattutto quando si collega a competenze più ampie all’interno dei CdA ed
a processi di governance efficaci. I risultati principali del lavoro sono
discussi in sintesi in figura 3.
397
Azienda Pubblica 4.2012
“Filantropia per decreto”: analisi della relazione tra governance e strategie erogative
Saggi
Figura 3 – Principali risultati dello studio
Obiettivi
Conclusioni
Implicazioni Manageriali
Definire l’ambito
d’azione (erogativo
o operativo) della
fondazione ed i
modelli di governo
più appropriati per
implementarlo.
Le FOB italiane sono attive sia nell’erogazione
di fondi a ONG valutate
come efficaci (associazioni di volontari, ONLUS) sia nella gestione
diretta di progetti propri
(ristrutturazione di porti,
progetti di assistenza
agli anziani/minori,
restauri del patrimonio
artistico, ecc.).
La pianificazione in sede erogativa si focalizza
sulla selezione dei migliori enti beneficiari (rating
tra le ONLUS); in sede operativa nel cronoprogramma delle attività (avanzamento dei lavori di
un progetto pluriennale).
La valutazione in sede erogativa è basata sulla
qualità della relazione con l’ente beneficiario e sui
suoi risultati o output (sprechi di tempo, malcontento dell’ente, utenti raggiunti); in sede operativa
sulla misurazione diretta dei benefici creati o
outcome (flussi di turismo, posti letto, visitatori).
Formare la squadra
di governo più
adatta nel proprio
ambito d’azione
(capitale umano e
sociale al servizio
della fondazione).
Le FOB italiane presentano il giusto mix di
competenze nei propri
Organi di Amministrazione.
La selezione dei migliori progetti per la tutela dei
beni storico-culturali non sempre può essere valutata dagli stessi esperti che controllano l’attendibilità
di un cronoprogramma per il restauro diretto di un
reperto/edificio. Le squadre di governo mutano
quindi nel proprio assetto e si aprono anche a
collaborazioni esterne.
Fornire alla squadra
di governo il dovuto
supporto mediante
formali processi di
governo (risorse
interne che aiutino il
board a conoscere
ed approfondire).
Le FOB italiane attive in
progetti più complessi si sono dotate di
strumenti di controllo più
sofisticati, sia nel caso
di progetti propri o collaborativi sia nel caso di
assistenza finanziaria a
qualificate ONG attive
nella ricerca avanzata.
La valutazione di budget, piani pluriennali, contabilità analitica, ecc. relativi alla ristrutturazione di
un porto o all’attivazione di assistenza a domicilio
sono propedeutici alla buona riuscita di progetti
complessi, soprattutto se oggetto di attento scrutinio da parte del board e sfiducia “costruttiva” nei
confronti dei soggetti interni/esterni proponenti.
Assicurare alla fondazione un’opportuna leadership (con
il carisma proprio
della famiglia o
dell’impresa che
abbraccia il mecenatismo).
Le FOB italiane sono in
media caratterizzate da
una lunga permanenza
dei Presidenti al loro vertice con ampi margini
di manovra (sovente
criticati).
Una leadership stabile può essere foriera di
maggiore attitudine al rischio (progetti più
complessi) e buoni risultati. Tuttavia, ciò si osserva
con maggiore facilità se associata a processi di
governo stabili e strutturati in grado di favorire la
giusta dialettica e l’opportuno scrutinio sull’operato del leader (ordini del giorno articolati, bozze di
decisioni modificate dal board, audit esterno per
le questioni tecniche, ecc.).
I progetti ad alto valore
sociale sono alla portata
Garantire ad ogni
di qualsiasi FOB siano
fondazione la posesse grandi o piccole,
sibilità di eccellere,
con maggiore supporto
a prescindere dalla
di ONG esterne nelle
tipologia di interventi province con alto PIL,
che preferisce finan- con maggiore bisogno
ziare.
di cooperazione
istituzionale in quelle a
basso PIL.
L’eccellenza non risiede nell’alta priorità con cui
si finanzia un progetto proprio molto ambizioso
piuttosto che la proposta di una qualificata ONG.
Essa è alla portata di qualsiasi fondazione che,
conscia del proprio vincolo di bilancio e delle
risorse del proprio territorio, riesce ad associare
efficacemente le priorità strategiche opportune per
la propria dimensione con i processi di governo
che ne facilitano il buon esito.
Così come sono importanti i risultati dello studio, altrettanto lo sono i limiti.
In primo luogo, va considerato che il campione è ristretto, dal momento che
l’universo è rappresentato dalle 88 fondazioni italiane. In secondo luogo,
i risultati potrebbero essere rafforzati da indagini sul campo focalizzate su
singole fondazioni. In terzo luogo, possono sussistere problemi di endoAzienda Pubblica 4.2012
398
Saggi
“Filantropia per decreto”: analisi della relazione tra governance e strategie erogative
geneità tra variabili dipendente ed indipendenti, anche se il problema è
insolubile data l’assenza di variabili strumentali idonee. Infine, il fatto che
un approccio possa essere considerato più complesso, non necessariamente
lo qualifica come migliore o più in grado di generare ricadute (outcome)
positive per la comunità di riferimento. Ulteriore ricerca andrebbe indirizzata
verso l’individuazione dei tratti distintivi degli approcci che meglio di altri
siano associabili all’attività di valutazione dell’operato della FOB, lasciando
aperta l’ipotesi di FOB ricettive “eccellenti” e FOB collaborative “disastrose”.
Interessante, in questa direzione, potrebbe essere una disamina attenta e
focalizzata dei bilanci di missione.
I risultati del lavoro, tuttavia, possono essere utili sia per le FOB sia
per altri enti non profit e pubblici che gestiscono ampie risorse finanziarie
e si interrogano sui benefici di una adeguata governance. Ciò in quanto
i risultati mettono in evidenza che una adeguata struttura di governo ed
efficaci meccanismi conducono ad approcci più complessi ed elaborati
nelle FOB sia di maggiori che di minori dimensioni. Al contrario, laddove
le competenze sono minori, la leadership è meno autorevole ed i processi
di governo sono carenti, il modello adottato è sovente confinato ai soli
tipi ricettivo o reattivo precludendo, di fatto, la transizione verso modelli
filantropici più complessi.
I risultati del lavoro, pertanto, sono estremamente importanti in un
momento in cui ci si interroga sui vantaggi e sui limiti del modello di governance adottato dalle FOB. Infatti, la presente ricerca mette in luce che
la qualità dei soggetti e l’effettivo funzionamento degli organi giocano un
ruolo fondamentale. Oltre che per chi lavora nel campo delle fondazioni,
quindi, i risultati possono essere utili anche per tutti coloro che si occupano
del corretto funzionamento delle fondazioni e di altri soggetti non profit a
loro assimilabili per complessità ed operatività.
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Saggi
Il dilemma politica-mercato nelle Imprese dei Servizi Pubblici Locali quotate
Il dilemma politica-mercato nelle Imprese dei Servizi Pubblici Locali quotate. Quali
i possibili rimedi di governance
Romilda Mazzotta
Ricercatore in Economia Aziendale, Università della Calabria
Sommario: 1. Introduzione. – 2. Le Imprese dei servizi pubblici locali. – 3. Quali soluzioni al dilemma politica-mercato.
– 4. Obiettivo, campione e metodologia della ricerca. – 5. Le scelte di governance delle imprese dei servizi pubblici
locali quotate: i risultati della ricerca. – 6. Discussione dei risultati e conclusioni.
Le Imprese dei Servizi Pubblici Locali sono imprese che creano valore per gli stakeholder se soddisfano i bisogni della collettività locale (politica) e, allo stesso tempo, remunerano adeguatamente tutti i
fattori impiegati nel processo produttivo (mercato). Il dilemma politica-mercato, come suggerisce la
letteratura, può essere mitigato agendo a livello di governance interna e in particolare attribuendo
al management una più ampia autonomia decisionale pur nel rispetto dell’interesse collettivo. Scopo
del contributo è appunto di fornire un quadro sui meccanismi di governance adottati dalle imprese
dei servizi pubblici quotate al 31/12/2010 al fine di bilanciare gli interessi dell’azionista pubblico
e degli azionisti di minoranza e di ridurre le ingerenze politiche.
Local Public Utilities are companies that create value to stakeholders if they meet the local community’s
needs (politics) and, at the same time, adequately remunerate all the factors used in the production
process (the market). The market-policy dilemma, as suggested by the literature, can be mitigated
by acting at the internal level of governance and, in particular, giving managers greater autonomy
in decision-making while respecting the public interest. The purpose of the contribution is to provide
a framework of governance mechanisms adopted by local public utilities listed at 31/12/2010 in
order to balance the interests of the public shareholder and minority shareholders and to reduce
political interferences.
Parole chiave: Corporate governance – Imprese servizi pubblici locali – Ingerenza politica
– Meccanismi di governance
Key words: Corporate governance – Local public utilities – Political interference
– Governance mechanisms
403
Azienda Pubblica 4.2012
Il dilemma politica-mercato nelle Imprese dei Servizi Pubblici Locali quotate
Saggi
1. Introduzione
La corporate governance (o governance) può essere analizzata in due
diverse dimensioni. In una dimensione ampia, essa ha quale riferimento
l’insieme di variabili, non specifiche d’azienda, che possono variare da
paese a paese ma che, all’interno di ciascuno di essi, sono uguali per tutte
le imprese (sviluppo dell’economia, del mercato, ecc.). In una visione più
ristretta o interna, alla quale si fa riferimento nel contributo, la governance
è, invece, intesa quale insieme di regole e meccanismi che, equilibrando
gli interessi dei soggetti a vario titolo coinvolti nell’impresa, hanno l’obiettivo ultimo di assicurare il perseguimento delle sue finalità, nell’interesse
di tutti gli stakeholder (Airoldi e Forestieri 1998). In questa dimensione, la
governance, influenzata dalle specificità della realtà aziendale, assume
caratteristiche differenti da impresa a impresa. In tal senso la governance
interna delle Imprese dei Servizi Pubblici Locali (ISPL) è condizionata dal
loro essere aziende a capitale pubblico, i cui stakeholder di riferimento sono
i soggetti che apportano il capitale nonché l’intera collettività, destinataria
e fruitrice del servizio da esse prodotto (Catturi 2004). Nelle ISPL, creare
valore per gli stakeholder significa soddisfare i bisogni della collettività locale
e, allo stesso tempo, remunerare adeguatamente tutti i fattori impiegati nel
processo produttivo (Grossi 2005).
Partendo da tali presupposti, obiettivo del contributo è di individuare
quali sono i meccanismi di governance interna che possono contemperare
interessi pubblici e privati e come (e se) tali meccanismi sono utilizzati nella
gestione delle ISPL quotate.
Al fine di rispondere a tali quesiti, nel paragrafo che segue sono analizzate le peculiarità delle ISPL per poi individuare, nel par. 3, le soluzioni
di governance proposte dalla letteratura esistente. Il tema, e soprattutto lo
studio empirico, è affrontato prendendo a riferimento le ISPL quotate, entità
“diverse” dalle ISPL non quotate, anzitutto per il diverso e più stringente
ambiente normativo delle ultime che, di fatto, limita l’adozione di alcuni
meccanismi di governance (limiti alla dimensione dei Consigli di Amministrazione e all’ammontare dei compensi). Il par. 4 è dedicato all’individuazione
di obiettivo, campione e metodologia di analisi per poi riservare i par. 5 e
6 ai risultati dell’analisi condotta e alle successive conclusioni.
2. Le Imprese dei servizi pubblici locali
I servizi pubblici sono beni e servizi espressamente riconosciuti come
“pubblici” dalla legge (Elefanti 2003) o giudicati tali, nella loro autonomia, dai singoli enti locali, poiché indirizzati a realizzare fini sociali e a
promuovere lo sviluppo economico e civile della collettività. Essi possono
essere con o senza rilevanza economica. Nei primi rientrano la produzione
e distribuzione di gas ed energia elettrica, la raccolta e smaltimento rifiuti,
il servizio idrico integrato e il trasporto collettivo. Tali servizi sono offerti
Azienda Pubblica 4.2012
404
Saggi
Il dilemma politica-mercato nelle Imprese dei Servizi Pubblici Locali quotate
da “organizzazioni” note come Imprese dei Servizi Pubblici. Queste ultime
possono agire con riferimento all’intero territorio nazionale, regionale o
locale, portando rispettivamente a parlare d’imprese dei servizi pubblici
d’interesse nazionale, regionale e locale. Le Imprese dei Servizi Pubblici
Locali (ISPL), oggetto del contributo, si caratterizzano per rivolgersi a un
bacino d’utenza territoriale determinato (con gli specifici bisogni della
collettività locale) e utilizzare infrastrutture localizzate (come, ad esempio,
le reti di distribuzione).
Fino alla fine degli anni ’80, le ISPL sono semplici appendici operative dei
Comuni ed hanno di regola la forma giuridica di diritto pubblico dell’azienda
municipalizzata. Per il loro tramite il Comune fornisce direttamente beni/
servizi d’interesse pubblico operando, però, in ambienti protetti e vincolati.
In queste “aziende” non si riscontrano rilevanti problemi di governance
(Borgonovi 2005; Mulazzani e Pozzoli 2005; Persiani 2003) poiché: 1)
le finalità degli organi d’indirizzo e di gestione coincidono e 2) il capitale
investito è interamente pubblico.
Negli anni ’90, dietro la spinta comunitaria e a seguito della legge di
riordino delle autonomie locali (l. 142/1990), la situazione si modifica (Gilardoni e Romè 2009; Pozzoli 2009a). Le ISPL si “distaccano” dal Comune
e, da municipalizzate, si trasformano in aziende speciali (legge Bassanini
127/1997) e, successivamente, in società per azioni (art. 35, l.f. 2002). Si
individuano così due differenti posizioni cui corrispondono due diverse funzioni: il Comune e il soggetto erogatore. Compiti del Comune sono indirizzare e
individuare le soluzioni capaci di soddisfare le attese della collettività nonché
controllare l’attività dell’ente gestore (funzione d’indirizzo e controllo) (Grossi
2005). Dovere dell’ente gestore (l’ISPL) è, viceversa, organizzare il servizio
tenendo conto degli indirizzi del Comune nonché erogare lo stesso (funzione
imprenditoriale). I rapporti tra Comune e ISPL necessitano a questo punto di
una puntuale regolamentazione e ciò avviene – o meglio dovrebbe avvenire
– con appositi contratti di servizio (Termini e Cella 2004).
La trasformazione in SpA non modifica la posizione di controllo e indirizzo del Comune. Quest’ultimo, infatti, anche alla presenza di un capitale
non interamente pubblico, esercita la sua posizione di controllo attraverso
partecipazioni azionarie di maggioranza o patti parasociali. Il divenire SpA
amplia, però, la complessità aziendale delle ISPL evidenziando la necessità
di intervenire sulla loro governance interna (Cristofoli e Valotti 2007). Le ISPL,
a questo punto SpA, riprendono da queste i modelli di governance, di fatto
non condizionati dal titolare del capitale (pubblico), seppur con l’esigenza
di personalizzarli in funzione dell’attività svolta (servizi di pubblica utilità).
Due sono essenzialmente le problematiche di governance riscontrabili
nelle ISPL: al problema di “agenzia” (1) (Shleifer e Vishny 1997), che si
1 Il problema di agenzia si determina quando, per effetto della frammentazione del capitale,
il ruolo del proprietario (principal) è separato da quello del soggetto che detiene il controllo
(agent). Obiettivo del principal è di avere un adeguato ritorno dagli investimenti mentre l’agent tende a perseguire interessi personali.
405
Azienda Pubblica 4.2012
Il dilemma politica-mercato nelle Imprese dei Servizi Pubblici Locali quotate
Saggi
determina per la presenza di azionisti di minoranza (privati) (Stulz 1988),
si affianca il problema legato alla presenza di un agent, generalmente
un politico, che deve rappresentare gli interessi pubblici nel Consiglio di
Amministrazione (CdA). Il primo problema nasce dalla peculiare struttura
proprietaria delle imprese italiane e anche delle ISPL. L’elevata concentrazione proprietaria si esplica, infatti, nella presenza di un azionista di
maggioranza, nel caso delle ISPL pubblico nelle vesti del Comune, e di
azionisti di minoranza, i privati risparmiatori. Ciò determina, e ancor più
nelle ISPL quotate, la possibilità di un disallineamento tra l’obiettivo del
capitale pubblico, interessato a tutelare e soddisfare l’interesse pubblico
(politica), e quello dei privati, interessati ad avere un adeguato ritorno sul
capitale investito (mercato). Il secondo problema di agenzia, conseguente
dal primo, si ricollega alla necessità del capitale pubblico di tutelare gli
interessi della collettività e di non far prevalere l’interesse privatistico. Ciò si
traduce nella presenza, nei CdA delle ISPL, accanto alle figure di estrazione
tecnico-professionale, necessarie per guidare l’impresa, di componenti di
origine politica, espressione della “proprietà” e portatrici delle esigenze
specifiche del territorio di riferimento (Grossi e Mussari 2004).
Le attuali ISPL hanno successo solo se producono ed erogano beni/servizi
di pubblica utilità e se allo stesso tempo soddisfano le attese dei conferenti
le risorse. Esse, di conseguenza, devono essere gestite secondo logiche
di orientamento al mercato e alla concorrenza pur nel rispetto della tutela
dell’interesse pubblico. Nel complesso, ciò porta le ISPL a dover giornalmente
conciliare la “politica” con il “mercato”: da una parte l’ingerenza politica
nella gestione dell’ISPL e dall’altra la necessità di agire secondo criteri di
economicità. L’unica soluzione al dilemma politica-mercato che si innesca
è la ricerca di un giusto equilibrio tra l’influenza politica e l’economicità
gestionale (OECD 2005; Hilb 2005).
3. Quali soluzioni al dilemma politica-mercato
La dialettica tra politica e mercato crea la necessità di apportare adeguamenti nella governance delle ISPL (Howard e Seth-Purdie 2005).
La letteratura sul tema suggerisce di risolvere il dilemma politica-mercato
agendo a livello di governance interna al fine, da una parte, di aumentare
l’autonomia manageriale riducendo l’ingerenza politica nella gestione
dell’impresa (tanto maggiore quanto più elevata è la partecipazione del
capitale pubblico) e, dall’altra, di assicurare un’adeguata tutela dell’interesse pubblico. Un’eccessiva autonomia manageriale può, infatti, far deviare
l’ISPL dalla sua funzione istituzionale così come un eccessivo focus sulla
proprietà può incidere sul livello di accountability del management e limitare le possibilità di sviluppo e consolidamento. Compito della governance
interna è, quindi, trovare un giusto equilibrio tra autonomia del management
nella gestione (Pederson e Thomsen 2003) e tutela dell’interesse pubblico
nell’assetto proprietario (Kim e Prescott 2005).
Azienda Pubblica 4.2012
406
Saggi
Il dilemma politica-mercato nelle Imprese dei Servizi Pubblici Locali quotate
Nel tentativo di schematizzare le possibili soluzioni offerte dalla letteratura e dalle norme, abbiamo suddiviso le stesse in interventi nella dimensione:
• istituzionale, quale la maggiore apertura al capitale privato o la
quotazione;
• strutturale, consistente nell’adozione di un modello di organizzazione
e controllo di tipo dualistico;
• processuale, intesa come l’insieme dei meccanismi di governance idonei
a ridurre l’ingerenza politica e ad allineare i divergenti interessi.
La dimensione processuale è quella nella quale si mostrano più specificamente le problematiche di governance interna, oggetto di nostro interesse.
Su tali aspetti, pertanto, dopo una breve illustrazione dei possibili rimedi
nelle altre due dimensioni, incentriamo la discussione.
Dimensione istituzionale
Nella dimensione istituzionale, il dilemma politica-mercato può essere attenuato con la quotazione in Borsa e/o con una maggiore presenza della
proprietà privata.
La quotazione in Borsa può rappresentare una soluzione poiché in tal modo
i Comuni si aprono a un capitale privato costituto nella generalità dei casi da
una moltitudine di risparmiatori interessati al capital gain (Pozzoli 2009b) e/o
al flusso di dividendi e non alla gestione operativa della società. Ma anche
laddove la presenza dei privati fosse più intensa, la quotazione avrebbe quale
risultato la definizione di un assetto maggiormente autonomo e articolato.
L’ISPL quotata è più trasparente, dovendo rispettare obblighi derivanti dalla quotazione, ed è, distaccandosi da logiche politico-sociali (Dall’Occhio,
Romiti e Vesin 2001) maggiormente orientata verso la massimizzazione del
profitto aziendale e del valore del titolo azionario. Il management, anche
se nominato dal Comune controllante (in passato grazie a precise clausole
statutarie), acquisisce con la quotazione una maggiore autonomia ed è al
tempo stesso soggetto al controllo degli investitori. Nel complesso ciò limita
le interferenze politiche nella gestione aziendale (Bianco, Mele e Sestito
2008) e contemporaneamente orienta l’impresa al mercato.
Una maggiore presenza della proprietà privata ha il medesimo effetto
della quotazione rendendo allo stesso modo l’assetto più equilibrato. L’apertura ai partner privati (industriali e operativi) nella legislazione italiana è
favorita dalla l. 20 novembre 2009 n. 166, che fissa nella misura del 40%
il limite minimo di presenza dei privati nel capitale sociale. I risultati del
referendum del giugno 2011 hanno abrogato tale norma, poi reintrodotta
con la manovra estiva (d.l.138/2011 convertito con l. 148/2011).
Dimensione strutturale
Nella dimensione strutturale, la soluzione al dilemma politica-mercato è
riscontrabile nell’adozione di un diverso modello di organizzazione e con407
Azienda Pubblica 4.2012
Il dilemma politica-mercato nelle Imprese dei Servizi Pubblici Locali quotate
Saggi
trollo. Il d.lgs. 6/2003 individua tre diversi modelli: tradizionale, monistico
e dualistico.
Le imprese italiane, e in generale anche le ISPL, adottano un modello di
tipo tradizionale nel quale un ruolo centrale è attribuito al CdA. I membri
del CdA e del Collegio sindacale sono nominati dall’Assemblea dei Soci,
ovvero dal Comune, detentore della totalità o della maggioranza del capitale sociale. Il forte ruolo dell’Assemblea dei Soci si riflette spesso in CdA
di ampie dimensioni, al fine di assicurare una rappresentatività a tutti gli
azionisti, e in ingerenze politiche nella gestione dello stesso. (2) La forte
posizione di dominanza allinea gli interessi di principal (l’ente locale) e
agent (gli amministratori) e spinge l’azienda verso il perseguimento degli
indirizzi individuati dal primo, ma non tiene conto degli azionisti di minoranza e delle loro attese.
Il problema dell’ingerenza politica potrebbe essere risolto dall’adozione
del modello dualistico. Quest’ultimo inserisce un livello intermedio tra i manager, cui è affidata la gestione corrente della società, e l’azionista di riferimento (il Comune), cui spetta di formulare gli indirizzi strategici (Fondazione
Civicum 2005; Atelli e D’Aries 2006; Ibba 2008). L’organo di indirizzo e
controllo, al quale sono attribuite anche prerogative tipiche dell’assemblea,
è il Consiglio di Sorveglianza (Musaio 2006). La nomina dei componenti è
fatta in Assemblea dei Soci e la garanzia di rappresentatività delle diverse
parti coinvolte (anche della minoranza) trova riscontro in un’ampia composizione dell’organo. (3) È nel Consiglio di Sorveglianza che il capitale
pubblico esercita il proprio potere-dovere di indirizzare strategicamente la
gestione senza ingerire direttamente nella stessa (D’Aries 2007). Il Consiglio
di Gestione è, invece, l’organo che amministra la società, i cui elementi
sono nominati e revocati non dall’Assemblea, come avviene nel modello
tradizionale, ma dal Consiglio di Sorveglianza tra soggetti a esso esterni.
Nel sistema dualistico, di fatto, poiché l’Assemblea nomina i “controllori” (i consiglieri di sorveglianza) che a loro volta nominano i “controllati”
(consiglieri di gestione), si attua la separazione tra la proprietà e gli organi
di gestione (Mulazzani 2007) e si consente ai soci di mantenere il controllo
sulla gestione senza interferirvi. Una simile dissociazione è più difficile da
ottenere nel modello di gestione tradizionale nel quale gli azionisti, riuniti in
Assemblea, controllano tramite lo strumento del voto gli organi di gestione
e di controllo.
2 La l.f. 2007 (l. 27 dicembre 2006, n. 296) precisa che il numero di componenti del CdA
delle ISPL non quotate a totale partecipazione pubblica non può essere superiore a tre (cinque se il capitale sociale, interamente versato, è superiore all’importo determinato con apposito decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri). Nelle società “miste” i componenti del
CdA “designati” dai “soci pubblici locali” non possono essere più di cinque (comma 729, 2°
periodo). Le limitazioni sul numero degli amministratori non sono applicabili alle società quotate in borsa (comma 733).
3 Le ISPL non quotate che adottano modello dualistico devono comunque rispettare il limite posto
al numero di amministratori, limite che opera congiuntamente per il Consiglio di Sorveglianza
e di gestione, così come indicato dalla Corte dei conti (Sezione regionale di controllo per la
Lombardia, Delib. N. 46/pareri/2007).
Azienda Pubblica 4.2012
408
Saggi
Il dilemma politica-mercato nelle Imprese dei Servizi Pubblici Locali quotate
Il rischio connesso al modello dualistico è la potenziale forte ingerenza
nella gestione aziendale da parte del Consiglio di Sorveglianza, che relegherebbe il Consiglio di Gestione a un ruolo marginale. Tale problematica
può essere risolta definendo in modo chiaro ruolo e compiti del Consiglio di
Sorveglianza. Altra possibile soluzione che, di fatto, favorisce una gestione
manageriale è che i soci pubblici esprimano prevalentemente i componenti
del Consiglio di Sorveglianza (per esempio tramite patti parasociali) e quelli
privati, per mezzo dei consiglieri di sorveglianza, i consiglieri di gestione.
Dimensione processuale
Nella dimensione processuale la corporate governance assume una prospettiva interna diventando molto più firm specific. Compito della governance
è di permettere all’azienda di avere successo ovvero di raggiungere gli
obiettivi prefissati. Una ISPL ha successo se è capace di creare valore per
gli stakeholder ovvero se soddisfa contemporaneamente le attese del/i
conferenti le risorse e della collettività. In questa dimensione il dilemma
politica-mercato si può risolvere introducendo meccanismi di governance che
agiscano a livello di autonomia decisionale del management garantendo,
allo stesso tempo, al proprietario pubblico la tutela dell’interesse collettivo.
Ciò, di fatto, è possibile solo se tali meccanismi creano un giusto equilibrio
tra influenza politica ed efficace gestione manageriale (Valotti 2006) e quindi
se, da una parte, contengono l’ingerenza politica e, dall’altra, orientano
l’attività di impresa al conseguimento di risultati economico-sociali.
L’ingerenza politica, ad esempio, può essere stemperata agendo sulla
struttura di leadership e sulla composizione del CdA. Una struttura di leadership che riunisce nella medesima persona i ruoli di Presidente del CdA
e Amministratore Delegato (AD) rafforza il potere e l’autonomia del management (Finkelstein e D’Aveni 1994), ma dispiega i propri benefici effetti
solo a condizione che l’autonomia del management sia controbilanciata
dall’effettivo esercizio di poteri di indirizzo e controllo da parte del Comune.
La teoria dell’agenzia, però, ritiene preferibile l’adozione di una struttura di
leadership separata, caratterizzata dalla separazione dei due ruoli, ognuno
dei quali con proprie prerogative. Ciò, infatti, evitando il concentrarsi del
potere in capo ad un solo soggetto, innalza il livello di indipendenza del
CdA rispetto al management (OECD 2005).
La questione dell’indipendenza del board conduce all’altro meccanismo
di governance utile a risolvere il dilemma politica-mercato ossia la (adeguata) composizione del CdA. Esso, infatti, per guidare l’impresa deve avere
autorità e adeguate competenze, pur rispettando la rappresentanza dell’azionariato. In tale ottica, il CdA deve avere al suo interno amministratori
esecutivi e indipendenti. La presenza di amministratori esecutivi è sintomatica
di maggiore partecipazione della componente manageriale negli organi di
governo (Zhara e Pearce 1989). Gli amministratori indipendenti, invece,
oltre ad apportare all’interno del CdA competenze distintive (Rosenstein e
409
Azienda Pubblica 4.2012
Il dilemma politica-mercato nelle Imprese dei Servizi Pubblici Locali quotate
Saggi
Waytt 1990), sono importanti per la loro azione di monitoraggio sul comportamento dei manager e per il loro potere/dovere di portare avanti il
ruolo che hanno assunto, anche se il loro agire non è condiviso dal capitale
pubblico, il quale comunque non può rimuoverli in assenza di giusta causa
(Gallino 2005).
Nella definizione della composizione del CdA l’azionista di controllo
svolge un ruolo fondamentale. Esso, infatti, condiziona la composizione del
CdA con la nomina di amministratori in linea con i propri interessi piuttosto
che con quelli degli azionisti di minoranza (e dei cittadini) (Collin 2007; Su
et al. 2008). Alla luce di ciò, il dilemma politica-mercato può essere mitigato
solo se il CdA rappresenta adeguatamente gli azionisti di minoranza (coinvolgendoli anche nei processi decisionali); se il numero di amministratori
“politicizzati” è ridotto (salvo che non siano dotati di un curriculum idoneo);
se gli amministratori indipendenti sono realmente tali (e quindi per esempio
se non sono ricollegabili ai politici e/o all’azionista di controllo) (Judge e
Zeithaml 1992; Dahya et al. 2008). In quest’ottica le ISPL devono sviluppare
processi strutturati e trasparenti di nomina degli amministratori (OECD 2005)
e introdurre forme di controllo alla nomina indiscriminata, nel senso che la
carica di amministratore deve essere attribuita solo in presenza del livello
di competenze richieste e non per pressioni politiche.
Passando a esaminare il secondo aspetto, adeguati meccanismi idonei a
orientare l’attività d’impresa al conseguimento di risultati economico-sociali
sono gli strumenti d’incentivazione del management, quali i piani di remunerazione degli amministratori e di azionariato. (4) I piani di remunerazione
da una parte favoriscono il coinvolgimento di professionisti qualificati e
dall’altra promuovono gli interessi di lungo termine della società. Tali piani
prevedono una forma di retribuzione mista composta da una quota fissa
e da una quota variabile collegata ai risultati economici conseguiti o al
raggiungimento di predeterminati obiettivi. I piani di azionariato, invece,
introdotti solo a seguito della riforma del diritto societario, sono una forma
di retribuzione che cumula partecipazione agli utili e compensi in natura.
Il diritto di scelta consente agli amministratori di acquistare a un prezzo
predeterminato, un quantitativo di azioni della società amministrata, alla
scadenza di un determinato periodo. (5) È degli ultimi tempi l’idea di legare
parte della remunerazione al conseguimento di obiettivi non solo economici,
ma anche sociali. Le politiche di remunerazione del top management, ai sensi
del d.lgs. n. 259/2010, devono essere illustrate in un’apposita relazione
da mettere a disposizione del pubblico.
4 Nelle ISPL non quotate, come previsto dalla l.f. 2007, il compenso del presidente e dei
componenti del CdA non possono essere superiori rispettivamente all’80% e al 70% delle
indennità spettanti al Sindaco o al Presidente della provincia. Tali misure possono essere
incrementate di un punto percentuale ogni cinque punti percentuali di partecipazione di soggetti
diversi dagli enti locali nelle società miste a capitale pubblico maggioritario. La l.f. 2010 riduce
il compenso dei componenti del consiglio di amministrazione e del collegio sindacale delle
società non quotate di un ulteriore 10% (art. 6, comma 6, d.l. 31 maggio 2010).
5 Gli amministratori delle ISPL non quotate, considerando quanto stabilito dall’art. 1, comma 725
dalla l.f. 2007, non possono essere retribuiti mediante l’attribuzione di azioni (c.d. stock option).
Azienda Pubblica 4.2012
410
Saggi
Il dilemma politica-mercato nelle Imprese dei Servizi Pubblici Locali quotate
Sintetizzando il tutto, il contemperamento del dilemma politica-mercato
delle ISPL richiede di intervenire congiuntamente a livello di:
1) Consiglio di Amministrazione e correlate prerogative decisionali;
2) sistema d’incentivazione del management (criteri di remunerazione
collegati alle performance aziendali);
3) sistema di rendicontazione dei risultati (non solo sul piano economicofinanziario quanto su quello di soddisfazione delle diverse categorie
di stakeholder) (Ricci e Landi 2010).
4. Obiettivo, campione e metodologia della ricerca
Lo scopo del contributo è di illustrare le scelte di governance, relative alla
dimensione processuale, adottate dalle ISPL.
Il campione è rappresentato dalle ISPL quotate, inserite da Borsa Italiana
nel segmento dei Servizi di Pubblica Utilità, partecipate dai Comuni al 31
dicembre 2010 (6). Tenendo conto di tali restrizioni il campione è rappresentato dalle seguenti otto imprese: 1) A2A; 2) Acea; 3) Acegas-APS; 4)
Acque Potabili; 5) Acsm-Agam; 6) Ascopiave; 7) Iren e 8) Hera.
La metodologia di analisi dei dati è essenzialmente di tipo statisticodescrittivo. Per ognuna delle ISPL del campione sono state ricercate le
informazioni utili per comprendere le loro scelte di governance, con riferimento alla sola dimensione processuale. I dati raccolti sono stati codificati e
organizzati in un database al fine di ottenere informazioni sintetiche (valori
medi per le ISPL) e dettagliate (a livello di singola ISPL) sui tre diversi ambiti
di analisi, evidenziati alla fine del paragrafo precedente.
Nello specifico, in merito alle caratteristiche del CdA e delle correlate
prerogative decisionali (punto 1), sono state raccolte e analizzate informazioni su:
• composizione del CdA, in termini di presenza di amministratori
indipendenti e di amministratori “politicizzati”, poiché nominati dal
Comune e/o poiché ex componenti di consigli comunali, provinciali
e regionali (7) (Faccio 2006);
6 Le imprese quotate partecipate, direttamente o indirettamente, dai Comuni, al 31 dicembre
2010, sono 13 e operano nei settori del gas, acqua, energia e trasporti. Essendo lo studio
incentrato sulle imprese dei servizi pubblici sono state inizialmente escluse le imprese non
inserite in tale segmento da Borsa Italiana (Aeroporto di Firenze, Save, Sat e Kinexia) e
quindi le società di pubblica utilità che non operano a carattere locale (Edison). Il campione
di riferimento è stato, pertanto, individuato nelle otto imprese restanti.
7 I risultati del referendum del giugno 2011 aprono nuovamente l’accesso all’interno dei CdA
delle ISPL ai soggetti, non eletti facendo salva la sola limitazione alla nomina di amministratore,
prevista dalla l.f. 2007, di chi, avendo ricoperto nei cinque anni precedenti analoghi incarichi,
abbia chiuso in perdita tre esercizi consecutivi (art. 1, comma 734). La successiva manovra
estiva (d.l. 138/2011 convertito con l. 148/2011) introduce nuovamente un sistema di
incompatibilità precludendo la nomina ad amministratori di ISPL a rilevanza economica, a
coloro che nei tre anni precedenti alla nomina hanno ricoperto la carica di amministratore negli
enti locali, di cui all’art. 77 del d.lgs. 267/2000, e/o che detengono quote di partecipazione
al capitale della stessa società (art. 4, comma 21). La normativa non si applica alle società
quotate nei mercati regolamentati, soggette alla disciplina definita dagli organismi di controllo
competenti e, in linea generale, alla disciplina codicistica delle società quotate.
411
Azienda Pubblica 4.2012
Il dilemma politica-mercato nelle Imprese dei Servizi Pubblici Locali quotate
Saggi
• struttura di leadership, al fine di verificare se vi è coincidenza nei
ruoli di AD e presidente del CdA;
• prerogative decisionali, al fine di comprendere il ruolo dell’azionista
pubblico nell’ambito del processo decisionale (anche per il tramite di
patti parasociali).
In merito al sistema d’incentivazione del management (punto 2), sono state
raccolte informazioni sulle modalità di remunerazione degli amministratori al
fine di comprendere se le stesse siano collegate con le performance aziendali.
Con riferimento all’ultimo aspetto (punto 3), la raccolta delle informazioni
è stata condotta al fine di verificare se e quante imprese utilizzino strumenti
di rendicontazione sociale (bilancio sociale, ambientale, ecc.).
Le informazioni su dimensione, composizione, struttura di leadership e
sistema d’incentivazione del management sono state desunte dalle relazioni
annuali (2010) di corporate governance disponibili nel sito della Borsa Italiana, mentre le informazioni sui diversi patti parasociali vigenti sono state
reperite dal sito della Consob. Le informazioni sui sistemi di rendicontazione
dei risultati anche sociali sono state rinvenute sui web site delle diverse società
quotate. Per comprendere il livello di politicizzazione degli amministratori
in carica sono state analizzate tutte le informazioni di dominio pubblico,
accessibili su internet, sui singoli amministratori.
5. Le scelte di governance delle imprese dei servizi pubblici
locali quotate: i risultati della ricerca
Statistica descrittiva
Nonostante l’apertura al mercato dei capitali per via della quotazione
in borsa, la presenza dei Comuni nel capitale delle società rientranti nel
campione si attesta mediamente, a fine 2010, intorno al 60% (figura 1).
Figura 1 – Quota azionaria pubblica - trend 2005-2010
100
90
80
70
60
50
40
30
20
10
0
Acea
Acegas Aps
Acque potabili
Acsm
Hera
A2A
Iren
Ascopiave
2006
2008
Fonte: rielaborazione su dati Consob Azionariato
Azienda Pubblica 4.2012
412
2010
Saggi
Il dilemma politica-mercato nelle Imprese dei Servizi Pubblici Locali quotate
In linea generale, la partecipazione di controllo dei Comuni è diretta (tavola
1), anche se non mancano i casi di Comuni che controllano ISPL indirettamente.
Acegas-APS, ad esempio, è controllata da Acegas-APS Holding, società a totale
capitale pubblico costituita dai Comuni di Trieste e di Padova. Similmente la
società Iren è controllata dalla Finanziaria Sviluppo delle Utilities (FSU), posseduta in maniera paritetica dai Comuni di Genova e di Torino. In diversi casi i
Comuni partecipano, direttamente o indirettamente, in più ISPL (ad esempio il
Comune di Genova che partecipa a Iren e ad Acque Potabili).
Non trova applicazione nelle ISPL quotate il d.l. 78/2010 convertito con
legge 30 luglio 2010, n. 122, il quale obbliga i Comuni con meno di 30.000
abitanti a liquidare o cedere le partecipazioni detenute in imprese che svolgono attività aventi a oggetto la produzione di beni e servizi che non siano
strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali.
Tavola 1 – Assetto proprietario del campione di ISPL quotate al 31dicembre 2010
Azienda
Quota
Azionaria di
proprietà
pubblica
Comuni che detengono quote azionarie
Altri azionisti
A2A SpA
54,912%
Comune di Brescia 27,456%; Comune di Milano
27,456%
Alpiq holding AG 5,002%
Carlo Tassara 2,512
Azionariato diffuso 37,574%
Acea SpA
51%
Comune di Roma 51%
GDF Suez SA 10,024%
Caltagirone Francesco Gaetano 12,993%
Azionariato diffuso 25,983%
Acegas –
Aps
SpA
62,848%
Comune di Trieste e Comune di Padova che insieme
detengono il 100% di Acegas-Aps Holding
Fondazione CR Trieste 5,102%
Intesa San Paolo 3,685%
Azionariato diffuso 28,365%
Acque Potabili SpA
61,712%
Comune di Torino tramite Società Metropolitana
Acque 30,857%; Comune di Genova e Comune
di Torino tramite Finanziaria Sviluppo Utilities
30,855%
Intesa San Paolo 9,724%
Azionariato diffuso 28,564%
Acsm-Agam
SpA
75,818%
Comune di Monza 29,12; Comune di Milano e
Comune di Brescia tramite A2A 21,937%; Comune
di Como 24,761%
Azionariato diffuso 24,182%
Ascopiave
SpA
63,593%
93 comuni nessuno dei quali ha una quota di
capitale superiore al 3% per 61,562%; ASM Rovigo
2,031% (partecipata al 100% dal Comune di
Rovigo)
Blue flame Srl 8,1%
Regione Veneto 2,090%
ING Investment Belgium SA 2,510%; Ascopiave
Spa 2,703%
Azionariato diffuso 21,004%
Hera SpA
48,625%
Comune di Rimini 2,160%; Comune di Ravenna
7,393%; Comune di Ferrara 2,741%; Comune di
Modena 13,731%; Comune di Bologna 14,993%;
Comune di Imola 5,319%; Comune di Cesena
2,288%
Carimonte Holding 2,057%; GSGR Srl 2,101%
Lazard Assets (gestione risparmio) 2,008%
Azionariato diffuso 45,209%
Iren SpA
50,36%
Comune di Genova e Comune di Torino tramite
Finanziaria Sviluppo Utilities 35,964%; Comune di
Reggio Emilia 8,376%; Comune di Parma 6,02%
Intesa San Paolo 3,062%
Fondazione CR Torino 2,506%
Pictet Asset management LTD 2,138%
Azionariato diffuso 41,934%
Fonte: Consob, azionariato al 31 dicembre 2010
413
Azienda Pubblica 4.2012
Il dilemma politica-mercato nelle Imprese dei Servizi Pubblici Locali quotate
Saggi
In quattro casi lo statuto prevede che la proprietà pubblica rimanga sopra
il 50% (Acegas-APS, Iren, Hera e A2A) e, in linea generale, pone vincoli
al possesso di azioni aventi diritto di voto a soggetti diversi dai Comuni. Lo
statuto di Acea, ad esempio, prevede che soci diversi dal Comune di Roma,
o sue controllate, non possano esercitare diritto di voto sulla partecipazione
eccedente l’8% del capitale sociale; Acegas-APS, Hera, Iren e A2A pongono
un limite del 5% e Acsm del 4%. In alcuni casi lo statuto attribuisce ai soci
pubblici poteri di veto (in Hera ad esempio vi è il diritto di veto da parte
dei soci pubblici all’adozione di delibere assembleari aventi a oggetto
operazioni straordinarie o modifiche statutarie tese a sopprimere i poteri
pubblici). Non sono previste esplicite limitazioni all’esercizio del voto in
Ascopiave e in Acque Potabili (tavola 2).
Il modello di organizzazione e controllo adottato dalle ISPL quotate è
quello tradizionale; solo A2A ha adottato, al 31 dicembre 2010, il modello
di controllo di tipo dualistico.
Tavola 2 – Vincoli statutari o da patti parasociali nel campione esaminato
Vincoli/patti
Imprese
Proprietà pubblica maggiore
50% da statuto
o patto
A2A SpA, Acegas Aps SpA, Hera SpA, Iren SpA
Limiti possesso
azioni ai privati
A2A SpA, Acegas Aps SpA, Acea SpA, Acsm-Agam SpA, Hera
SpA, Iren SpA
Presenza Patti
parasociali che
impattano sulla
composizione
del CdA
A2A SpA, Acsm-Agam SpA, Acque Potabili SpA, Ascopiave SpA,
Iren SpA, Hera SpA
Poteri di veto
Acsm-Agam SpA, Hera SpA
Assenza esplicite limitazioni
diritto al voto
Acque Potabili SpA, Ascopiave SpA
Fonte: nostra rielaborazione su statuti e patti parasociali
Composizione del Consiglio di Amministrazione
I CdA delle ISPL contano, al 31 dicembre 2010, mediamente circa 11
componenti, in aumento rispetto agli 8 registrati nel 2005 (Mazzotta 2007).
L’ampliamento nella dimensione dei CdA sembra rispondere più all’esigenza di rappresentatività della compagine azionaria che non alla necessità
di vedere rappresentate in Consiglio le diverse professionalità necessarie
all’assunzione delle decisioni. Iren, ad esempio, amplia il proprio CdA in
seguito al processo di fusione con Enia dichiarando di far ciò per assicurare
la rappresentatività dei diversi Comuni azionisti.
Azienda Pubblica 4.2012
414
Saggi
Il dilemma politica-mercato nelle Imprese dei Servizi Pubblici Locali quotate
Nei CdA delle ISPL sono presenti amministratori esecutivi, non esecutivi e
indipendenti. Le ISPL rivolgono oggi una maggiore attenzione agli amministratori indipendenti; ciò si coglie a una lettura attenta delle ultime versioni degli
statuti, laddove si dispone che nel formulare le liste per la nomina alla carica
di consiglieri un certo numero di amministratori, spesso posizionati in cima alla
lista, deve possedere requisiti di indipendenza. I dati confermano una tendenza
all’aumento degli amministratori non esecutivi (mediamente 8,125 nel 2010
contro i 7,6 del 2008 e i 6,82 del 2005) e indipendenti (mediamente 6,625
nel 2010 contro i 5,6 del 2008 e i 5,27 del 2005). Una visione complessiva
del dato evidenzia però che all’ampliarsi delle dimensioni del CdA la tendenza
è a inserire amministratori esecutivi piuttosto che non esecutivi e indipendenti.
Ciò indirettamente, coinvolgendo più soggetti nella gestione aziendale, ne
allunga i processi decisionali e ne riduce l’ingerenza politica.
La presenza delle donne è limitata (solo in tre imprese), un dato in linea
con quanto accade a livello generale nelle società quotate.
I CdA delle ISPL quotate appaiono molto “politicizzati”. La “politicizzazione” è il risultato dell’esercizio del potere di rappresentanza dei Comuni.
Questi ultimi, infatti, da una parte hanno privatizzato le ISPL, dall’altra
hanno previsto “regole” per mantenere un’adeguata presenza nell’organo
di amministrazione. La ricerca condotta sui curricula degli amministratori
evidenzia come “politicizzati” 5 consiglieri in Acea, 3 in A2A; 10 in Acsm
e 14 in Hera. Nel complesso l’analisi evidenzia che sugli 11 componenti
il CdA, in media 8 sono “politicizzati” (tavola 3).
Tavola 3 – Composizione del CdA al 31 dicembre 2010 delle ISPL esaminate
Amministratori
“politicizzati”
Ruolo
amministratori pubblici
di maggioranza
Numero
donne
3
3/8
Amministratori non esecutivi
e un indipendente
0
7
5
5/9
Presidente, AD e consiglieri
0
13
9
8
10/13
Presidente, Vice Presidente che è anche AD, e
consiglieri
0
Acque Potabili
SpA
9
6
3
8/9
Presidente e AD
0
Acsm-Agam
SpA
10
9
8
10/10
Presidente, Vicepresidente
e AD
1
Ascopiave
SpA
5
4
2
4/5
Presidente che è anche AD
0
Hera SpA
18
16
16
14/18
Presidente e AD
1
Iren SpA
13
9
9
11/13
Presidente e AD
1
Media
10,625
8,125
6,75
Società
Consiglio di amministrazione
Dimensione
CdA
Amministratori non
esecutivi
Amministratori indipendenti
A2A SpA
8
5
Acea SpA
9
Acegas Aps
SpA
415
Azienda Pubblica 4.2012
Saggi
Il dilemma politica-mercato nelle Imprese dei Servizi Pubblici Locali quotate
Le “regole” alle quali si faceva riferimento sono essenzialmente ricomprese nei vincoli statutari e/o in patti parasociali, grazie ai quali i Comuni
azionisti hanno il diritto ad avere all’interno del CdA un certo numero di
componenti di loro espressione e/o a individuare Presidente e AD, seppur
spesso associato a meccanismi di voto di lista. Grazie all’esistenza di
un patto parasociale, ad esempio, Iren, e quindi i Comuni di Genova e
Torino, esprime 4 componenti (di cui il Presidente e due AD) all’interno del
CdA di Acque Potabili. La governance di A2A è condizionata dal patto
parasociale in virtù del quale i Comuni di Brescia e Milano nominano 6
consiglieri di sorveglianza riservandosi, a trienni alternati, i ruoli di Presidente e Vicepresidente del Consiglio di Sorveglianza. Nel patto stipulato
dai Comuni di Como e Monza si prevede il diritto alla nomina di almeno
tre consiglieri nonché delle figure del Presidente e Vicepresidente all’interno
del CdA della società Acsm-Agam (Badia 2009). Anche il patto parasociale
vigente per Iren incide direttamente sul numero di amministratori designati
dalle diverse parti prevedendo la nomina di 7 componenti per FSU (tra cui
Presidente e AD), 4 per le parti ex-Enia (di cui Vicepresidente e Direttore
Generale) e 2 amministratori di minoranza. Nel patto parasociale stipulato,
invece, a fine 2010 tra la società Ascopiave e l’azionista di minoranza
si riserva a quest’ultimo la nomina di un rappresentante nel CdA e di uno
nel Collegio Sindacale (tavola 4).
Tavola 4 – Vincoli statutari e patti parasociali
Società
Vincoli
statutari
Patti
Parasociali
(PP)
Impatto sulla governance
interna
Indiretto
No
Sì
No
Diretto su
Limiti
eserciNomizio
na AD
voto
e/o P
Capitale
pubblico non
inferiore al
50%
X (6)
X
5%
X
X (5)
X
8%
Nomina
amministratori
X
Acea SpA
X
X
Acegas Aps
SpA
X
X
Acque Potabili
SpA
X
X
X (9)
X
Acsm-Agam
Spa
X
X
X (8)
X
Hera SpA
X
X
X
Iren SpA
X
X
X
X
Esponenti amm.
ri di minoranza
Limiti
variazioni
partecipazioni
Nomina componente Collegio
Sindacale
Sì
A2A SpA
Ascopiave SpA
Altre implicazioni derivanti da vincoli statutari e patti parasociali
X
5%
X
X
X
4%
X
X (1)
X (13)
X (1)
X
5%
X
5%
X
“Nomina amministratori” indica se il Comune che detiene partecipazioni ha diritto alla nomina diretta di amministratori di sua rappresentanza. Fra parentesi è indicato il numero di amministratori che il Comune può individuare.
“Nomina AD e/o P” indica se l’azionista pubblico individua l’amministratore delegato e il presidente del CdA.
Azienda Pubblica 4.2012
416
Saggi
Il dilemma politica-mercato nelle Imprese dei Servizi Pubblici Locali quotate
Oggi, anche nelle ISPL, le procedure di nomina degli amministratori sono
più trasparenti e sempre più legate al meccanismo di voto di lista. A ciò si
aggiunga che, a seguito dell’entrata in vigore della l. 34/2008, non vige più
la riserva diretta a garantire alle pubbliche amministrazioni diritti di controllo
«sproporzionati» rispetto all’entità della partecipazione che, di fatto, creavano
disparità tra l’azionista pubblico e quello privato. Ciò significa che le riserve
di nomina diretta di cui godevano fino allo scorso anno alcuni Comuni (previste ad esempio negli statuti di A2A e Acea), (8) con l’entrata in vigore della
l. 34/2008, che ha novellato la formulazione dell’art. 2449 (9) del Codice
Civile, non sono più ammesse nelle società che fanno ricorso al mercato del
capitale di rischio (Pericu 2007). L’esame di statuti e relazioni di governance
al 31 dicembre 2010 ha permesso di intravedere gli effetti di tali disposizioni.
Rimane ferma la situazione per A2A, anche se il Consiglio di Gestione ha
proposto e applicato per la nomina del Consiglio di Sorveglianza, avvenuta
nel 2009, l’estensione del meccanismo del voto di lista.
Le prerogative decisionali e la struttura di leadership
Il sistema di nomina alla carica di Presidente del CdA non è uniforme in
tutte le società. In Acegas-APS, ad esempio, diviene presidente del CdA il
candidato indicato con il numero 1 nella lista più votata, mentre in Acea
assume tale ruolo il consigliere designato dall’azionista pubblico. In altri casi,
come nella società Acque Potabili, i soggetti deputati a ricoprire i ruoli di
Presidente e AD sono nominati dal consiglio tra propri componenti. Anche
in Hera la nomina del Presidente non avviene in Assemblea: in virtù di un
contratto di sindacato, in seno al CdA gli azionisti pubblici propongono di
attribuire la nomina di Presidente al consigliere designato dal Comune di
Forlì. Similmente è condizionata la nomina del vicepresidente (carica che
deve essere ricoperta dal consigliere designato dal Comune di Modena)
e dell’AD (carica che deve essere ricoperta dal consigliere designato dal
Comune di Bologna).
Nella generalità dei casi, all’interno del CdA sono attribuite deleghe
operative, gestionali e istituzionali. In via principale i soggetti coinvolti sono
il Presidente del CdA, l’AD e gli eventuali direttori generali. Analizzando
i compiti delegati al Presidente (solo rappresentanza, gestione ordinaria,
straordinaria da solo o congiuntamente all’AD) e all’AD (gestione ordinaria,
straordinaria da solo o congiuntamente al Presidente), in tre casi vi è un
bilanciamento tra Presidente e AD (Acea, Hera, Iren) e in tre casi predomina
8 Lo Statuto di A2A prevedeva la nomina diretta di sei consiglieri di sorveglianza per i
Comuni di Brescia e Milano. Quello di Acea prevedeva invece una nomina proporzionale
alla partecipazione al capitale aziendale.
9 La l. 25 febbraio 2008, n. 34, intervenendo sull’art. 2449 c.c. in virtù del quale era possibile
nominare «uno o più» amministratori e sindaci e componenti del consiglio di sorveglianza
senza una precisa quantificazione, introduce il principio del limite della proporzionalità dei
poteri di nomina all’entità della partecipazione sociale. La nomina non può essere diretta e
le società quotate possono incorporare i diritti amministrativi in strumenti finanziari di nuova
emissione o in categorie speciali di azioni.
417
Azienda Pubblica 4.2012
Il dilemma politica-mercato nelle Imprese dei Servizi Pubblici Locali quotate
Saggi
l’AD (Acsm-Agam, Acegas-APS, Acque Potabili). Solo in una società i due
ruoli coincidono nella stessa persona (Ascopiave). La figura del direttore
generale è presente in quasi tutte le imprese; solo nella società Acque Potabili
non è presente ma la stessa conta su tre AD. L’articolazione della struttura
di governo e quindi la presenza di un presidente, uno o più amministratori
delegati e del direttore generale definiscono un processo di formazione
delle decisioni più articolato.
Strumenti d’incentivazione
In linea generale le ISPL adottano sistemi di remunerazione variabile. La
parte variabile è, in generale, legata a risultati economici/finanziari o al
raggiungimento di predefiniti obiettivi. Solo in un caso (Acsm-Agam), la
retribuzione è fissa mentre in Acque Potabili è definita dall’assemblea.
A oggi nessuna impresa collega, al fine di evitare comportamenti opportunistici di breve periodo, parte della remunerazione anche a risultati
“sociali”. Solo Hera utilizza al momento strumenti di remunerazione legata
alla balanced scorecard.
Poche sono le società che hanno sperimentato l’introduzione di strumenti
d’incentivazione economica del management attraverso piani di azionariato;
ricordiamo i piani di azionariato annuale introdotti da Acea dal 2000 e il
“Phantom Stock Option Plan” avviato dal 2007 da Ascopiave.
Strumenti di rendicontazione
Infine, proprio in virtù del loro fine sociale, le ISPL dovrebbero rendicontare
su livelli di efficienza, standard qualitativi di produzione, livelli tariffari,
standard di servizio, ecc. Per rendicontare i risultati sociali, le utilities redigono, ad eccezione di Acsm-Agam, Ascopiave, Acque potabili e AcegasAPS, un documento denominato “bilancio di sostenibilità”. Le prime due
società non redigono documenti di rendicontazione sociale, forse anche a
ragione della loro minore dimensione (Badia 2009), mentre informazioni
riguardo alla società Acque potabili sono rinvenibili all’interno del bilancio
di sostenibilità di Iren, la controllante di Acque potabili. La società AcegasAPS rendiconta sulla propria attività nel bilancio integrato, definito dalla
stessa come un’evoluzione del bilancio sociale. Questo documento integra
le informazioni finanziarie con quelle tipicamente inserite nel bilancio di
sostenibilità e degli intangibili.
Un documento ricollegabile alla rendicontazione d’impresa è il Codice
Etico. Tale documento indica gli impegni e le responsabilità etiche da tenere
nella conduzione delle attività necessarie al raggiungimento degli obiettivi
aziendali. Il rispetto del Codice Etico favorisce stili di comportamento che
tendono ad affermare una positiva reputazione dell’azienda e un aumento
di credibilità. Tutte le imprese analizzate hanno un proprio Codice Etico,
anche per via del dettato normativo del d.lgs. 231/2001.
Azienda Pubblica 4.2012
418
Saggi
Il dilemma politica-mercato nelle Imprese dei Servizi Pubblici Locali quotate
6. Discussione dei risultati e conclusioni
Le ISPL hanno due diverse responsabilità: da una parte quella economica
(generare profitto) e dall’altra quella sociale. Per realizzare contemporaneamente tali obiettivi le ISPL devono disporre di un assetto di governance interna
capace di assicurare una maggiore autonomia del management dalla sfera
politica, seppur nel rispetto degli indirizzi della proprietà. L’autonomia del
management non deve, però, prevalere eccessivamente. Il management, infatti, potrebbe sfruttare il proprio vantaggio informativo rispetto all’azionista
pubblico e adottare comportamenti opportunistici, deviando dall’indirizzo
da esso individuato e quindi comprimendo l’interesse pubblico (Elefanti e
Cerrato 2007). Allo stesso tempo l’ingerenza politica del soggetto pubblico
non deve essere tale da comprimere l’autonomia aziendale, poiché ciò potrebbe condurre ad interpretare le funzioni d’indirizzo e controllo in chiave
esclusivamente politica. In altre parole, nelle ISPL è necessario trovare un
giusto equilibrio tra autonomia manageriale e ingerenza politica e quindi
affrontare il dilemma politica-mercato.
Dalla nostra analisi emerge che i CdA tendono ad avere una maggiore
diversificazione in termini di competenze e che lo stesso processo di nomina
degli amministratori non è più effettuato su piani tipicamente politici quanto
sulla base di procedure di nomina trasparenti. In linea generale, le imprese
preferiscono il meccanismo del voto di lista, seppur all’interno di candidature
proposte dall’azionista pubblico. A ciò spesso si aggiunge, però, la presenza
di patti parasociali i quali, di fatto, indirizzano l’individuazione delle figure
chiave del CdA (Presidente e AD) a candidati designati dal soggetto pubblico. Considerando che il sistema di organizzazione e controllo adottato
dalle ISPL è quello tradizionale e che il capitale pubblico individua, nella
generalità dei casi, i ruoli di presidente e AD, il quadro che ne emerge è di
imprese con un’ampia ingerenza politica, seppur mitigata nel nostro caso
dalla quotazione in borsa. Un tale contesto non assicura che il CdA agisca
nell’interesse dell’impresa e che monitori efficacemente il management
senza interferenze politiche. È fondamentale, pertanto, per le nostre ISPL
continuare ad agire sulla governance interna e in particolare sul livello di
indipendenza del CdA. Gli amministratori indipendenti devono essere tali
nella forma e nella sostanza e devono quindi rispondere non a chi li ha
indicati, ma a tutti gli azionisti. In realtà, un comportamento indipendente è
da richiedere a tutti i componenti del CdA e un meccanismo per indirizzare
verso un tale comportamento è quello di correlare la remunerazione degli
amministratori al raggiungimento di obiettivi o risultati economici. Ciò, infatti,
può allineare gli interessi dei manager, essenzialmente di estrazione politica
e il cui compito è di rappresentare le finalità istituzionali pubbliche, con la
ricerca di risultati economici soddisfacenti.
Nel complesso l’articolo, utilizzando il framework teorico della teoria dell’agenzia, contribuisce al dibattito sulla governance nel suo ruolo di mitigatore dei
conflitti tra azionisti di maggioranza e di minoranza fornendo, nello specifico,
419
Azienda Pubblica 4.2012
Il dilemma politica-mercato nelle Imprese dei Servizi Pubblici Locali quotate
Saggi
ulteriori evidenze con riferimento al contesto delle ISPL quotate italiane. Allo
stesso tempo, dallo studio traspare la richiesta di una maggiore focalizzazione
della ricerca sull’individuazione di processi strutturati e trasparenti sistemi di
nomina degli amministratori, sulle dinamiche decisionali del CdA e sulla sua
indipendenza. Il CdA, il centro propulsore delle società, può pur vedere la
presenza di soggetti di provenienza politica, ma le dinamiche decisionali non
devono risentire di eccessive interferenze politiche. Future ricerche potrebbero
quindi ancor più approfondire come conciliare le due esigenze con l’obiettivo
di consentire un reale miglioramento nella gestione dei servizi pubblici.
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422
Saggi
Sistemi di welfare e accontability delle aziende non profit
Sistemi di welfare e accountability delle aziende non profit:
verso una rendicontazione condivisa e partecipata dei servizi alla persona*
Silvana Signori
Ricercatrice, Dipartimento di Scienze aziendali, economiche e metodi quantitativi, Università degli Studi di Bergamo
Sommario: 1. Introduzione. – 2. Il contesto. – 3. Sistemi di welfare e accountability. – 4. L’accountability per l’azienda
non profit. – 5. Verso una “accountability condivisa e partecipata” dei servizi pubblici. – 6. Conclusioni.
Negli ultimi anni il settore non profit, più di ogni altro, ha assistito al proliferare di prescrizioni
normative, linee guida e modelli di rendicontazione sociale e di missione. Cogliendo l’opportunità
di un così ricco panorama, il presente lavoro si propone di riflettere sul concetto di accountability
delle aziende non profit, con particolare riferimento ai nuovi scenari e alle possibilità offerte dall’evoluzione dei sistemi di welfare. In modo specifico, viene presentata una riflessione sulle forme di
rendicontazione condivise e partecipate, quale possibile esercizio di contemperamento di diversi
interessi, doveri e responsabilità e premessa di un più ampio e generale governo partecipato nella
gestione dei servizi di pubblica utilità, e nello specifico di quelli alla persona.
In recent years the nonprofit sector, more than any other, has witnessed a proliferation of regulatory
requirements, guidelines and models of social and mission reporting. Seizing the opportunity offered
by such a rich panorama, this paper aims to reflect on the concept of accountability for nonprofit
organizations, with particular reference to the new scenarios and opportunities arising from the
evolution of welfare systems. More specifically, we consider new forms of shared and participatory
accountability as a possible way of moderating different interests, duties and responsibilities and
as an introduction to a broader and more generally shared management of public utilities and, in
particular, of social services.
* Si desidera ringraziare Gianfranco Rusconi, Giovanni Stiz e i due referee anonimi per gli interessanti spunti di
riflessione ed i suggerimenti che hanno permesso di migliorare il lavoro. La responsabilità di quanto scritto rimane
comunque interamente dell’autrice.
Parole chiave: Accountability – Enti non profit – Rendicontazione condivisa
Key words: Accountability – Nonprofit organizations – Shared accountability
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Azienda Pubblica 4.2012
Sistemi di welfare e accontability delle aziende non profit
Saggi
1. Introduzione
Il tema della rendicontazione sociale delle aziende non profit è stato oggetto,
negli ultimi anni, di crescente interesse. In Italia, in modo particolare, si è
assistito al proliferare di prescrizioni normative, provvedimenti, linee guida
e atti di indirizzo da parte di istituzioni pubbliche, organismi professionali
ed enti di rappresentanza, che hanno contribuito a formare un corposo
quadro di riferimento in merito a contenuti e standard di rendicontazione.
La figura 1 illustra la ricchezza del panorama italiano.
Figura 1 – Linee guida, standard e documenti
Previsioni normative
D.lgs. 59/1992 in materia di cooperative richiede di indicare i criteri seguiti nella gestione sociale per il conseguimento degli
scopi statutari
D.lgs. 153/1999 prescrivere alle fondazioni bancarie di illustrare gli obiettivi sociali perseguiti e gli interventi realizzati
D.lgs. 155/2006 impone alle imprese sociali di redigere e depositare presso il Registro delle imprese il bilancio sociale
L.r. n. 20 del 26/10/2006 emanata dalla Regione Friuli Venezia-Giulia e la D.G. n. 5536 del 10 ottobre 2007 della Regione
Lombardia vincolano la possibilità del mantenimento dell’iscrizione all’Albo regionale delle cooperative sociali alla presentazione e deposito del bilancio sociale.
Documenti emessi da istituzioni pubbliche
Linee guida per imprese sociali
Decreto Ministro Solidarietà Sociale del 24 gennaio 2008
Atto di indirizzo per cooperative sociali e loro consorzi
Regione Friuli V.G., delibera giunta n. 1992/2008
Linee guida per cooperative sociali e loro consorzi
Regione Lombardia, circolare n. 23, 29 maggio 2009
Linee guida per organizzazioni non profit
Agenzia Onlus, febbraio 2010
Documenti emessi dagli organismi professionali
Principi generali e linee guida
CNDCEC, 2004
Documento di ricerca
GBS, 2009
Documenti emessi da organizzazioni non profit
Proposte per specifiche categorie di organizzazioni
es. AVIS
Linee guida per bilancio sociale e di missione delle Odv
CSV.net, IREF, Fondazione Feo-Fivol, 2008
Guida per la realizzazione - BS per cooperative sociali
Confcooperative/Federsolidarietà 2009
Standard internazionali
(giugno 2010 – standard internazionale)
GRI settore non profit
Pur avendo molti aspetti in comune, dovuti anche semplicemente all’inevitabile contaminazione che documenti emessi precedentemente hanno avuto su
documenti successivi, ogni linea guida presenta una sua ricchezza e può, in molti
Azienda Pubblica 4.2012
424
Saggi
Sistemi di welfare e accontability delle aziende non profit
casi, essere proficuamente integrata con altri documenti. Si può quindi affermare
che oggi le aziende non profit italiane abbiano a disposizione una consistente
strumentazione utile a redigere un buon bilancio sociale (o di missione).
Le ragioni che hanno mosso l’interesse del legislatore, del terzo settore
e degli organismi professionali sono verosimilmente da ricondursi al riconoscimento di un ruolo “pubblico” o di pubblico interesse che un ente non
profit spesso ricopre ed al derivante e connesso dovere di accountability. (1)
È infatti ormai convinzione condivisa che le aziende non profit nascono per
servire una missione sociale che gli approcci tradizionali alla contabilità non
sempre sono in grado di cogliere (per tutti, Quarter e Richmond 2001). Come
emerso da una recente ricerca condotta da Grumo e Molteni (2010), le non
profit italiane tendono tuttavia a preferire un’impostazione di comunicazione
piuttosto che di rendicontazione con un ancora limitato coinvolgimento degli
stakeholder. Inoltre, come evidenziato da Travaglini (2010), l’approccio normativo-soggettivo alla rendicontazione ha presentato in passato molti limiti, (2)
non potendo cogliere appieno la natura “partecipata ed allargata” di molti
dei processi sottostanti l’erogazione di servizi pubblici o di pubblica utilità.
Per comprendere e valorizzare il potenziale informativo di tali documenti è quindi ora più che mai necessario un adeguato processo di crescita
culturale, che non può prescindere dal contesto socio-istituzionale in cui le
aziende non profit si trovano ad operare.
Il presente lavoro si propone di fornire alcuni spunti di riflessione sulle sfide
e gli stimoli che il sistema di accountability delle aziende non profit può ricevere
da un contesto caratterizzato sempre più dalla presenza di un’azione congiunta
e sinergica tra Stato, settore profit e quello non profit. In particolare, si cercherà
di sviluppare un quadro teorico atto ad analizzare se e a quali condizioni sia
possibile e prospettabile l’introduzione di forme di rendicontazione partecipate
e condivise dei servizi alla persona, che vedono in modo crescente la compresenza di diversi attori nella fase di progettazione e realizzazione del servizio.
L’elaborato si svilupperà secondo il seguente percorso logico: dopo
una sintetica presentazione dello scenario e delle evoluzioni (già in atto
e prospettate) dei sistemi di welfare, si passerà all’analisi del concetto di
accountability per le aziende non profit e di come tali sistemi si potranno
collocare all’interno del panorama profilato. Si cercherà infine di ipotizzare
la sperimentazione di processi di accountability condivisi e partecipati per la
rendicontazione dei servizi di pubblica utilità, in particolare per quelli alla
persona. L’attenzione sarà prevalentemente rivolta alle aziende non profit
che erogano tali tipologie di servizi, anche se molte delle riflessioni proposte
hanno carattere generale e interessano tutti i soggetti (pubblici e privati,
for profit e non) coinvolti nell’erogazione dei servizi pubblici, e non solo.
1 Sul concetto di accountability si tornerà ampiamente più avanti.
2 Si pensi, ad esempio, all’adempimento previsto dall’art. 2 della l. 59/1992 per le società cooperative, che spesso si è tradotto in una o più frasi preconfezionate riportate in modo
acritico da un anno all’altro, perdendo ogni potenziale effetto rendicontativo e valutativo delle performance ottenute.
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Sistemi di welfare e accontability delle aziende non profit
Saggi
2. Il contesto (3)
Molto efficacemente Borgonovi e Mussari (2010), nella loro relazione
introduttiva al 33° convegno annuale dell’Accademia italiana di economia
aziendale, invitano a superare modelli interpretativi basati sulla dicotomia
o contrapposizione tra settore pubblico e privato, e/o tra questi e il settore
non profit, per provare a sperimentare soluzioni alternative in cui sia prevista
una “compartecipazione ai processi di definizione delle politiche pubbliche e alla produzione dei servizi pubblici con contestuale assunzione di
responsabilità per i risultati conseguiti” (Borgonovi e Mussari 2010: p. 1).
Gli autori, interpretando l’evoluzione degli ultimi trent’anni, identificano
un percorso che, partendo dall’idea del “più mercato nello Stato”, su cui si
sono basate e si basano le riforme dell’amministrazione pubblica avviate
a partire dagli anni ‘60 e ’70 nei paesi occidentali (si pensi, ad esempio,
al New Public Management), si articola seguendo il principio/necessità
della riduzione dell’intervento pubblico – “meno Stato più mercato” – e
si completa con l’adozione di un “modello di governance di sistema”, in
base alla logica della sussidiarietà e della “Big Society” di Cameron. Tale
trasformazione richiede una contestuale e coerente evoluzione anche nei
rapporti tra i diversi soggetti economici e sociali: tra imprese e amministrazioni pubbliche, tra amministrazioni pubbliche e organizzazioni non profit,
e tra quest’ultime e le imprese for profit (Borgonovi e Mussari 2010).
In modo per alcuni versi simile, in un saggio del 2002, Eran Vigoda, concettualizzando i rapporti tra pubbliche amministrazioni e cittadini, propone un
superamento del principio della delega, in cui i cittadini sono visti nella veste di
“votanti” e la pubblica amministrazione come “fiduciaria” di questa delega, in
favore della responsiveness, ossia della capacità delle amministrazioni pubbliche
di rispondere alle istanze avanzate dai loro cittadini/clienti, per approdare infine
al concetto di “collaborazione”, in cui pubbliche amministrazioni e cittadini
sono visti come partner di un processo condiviso (4) (Vigoda 2002).
Il passaggio dalla responsiveness alla collaborazione implica il superamento della logica della risposta “unidirezionale” ai bisogni e alle
domande dei cittadini, per un più ampio e allargato modello di partecipazione, coinvolgimento e unione di forze tra più soggetti che vede come
punto centrale la costruzione di rapporti di collaborazione e di partnership
(Vigoda, 2002: p. 527).
Come ben sottolineato da Borgonovi e Mussari (2010: p. 9), la “dimensione ‘plurale’, comunitaria o sociale del valore pubblico” è strettamente
3 La presentazione non ha la pretesa d’essere esaustiva, ma lo specifico scopo di descrivere per sommi capi il contesto in cui le aziende non profit si trovano ad operare ed i possibili
scenari futuri. La bibliografia è stata volutamente selezionata e circoscritta.
4 In realtà Vigoda, usando la metafora di “due diversi cappelli per una sola signora”, suggerisce uno schema logico in cui responsiveness e collaborazione coesistono in un continuum
evolutivo: “Thus, a framework of interaction with citizens is better presented here by one evolutionary continuum (one lady) of public administration. Along this continuum, responsiveness
and collaboration are only different “hats” on one line of symmetry” (Vigoda 2002: p. 531).
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Saggi
Sistemi di welfare e accontability delle aziende non profit
connessa alla capacità delle amministrazioni di dare risposta ai “bisogni
collettivi della comunità di riferimento (domanda sociale)”. A tal proposito
si sottolineano tre aspetti fondamentali e contingenti:
a) i nuovi modelli di reperimento delle risorse, sempre più caratterizzati
dalla decentralizzazione, impongono una maggior responsabilizzazione da parte degli enti pubblici locali ed una maggior vicinanza
tra cittadini/contribuenti, soggetti finanziatori, produttori di servizi
e utenti;
b) la consapevolezza dell’impossibilità di proseguire sulla via accentratrice seguita in passato richiede l’affidamento a soggetti privati
(profit o non profit) della produzione di servizi di natura pubblica
o di interesse generale, in coerenza con il principio costituzionale
della sussidiarietà;
c) in un periodo di risorse sempre più scarse, sia nel settore pubblico
che in quello privato, la capacità di trovare risposte sinergiche, effettive ed efficaci a bisogni presumibilmente crescenti e sempre più
complessi, diviene una necessità sempre più stringente.
In quest’ottica il ruolo dei diversi attori cambia radicalmente. Si passa da
un concetto di welfare state a quello di una welfare society in cui i soggetti –
individuali e collettivi – devono essere dotati di quella “capacità, vale a dire
quell’empowerment, che consente loro di diventare partner attivi nel processo
di programmazione degli interventi e nell’adozione delle conseguenti scelte
strategiche”. Ciò presuppone che “la società civile si organizzi in maniera
adeguata” intervenendo anche sul lato della domanda, per interloquire in
modo autonomo con i soggetti dell’offerta (Zamagni 2002: pp. 24 e ss.).
In modo per alcuni versi analogo, Mendoza già nel 1997 prospettava il
passaggio dallo “Stato del benessere allo Stato relazionale”, fondato sulla
“corresponsabilità” nella definizione di obiettivi comuni e nell’assunzione
di responsabilità concrete nel loro raggiungimento, e sulla reciprocità tra
settore pubblico e società civile. (5) Moro (2008: p. 43), sottolinea come
l’auspicato passaggio da modelli di government, basati sul ruolo centrale
delle istituzioni, a “strategie di governance o di governo condiviso”, non
significhi deresponsabilizzare le istituzioni, ma piuttosto valorizzare il contributo dei cittadini alla definizione e realizzazione dell’interesse generale.
L’autore propone quindi il passaggio dalla “sussidiarietà orizzontale” a
forme di “sussidiarietà circolare”, fondate sulla partnership tra pubblicoprivato (profit e non profit) e cittadini, che aprono orizzonti nuovi e altrimenti
difficilmente percorribili (Moro 2008: p. 49).
L’interazione tra i diversi soggetti si formalizza attraverso una dimensione
strettamente “istituzionale”, legata all’attribuzione dei poteri nelle decisioni sulle
politiche; una dimensione “funzionale-gestionale”, intesa come organizzazio5 Per ulteriori approfondimenti sul passaggio da uno stato burocratico ad uno stato relazionale si veda anche Matacena e Mattei (2008).
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Sistemi di welfare e accontability delle aziende non profit
Saggi
ne e gestione dei processi di produzione e di cessione dei beni e dei servizi
(Borgonovi e Mussari, 2010), a cui si aggiunge quella “rendicontativa”, legata
all’accountability, ossia alla comunicazione in merito alle proprie responsabilità
e a come vi si è adempiuto (Matacena e Mattei, 2008: p. 131).
Nel proseguo del presente lavoro si approfondirà in particolare quest’ultimo aspetto, ossia l’importanza dell’accountability nel processo di governance allargata dei servizi alla persona di pubblica utilità.
3. Sistemi di welfare e accountability
Il contesto e le prospettive sopra illustrate lanciano una sfida a tutte le organizzazioni finalizzate alla produzione di beni e servizi di utilità sociale ed, in
particolare, alle aziende non profit. Nel futuro, infatti, la capacità di perseguire
l’interesse generale dipenderà sempre di più dalla capacità di realizzare forme
di collaborazione strutturate (partnership) tra soggetti pubblici e privati (Borgonovi, 2008). Ciò richiede la volontà e la disponibilità da parte dei diversi
attori coinvolti: atteggiamenti questi che passano attraverso un ripensamento
ed un rafforzamento del proprio specifico ruolo all’interno della società e dei
doveri e delle responsabilità che questo comporta. In altre parole, è necessaria
una rifocalizzazione sulla mission per definire una propria specifica e solida
identità capace di trovare punti di convergenza con quella degli altri soggetti
coinvolti (pubblici, privati, singoli o organizzati, profit e non profit).
La “ricerca di forme istituzionali capaci di consentire la mutua compatibilizzazione delle varie classi di interessi è appena agli inizi” (Zamagni,
2002: p. 27), occorre quindi ingegnarsi per trovare occasioni e modalità
di sperimentazione di tali processi.
Un’interessante possibilità in tale senso ci viene fornita da Travaglini
(2010) che configura un “comune percorso di accountability per i servizi
pubblici” fondato sulla condivisione di responsabilità nell’utilizzo di risorse
pubbliche e sull’identificazione e coinvolgimento dei diversi stakeholder
nel controllo del servizio erogato (Travaglini, 2010: p. 10). In altre parole,
si propone una common accountability dei servizi che “unifichi soggetti
pubblici e quelli privati, passando dall’orientamento alla governance ed
accountability dei soggetti o delle forme giuridiche, a quella degli oggetti
o delle tipologie di servizi” e quindi, ad un regime di “controllo pubblico e
trasparenza” comune alle aziende che gestiscono risorse della collettività
(Travaglini, 2010: p. 1). In effetti, con il progressivo passaggio da erogatore
diretto a “finanziatore” di servizi, il ruolo dell’ente pubblico, con particolare
riferimento ai servizi di utilità sociale, si riduce spesso quasi esclusivamente
ad una valutazione ex-ante della capacità di proporre e realizzare servizi
da finanziare con risorse pubbliche (mediante il processo di accreditamento
e/o in qualità di “appaltatore” di tali servizi). Come se, una volta identificato il soggetto “accreditato” all’erogazione e/o aggiudicatario di un
bando, la responsabilità per il raggiungimento di fini sociali possa essere
automaticamente “delegata” all’erogatore del servizio.
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Sistemi di welfare e accontability delle aziende non profit
Nella prospettiva, più sopra presentata, di una welfare society (Zamagni,
2002) o di un sistema di “sussidiarietà circolare” (Moro, 2008) o di “stato
relazionale” (Mendoza, 1997), la compartecipazione dei diversi soggetti
nella realizzazione dei servizi di pubblica utilità acquisisce connotati
particolari, caratterizzati dal reciproco riconoscimento di ruoli, funzioni,
interessi, doveri e responsabilità nella realizzazione dell’interesse pubblico.
Per fare ciò, e in una logica economico-aziendale, è necessario un progressivo “addivenire al reciproco riconoscimento” dei diversi ruoli e funzioni
che settore privato, pubblico e non profit assumono all’interno del sistema
socio-economico complessivo. La prospettiva economico-aziendale ci aiuta
infatti ad analizzare tale fenomeno non solo nell’ottica di un singolo operatore, ma in una più ampia prospettiva di sistema. L’azienda viene quindi ad
assumere una valenza in sé e in relazione sinergica con gli altri attori che
agiscono nel suo ambiente socio-economico (Borgonovi e Mussari, 2010).
In tale processo non possono quindi che essere coinvolti tutti i soggetti a
vario titolo interessati al perseguimento di una specifica finalità (non solo
l’ente pubblico e l’azienda non profit ma anche gli utenti e/o beneficiari
dei servizi e loro famiglie, gli altri finanziatori, i donatori, i volontari, ecc.
e, più in generale, i cittadini).
Seppur la prospettiva che qui si vuole evidenziare sia prevalentemente
di tipo “rendicontativo”, quindi con un riferimento temporale ex post rispetto
all’erogazione del servizio, è intuibile come la stessa cooperazione multistakeholder sia auspicabile anche nelle fasi di: a) definizione dell’interesse
pubblico da perseguire e dei relativi obiettivi da raggiungere; b) progettazione degli interventi e c) controllo in itinere delle attività poste in essere,
nell’ottica di un governo del territorio condiviso e partecipato (Mazzoleni,
2004; Paletta e Tieghi, 2007).
Ma come si pone questa proposta in un’ottica di accountability degli
enti interessati? Perché dovrebbe essere adottata e promossa? Il presente
lavoro si propone di offrire una possibile risposta con specifico riferimento
alle aziende non profit. Ciò nonostante molte delle considerazioni che seguono potranno essere facilmente estese anche ai soggetti pubblici e privati
a vario titolo coinvolti in tali processi.
4. L’accountability per l’azienda non profit
Gray et al. (1996: p. 38) definiscono l’accountability come:
“the duty to provide an account (by no means necessarily a financial
account) or reckoning of those actions for which one is held responsible”.
Seppur tale definizione non sia stata pensata specificatamente per il
settore non profit, solleva alcuni aspetti particolarmente interessanti: l’accountability è infatti un “dovere” (quindi non una libera scelta) di “render
conto”, ossia di fornire un’evidenza o una relazione su qualcosa di cui si
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Sistemi di welfare e accontability delle aziende non profit
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è stati incaricati o di cui si è considerati responsabili. Tale definizione presuppone quindi che ci sia stata un’azione o una qualche attività posta in
essere in risposta ad una specifica responsabilità, concetto questo ripreso
e proposto anche da Rusconi (2002: p. 229) che definisce l’accountability
come “… il dovere e la responsabilità di spiegare, giustificare, a chi ne ha
diritto, che cosa si sta facendo per rispettare gli impegni presi con gli interlocutori, sia sul piano economico-reddituale […], sia da altri punti di vista”.
Con particolare riferimento alle aziende non profit Matacena (2002:
p. 146) enfatizza l’aspetto della responsabilità del dover rendere conto
dei risultati ottenuti nel caso si utilizzino risorse non proprie. Per l’autore,
l’accountability esprime la responsabilità informativa e si sostanzia in quel
“sistema di comunicazioni, interne ed esterne, che nella trasparenza e nel
controllo d’esito trovano la loro piena conformazione”. Il principale scopo dell’accountability dovrebbe quindi essere il favorire dei meccanismi
attraverso i quali tutti coloro che sono influenzati dall’azione di un’organizzazione (o di una persona) possono chiedere conto sul come e perché
quell’organizzazione (o quella persona) ha agito in tale maniera (Unerman e
O’Dwyer, 2006). Cornwall et al. (2000: p.3) sottolineano come il processo di
accountability implichi quindi un duplice aspetto: essere ritenuti responsabili
(dagli altri) (6) e assumersi le proprie responsabilità, in un atteggiamento
proattivo teso a servire la pubblica fiducia.
I diversi aspetti più sopra evidenziati dimostrano come l’accountability, in
particolare quella degli enti non profit, presenti diverse “sfaccettature” (Ebrahim
2003b utilizza il termine molto efficace di “multifaced”) e possa cambiare nel
tempo in relazione alle diverse aspettative richieste dall’ambiente di riferimento
o da esigenze generate internamente. Come evidenziato anche dalle diverse
definizioni sopra riportate, l’accountability delle organizzazioni non profit può
infatti essere concepita nel suo aspetto “relazionale” – ovvero come risposta ad
un dovere verso gli altri, ma anche nei suoi connotati “identitari”, ossia come
rendicontazione in merito agli ideali e alla mission fondanti l’organizzazione
stessa. In letteratura si parla quindi di relational e identity accountability (Najam
1996; Ebrahim 2003a, 2003b; Unerman e O’Dweyer 2006). Tale concetto
è ben rappresentato dalla seguente definizione:
“Accountability may thus be defined as the means through which individuals and organizations are held externally to account for their actions
and as the means by which they take internal responsibility for continuously
shaping and scrutinizing organizational mission, goals, and performance”
(Ebrahim, 2003b: p. 194).
Con la forma di relational accountability il “dare conto” presuppone l’assunto che il ricevente o gli stakeholder abbiano un diritto a rendere gli altri
6 Edwards e Hulme (1996b) parlano di “autorità riconosciuta” per enfatizzare come il dovere di rendicontazione venga a volte addirittura imposto dagli altri.
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Saggi
Sistemi di welfare e accontability delle aziende non profit
responsabili. L’accountability è quindi concepita come un “meccanismo vitale
di controllo” (Unerman e O’Dwyer, 2006) (7) che dà visibilità a ciò che prima
era invisibile (Gray, 1992: p. 415). Basandosi sul concetto di responsabilità
per l’impatto creato sugli stakeholder, l’identificazione di questi ultimi è un
elemento centrale per tale tipologia di accountability. È infatti il bisogno
informativo degli stakeholder che determina la responsabilità e il dovere di
accountability (Gray et al., 1997) ed il conseguente diritto a partecipare
ai processi di accountability (Unerman e O’Dwyer, 2006). Si apre quindi
il delicato aspetto dell’identificazione degli stakeholder verso cui l’azienda
è responsabile per le azioni condotte e/o per le eventuali sue omissioni. (8)
La identity accountability si focalizza invece su aspetti interni all’organizzazione, ossia la salvaguardia e la coerenza con la propria missione. In
particolare, Roberts (1991) sottolinea come l’accountabilty sia un processo
di consapevolezza interna, che contribuisce alla formazione di un “sé” e
di ciò che contraddistingue dagli altri, dando un connotato etico o basato
sui valori e privilegiando le motivazioni “interne” all’agire. La identity accountability rappresenta quindi un mezzo attraverso il quale chi gestisce
l’organizzazione si assume la responsabilità di plasmare la propria mission
e definire e perseguire i valori sottostanti, per valutare e farsi valutare in
relazione agli obiettivi prefissati (Ebrahim, 2003a, 2003b; Unerman e
O’Dwyer, 2006; Francesconi, 2007).
Le due prospettive non sono mutuamente esclusive, anzi, il focalizzarsi su
uno solo degli aspetti potrebbe indurre a comportamenti distortivi (Roberts,
1991; Ebrahim, 2003a). Si pensi, ad esempio, al pericolo di adattare o
conformare la propria immagine a ciò che gli altri (se particolarmente forti
o influenti) richiedono, con la possibile alienazione della propria mission e
quindi della propria identità. Viceversa, uno sguardo rivolto esclusivamente
su se stessi aumenta l’autoreferenzialità ed il rischio di radicarsi su posizioni
autodefinite, magari lontane dalla realtà. Come evidenzia bene Ebrahim
tutto il processo di accountability è un processo relazionale per natura: non
assume un ruolo separato o a parte rispetto all’organizzazione, ma riflette le
relazioni tra i diversi attori (Ebrahim, 2003a); un sistema di accountability
privo di uno sguardo sulla comunità (o sull’ambiente di riferimento) e sulla
mission sarebbe miope (Ebrahim, 2005).
Molto efficacemente Najam (1996) evidenzia come il sistema di rendicontazione normalmente adottato dagli enti non profit sia riconducibile a tre principali
categorie: 1) l’accountability verso i finanziatori o benefattori; 2) l’accountability
verso i propri clienti (o beneficiari); e 3) l’accountability verso se stessi. (9)
7 Gli autori citano a tal proposito i lavori di Buhr (2001) e Sinclair (1995).
8 Sul concetto di stakeholder si vedano i lavori di Freeman, dal famoso libro del 1984 ai più
recenti contributi. Sul concetto dell’identificazione degli stakeholder si rimanda a Donaldson
e Preston (1995) e agli altri contributi in Freeman et al. (2007). Sull’estensione della responsabilità delle organizzazioni non profit alle conseguenze indirette scaturenti dalle loro azioni
si veda Unerman e O’Dwyer (2006).
9 Oltre, chiaramente, al dovere di rendicontazione economico finanziaria imposta dalle normative vigenti.
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Nel primo caso (accountability verso i finanziatori e/o benefattori), il
dovere/responsabilità deriva dall’utilizzo di fondi altrui o che altri hanno
devoluto con specifiche finalità. Il più elementare livello di responsabilità
scaturisce quindi da un connesso potere di “controllo” che le risorse designate siano state spese per gli scopi prefissati. Si tratta spesso di una
verifica di tipo “finanziario” sulla capacità di spesa e sulla correttezza
nell’utilizzo del denaro. In realtà, soprattutto in contesti e momenti in cui
le risorse sono scarse, vi è la possibilità che si instauri una forte relazione
di potere (Najam, 1996) con il conseguente rischio di adattamento agli
scopi stabiliti dal finanziatore a scapito della specifica “identità” dei
soggetti finanziati. (10) L’eccessiva dipendenza e/o subordinazione, oltre
che rischiosa da un punto di vista economico-finanziario, potrebbe infatti
minare l’indipendenza e l’integrità della mission, nonché favorire situazioni
di eccessivo controllo che inibiscono la sperimentazione e l’innovazione
(Ebrahim, 2003a): elementi vitali per un settore che per sua natura dovrebbe continuamente muoversi alla ricerca di nuovi equilibri e bisogni
da soddisfare (Fiorentini e D’Angelo, 2008).
Tale tipologia di rendicontazione viene identificata in letteratura con il termine
upward (Ebrahim, 2003a, 2003b; Edwards e Hulme, 1996b; Najam, 1996;
O’Dwyer e Unerman, 2007), per enfatizzare lo stimolo o l’input “dall’alto”.
La seconda tipologia di accountability proposta da Najam (spesso definita downward) si riferisce invece alla relazione con i clienti o beneficiari
dell’azienda non profit. (11) Il tradizionale modo con cui un’organizzazione
si considera adempiente verso tale responsabilità è la partecipazione (o,
in termini moderni, l’engagement). Tali processi si sono però spesso rivelati
“falsi rituali”, ossia semplici ratifiche o conferme di decisioni e obiettivi già
definiti (Najam, 1996), senza effettivamente cogliere la voce dei diversi
interlocutori. Come si vedrà nel prosieguo, una reale accountability dovrebbe
invece scaturire da una vera e concreta partecipazione che passa attraverso
il reciproco riconoscimento di ruoli e di vedute.
La terza forma di accountability coincide con quella sopra definita come
“identitaria”, ossia che si riferisce alla definizione e al rispetto della vision,
della mission e degli scopi per cui un’organizzazione è stata istituita ed è
retta (Najam, 1996). (12)
10 Si pensi, ad esempio, a bandi per l’erogazione di contributi a fondo perduto per specifici settori o linee di intervento e al rischio, tutt’altro che remoto, che le organizzazioni non
profit adeguino la propria azione in funzione della possibilità di ottenere il finanziamento.
Per finanziatore o benefattore si può considerare un ente pubblico o privato (impresa, fondazione erogativa, altre realtà non profit, ecc.), ma anche singoli individui che versano quote associative o erogano contributi liberali. I benefici ricevuti o auspicati possono essere anche di
natura non monetaria (si pensi, ad esempio, all’utilizzo gratuito di strutture o di beni, ad agevolazioni di vario tipo, ma anche allo stesso processo di accreditamento).
11 L’autore estende il concetto anche ai cosiddetti beneficiari indiretti, ossia alla comunità o
allo stato in cui l’organizzazione opera. In realtà, come l’autore stesso fa notare, il concetto
di beneficio definito dall’ente non profit non coincide necessariamente con quello richiesto o
atteso dalla comunità, dallo stato o dagli altri beneficiari. Inoltre, è la stessa comunità, anche
se “locale”, a non essere “un’entità monolitica” con un set di preferenze, attese e aspettative
omogenee (sull’argomento si veda anche Baldin, 2005).
12 Sui concetti di visione e di missione si veda Francesconi (2007).
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Sistemi di welfare e accontability delle aziende non profit
Najam conclude osservando come spesso ci sia uno sbilanciamento verso
la prima forma di accountability, soprattutto in forma cosiddetta “funzionale”
(ossia come rendicontazione sulle risorse utilizzate e impatti immediati), a
scapito di quella verso i beneficiari e verso “se stessi”.
In realtà, la natura stessa dell’impresa non profit come “azienda senza
proprietari” (Baldin, 2005) o, meglio, con doveri fiduciari verso molteplici
soggetti (Young, 2002; Rusconi e Signori, 2007), ha spesso indotto a
configurare la governance di tali organizzazioni come multistakeholder
(per tutti si vedano Zamagni, 2002; Zandonai, 2006; Matacena, 2007).
Nell’azienda non profit, ancora più intensamente rispetto a quella for profit,
molteplici interessi, valori e aspettative convergono attorno alla sua ragion
d’essere; ciò che muove e attrae i diversi soggetti è infatti la mission (13) che
la caratterizza, e da cui deriva la sua prima responsabilità:
“Nonprofit organizations are accountable for achieving the missions for
which they have been established and granted special societal benefits, and
they are responsible ultimately to society as a whole for achieving those
benefits. Their executive leaders are legally responsible to the organizations’
trustees, but those trustees are agents for society’s interests, as reflected in
the mission, not necessarily in the preferences of particular stakeholder
groups” (Young, 2002: p.4).
Una rappresentazione grafica particolarmente espressiva dell’azienda
non profit e dei suoi stakeholder è quella suggerita da Werhane (2008).
Questa autrice propone, infatti, un modello in cui gli stakeholder sono disegnati in orbite ellittiche, il cui movimento genera ed è generato da una
forza centripeta, che non è l’azienda, bensì l’“alleanza” che si crea tra i
diversi soggetti (Alliance Model). Tale alleanza, per l’azienda non profit, è
caratterizzata e si fonda sulla mission stessa (figura 2).
Figura 2 – L’Alliance model per l’impresa non profit
Fonte: Adattato da Werhane (2008)
13 Si adotta qui una visione “allargata” di mission, così come proposta, ad esempio, da Allison e Kaye (2005) e Phills (2005), che comprende i valori che guidano l’organizzazione,
gli scopi e i suoi principali obiettivi e le attività poste in essere per realizzarli.
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Sistemi di welfare e accontability delle aziende non profit
Saggi
La coerenza tra mission dichiarata ed azione effettivamente posta in
essere dovrebbe quindi essere l’obiettivo finalizzante e la conseguente
prima fonte di responsabilità di tutti gli enti non profit. Da qui deriva la
necessità di un sistema di accountability capace di far emergere con decisione gli aspetti identitari e quelli relazionali, nonché la relativa sostenibilità
economico-finanziaria. In tal senso possono essere interpretati i tentativi di
distinzione e di integrazione tra “bilancio economico-finanziario”, “bilancio
di missione” e “bilancio sociale” proposti da più autori. (14)
Quanto emerso dalle precedenti pagine richiede un forte cambiamento
culturale prima ancora che nella prassi. In particolare, in quei settori o per
quelle attività in cui vi è un interesse comune e condiviso da più soggetti
parlare di upward o di downward accountability forse non ha più senso:
il concetto di shared o common accountability sembra essere decisamente
più appropriato.
5. Verso una “accountability condivisa e partecipata” dei
servizi pubblici
Le considerazioni sopra esposte hanno portano ad identificare un sistema
“ideale” di accountability dell’azienda non profit capace di integrare gli
aspetti relazionali con quelli identitari ed in grado di coglierne la natura
multistakeholder. Con queste premesse si vuole ora analizzare il perché e
a quali condizioni un tentativo di rendicontazione condivisa e partecipata
dei servizi di pubblica utilità, ed in particolare di quelli alla persona, possa
presentare elementi di interesse.
Come più sopra evidenziato, la presenza di una pluralità di attori fa sì che
il significato di “valore pubblico” sia sempre più strettamente correlato alla capacità di agire in rete (network), da cui deriva un dovere dell’amministrazione
pubblica e di tutti i soggetti coinvolti di rendicontare in merito alle risorse impiegate e ai risultati ottenuti, nonché l’esigenza di “introdurre logiche e meccanismi
di maggior responsabilizzazione” (Guarini, 2008: pp. 80 e 81). (15)
L’utilità immediata, e almeno teorica, di forme di rendicontazione “partecipate” è quindi facilmente condivisibile: esse possono rappresentare
luoghi e strumenti in cui è possibile sperimentare in modo molto concreto la
14 Andreaus et al. (2010), suggeriscono, ad esempio, un sistema di accounting integrato,
composto da tre linee di rendicontazione, corrispondenti alle tre diverse responsabilità dell’impresa sociale: la linea economico-finanziaria, che deve informare sulle condizioni di equilibrio economico, finanziario e patrimoniale; la linea sociale, focalizzata sul rispetto delle legittime istanze dei diversi stakeholder non di missione; e la linea di missione, ossia la rendicontazione sui fini istituzionali raggiunti dall’azienda (il modello riprende e affina quanto proposto da Andreaus 2007). Per approfondimenti sulla distinzione tra bilancio di missione e bilancio sociale per le aziende non profit e tra stakeholder di missione e altri stakeholder si vedano, inoltre, le “Linee guida per bilancio sociale e di missione delle Organizzazioni di Volontariato” (Linee guida, 2008).
15 Per ulteriori approfondimenti sul concetto di accountability per l’azienda pubblica, l’autore rimanda a Caperchione e Pezzani (2000), Steccolini (2004) e alla definizione dell’OECD del 1997. Per un’utile sintesi dei lavori sviluppati in Italia si veda Marcuccio e Steccolini
(2008). Sul tema del valore pubblico, del governo partecipato e della necessaria misurazione e comunicazione dei risultati si veda anche Mazzoleni (2004).
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Sistemi di welfare e accontability delle aziende non profit
partecipazione e la conseguente co-responsabilità nell’esercizio di servizi
di pubblica utilità. Tale idea implica importanti conseguenze in tema di
governance e della connessa accountability.
Questa prospettiva comporta infatti il costruire una visione condivisa tra
ente finanziatore (ente pubblico e/o privato) e azienda non profit erogatrice
dei servizi, che superi la tradizionale ed esclusiva relazione tra autorità e
controllo per evolvere nella collaborazione e nella co-responsabilità per gli
esiti prodotti. Si giunge quindi ad una nozione di “felt responsibility” che
presuppone e richiede che gli attori dell’organizzazione sviluppino un reciproco senso di responsabilità che è generato collettivamente, piuttosto che
imposto in modo unidirezionale (Ebrahim, 2003b). Perché vi sia compartecipazione è quindi necessario il passaggio da modelli basati esclusivamente
sul controllo per l’utilizzo di risorse a modelli focalizzati sulla condivisione
di finalità comuni (Najam, 2000). In modo analogo a quanto avviene per
la singola azienda non profit, anche in questo caso sembra proponibile
un modello di governance basato sull’alleanza (l’alliance model più sopra
brevemente presentato). L’elemento accomunante e catalizzante i diversi
soggetti è, in questo caso, il “valore pubblico” generabile e generato dall’azione comune, alla cui definizione non possono/devono che partecipare
tutti i soggetti a qualunque titolo “interessati” (ente pubblico, privati a vario
titolo coinvolti nei processi, utenti, beneficiari, ecc.). Si prospetta quindi una
forma di governance allargata dei servizi pubblici in cui ogni stakeholder
diviene corresponsabile. (16)
Il concetto di partnership crea quindi un diritto e un dovere alla collaborazione che, uniti al fatto che ci si riferisce a servizi molto specifici e locali, potrebbe
superare il ricorrente problema della mancata partecipazione dei cittadini o
delle comunità per la sensazione di impotenza percepita nella formazione delle
decisioni. (17) Tale criticità sembra, tra l’altro, accomunare sia la rendicontazione nel settore pubblico che quella non profit. Le recenti indagini condotte
da Grumo e Molteni (2010), per il settore non profit, e Marcuccio e Steccolini
(2008), per quello pubblico, evidenziano la scarsa capacità di coinvolgimento
dei soggetti interni ed esterni nei processi di accountability, a volte dovuta al
limitato interesse dimostrato dai vari stakeholder.
Un’accountability comune su specifici progetti può inoltre essere una
“sana pratica” di confronto con gli altri su obiettivi comuni. Ciò dovrebbe
aiutare a superare il rischio di autoreferenzialità e di una lettura soggettivistica dei bisogni delle persone a cui ci si rivolge, da cui anche le imprese
sociali e le aziende pubbliche non sono immuni (Zamagni, 2002; Ebrahim,
2003b). Come più sopra brevemente accennato, queste forme “socializzate” di accountability aiutano a rafforzare la percezione del sé, come ben
esplicitato nella seguente affermazione:
16 In un’ottica di gestione integrata e partecipata, anche il cittadino/utente che non esprime
la sua insoddisfazione su eventuali disservizi diviene co-responsabile del disvalore generato.
17 Ciò che Najam (1996) definisce “sham ritual of participation”.
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“At the same time my own understanding is engaged and elaborated
only through and in relation to others, so that understanding takes the form
of a ‘shared operation’ of which no one is identifiably the author” (Roberts,
1991: p. 363).
Questo incontro con l’altro è ovviamente più semplice quando ci si
riferisce a contesti locali, in cui è relativamente più facile superare logiche
di potere e con la possibilità di interazione faccia a faccia (Roberts, 1991:
p. 365). Tutte condizioni presenti nel caso dei servizi locali di pubblica
utilità, specialmente se rivolti alla persona.
Senza entrare nel merito di questioni che esulano dallo specifico interesse di questo lavoro, sembra interessante sottolineare come questa pratica
può essere considerata anche un interessante esercizio per la realizzazione
di un sistema di rendicontazione basato su due distinte prospettive: una più
interna, che rappresenta la visione dell’azienda sui propri impatti sociali
(cd. silent account), e l’altra più esterna (shadow report), che dà voce a
come gli altri vedono l’azienda (O’Dwyer, 2005). (18) Come sottolinea
Dey (2003), questa forma combinata di rendicontazione può creare le
circostanze per un dialogo dinamico tra l’azienda e i suoi stakeholder,
può essere quindi utilizzata come esercizio di stakeholder engagement e
può rappresentare la premessa di una più ampia stakeholder democracy
(O’Dwyer, 2005).
Il limite più evidente di tali processi è l’eccessiva richiesta di rendicontazione, ossia l’eccessivo carico che i troppi adempimenti impongono alle
aziende non profit (specie se di piccole dimensioni). Occorre quindi che
ogni organizzazione trovi un suo equilibrio, in base alle proprie dimensioni
e specificità, non dimenticando che il processo di accountability è già in sé
carico di valori e “politico” per sua natura (nella definizione di accountability
che si adotta, nella scelta delle questioni su cui rendicontare, a chi, ecc.)
(Najam, 1996; Edwards e Hulme, 1996a). Ciò che viene suggerito è il
tendere verso una visione poliedrica dell’accountability la cui sfida principale
sta nella relazione binaria tra il controllo e l’indipendenza, in una complessa
forma di bilanciamento fra aspetto relazionale e identitario, visione interna
ed esterna, “imposta dall’alto” o generata da processi democratici di copartecipazione e co-responsabilità (Ebrahim, 2003b).
6. Conclusioni
Negli ultimi anni il settore non profit, più di ogni altro, ha visto il proliferare
di linee guida, standard, modelli e prescrizioni normative in merito alla
rendicontazione sociale e di missione. Il presente scritto, cogliendo l’opportunità di un così ricco scenario, si è posto l’obiettivo di riflettere attorno
18 Per approfondimenti sui concetti di “silent” and “shadow accounts” si veda Gray (2001)
e Dey (2003).
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Sistemi di welfare e accontability delle aziende non profit
al concetto di accountability per le aziende non profit, con particolare
riferimento ai nuovi scenari e alle nuove opportunità che i sistemi di welfare
molto probabilmente si troveranno ad affrontare.
Ne è emersa la richiesta di una rendicontazione con più “sfaccettature”: che contemperi l’esigenza di uno sguardo interno e di una visione
esterna all’azienda; che tenga conto dell’aspetto relazionale del processo
di accountability pur rimanendo fortemente ancorata a contenuti identitari,
strettamente legati alla definizione e al perseguimento della mission.
In questa prospettiva, standard e modelli troppo vincolanti e stringenti
sembrano non riuscire a cogliere tale multidimensionalità e potrebbero inibire lo stesso potenziale rendicontativo. Un bilanciamento tra diversi tipi di
rendicontazione e l’unione di più documenti e processi che portino ad un
sistema di accountability sembra il percorso più adeguato a rappresentare
la complessa, variegata e mutevole realtà delle aziende non profit.
All’interno di questo quadro concettuale, e con lo scopo di sperimentare
nuove forme di accountability capaci di cogliere i mutamenti che il contesto
socio-istituzionale suggerisce, si è proposta una riflessione sulle opportunità e
criticità di un sistema di common and shared accountability per i servizi pubblici.
Ossia, di una forma condivisa e partecipata di rendicontazione che rispecchi
la collaborazione (e quindi la co-responsabilità) tra settore pubblico e privato
e con tutti i soggetti coinvolti nella realizzazione dei servizi pubblici.
Tale processo presuppone la condivisione di obiettivi comuni e la volontà
di essere e sentirsi partner di un progetto comune. Come più sopra discusso,
questo esercizio può rappresentare, da un lato, una grande occasione per
rapportarsi con i soggetti che condividono una parte di un più ampio percorso, in un’ottica anche di confronto e di rafforzamento della propria identità,
dall’altro una piccola palestra con cui progressivamente si sperimentano
forme di collaborazione e ci si educa reciprocamente alla partecipazione.
È necessario però un progressivo cambiamento culturale, che possa valorizzare i benefici di un’azione collettiva e aiutare a superare eventuali difficoltà
e remore all’applicazione. Il maggior limite di questo modello è infatti legato
alla possibilità che le diverse organizzazioni lo percepiscano come un ulteriore
onere burocratico. Rischio in cui si potrebbe incorrere se la fase di rendicontazione fosse slegata da un processo di reale condivisione. Uscire dalla logica
individualistica, focalizzata sull’attività di una singola organizzazione, per
iniziare a pensare e valutare a livello di sistema complessivo, significa trovare
una visione comune dei cambiamenti che si vogliono attuare, un sistema di
misurazione dei risultati ottenuti unico e condiviso e, soprattutto, un insieme
di attività tra loro non confliggenti, ma che si rafforzano mutualmente. (19) A
livello di singolo ente e con specifico riferimento alla rendicontazione, tale
adempimento non si aggiunge, ma in parte sostituisce e in parte integra il
sistema di accountability già in essere, con l’evidente vantaggio di fornire
19 Interessanti spunti di riflessione a tal proposito sono forniti dal progetto “Collective impact” di FSG – Social Impact Consultants promosso in Italia da Assifero – Associazione italiana fondazioni ed enti di erogazione.
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una visione complessiva dell’intervento che si è attuato. (20) Non da meno,
il pensarsi come insieme di soggetti che opera in modo coordinato su di
un problema sociale, può aiutare a trovare una soluzione o un approccio
congiunto a problemi complessi, evitando un inutile dispendio di energie per
analisi, valutazioni e strategie che spesso si moltiplicano con il moltiplicarsi
dei soggetti coinvolti e valorizzando al meglio l’esperienza e le specifiche
competenze di ciascun soggetto. (21) Inoltre, il presentarsi all’esterno come
partner di un programma complessivo può favorire il reperimento di risorse
private. Il finanziatore, infatti, si troverà a valutare un solo progetto, supportato e garantito da tutti i soggetti interessati e con un impatto che ci si aspetta
essere più incisivo dell’azione dei singoli operatori.
Come ricorda Caselli (2007: p. 154), il welfare – basato sul bene comune
– non è dato semplicemente dalla massimizzazione dei progetti individuali
bensì “dall’impegno dei vari soggetti in opere comuni, costruendo e rinsaldando rapporti solidali di comunità”. (22) Per fare ciò è però necessaria
una progressiva educazione alla partecipazione, alla co-responsabilità e
nello specifico all’accountability. Il contesto legislativo e socio-politico in
cui il settore non profit (e non solo) si trova a vivere sembra fornire tutte le
premesse per un nuovo e coraggioso salto culturale.
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20 Pensando, ad esempio, al servizio di assistenza domiciliare di persone anziane, e nello
specifico alla singola attività di consegna a domicilio di pasti, i soggetti “operatori” coinvolti
sono presumibilmente almeno tre. L’ente pubblico che sostiene il costo, il servizio di catering
che prepara il pranzo e spesso un’organizzazione non profit che consegna i pasti a domicilio. Queste organizzazioni presumibilmente dovranno tutte e tre rendicontare tale attività con
modalità che dovranno pensare e costruire autonomamente. La proposta di una rendicontazione condivisa permette di accomunare non solo la valutazione e la comunicazione dei risultati (che integra e in parte sostituisce quella delle singole organizzazioni) ma anche le relative responsabilità nello svolgere il servizio in modo efficace ed efficiente. Questo potrebbe ovviare il ricorrente e spiacevole imprevisto di una responsabilità “rimbalzata” da un soggetto
all’altro, con una conseguente mancanza di soluzione di eventuali problemi.
21 Proseguendo con il semplice esempio più sopra proposto, l’affiancamento di un nuovo
servizio (ad esempio la telemedicina) o il subentrare di una nuova complessità (ad esempio
la necessità di soddisfare esigenze alimentari legate a diverse etnie, religioni e culture che
progressivamente emergono anche per le fasce anziane della popolazione) possono trovare
una soluzione congiunta, con un solo studio di fattibilità e senza rinunciare all’apporto di visioni e competenze specifiche complesse.
22 L’autore a tal proposito cita anche Bruni e Zamagni (2004).
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Il coinvolgimento degli stakeholder nelle aziende non profit: alcune evidenze
Il coinvolgimento degli stakeholder nelle aziende non profit: alcune evidenze
empiriche attraverso analisi di contenuto*
Giacomo Manetti
Ricercatore in economia aziendale, Dipartimento di Scienze Aziendali, Università di Firenze
Simone Toccafondi
Dottorando di ricerca in programmazione e controllo, Dipartimento di Scienze Aziendali, Università di Firenze
Sommario: 1. Introduzione. – 2. La teoria degli stakeholder nell’ambito delle aziende non profit. – 3. Metodologia.
– 4. Risultati. – 5. Conclusioni.
Scopo della ricerca è indagare i livelli di coinvolgimento e partecipazione degli stakeholder nel
processo di redazione dei report di sostenibilità, nell’elaborazione delle strategie aziendali e nel
sistema di governo delle aziende non profit (Anp), partendo dal presupposto che la letteratura in
materia, con particolare riferimento alla stakeholder theory, prevede un ampio coinvolgimento degli
stakeholder nei processi decisionali delle Anp.
Per verificare i livelli di coinvolgimento è stata condotta un’indagine empirica, tramite analisi di
contenuto e questionari, su un campione di 20 bilanci di sostenibilità di altrettante Anp internazionali
incluse nel database della Global Reporting Initiative alla data del 31 dicembre 2010.
L’indagine indica alcune criticità, discusse nelle conclusioni, in tema di partecipazione e coinvolgimento degli interlocutori esterni ed interni rispetto ai tre ambiti analizzati.
The aim of the article is to investigate the role of stakeholder engagement and participation in sustainability reporting, strategy’s elaboration and governance’s system in non profit organizations.
We analyze the role of stakeholders in the three above mentioned research fields according to the
literature on third sector and on stakeholder theory.
To verify the levels of involvement, we conduct an empirical analysis, using content analysis and
questionnaires, on a sample of twenty sustainability reports of non profit organizations included in
the Global Reporting Initiative database at the end of 2010.
The survey showed that there are some critical issues regarding the stakeholder participation in the
three targeted research fields, that are pointed out in the conclusions.
* Nonostante il presente lavoro sia frutto di una comune attività di ricerca, Giacomo Manetti può essere considerato
l’autore dei paragrafi 1, 2, 3 e 5, mentre Simone Toccafondi del paragrafo 4.
Parole chiave: Non Profit – Stakeholder engagement – Sustainability Reporting
Key words: Non Profit – Stakeholder engagement – Sustainability Reporting
443
Azienda Pubblica 4.2012
Il coinvolgimento degli stakeholder nelle aziende non profit: alcune evidenze
Saggi
1. Introduzione
Scopo del presente studio è comprendere i livelli di partecipazione degli
stakeholder alla gestione delle aziende non profit (Anp) indagando l’intensità del loro coinvolgimento in tre ambiti distinti ma strettamente correlati:
• nella rendicontazione di sostenibilità (sustainability reporting-SR);
• nell’elaborazione delle strategie aziendali;
• negli organi di governo.
In particolare, si vuole comprendere se ed in quale misura il coinvolgimento sia effettivo o, piuttosto, tenda ad assumere i connotati e le caratteristiche
di un contemperamento degli stakeholder attraverso il bilanciamento delle
aspettative e degli interessi delle diverse categorie (Donaldson e Preston,
1995; Owen et al., 2001) nei tre ambiti ricordati. L’ipotesi di ricerca è che
le Anp che si caratterizzano per essere best practice nel SR raggiungano
livelli particolarmente elevati di coinvolgimento degli stakeholder, come
evidenziato dalla letteratura sull’argomento.
Il contributo si inserisce all’interno della teoria degli stakeholder che,
come noto, ha influenzato in maniera significativa gli studi di management
e accounting delle aziende (sia lucrative sia non profit) per oltre un quarto
di secolo dopo la primigenia formulazione del cosiddetto stakeholder approach da parte di Freeman (1984).
In particolare, mentre in una prima fase la relazione fra stakeholder ed
organizzazione è stata interpretata dalla letteratura secondo un approccio a
raggiera (“hub and spoke”), nell’ultimo decennio sono stati sviluppati modelli
di relazioni interattive nei quali il management e gli interlocutori aziendali
concordano prassi e strumenti di dialogo e cooperazione bi-direzionali,
volti ad ottenere maggiore partecipazione, trasparenza e rispetto dei doveri
di accountability (Andriof et al., 2002: p. 9; Roberts e Scapens, 1985).
Gli studiosi della stakeholder theory hanno tentato di classificare i modelli
relazionali fra impresa e interlocutori ipotizzando uno sviluppo graduale e
progressivo basato sulle seguenti fasi (Svendsen, 1998; Waddock, 2002):
1.in un primo stadio della relazione le imprese identificano i propri
interlocutori (stakeholder mapping), possibilmente distinguendoli fra
primari (che determinano la sopravvivenza stessa dell’azienda) e secondari (che influenzano o sono influenzati dall’azienda senza tuttavia
condizionarne la durabilità nel tempo) (Clarkson, 1995: pp. 92-117);
2. in un secondo momento le imprese tentano di gestire le aspettative
degli stakeholder e le questioni sociali ed economiche da loro sostenute contemperandone le posizioni (stakeholder management)
(Carroll, 1996; O’Dwyer, 2005);
3. nella terza fase, denominata stakeholder engagement (SE), le imprese
coinvolgono gli interlocutori nei processi decisionali rendendoli partecipi della gestione aziendale, condividendo informazioni, dialogando
e creando un modello di responsabilità reciproca.
Azienda Pubblica 4.2012
444
Saggi
Il coinvolgimento degli stakeholder nelle aziende non profit: alcune evidenze
La terza fase si differenzia dalla seconda per un impegno vicendevole
verso la risoluzione delle questioni che dovessero emergere nelle relazioni
fra l’azienda e il suo ambiente generale e specifico. Lo SE è dunque un
processo che “crea un contesto dinamico di interazione, rispetto reciproco,
dialogo e cambiamento, non una gestione unilaterale degli stakeholder”
(Andriof et al., 2002: p. 9, t.d.a.).
Esso prevede il coinvolgimento degli interlocutori aziendali non tanto per
“placare” o gestire le loro aspettative (stakeholder management), quanto per
creare una rete di reciproche responsabilità (Andriof et al., 2002; Phillips,
1997). Gli stakeholder compartecipano alla gestione aziendale attraverso
la sottoposizione di domande e questioni ritenute rilevanti che generano un
impatto positivo o negativo sulle aziende (Mitchell et al., 1997), influenzando
le decisioni manageriali (Unerman e Bennet, 2004; Voss et al., 2005). La
loro principale responsabilità è evitare di formulare questioni che potrebbero
generare esternalità negative involontarie sull’organizzazione, su entità terze
o sulla comunità di appartenenza (Jones et al., 2002; Wicks e Goodstein,
2009; Windsor, 2002: p. 138).
Alla luce di quanto sopra delineato e sulla base dell’ipotesi di ricerca
in precedenza formulata, nel prosieguo del lavoro:
• si descrive il ruolo che lo SE assume nelle Anp con particolare
riferimento al processo di redazione del bilancio di sostenibilità,
all’elaborazione delle strategie aziendali e alla composizione degli
organi di governo;
• si conduce un’indagine empirica su un campione di Anp qualificabili come best practice di SR per verificare, attraverso un’analisi di
contenuto di tali documenti e la sottoposizione dei relativi risultati al
management aziendale, le caratteristiche del coinvolgimento nei tre
aspetti richiamati;
• si giunge ad una conclusione sulla situazione attuale che, anche
a seguito di una comparazione con le indicazioni della letteratura
in materia, consente di comprendere la propensione delle Anp nel
coinvolgere gli stakeholder;
• si evidenziano i limiti della ricerca e si prospettano i possibili sviluppi.
2. La teoria degli stakeholder nell’ambito delle aziende non profit
Esistono molteplici tipologie di organizzazioni non profit e la stessa definizione di terzo settore è spesso oggetto di differenti interpretazioni.
Per risolvere il problema dell’inquadramento teorico di tali realtà sono
stati elaborati numerosi tentativi di classificazione.
Salamon e Anheier (1997) hanno coniato la cosiddetta definizione
“strutturale-operativa” che propone cinque requisiti fondamentali per individuare un’organizzazione non profit: costituzione formale e organizzazione;
natura privata; assenza di scopo di lucro soggettivo; autogoverno; presenza
di lavoro volontario.
445
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Il coinvolgimento degli stakeholder nelle aziende non profit: alcune evidenze
Saggi
Secondo altri autori, a tali elementi si aggiungono le caratteristiche di
altruismo e attenzione alla comunità (Kendall e Knapp, 1996), di advocacy
e di redistribuzione di risorse e servizi (Borzaga e Santuari, 2000).
Al fine di circoscrivere l’universo indagato, il presente lavoro prende le mosse
dalla definizione strutturale-operativa di organizzazione non profit di Salamon
e Anheier (1997), integrata dalle caratteristiche di aziendalità richiamate dalla
dottrina italiana ed efficacemente sintetizzate da Ferrero (1968: p. 9). L’Autore
propone, in particolare, la contemporanea presenza dei seguenti requisiti:
• precise finalità, il cui raggiungimento richieda direttamente il consumo
di ricchezza e indirettamente la produzione della medesima;
• il sistematico operare in campo economico;
• un’organizzazione conforme alle finalità dell’azienda stessa;
• una disponibilità di beni economici;
• una condizione di autonomia economica.
Nell’ambito delle Anp così definite, la letteratura individua, in misura maggiore di quanto avviene per le imprese, un’influenza significativa degli stakeholder
interni ed esterni sull’elaborazione delle strategie di medio-lungo periodo, sui
sistemi di accountability e sulla composizione degli organi di governo.
Più specificamente, con riferimento:
• al SR, i manager dovrebbero rendicontare anche su aspetti ritenuti
significativi e rilevanti dagli stakeholder piuttosto che fornire un
quadro auto-referenziale delle performance raggiunte, in ottemperanza ai principi di rilevanza e significatività dell’informazione
espressa;
• alle strategie aziendali, gli amministratori ed i dirigenti dovrebbero
rispondere alle legittime aspettative degli stakeholder non soltanto
attraverso il bilanciamento delle loro richieste (stakeholder management), ma anche creando un clima di interazione, dialogo e cooperazione per individuare obiettivi di comune interesse (SE);
• agli organi di governo, l’Anp dovrebbe delegare poteri decisionali
ed esecutivi a taluni rappresentanti degli stakeholder, nominandoli
all’interno degli organi stessi e realizzando, di conseguenza, un modello di governance autenticamente multi-stakeholder (Middlewood
e Cardno, 2001: pp. 24-25).
La letteratura sul terzo settore, inoltre, sottolinea come nelle Anp non esista
una categoria di stakeholder privilegiata e prioritaria verso la quale indirizzare
l’informativa esterna, al contrario di quanto accade nelle imprese dove, di norma, il bilancio è finalizzato a soddisfare le esigenze informative degli investitori.
Nelle Anp ciò accade per molteplici ragioni:
• l’assenza di un soggetto economico dominante rende possibile una
concreta applicazione della teoria degli stakeholder con significative
conseguenze sui doveri di accountability verso molteplici categorie
di interlocutori che, comunque, possono essere poste in ordine di
Azienda Pubblica 4.2012
446
Saggi
Il coinvolgimento degli stakeholder nelle aziende non profit: alcune evidenze
priorità con riferimento alla missione ideale dell’organizzazione
(Collier, 2008: p. 935; Mulgan, 2000: p. 124; Najam, 1996);
• le Anp necessitano, per il loro sviluppo e la loro crescita sostenibili, di
soddisfare pressoché tutte le categorie di stakeholder (Collier, 2008;
Woodward e Marshall, 2004: p. 124);
• in assenza di finalità di lucro soggettivo, i sistemi di accountability possono assumere un ruolo più ampio rispetto alla semplice dimostrazione
della permanenza degli equilibri economico e finanziario e alla rappresentazione della situazione patrimoniale (Dawson e Dunn, 2006);
• le organizzazioni del terzo settore devono dimostrare – attraverso la
rendicontazione – la legittimità, la pubblica utilità, l’efficacia delle
proprie attività, nonché la loro abilità nell’agire come interlocutori
sociali (Bagnoli e Megali 2011).
Per assolvere a tali complesse funzioni è opportuno adottare una definizione condivisa di accountability (Gray et al., 2006), viste anche le ripercussioni
della stakeholder theory sui doveri di informazione e trasparenza verso gli
interlocutori aziendali. Il problema non è di semplice risoluzione poiché il
concetto di accountability è contradditorio e spesso oggetto di molteplici
e diverse interpretazioni (Sinclair, 1995). In particolare, Edwards e Hulme
(1996: p. 967) lo definiscono come “the means by which individuals and
organizations report to a recognized authority (or authorities) and are held
responsible for their actions”. In questa definizione si osserva una sostanziale
incompatibilità con la stakeholder theory, poiché la platea degli interlocutori
verso i quali è necessario rendicontare è sostanzialmente ristretta ad una
o più autorità, come accade, talvolta, in contesti nei quali vi sono modelli
rendicontativi obbligatori per legge ai quali è riservata una particolare
forma di pubblicità (e.g. deposito o pubblicazione).
Per colmare i limiti presenti in definizioni come quella proposta, Cornwall
et al. (2000) hanno ampliato le prospettive dell’accountability attribuendo
a quest’ultima il ruolo di rispondere in modo reattivo e/o proattivo a tutti gli
interlocutori che reputino l’azienda responsabile per determinate azioni. In
questo senso, si tratta di adottare una gamma di strumenti di controllo e comunicazione volti ad un’assunzione volontaria di responsabilità verso l’ambiente
circostante. Questa formulazione, sicuramente più coerente con un ampliamento
della platea di soggetti verso la quale l’Anp è responsabile, trova un ulteriore
sviluppo nella successiva definizione di Ebrahim (2003 a,b; 2005) fondata sui
concetti di answerability ed enforceability. Secondo l’Autore l’accountability è
identificabile con “the means through which individuals and organizations are
held externally to account for their actions, and as the means by which they take
internal responsibility for continuously shaping and scrutinizing organizational
mission, goals, and performance” (Ebrahim, 2003a: p. 194).
Il SR, quale particolare forma di accountability esterna, è indicato dalla
dottrina come strumento utilizzato da imprese e Anp per favorire la legittimazione sociale dell’organizzazione e per modificare le aspettative degli
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Il coinvolgimento degli stakeholder nelle aziende non profit: alcune evidenze
Saggi
stakeholder (Campbell, 2003; Swift, 2001), nonostante esistano dubbi sulla
sua reale efficacia (O’Dwyer, 2002).
In particolare, i principi di significatività e rilevanza dell’informazione
espressa dal SR richiederebbero che l’azienda determinasse, attraverso un
corretto SE, le informazioni ed i dati da includere nel report (Gray, 2000:
pp. 249-250). Coerentemente con tale affermazione generale, i principali
standard e linee guida internazionali in tema di SR prevedono lo SE quale
elemento necessario ed imprescindibile per ottenere un’informativa esterna
utile per i destinatari finali nell’elaborazione dei loro processi decisionali
(AccountAbility, 1999, 2003 e 2005; Global Reporting Initiative, 2006).
Nell’ultimo decennio esperti del settore, a livello sia nazionale sia
internazionale, hanno raccolto evidenze empiriche di livelli particolarmente elevati di partecipazione, coinvolgimento e dialogo fra aziende e
stakeholder attraverso la rendicontazione sociale (ACCA, 2005; Downey,
2002; Miles et al., 2002; UNEP e SustainAbility, 1999), in particolare in
quelle organizzazioni, profit o non profit, che sono considerate le migliori
pratiche di SR.
Traendo spunto da queste affermazioni, è possibile ipotizzare che Anp
che redigono i propri bilanci di sostenibilità con elevati livelli di conformità
a standard e linee guida riconosciuti a livello internazionale, raggiungano
significativi livelli di coinvolgimento degli stakeholder nel processo di redazione dei report.
Di conseguenza, nella presente ricerca si assume che le Anp presentino, sulla base delle implicazioni della teoria degli stakeholder, livelli di
partecipazione e coinvolgimento dei portatori di interesse – nei tre aspetti
in precedenza richiamati – particolarmente elevati.
3. Metodologia
Il gruppo di ricerca ha individuato un campione ragionato di 20 bilanci
di sostenibilità in lingua catalana (2), inglese (8), francese (1), tedesca
(2), portoghese (2) e spagnola (5) redatti con elevati livelli di conformità
alle Sustainability Reporting Guidelines versione 3.0 emesse dalla Global Reporting Initiative (GRI 2006). In particolare, sono stati raccolti tutti
i bilanci di sostenibilità 2008 e 2009 inclusi nel database online della
GRI alla data del 31/12/2010 con livelli di conformità «A» o «B» alle
linee guida menzionate e relativi ad aziende del settore «non-profit». I
report sono stati selezionati indipendentemente dalla presenza o meno di
un servizio di asseverazione (indicato dal segno «+» nella terminologia
della GRI) per attestare la veridicità e correttezza del documento e del
sottostante processo rendicontativo.
Le 20 Anp del campione sono state incluse nel settore non profit dalla GRI
sulla base dei requisiti di costituzione formale, divieto di lucro soggettivo, natu-
Azienda Pubblica 4.2012
448
Saggi
Il coinvolgimento degli stakeholder nelle aziende non profit: alcune evidenze
ra giuridica privata e autogoverno, mentre non rileva la presenza di volontari
(Salamon e Anheier 1997). La naturale conseguenza è che il campione comprende tipologie di organizzazioni molto diverse per natura giuridica, scopi
e caratteristiche gestionali. In particolare, sotto il profilo giuridico, l’insieme
comprende associazioni, fondazioni, comitati, cooperative, imprese sociali,
istituti religiosi, trust. Tutte le organizzazioni indagate presentano – sulla base
delle caratteristiche dedotte dai relativi report – i requisiti di aziendalità tipici
della dottrina italiana, così come in precedenza proposti (Ferrero 1968).
Con riferimento ai tre elementi studiati nella presente indagine, è opportuno precisare che i livelli di conformità «A» e «B» alle linee guida GRI sono
quelli più elevati. I report così individuati contengono obbligatoriamente
sezioni significative per la presente ricerca, ed in particolare:
• una descrizione delle strategie di medio-lungo termine elaborate dai
massimi organi di governo;
• le politiche e prassi di SE condotte dal management per la definizione
dei contenuti del report in ottemperanza ai principi di significatività
e rilevanza del SR;
• la composizione degli organi di governo con specifico riferimento alla
presenza di rappresentanti delle diverse categorie di stakeholder.
Lo studio delle sezioni dei report specificamente dedicate ai temi indicati
consente di verificare, attraverso un’analisi di contenuto condotta congiuntamente da un team di esperti, i livelli di coinvolgimento e partecipazione
degli stakeholder nel processo di SR, nell’elaborazione delle strategie e nei
sistemi di governo. Ciò è reso possibile dalla rintracciabilità, all’interno del
documento, dei seguenti elementi (obbligatori per le aziende rendicontanti
a livello «A» e «B» della GRI):
a) la mappatura degli stakeholder e le categorie effettivamente coinvolte
dall’Anp per i diversi aspetti indagati;
b) i requisiti per l’identificazione e la selezione degli stakeholder con i
quali procedere al coinvolgimento – all’interno della più vasta categoria di quelli mappati – sulla base di opportune motivazioni fornite
dal management;
c) la metodologia e gli strumenti utilizzati per lo SE (e.g. indagini telefoniche, interviste one-to-one, questionari, focus group, road show,
forme di interazione e dialogo a distanza, community ed advisory
panel) per ciascuna categoria mappata;
d) i principali problemi sorti nello SE e le risposte fornite dall’Anp;
e) qualora previsto, l’indicazione dei rappresentanti degli stakeholder
nominati all’interno degli organi di governo.
I 20 bilanci di sostenibilità si riferiscono ad un campione di altrettante
Anp le cui caratteristiche sono riportate nella tavola 1.
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Azienda Pubblica 4.2012
Il coinvolgimento degli stakeholder nelle aziende non profit: alcune evidenze
Saggi
Tavola 1 – Caratteristiche del campione
Natura giuridica
Quantità
Associazione
5
Fondazione
4
Cooperativa o mutua
3
Istituto religioso
2
Impresa sociale
1
Trust
1
Altro
4
Totale
20
Settore di attività
Quantità
Servizi alla persona
4
Cooperazione allo sviluppo
3
Diritti umani
3
Ricerca
2
Promozione cultura, educazione e formazione
4
Altro
4
Totale
20
Provenienza geografica
Europa
Quantità
11
Asia
2
America del Nord
2
America del Sud
5
Totale
20
Dimensioni
Quantità
Grande
12
Medio-piccola
8
Totale
20
Presenza di personale volontario
Quantità
Sì, prevalente rispetto a quello retribuito
4
Sì, non prevalente rispetto a quello retribuito
3
Assenza di volontari
13
Totale
20
(Segue)
Azienda Pubblica 4.2012
450
Saggi
Il coinvolgimento degli stakeholder nelle aziende non profit: alcune evidenze
Livello
Quantità
Organizzazione di primo livello
15
Organizzazione di secondo livello (coordinamenti)
4
Organizzazione-ombrello (umbrella organization)
1
Totale
20
Ambito di intervento
Quantità
Locale
5
Nazionale
9
Internazionale
6
Totale
20
È opportuno puntualizzare che la scelta di un campione di Anp comprendente
best practice di SR è stata effettuata per verificare l’ipotesi di ricerca. Infatti, analizzando soltanto organizzazioni che ripongono particolare attenzione agli aspetti
formali e sostanziali del reporting socio-ambientale, dall’analisi di contenuto non
dovrebbero emergere, stante l’ipotesi iniziale dedotta dalla letteratura, evidenti
elementi di debolezza nei processi di SE all’interno dei tre ambiti indagati. Al
contrario, dovrebbero emergere livelli di coinvolgimento e partecipazione significativi e facilmente verificabili attraverso un’analisi di contenuto.
Le organizzazioni del campione sono in maggioranza europee, hanno prevalentemente grandi dimensioni secondo i criteri della GRI, (1) sono enti di primo
livello, hanno natura giuridica eterogenea (associazioni, fondazioni, comitati,
cooperative, istituti religiosi, mutue, imprese sociali, trust), sono diversificate
per missione e finalità statutarie, hanno personale volontario non prevalente su
quello retribuito e sono a rilevanza locale, nazionale o internazionale.
Ai fini della ricerca, è opportuno precisare che nella letteratura sulla teoria
degli stakeholder e sulla corporate social responsibility è stata prestata scarsa
attenzione alle caratteristiche qualitative dell’informativa volontaria sullo SE
all’interno del SR. Ciò è tanto più vero se si considerano le implicazioni dello
SE sull’elaborazione delle strategie aziendali, sulla definizione dei contenuti
del report in ottemperanza ai principi di rilevanza e significatività e sulla
composizione degli organi di governo (Manetti, 2011).
Per condurre lo studio, il gruppo di ricerca si è avvalso dell’analisi di
contenuto (content analysis). Come noto, si tratta di un metodo ampiamente
impiegato per la valutazione della qualità dell’informativa aziendale volontaria (Guthrie et al., 2004) poiché consente ripetibilità ed inferenza dai
dati raccolti (Krippendorf, 1980).
L’analisi è stata condotta da tre ricercatori con l’ausilio di due esperti
linguistici per i report in lingua catalana e portoghese.
1 La classificazione GRI delle aziende si basa su due classi dimensionali: grandi e mediopiccole. Le organizzazioni medio-piccole hanno meno di 250 dipendenti e un fatturato annuo
inferiore ai cinquanta milioni di euro. Le grandi, viceversa, superano i limiti citati (Fonte: www.
globalreporting.org).
451
Azienda Pubblica 4.2012
Il coinvolgimento degli stakeholder nelle aziende non profit: alcune evidenze
Saggi
Il team ha stilato una lista di regole per la valutazione e la classificazione delle informazioni per ciascun ambito (da qui in poi “item”) individuato. In seguito alla codificazione della procedura, sono stati effettuati
alcuni test per evitare interpretazioni soggettive o ambigue delle regole
precedentemente stabilite. Successivamente, sono stati analizzati indipendentemente da ciascuno dei membri del gruppo di ricerca tre bilanci di
sostenibilità di livello “A” di Anp dell’esercizio precedente (2007) a quelli
del campione (2008 e 2009). I risultati sono stati confrontati e sono state
discusse le principali differenze. Il risultato finale della comparazione è
stato un set di altre regole per l’individuazione e la classificazione delle
informazioni contenute nei documenti. Infine, la procedura delineata è
stata testata su un ulteriore report 2007, questa volta attraverso una lettura collettiva, per allineare ed uniformare i comportamenti dei membri
del gruppo di ricerca.
Il passo successivo è stato la suddivisione dei bilanci da sottoporre ad
analisi di contenuto fra i membri del team, cercando non soltanto di ripartire
proporzionalmente il carico di lavoro, ma anche di consentire un’attribuzione
dei documenti sulla base delle conoscenze linguistiche dei singoli ricercatori.
L’analisi di contenuto è stata limitata ai tre ambiti in precedenza citati:
1. qualità dello SE nel SR (dieci item);
2. qualità dello SE nell’elaborazione della strategia aziendale (cinque item);
3. qualità dello SE negli organi di governo (tre item).
La maggioranza degli aspetti indagati (14 su 18) è stata valutata utilizzando una tradizionale scala di intensità di Likert, articolata sui seguenti
cinque livelli (Panneerselvam, 2006; Russell Bernard, 2000):
1. per niente;
2.poco;
3.abbastanza;
4.molto;
5.moltissimo.
In quattro casi, per i quali la misurazione del livello di intensità è priva
di significato, si è optato per una risposta dicotomica (sì/no) o tricotomica.
Nella ricerca è stata data una particolare attenzione anche ad elementi
aggiuntivi, quali le difficoltà e gli ostacoli incontrati nel processo di SE ed il
miglioramento continuo, sia di prodotto sia di processo, del SR.
Infine, per corroborare le evidenze raccolte, si è deciso di sottoporre
gli esiti della ricerca ai responsabili (presidenti o cariche equivalenti) delle
singole Anp per ottenere da loro un’opinione sull’affidabilità dell’analisi di
contenuto condotta. A tali soggetti è stato chiesto, in particolare, di indicare
e motivare adeguatamente eventuali richieste di gradazioni di intensità diverse rispetto a quelle ottenute sui singoli item, nonché un giudizio generale
sui criteri adottati.
Azienda Pubblica 4.2012
452
Saggi
Il coinvolgimento degli stakeholder nelle aziende non profit: alcune evidenze
4. Risultati
Gli item ed i relativi esiti sono indicati nella tavola 2.
Tavola 2 – Item e risultati
AMBITO 1. ENGAGEMENT E REPORTING
Quantità
1.1. All’interno del report è stata dedicata una sezione specifica allo SE (come
indicato dalle linee guida GRI) oppure le informazioni sono state desunte dalla lettura
dell’intero documento?
Sezione sullo SE
14
Intero documento
6
1.2. La sezione sulla mappatura è chiaramente individuata e distinta da quella dell’engagement?
per niente (1)
0
poco (2)
4
abbastanza (3)
3
molto (4)
7
moltissimo (5)
0
1.3. Vi è coerenza fra mappatura ed engagement (tutte le categorie mappate risultano
anche coinvolte)?
per niente (1)
2
poco (2)
6
abbastanza (3)
11
molto (4)
0
moltissimo (5)
1
1.4. All’interno delle categorie coinvolte sono chiaramente identificabili i rappresentanti consultati per la redazione del report?
per niente (1)
15
poco (2)
0
abbastanza (3)
0
molto (4)
4
moltissimo (5)
1
1.5. Dalla sezione emerge che lo SE è stato utilizzato per definire i contenuti del report
in modo da selezionare le informazioni rilevanti e significative?
per niente (1)
2
poco (2)
5
abbastanza (3)
6
molto (4)
6
moltissimo (5)
1
(Segue)
453
Azienda Pubblica 4.2012
Il coinvolgimento degli stakeholder nelle aziende non profit: alcune evidenze
Saggi
1.6. È possibile identificare nel report gli approcci ed i canali utilizzati per consultare
gli stakeholder nell’elaborazione del report (incontri one-to-one, meeting, road show,
hotline, forum on line, e-mail, sito web, ecc.)?
per niente (1)
0
poco (2)
7
abbastanza (3)
3
molto (4)
10
moltissimo (5)
0
1.7. Nel documento sono dichiarati difficoltà o problemi riscontrati nella mappatura o
nell’engagement per il reporting?
per niente (1)
15
poco (2)
4
abbastanza (3)
1
molto (4)
0
moltissimo (5)
0
1.8. Esiste una sezione dedicata al giudizio degli stakeholder sulle edizioni precedenti
del report?
sì
1
no
10
Prima edizione del documento
9
1.9. Sono dichiarati nel report obiettivi di miglioramento continuo dello SE?
per niente (1)
1
poco (2)
8
abbastanza (3)
8
molto (4)
3
moltissimo (5)
0
1.10. Sono state seguite delle specifiche linee guida o standard per lo SE nel reporting
(AA1000 SE, standard nazionali, ecc.)?
sì
0
no
20
AMBITO 2. ENGAGEMENT E STRATEGIA
Quantità
2.1 Dalla sezione o dal report emerge che lo SE è stato utilizzato per definire le strategie di medio-lungo periodo dell’organizzazione?
per niente (1)
0
poco (2)
3
abbastanza (3)
6
molto (4)
11
moltissimo (5)
0
(Segue)
Azienda Pubblica 4.2012
454
Saggi
Il coinvolgimento degli stakeholder nelle aziende non profit: alcune evidenze
2.2. All’interno delle categorie coinvolte sono identificabili i rappresentanti consultati
per l'elaborazione delle strategie?
per niente (1)
11
poco (2)
5
abbastanza (3)
4
molto (4)
0
moltissimo (5)
0
2.3. È possibile identificare nel report gli approcci ed i canali utilizzati per consultare
gli stakeholder nell’elaborazione delle strategie (incontri one-to-one, meeting, road
show, hotline, forum on line, e-mail, sito web, ecc.)?
per niente (1)
2
poco (2)
4
abbastanza (3)
8
molto (4)
6
moltissimo (5)
0
2.4. Nel documento sono dichiarati difficoltà o problemi riscontrati nella mappatura o
nell’engagement per l’elaborazione delle strategie?
per niente (1)
16
poco (2)
3
abbastanza (3)
1
molto (4)
0
moltissimo (5)
0
2.5. Fra le diverse categorie di stakeholder sono chiaramente identificabili quelle
prioritarie e dunque strategiche per l’organizzazione?
per niente (1)
0
poco (2)
2
abbastanza (3)
7
molto (4)
10
moltissimo (5)
1
AMBITO 3. ENGAGEMENT E GOVERNANCE
3.1. Sono identificabili rappresentanti degli stakeholder che rivestono un ruolo prioritario nella governance (ad esempio perché siedono nel CdA o nel Consiglio di Sorveglianza dell’organizzazione)?
per niente (i membri del CdA non sono rappresentativi di alcuna categoria
di stakeholder ma sono esperti esterni) (1)
3
poco (rari rappresentanti degli stakeholder prioritari) (2)
1
abbastanza (alcuni rappresentanti di stakeholder prioritari) (3)
8
molto (molti rappresentanti di stakeholder prioritari ed alcuni non prioritari) (4)
6
moltissimo (molti rappresentanti di tutte le categorie e, dunque, presenza
di governance multistakeholder) (5)
2
(Segue)
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Il coinvolgimento degli stakeholder nelle aziende non profit: alcune evidenze
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3.2. Sono identificabili rappresentanti degli stakeholder che rivestono un ruolo di staff
(consultivo) nella governance?
per niente (1)
8
poco (2)
4
abbastanza (3)
4
molto (4)
3
moltissimo (5)
1
3.3. È possibile identificare nel report gli approcci utilizzati per coinvolgere gli stakeholder nella governance?
sì, nomina di rappresentanti da parte delle diverse categorie
6
sì, cooptazione da parte dell’organizzazione
6
non desumibile dal testo
8
È necessario premettere che i risultati dell’analisi di contenuto sono
condizionati da molteplici fattori: l’eterogeneità del campione in quanto a
natura giuridica delle Anp, i differenti approcci adottati dalle singole organizzazioni nella rendicontazione sullo SE, la frequente mancata adozione
di linee guida sullo SE, il numero piuttosto limitato di casi analizzati.
In linea generale, poi, la funzione principale attribuita al SR da parte
delle Anp, con riferimento ai rapporti con i propri stakeholder, è la pubblicità
dei canali comunicativi impiegati e degli approcci adottati per dialogare. Al
contrario, è stata attribuita minore rilevanza alla tipologia di coinvolgimento.
Infine, l’analisi di contenuto, per sua natura, non consente la verifica
della veridicità e correttezza di quanto dichiarato nei documenti.
Con il primo gruppo di item (1.1-1.10) si è analizzato il ruolo dello SE
nella definizione dei contenuti del report.
Il riferimento allo SE è presente in tutti i documenti analizzati, così come
richiesto dalle linee guida GRI. Tuttavia, sebbene la sezione dedicata all’argomento sia obbligatoria per i report di livello A e B, in un terzo dei documenti
analizzati non è stata rintracciata. In questi casi le informazioni necessarie per
l’analisi sono state acquisite attraverso la lettura dell’intero documento.
L’identificazione e l’esplicitazione degli stakeholder attraverso la loro
mappatura è stata riscontrata nella maggioranza dei report. Laddove è
stata redatta una specifica sezione sullo SE, la mappatura risulta essere
“molto” (7/14) o “abbastanza” (3/14) identificabile, tale, cioè, da apparire chiaramente distinta rispetto alla sezione sul coinvolgimento. A questo
proposito, la mera presenza di informazioni inerenti lo SE è indicatrice di
una sensibilità delle Anp verso i propri stakeholder, ma non necessariamente
di una efficace comunicazione della funzione attribuita dall’organizzazione
all’engagement. È stato dunque necessario verificare se il coinvolgimento
fosse stato condotto con funzione:
• opportunistico/strategica, al fine di attrarre maggiori risorse, anche
promuovendo l’immagine dell’Anp;
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Il coinvolgimento degli stakeholder nelle aziende non profit: alcune evidenze
• di garanzia del rispetto dei doveri di accountability interni ed esterni.
Il riscontro è avvenuto attraverso l’analisi del grado di rappresentanza e
del livello di coinvolgimento degli stakeholder nei processi di rendicontazione.
Con riferimento al primo aspetto, oltre la metà delle Anp nel campione
(11/20) dichiara il coinvolgimento di alcuni portatori di interessi mappati,
mentre negli altri casi tale aspetto non è esplicitamente menzionato oppure
lo è in maniera marginale. Considerata l’eterogeneità del campione e,
dunque, anche delle categorie di stakeholder mappate, non è possibile
individuare una classe di soggetti esclusi sistematicamente dalla mappatura.
Tuttavia, è possibile identificare categorie di portatori di interessi coinvolte
nella maggioranza dei casi analizzati, quali ad esempio i beneficiari delle
attività, i donatori e le organizzazioni-partner.
Sebbene lo SE nel processo rendicontativo sia generalmente dichiarato
dalle Anp – in ottemperanza a quanto richiesto dalla linee guida GRI – i tre
quarti delle organizzazioni non identifica i rappresentanti degli stakeholder
consultati, generando dubbi sull’effettività del coinvolgimento. Inoltre, si
evidenzia che nella quasi totalità dei report non è stato fatto alcun riferimento al processo di nomina dei rappresentanti. Il livello di rappresentanza
può essere definito ottimo in un solo caso, nel quale lo SE interessa tutti
gli stakeholder mappati e nel quale sono stati puntualmente identificati i
rappresentanti coinvolti per ogni categoria.
Indipendentemente dal grado di rappresentanza, il livello di intensità
dello SE nel reporting è eterogeneo all’interno del campione. In 17 casi
su 20 è stato rilevato il coinvolgimento degli stakeholder nella definizione
delle informazioni rilevanti e significative da includere nel documento. In
particolare, lo SE risulta essere stato utilizzato con le seguenti intensità:
“molto” (6 casi), “abbastanza” (6 casi) e “poco” (5 casi).
Nelle Anp più virtuose (un terzo del campione), è stato rilevato uno SE
proattivo ed ex-ante, concretizzatosi nell’impiego di focus group, workshop ed
interviste finalizzate ad identificare le informazioni da includere nel documento. In un solo caso il coinvolgimento è stato effettuato dopo la redazione del
bilancio. Più precisamente, esso ha avuto luogo durante l’asseverazione del
documento da parte di un revisore esterno. Il fine è stato conoscere il parere
degli interlocutori aziendali sull’affidabilità del documento, contribuendo alla
raccolta di elementi probativi per il revisore prima dell’emissione del suo parere
professionale sull’affidabilità e sull’attendibilità del bilancio di sostenibilità.
Con riferimento agli approcci ed ai canali comunicativi utilizzati per lo
SE, emerge che nella maggioranza dei documenti è chiaramente identificabile, con livelli di intensità “molto” (10) o “abbastanza” (3). Dall’analisi
emergono due distinti approcci informativi a riguardo:
• l’indicazione di un coinvolgimento efficace, attraverso la citazione
degli strumenti utilizzati per ogni diversa categoria di stakeholder;
• il richiamo ad un unico canale informativo per tutti i diversi portatori
di interessi, spesso rappresentato da un indirizzo di posta elettronica
al quale i lettori possono inviare commenti ed osservazioni.
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Il coinvolgimento degli stakeholder nelle aziende non profit: alcune evidenze
Saggi
Nel primo caso, gli strumenti più utilizzati sono i focus group, i convegni
e workshop, le interviste one-to-one ed i questionari, con prevalenza di
assemblee collettive qualora siano stati coinvolti gli stakeholder prioritari
dell’organizzazione.
Il team di ricerca ha inoltre verificato l’inclinazione delle Anp del campione ad informare i lettori in merito alle difficoltà incontrate nei processi di
mappatura e di coinvolgimento, alla presenza di processi di miglioramento
continuo e all’adozione di linee guida per lo SE.
Riguardo al primo elemento, un quarto delle Anp dichiara di avere
avuto “poche” (4) o “abbastanza” (1) difficoltà nella mappatura e nel coinvolgimento, mentre le altre organizzazioni apparentemente non ne hanno
incontrate. Laddove sono state esplicitate, le principali criticità hanno riguardato l’incompletezza della mappatura ovvero la mancanza di un effettivo
coinvolgimento dei portatori di interessi (Hubbard, 2009). La principale
causa di tale fenomeno è stata identificata nella scarsa esperienza sullo SE,
legata alla sua recente inclusione fra le politiche aziendali.
Generalmente le Anp non hanno riposto grande attenzione all’informazione sui processi di miglioramento continuo, considerato che solo tre di
esse attribuiscono esplicita rilevanza a questo aspetto, individuando obiettivi
specifici per i futuri report. Fra quest’ultimi sono citati l’ampliamento delle
categorie di stakeholder coinvolte, il miglioramento dei canali di comunicazione e dell’ efficacia del processo di coinvolgimento. Nei restanti casi sono
state riportate generiche dichiarazioni sull’intento di perseguire miglioramenti
continui, senza esplicitare ambiti di azione od obiettivi da raggiungere. Inoltre, i documenti analizzati, in larga maggioranza, costituiscono un’edizione
del bilancio di sostenibilità successiva alla prima e, tuttavia, non contengono
feedback degli stakeholder sulle precedenti versioni.
Con riferimento all’adozione di linee guida per lo SE – nazionali od
internazionali – capaci di garantire sistematicità ed uniformità rispetto alle
best practice, in nessun caso ne è stata fatta menzione. Tale evidenza è
probabilmente alla base della sostanziale eterogeneità dei processi di SE
rilevata all’interno del campione.
Con la seconda serie di item (2.1-2.5), è stato analizzato il coinvolgimento dei portatori di interessi nella definizione delle strategie di medio-lungo
periodo delle Anp.
Nella maggioranza dei documenti è stato individuato sia il riferimento
alla consultazione degli stakeholder per la definizione degli obiettivi futuri
(in 11 casi lo SE risulta essere stato “molto” utilizzato, mentre in 6 soltanto
“abbastanza”), sia la disponibilità delle Anp a riadattare il proprio piano
strategico in considerazione delle mutevoli esigenze degli interlocutori.
In particolare, è stato evidenziato un buon grado di consultazione degli
stakeholder nella definizione degli obiettivi strategici. Il fenomeno è riconducibile alla natura sostanzialmente multi-stakeholder delle organizzazioni
analizzate, ad un sistema di accountability non indirizzato ad una categoria di interlocutori privilegiata, all’orientamento verso obiettivi strategici
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Il coinvolgimento degli stakeholder nelle aziende non profit: alcune evidenze
di medio-lungo periodo a scapito di quelli di breve (O’Dwyer e Unerman,
2008: p. 822). Nella maggioranza dei casi (16), è stata osservata una
diretta correlazione tra lo SE nella definizione delle strategie e la presenza
di rappresentanti degli stakeholder negli organi direttivi. Inoltre, i portatori di
interessi (in particolare gli utenti ed i beneficiari), spesso sono stati coinvolti
anche nella definizione di progetti di breve periodo, caratteristica prevedibile considerata la necessità per le Anp di tutelare la propria legittimazione
sociale nella comunità di riferimento.
Ciò nonostante, soltanto in pochi documenti (4) sono stati identificati
chiaramente i rappresentanti delle categorie di stakeholder effettivamente
consultati; ancora più raramente l’identificazione è avvenuta attraverso l’esplicitazione del nominativo e della posizione ricoperta dai rappresentanti
all’interno dell’organizzazione.
Per quel che concerne l’analisi delle modalità di coinvolgimento, nella
maggioranza dei documenti (14) gli approcci ed i canali utilizzati sono
chiaramente identificabili (intensità “abbastanza” in otto report e “molto” in
sei). È inoltre possibile distinguere le scelte effettuate dall’Anp nei confronti
di stakeholder ritenuti prioritari o meno. In particolare, con riferimento ai
primi, è stato riscontrato, quale principale strumento di coinvolgimento,
il meeting periodico. Meccanismi più impersonali, quali internet, posta
elettronica, questionari ed indagini di soddisfazione, sono maggiormente
diffusi per la consultazione dei portatori di interessi con minore rilevanza
strategica. In alcuni casi, poi, si è ricorsi a stakeholder panel, soprattutto
all’interno di singoli progetti caratterizzanti l’attività delle Anp. In questo
modo le aspettative degli stakeholder sono state recepite dagli amministratori
attraverso un più efficace e continuo confronto bidirezionale.
Difficoltà e criticità nella mappatura o nel coinvolgimento dei portatori di
interesse sono state esplicitate soltanto in quattro casi, peraltro con intensità
moderata (“poco” in tre bilanci e “abbastanza” in uno). Le principali difficoltà
emerse sono relative ad un’incompleta mappatura ed alla eterogeneità dei
diversi gruppi di portatori di interessi.
Con riferimento agli stakeholder strategici (Cooper e Owen, 2007), questi
sono agevolmente identificabili in una larga maggioranza di documenti (intensità “molto” in dieci documenti e “abbastanza” in sette). In particolare, a
fronte di una generale partecipazione dei portatori di interessi nei processi
di definizione delle strategie, emerge un prevalente coinvolgimento degli
stakeholder considerati strategici per l’organizzazione.
La terza serie di item (3.1-3.3) è dedicata al livello di coinvolgimento
degli stakeholder negli organi di governo.
I portatori di interessi risultano coinvolti nel governo dell’Anp nella
maggioranza dei casi (16), attraverso la presenza diretta negli organi di
amministrazione e controllo di alcuni rappresentanti di stakeholder prioritari
(8), di molti rappresentanti di stakeholder prioritari ed alcuni non prioritari
(6) o di molti rappresentanti di tutte le categorie di stakeholder (2). Nella
quasi totalità dei report analizzati è stata data notizia di vincoli normativi
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Il coinvolgimento degli stakeholder nelle aziende non profit: alcune evidenze
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o statutari concernenti l’obbligo di riserve di posti per rappresentanti degli
stakeholder all’interno degli organi di governo. I vincoli normativi sono
riconducibili alla specifica forma giuridica adottata (come, ad esempio,
per le cooperative) e alle leggi generali e speciali vigenti nel contesto di
concreta operatività, mentre quelli statutari rappresentano il riconoscimento
formale, da parte di singole Anp, del ruolo di “persuasori” o “agenti” morali
dei portatori di interessi (Hill e Jones, 1992).
A fronte di una elevata rappresentanza degli stakeholder negli organi
di governo, è tuttavia da evidenziare come il coinvolgimento presenti livelli
di intensità eterogenei all’interno del campione. In particolare, accanto ad
una mera inclusione di alcuni rappresentanti degli stakeholder prioritari
(come nel caso dei posti riservati ai lavoratori oppure a partner strategici
dell’organizzazione), si evidenziano casi di inclusione di portatori di interessi
anche non prioritari e situazioni di autentica governance multi-stakeholder.
È il caso, ad esempio, di una Anp che ha previsto la nomina di un consiglio
degli stakeholder caratterizzato da una composizione proporzionale per
categoria e provenienza geografica e dotato di autonomia decisionale,
seppur limitata a specifiche questioni.
Non è stata riscontrata, al contrario, una diffusa presenza di portatori
di interessi all’interno degli organi di staff. Infatti, dalla maggioranza dei
documenti analizzati (12/20) non emerge un’adeguata riserva di posti
agli stakeholder negli organi in discussione. Soltanto in un bilancio è stata
individuata la presenza di portatori di interesse tra i componenti di un comitato tecnico consultivo. Ad ogni modo, dall’analisi dei documenti emerge
un significativo livello di autonomia decisionale riconosciuto agli organi
operativi, ossia quelli più vicini ai beneficiari delle attività.
Con riferimento agli approcci adottati per coinvolgere gli stakeholder
negli organi di governo (nomina da parte delle singole categorie o cooptazione), sono stati esplicitati nella maggioranza dei bilanci analizzati
(12/20). Tuttavia, i meccanismi di nomina e cooptazione sono presenti
con la stessa frequenza, non consentendo di evidenziare una tendenza
all’interno del campione. È inoltre opportuno considerare che anche nelle
situazioni in cui è stata dichiarata la nomina diretta dei rappresentanti da
parte delle diverse categorie di portatori di interessi (6), l’analisi di contenuto
non ha consentito di accertare la presenza di eventuali influenze da parte
dell’organizzazione nel processo di selezione.
Infine, come ricordato in precedenza, i risultati ottenuti dall’analisi di contenuto sono stati condivisi con i responsabili (presidenti o cariche equivalenti)
delle singole Anp, in modo da ottenere la loro opinione sulle evidenze raccolte.
Su 20 Anp analizzate, 17 hanno risposto al questionario inviato tramite
posta elettronica, pertanto il ritorno è stato decisamente positivo ai fini della
verifica dei risultati.
In particolare, 14 organizzazioni hanno sostanzialmente condiviso gli esiti
dell’indagine ed i livelli di intensità assegnati alle singole questioni indagate.
In due casi, con riferimento a specifici item caratterizzati da livelli di
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Il coinvolgimento degli stakeholder nelle aziende non profit: alcune evidenze
intensità piuttosto bassi, i risultati sono stati contestati. Le due organizzazioni
hanno dichiarato che la sezione dedicata allo SE nel SR prevista dalla linee
guida GRI non richiede l’esplicitazione di alcuni elementi indagati, giustificando così i livelli particolarmente bassi raggiunti. Un’altra Anp, invece,
ha esplicitamente criticato lo strumento di indagine adottato, asserendo che
l’analisi di contenuto non può rilevare il livello di SE raggiunto dall’organizzazione in nessuno degli ambiti indagati.
A questo proposito, si ritiene che entrambe le forme di contestazione dei
risultati non possano essere accettate: nei primi due casi perché gli elementi
indagati devono essere obbligatoriamente inseriti nel bilancio di sostenibilità
ai livelli di conformità A o B alle linee guida GRI; nel terzo perché l’analisi di
contenuto è stata utilizzata come prima fase di ricognizione dei livelli di SE
dichiarati dalle Anp. In effetti, la presenza, anche con alta intensità, di specifici
elementi indagati nell’analisi di contenuto, non comporta automaticamente l’attestazione di elevati livelli di SE. Allo stesso tempo, però, si ritiene che l’assenza
o la scarsa presenza di taluni elementi obbligatoriamente previsti dalle linee
guida GRI rappresenti un primo indicatore di lacune nella conduzione dello SE.
5. Conclusioni
L’obiettivo principale della ricerca è stato comprendere il ruolo che lo SE
assume nel processo di redazione del SR, nell’elaborazione delle strategie
aziendali e nella composizione degli organi di governo all’interno di un
campione ragionato di Anp, determinando se e con quale intensità lo SE
sia effettivo o piuttosto tenda ad assumere le caratteristiche di mero contemperamento delle aspettative degli interlocutori (Owen et al., 2001).
L’indagine empirica condotta ha consentito di evidenziare un livello limitato
di coinvolgimento degli stakeholder nell’ambito del SR, nonostante i report delle
Anp del campione fossero tutti inseriti all’interno del database GRI con alti
livelli di conformità alle relative linee guida. Quest’ultime, come già ricordato,
indicano la necessità di effettuare un adeguato SE per ottemperare ai principi
di significatività e rilevanza dell’informazione espressa (GRI, 2006).
Pertanto, l’ipotesi sostenuta dalla letteratura che all’interno delle Anp si debbano soddisfare pienamente le esigenze informative di molteplici categorie di
stakeholder, attraverso un loro pieno coinvolgimento, non trova piena conferma
all’interno del presente studio (si vedano in particolare gli item: 1.4, 1.5, 1.7).
Rispetto a questa affermazione è comunque necessaria una precisazione:
le Anp che redigono un bilancio di sostenibilità si caratterizzano già per
una tendenziale propensione alla disclosure e all’assolvimento dei doveri
di accountability (O’Dwyer e Unerman, 2008), poiché con tale strumento
possono rendere conto del proprio operato agli interlocutori chiave dell’organizzazione e tentare di rappresentare, in termini quantitativi o qualitativi,
l’impatto generato con le proprie attività sull’ambiente di concreta operatività
(Ebrahim e Rangan, 2010). Lo studio, tuttavia, ha evidenziato che la qualità
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Il coinvolgimento degli stakeholder nelle aziende non profit: alcune evidenze
Saggi
del reporting non è elevata, poiché fondata più su un’ottica di stakeholder
management che non su un effettivo SE, il quale, come già ricordato, prevede
un impegno reciproco delle parti per definire i contenuti del documento.
Rispetto al secondo ambito di ricerca, i risultati hanno indicato un ruolo
significativo degli stakeholder nell’elaborazione della strategia dell’organizzazione (si vedano in particolare gli item: 2.1, 2.3 e 2.5). È palese, dunque,
il ruolo fondamentale degli stakeholder nella definizione della missione delle
Anp e nella formalizzazione delle loro strategie di medio-lungo termine. Ciò
nonostante, l’analisi di contenuto ha anche mostrato come tale influenza non
si concretizzi necessariamente in un effettivo SE (si vedano, in particolare,
gli item: 2.2 e 2.4). Per verificare se, oltre ad un evidente contemperamento
delle aspettative degli interlocutori prioritari nella formulazione degli obiettivi
strategici, il management abbia individuato ed esplicitato anche diritti e doveri
reciproci fra Anp e stakeholder, sarebbe necessario uno sviluppo della ricerca,
utilizzando metodologie diverse e più pervasive. Il riferimento è, in particolare,
ad interviste e colloqui con amministratori e manager, da una parte, e rappresentanti degli stakeholder, dall’altra, sulla falsariga di quanto effettuato in
ricerche analoghe (Edgley et al., 2010). Certamente la mancanza di riferimenti,
all’interno dei documenti analizzati, all’individuazione di rappresentanti degli
stakeholder e ai problemi o difficoltà incontrati nel coinvolgimento, inducono
a dubitare della reale consistenza di tali prassi.
Infine, con riferimento al terzo ed ultimo ambito di ricerca, è possibile
formulare un giudizio positivo, poiché è sicuramente garantita una buona
rappresentatività degli stakeholder negli organi di amministrazione e controllo delle Anp. Tuttavia, su questo punto è necessaria una precisazione: i
16 casi nei quali sono stati trovati due o più rappresentanti degli stakeholder
negli organi di governo (item 3.1) corrispondono ad Anp che, per ragioni
normative o statutarie (e, in specifici casi, anche culturali), hanno l’obbligo
di prevedere il loro coinvolgimento. Si tratta, in particolare, di cooperative,
imprese sociali o istituti religiosi particolarmente legati al contesto ambientale
e territoriale di concreta operatività.
Inoltre, in molti casi la nomina è avvenuta tramite cooptazione oppure
non è stato possibile desumere dal testo informazioni circa l’approccio
utilizzato (item 3.3). Dunque, anche la reale democraticità delle nomine
è controversa e tale fattore potrebbe rendere inefficace e poco incisivo il
sistema di coinvolgimento degli stakeholder negli organi di governo.
In conclusione, le Anp analizzate presentano interessanti livelli di coinvolgimento degli interlocutori aziendali, soprattutto nella formulazione delle
strategie e nella composizione degli organi di governo. Il loro livello di
partecipazione è invece senz’altro più contenuto con riferimento al reporting
per la definizione delle informazioni comunicate.
Dalla ricerca, inoltre, emerge una prevalenza, tranne significative eccezioni
già ricordate, di politiche e prassi di stakeholder management su quelle di
SE che dovrebbero prevedere un sistema mutualistico e reciproco di diritti e
doveri fra l’Anp ed i suoi portatori di interesse. In questo senso le implicazioni
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Il coinvolgimento degli stakeholder nelle aziende non profit: alcune evidenze
della stakeholder theory sulle organizzazioni del terzo settore, evidenziate
in precedenza, non trovano una completa conferma nel presente studio. Al
contrario, sono state evidenziate molteplici criticità, in particolare con riferimento al ruolo degli stakeholder nella definizione dei sistemi di accountability.
Fra i limiti della presente ricerca si segnala il numero piuttosto esiguo
di casi analizzati e la conseguente necessità di estendere il campione indagato per rendere i risultati generalizzabili. Inoltre, il campione include
esclusivamente Anp che hanno redatto i bilanci in conformità con le linee
guida della GRI, che a loro volta costituiscono uno standard per il SR non
specificamente progettato per organizzazioni non lucrative.
Infine, nell’analisi appare opportuno tenere conto delle differenze culturali
e normative dei Paesi di provenienza delle singole organizzazioni e andare
oltre l’analisi di contenuto dei report di sostenibilità (ad esempio ricorrendo ad
interviste strutturate o semi-strutturate con rappresentanti degli stakeholder). In
questo senso è possibile individuare anche un possibile sviluppo della presente
ricerca volto ad indagare in profondità, tramite consultazione diretta dei soggetti
coinvolti nei processi indagati, la qualità dello SE eventualmente condotto.
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Il coinvolgimento degli stakeholder nelle aziende non profit: alcune evidenze
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Azienda Pubblica 4.2012
466
Saggi
Accountability e strumenti di rendicontazione sociale nelle province italiane
Accountability e strumenti di rendicontazione sociale
nelle province italiane
Davide Maggi
Professore associato di economia aziendale, Università degli Studi del Piemonte Orientale
Sommario: 1. Introduzione. – 2. Disegno di ricerca. – 3. La rendicontazione sociale nelle province italiane. – 4. Considerazioni conclusive.
L’obiettivo di questo lavoro è verificare la diffusione della rendicontazione sociale all’interno delle
province italiane, oggetto di particolare attenzione nell’ambito delle disposizioni per la revisione
della spesa pubblica introdotte dal decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95. Attraverso lo svolgimento
di una ricerca empirica su tutte le province italiane sono stati analizzati gli strumenti utilizzati
per la rendicontazione sociale, gli attori coinvolti e le criticità incontrate al fine di proporre delle
indicazioni manageriali che potrebbero essere utili in fase di un eventuale accorpamento delle
province e di un miglior utilizzo e diffusione degli strumenti collegati alla rendicontazione sociale
all’interno degli enti locali.
The purpose of this work is to verify the diffusion of social reporting among the Italian provinces,
object of particular attention under the public spending review provisions introduced by Decree-Law
6th of July 2012, number 95. The tools used for social reporting, the players involved and the critical
aspects were analyzed through an empirical research on all the Italian provinces. All this in order
to propose managerial guidelines that might be useful in case of eventual unification of provinces
and in case of better use of instruments connected to social reporting within local governments.
Parole chiave: Rendicontazione sociale – Enti locali – Accountability
Key words: Social reporting – Local authorities – Accountability
467
Azienda Pubblica 4.2012
Accountability e strumenti di rendicontazione sociale nelle province italiane
Saggi
1. Introduzione
Il tema della rendicontazione sociale ha investito il mondo delle aziende
pubbliche con un certo ritardo rispetto a quanto avvenuto nel settore privato
(Bartocci, 2003). Tuttavia a partire dal 2002 il numero di sperimentazioni
in tema di rendicontazione sociale è cresciuto esponenzialmente anche se,
in alcuni casi, fenomeni di isomorfismo ne hanno stimolato l’applicazione
acritica (Marcuccio e Steccolini, 2008) rendendola una realizzazione meramente formale alla quale non corrisponde un vero e proprio processo di
rendicontazione sociale in ottica di accountability (Valotti et al., 2004). (1)
La crisi di legittimazione della pubblica amministrazione, la crescente
tensione fra le risorse disponibili e i bisogni da soddisfare, l’aumentata attenzione al controllo della spesa pubblica, l’affermarsi di un modello di stato
regolatore con forti autonomie locali, i relativi processi di decentramento,
esternalizzazione, privatizzazione che stanno interessando il settore pubblico
sono solo alcuni dei fattori che hanno alimentato un crescente interesse verso
il tema dell’accountability nella pubblica amministrazione. Inoltre, la crisi della
finanza pubblica, il rispetto dei patti di stabilità, la competizione territoriale
e la pressione sulla qualità dei servizi da parte degli utenti e dei cittadini
configurano la necessità che l’accountability nelle amministrazioni pubbliche
persegua obiettivi di creazione di valore – economico e sociale – attraverso la
produzione di servizi in quantità e in qualità attese dai cittadini in modo che
l’utilità prodotta sia correlabile al valore delle risorse impiegate, favorisca lo
svolgimento di attività per potenziare e valorizzare le opportunità offerte dai
diversi attori sociali ed infine, sia in grado di rendere conto alla società delle
proprie azioni, delle proprie scelte e dei risultati raggiunti in modo trasparente
ed esaustivo. Gli stessi enti locali italiani sono stati oggetto di un profondo processo di riforma ispirato ai principi di responsabilizzazione e di trasparenza
dell’uso delle risorse, di efficacia ed efficienza nell’erogazione dei servizi e di
rendicontazione dei risultati e degli impatti dell’attività amministrativa (Mussari,
1997; Anessi Pessina, 2002; Steccolini e Marcuccio, 2005).
Il termine accountability è sempre più utilizzato nel discorso politico e nei
documenti politici, perché trasmette un’immagine di trasparenza e affidabilità (Bovens 2005). Nonostante l’elusività che il concetto di accountability
rappresenta, in esso è intrinseco un “nucleo” intorno al quale costruire
una definizione: l’accountability è costituita da quell’insieme di azioni che
svolgono la funzione sociale di “dar conto” (giving accounts) da parte di
un individuo o organizzazione ad un altro/a.
In letteratura tuttavia il rapporto tra accountability e responsabilità è particolarmente problematico in quanto entrambi i termini sono stati utilizzati come
1 Accanto a casi di pura “rendicontazione formale”, vi sono esempi di eccellenza: solo per
citare un esempio nel 2003 la provincia di Parma ha vinto l’ Oscar di bilancio nella categoria Enti Pubblici per l’esposizione puntuale e formalmente ineccepibile dei programmi d’attività e dei dati finanziari e per averlo arricchito predisponendo un bilancio sociale suddiviso
per distretti territoriali.
Azienda Pubblica 4.2012
468
Saggi
Accountability e strumenti di rendicontazione sociale nelle province italiane
una forma particolare dell’altro. Bovens (1998), per esempio, considera
l’accountability quale tipologia di responsabilità, Dubnick (2003), invece, posiziona la responsabilità come specie all’interno del genus dell’accountability.
Le diverse definizioni di accountability presenti in letteratura sono
collegate al controllo, che è stato il termine comunemente utilizzato in
letteratura prima della diffusione del termine accountability (Beck e Larsen,
1987; Hood e Schuppert, 1988).
Nel corso degli anni il tema accountability non è sempre stato interpretato
allo stesso modo. Negli anni ’80 in cui vigeva la cultura dell’adempimento si
parlava di accountability contabile basata sul rispetto delle procedure e dei
regolamenti contabili e finanziari e sui controlli esterni formali di legittimità
e negli anni ’90 di accountability gestionale caratterizzata dall’adozione di
strumenti di programmazione e controllo, valutazione delle performance e
certificazione di qualità. È tra la fine degli anni ’90 e gli inizi del 2000 che
si inizia a parlare di accountability sociale contraddistinta dalla valutazione
dei risultati e delle politiche pubbliche da parte dei cittadini (Pezzani, 2003).
La pubblica amministrazione è chiamata a rendere conto alla società delle
proprie azioni e dei risultati in modo trasparente ed esaustivo (Guarini, 2002)
aprendosi verso l’esterno mediante politiche di comunicazione improntate
alla trasparenza (disclosure) (Bartocci, 2003).
È possibile interpretare il principio di accountability come teoria dell’aziendalizzazione negli enti locali, tramite un apporto alla crescita culturale
del management pubblico e all’introduzione di principi che si ispirino alla
corretta amministrazione, al rispetto della legalità, al perseguimento del
benessere della collettività, all’individuazione delle responsabilità dirigenziali. Un’impostazione di questo tipo supera il concetto di accountability
inteso come semplice obbligo di rendere conto dei risultati raggiunti e la
rendicontazione riguarda temi come la responsabilità sociale, l’etica e gli
effetti prodotti dalle decisioni dell’ente sul territorio.
Come risposta al deficit di accountability e alle difficoltà legate alla
misurazione e rendicontazione della performance pubblica (Guarini,
2002; Rogate, 2002; Tanese, 2004; Giusepponi, 2004; Valotti et al.,
2004; Vermiglio, 2007) si sono diffusi e si stanno diffondendo sistemi di
rendicontazione sociale. (2) La rendicontazione sociale supera i limiti della
rendicontazione esclusivamente economica, sostituendo alla “one bottom
line” (fine economico) la “triple bottom line” (fine economico, ambientale e
sociale) (Elkington, 1997; Hinna et al., 2006; Manetti, 2006) cercando di
misurare ciò che le rendicontazioni tradizionali non riescono a rilevare: il
valore creato dall’investimento in responsabilità sociale.
2 Insieme di documenti con i quali gli enti comunicano e condividono con i portatori di interesse interni e, soprattutto, esterni le scelte in merito all’organizzazione e gestione dei servizi e delle attività e all’allocazione e distribuzione delle risorse, nonché degli impatti che tali
scelte hanno generato sul benessere e la ricchezza (intesa in senso lato) del territorio di riferimento e dei soggetti che in esso operano. Si tratta per lo più di documenti di natura volontaristica e pertanto integrativi del sistema di rendicontazione amministrativa e contabile prevista dall’attuale ordinamento (Marcucci e Steccolini 2008).
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Accountability e strumenti di rendicontazione sociale nelle province italiane
Saggi
I fattori che inducono una pubblica amministrazione a rendicontare
socialmente possono essere identificati in (Romolini, 2007): 1) concetto di
accountability (come precedentemente illustrato), 2) elementi di contesto
(cambiamento dello scenario politico, sociale e culturale avvenuto recentemente. A partire dagli anni ’90 con il d.lgs. 29/1993 si è cercato di portare
il cittadino al centro dell’attenzione della pubblica amministrazione, nel
tentativo di interrompere un lungo periodo di autoreferenzialità), 3) limiti
del bilancio tradizionale (ad esempio fattori intangibili come il patrimonio
intellettuale, la fiducia, il consenso divenuti fondamentali per un ente pubblico
non vengono rilevati con le classiche modalità di rendicontazione), 4) effetto
moda (per emulare il comportamento delle aziende private).
Il ricorso alla rendicontazione sociale evoca una riflessione sulla funzione
e sul ruolo delle amministrazioni pubbliche nella società. Le amministrazioni
pubbliche sembrano dover ritrovare la propria identità non tanto e non solo in
quanto attori economici, gestori e allocatori di risorse pubbliche, ma riaffermando prima di tutto la propria natura di attori sociali e di istituzioni finalizzate alla
salvaguardia dell’interesse comune (Tanese, 2004) tramite il rafforzamento della
cultura e di strategie di “responsabilità sociale” (Borgonovi e Rusconi, 2008).
Il processo di rendicontazione sociale è infatti caratterizzato dai seguenti
elementi (Tanese, 2004): 1) volontarietà, 2) resa del conto degli impieghi,
dei risultati e degli effetti sociali prodotti, 3) individuazione e costruzione
di un dialogo con i portatori d’interesse. La composizione dei portatori di
interesse (stakeholder) (3) (Freeman, 1984) in un ente territoriale è molto
ampia e articolata e in alcuni casi risulta difficile formulare e attuare scelte
politiche in grado di massimizzare il valore per tutti gli stakeholder senza
generare conflitti di interesse. Il carattere notevolmente diversificato delle
politiche e dei servizi pubblici che gli enti locali si trovano a governare
suggerisce di scendere dal livello mission per considerare categorie di
stakeholder più specifiche legate all’attuazione delle singole politiche. (4)
Il tema dell’accountability e della rendicontazione sociale è molto complesso e articolato, l’idea di questo lavoro è di focalizzare l’attenzione sulla
rendicontazione sociale nelle province italiane analizzando l’oggetto, le
finalità e le criticità affrontate nel processo di rendicontazione.
Si è scelto di trattare il tema delle province in quanto negli ultimi periodi
si è spesso parlato di riorganizzazione, riduzione e revisione delle stesse.
In particolare nell’ambito delle disposizioni per la revisione della spesa
pubblica introdotte dal decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, il Titolo IV
3 La definizione fu elaborata nel 1963 al Research Institute dell’Università di Stanford. Il primo libro sulla teoria degli stakeholder è Strategic Management: A Stakeholder Approach di
Freeman E., che diede anche la prima definizione di stakeholder, come individui, gruppi o organizzazioni che possono influenzare o essere influenzati dal raggiungimento degli obiettivi di un’organizzazione.
4 In un ente pubblico (Bisio, 2005) si possono identificare 3 tipologie di stakeholder in base
a “fattori di influenza”, capacità di influenza dei singoli portatori di interesse, e “livello di interesse” di ciascuno stakeholder rispetto alla sua incidenza e alla sua “capacità di pressione”:
stakeholder essenziali (alto interesse e alta influenza), stakeholder appetibili (basso interesse
ma alta influenza), stakeholder deboli, (alto interesse ma bassa influenza).
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Saggi
Accountability e strumenti di rendicontazione sociale nelle province italiane
interviene a ridurre la spesa degli enti territoriali e tra le misure previste, vi
è proprio la riduzione e la riorganizzazione delle province di cui gli artt.
17 e 18. L’intervento normativo prevede tre direttrici: riduzione del numero
delle province, attraverso un procedimento di soppressione e accorpamento;
ridefinizione delle funzioni delle province, prevedendo tra l’altro il conferimento di ulteriori funzioni oltre a quelle di coordinamento stabilite dal d.l.
201/2011; istituzione delle città metropolitane nel 2014. Il decreto-legge
è attualmente all’esame del Senato (A.S. 3396).
2. Disegno di ricerca
Il presente contributo parte da un paper presentato ad un convegno in cui
sono stati divulgati i risultati di una ricerca empirica svolta con l’intento di
comprendere il fenomeno rendicontazione sociale delle province italiane.
Il disegno di ricerca seguito è stato il seguente:
• analisi della letteratura;
• definizione della domanda di ricerca;
• raccolta dei dati;
• codificazione e analisi dei dati;
• emersione di pattern o interpretazioni.
Dopo aver analizzato la letteratura generale in tema di responsabilità
sociale, bilancio sociale, stakeholder theory è stata considerata la letteratura
specifica sulla rendicontazione sociale degli enti locali. Si sono riscontrate poche
ricerche empiriche finalizzate ad analizzare gli strumenti di rendicontazione
sociale all’interno degli enti locali italiani e non sono state rilevate ricerche empiriche, svolte negli ultimi tre anni, che analizzano tutte le province italiane per
verificare il livello di implementazione della rendicontazione sociale in queste
realtà. (5) Dall’analisi della letteratura rimanevano aperte alcune questioni, tra
cui: quale metodo viene utilizzato per rendicontare tra tutti quelli disponibili
(SA8000, AA1000, GRI, GBS, Direttiva Ministero funzione pubblica, Copenhagen Charter), che tipologia di rendicontazione viene realizzata (bilancio
sociale, bilancio di genere, bilancio ambientale, bilancio territoriale, bilancio
di partecipazione, bilancio di mandato), da chi viene redatta (gruppo interno,
esterno, misto), quali indicatori vengono considerati (sociali, di bilancio, ecc.),
da chi viene certificata (personale interno o esterno), come viene divulgata
(Internet, rassegna stampa, ecc.). In base a queste considerazioni è stata formulata la seguente domanda di ricerca: quanto, come e perché l’ente pubblico,
provincia, ricorre alla rendicontazione sociale?
Per rispondere a questa domanda sono state considerate le 110 province
italiane nel periodo 2006-2011, comprese la Valle d’Aosta, nella quale
le funzioni provinciali vengono espletate dalla Regione Valle d’Aosta, e le
province autonome di Trento e Bolzano.
5 Una ricerca empirica (Siboni 2006) condotta sull’universo delle province italiane ha analizzato i dati dell’esercizio finanziario 2004.
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Azienda Pubblica 4.2012
Saggi
Accountability e strumenti di rendicontazione sociale nelle province italiane
Per la raccolta dei dati è stata condotta un’analisi multi-prospettica e
sono state considerate tre differenti fonti: analisi di documenti pubblicati sul
sito delle singole province, somministrazione di un questionario a tutte le
province italiane e intervista telefonica ai responsabili del bilancio sociale
all’interno dell’ente. Le tre fonti sono state triangolate tra loro per validare
il processo (Lofland et al., 2006). Il questionario composto da 17 domande
era organizzato in tre moduli: il modulo 1 – Parte relativa all’accountability
– e il modulo 2 – Parte relativa alla finalità del documento – sono serviti
per definire con che finalità, da parte di chi e quanto l’ente provincia è
propenso a divulgare i risultati della propria attività attraverso la rendicontazione sociale; il modulo 3 – Parte relativa al contenuto del documento
– ha permesso di valutare gli strumenti, i mezzi di divulgazione e i modelli
utilizzati per elaborare la rendicontazione sociale negli ultimi cinque anni.
Raccolte tutte le informazioni, i dati sono stati codificati e analizzati: ottantotto province hanno partecipato alla ricerca (80% delle province italiane)
e di queste 56 hanno rendicontato socialmente negli ultimi 5 anni mentre
32 non l’hanno fatto. Le 22 che non hanno partecipato alla ricerca non
rispondendo al questionario, quando sono state contattate telefonicamente
non hanno saputo fornire informazioni riguardanti la rendicontazione sociale
dell’ente, inoltre sul loro sito non compare nessuna informazione in merito;
per cui sembra lecito ipotizzare che queste realtà non abbiano attuato un
processo di rendicontazione sociale nel periodo considerato.
3. La rendicontazione sociale nelle province italiane
La ricerca mostra che più del 50% delle province italiane ha rendicontato
socialmente negli ultimi cinque anni.
Come si può notare dalla tabella 1, l’interesse a rendicontare socialmente
non subisce influenze geografiche, economiche e socio-politiche: vi è una
distribuzione uniforme su tutto il territorio.
Tabella 1 – Distribuzione geografica della rendicontazione sociale
Con
bilancio
sociale
Senza
bilancio
sociale
Val d’Aosta
0
1
Piemonte
5
3
AREA GEOGRAFICA
NORD
Lombardia
5
7
Veneto
2
5
Friuli
2
2
Liguria
3
1
Trentino
1
1
Emilia-Romagna
7
2
% utilizzo bilancio
sociale
53%
(segue)
Azienda Pubblica 4.2012
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Saggi
Accountability e strumenti di rendicontazione sociale nelle province italiane
Con
bilancio
sociale
Senza
bilancio
sociale
Lazio
1
4
Abruzzo
1
3
AREA GEOGRAFICA
CENTRO
SUD e
ISOLE
Toscana
7
3
Umbria
1
1
Marche
3
2
Sicilia
5
4
Calabria
4
1
Basilicata
1
1
Puglia
2
4
Sardegna
2
6
Campania
3
2
Molise
1
1
% utilizzo bilancio
sociale
50%
49%
Cercando di capire i fattori che spingono ad avviare un processo di
rendicontazione sociale emerge chiaramente il ruolo primario svolto dagli
organi amministrativi dell’ente, in alcuni casi di resistenza e in altri di spinta.
Nel caso delle amministrazioni che non hanno rendicontato socialmente,
il 78% ha indicato “la non volontà degli organi amministrativi” di avviare
il processo di rendicontazione sociale quale principale fattore di ostacolo;
pochi enti hanno attribuito la responsabilità della scelta alla carenza di risorse economiche o alla mancanza di figure professionali idonee all’interno
dell’ente. Nel caso delle amministrazioni che hanno rendicontato socialmente
la spinta è arrivata proprio dagli organi amministrativi che nel 89% dei casi
ha deciso di avviare il processo.
Il secondo punto analizzato ha riguardato il tema della continuità o discontinuità della rendicontazione sociale. Alcune esperienze empiriche, specie
quelle definite come bilancio di mandato o volute da uno specifico sindaco/
presidente provinciale alla scadenza del suo mandato, sono state abbandonate
prima ancora che potessero davvero essere assorbite nelle pratiche degli enti e
pertanto migliorarne i processi decisionali e di programmazione e controllo. Tra
le amministrazioni provinciali analizzate in questa ricerca il 55% si trova nella
continuità, ha avviato più di una rendicontazione sociale nell’arco di tempo
considerato, mentre il 45% è alla prima; solo nei prossimi anni si potranno
valutare l’interiorizzazione di questo strumento o l’eventuale abbandono.
Successivamente è stato analizzato il fine della rendicontazione sociale. Il
tema della finalità è legato alle motivazioni che sono alla base della scelta di
un ente locale di avviare un processo di rendicontazione sociale. Le finalità
possono riguardare la dimensione interna della gestione o il rapporto dell’ente
con l’ambiente esterno. Attraverso il questionario è stato chiesto agli enti quali
473
Azienda Pubblica 4.2012
Accountability e strumenti di rendicontazione sociale nelle province italiane
Saggi
sono state le motivazioni che hanno portato alla redazione del documento. Le
amministrazioni locali potevano indicare più di una finalità. Quella maggiormente indicata è stata “divulgare l’attività dell’ente all’esterno” per il 84%,
seguita da “migliorare la comunicazione tra ente pubblico e cittadino” per il
39%, “rendere conto ai portatori di interesse” per il 34% e “misurare l’efficacia/
efficienza dell’ente” nel 30% dei casi, come si può vedere in figura 1.
La finalità principale sembra essere informare in modo adeguato gli stakeholder esterni sull’attività svolta dall’ente, probabilmente nella consapevolezza che
la classica comunicazione di un ente locale è troppo burocratica e formale e
spesso incomprensibile per un comune cittadino. Valori molto bassi sono attributi
agli item collegati alla gestione o all’ottenimento del consenso. Nessun ente
locale ha inoltre indicato come finalità da perseguire quella del miglioramento
del clima interno, indicando chiaramente che la rendicontazione sociale non è
orientata alla soddisfazione dello stakeholder interno (dipendenti). (6)
Figura 1 – Finalità della rendicontazione sociale
Un maggiore orientamento verso gli stakeholder esterni si evince anche analizzando i soggetti indicati dalle province come destinatari della rendicontazione
sociale: nel 82% è indicata la collettività. Solo il 5% ha indicato i dipendenti.
La rendicontazione sociale nelle province italiane è prevalentemente
promossa dagli organi amministrativi dell’ente, rivolta agli stakeholder esterni
con obiettivo principale quello di migliorare il processo di comunicazione.
Passando all’analisi dei documenti sociali si è visto che numerose amministrazioni hanno avviato la sperimentazione di nuove forme di rendicontazione
sociale utilizzando diversi strumenti per comunicare con i cittadini. Ogni
strumento ha caratteristiche diverse ma tutti condividono lo stesso obiettivo:
ripensare il modo con il quale rendere trasparente e comunicare efficientemente agli stakeholder ciò che l’amministrazione ha realizzato. Gli strumenti
che la pubblica amministrazione può utilizzare per rendicontare socialmente
dipendono da alcune variabili (Tanese, 2004): periodo di riferimento, area di
6 La ricerca svolta da Monteduro (2006), mostra che anche nei casi analizzati di rendicontazione
sociale a livello internazionale, i destinatari sono i cittadini e gli altri stakeholder esterni.
Azienda Pubblica 4.2012
474
Saggi
Accountability e strumenti di rendicontazione sociale nelle province italiane
rendicontazione, coinvolgimento degli stakeholder, confini istituzionali.
In base al periodo di riferimento è possibile distinguere tra il bilancio
di mandato, che si riferisce al periodo di mandato degli amministratori, e
il bilancio sociale, riferito normalmente ad un anno.
Il criterio di rendicontazione consente di distinguere i documenti che forniscono un’analisi sull’intera gestione (bilancio sociale e di mandato (7)) da altri
strumenti che focalizzano l’indagine su specifici temi come l’ambiente (bilancio
ambientale) oppure si focalizzano su determinate categorie di stakeholder
(come il bilancio di genere), oppure su determinati settori di attività (bilancio
di settore). In base al criterio di coinvolgimento degli stakeholder, ovvero del
livello di partecipazione popolare, nel processo di rendicontazione è possibile
definire anche il bilancio partecipativo. Infine, in base al criterio dei confini
istituzionali è possibile distinguere tra i documenti relativi alla rendicontazione
sulla gestione interna dell’ente, tra cui il bilancio sociale e altri che rendono
conto dell’attività svolta sul territorio da soggetti diversi, siano essi pubblici o
misti pubblico-privati, come il bilancio di territorio.
Un ente pubblico al suo interno può avere più di un documento di
rendicontazione sociale (ad esempio la Provincia di Cosenza presenta
contemporaneamente un bilancio sociale e un bilancio di mandato del
periodo 2004-2009). Tra le province che hanno rendicontato socialmente
il 57% presenta un bilancio sociale, il 36% un bilancio di fine mandato, (8)
l’11% un bilancio di genere, il 7% uno partecipativo e il 4% uno ambientale.
Nessuna provincia ha dichiarato di aver rendicontato socialmente tramite
un bilancio di territorio come si può vedere in figura 2.
Figura 2 – Documenti sociali
7 Il bilancio sociale è l’esito di un processo con il quale l’amministrazione rende conto delle
scelte, delle attività, dei risultati e dell’impiego di risorse in un dato periodo, in modo da
consentire ai cittadini e ai diversi interlocutori di conoscere e formulare un proprio giudizio su
come l’amministrazione interpreta e realizza la sua missione istituzionale e il suo mandato. In
particolare, il bilancio sociale è un documento di carattere volontario e consuntivo. Al termine
del mandato elettorale, il bilancio sociale prende in considerazione l’intero quinquennio di
legislatura, denominandosi pertanto bilancio sociale di mandato.
8 Nella ricerca empirica condotta sui dati dell’esercizio finanziario 2004 (Siboni, 2006)
risultava che 9 province presentavano un bilancio sociale e 31 uno di fine mandato.
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Azienda Pubblica 4.2012
Accountability e strumenti di rendicontazione sociale nelle province italiane
Saggi
L’analisi del contenuto del documento di rendicontazione sociale è stata
effettuata prendendo in esame l’ultimo documento sociale redatto.
La difficoltà principale che si è incontrata nell’analisi del documento sociale è stata che non vi sono database completi, è stato necessario consultare i
bilanci sociali delle singole province. (9) Un’altra difficoltà riscontrata è che
non vi è uno schema tecnico di riferimento condiviso. La prima scelta che un
ente deve affrontare è la scelta del modello da adottare. In Italia non esiste
una normativa di riferimento (10) alla quale appellarsi per la redazione di
strumenti di rendicontazione sociale e non esistono neppure obblighi di
sottoporre a certificazione esterna i documenti prodotti. Alla mancanza di
riferimenti e obblighi normativi si è risposto con una serie di standard elaborati da Università, istituti di ricerca, società di revisione e ordini professionali.
Ne deriva che i modelli per la redazione del bilancio sociale presentano
caratteri fortemente eterogenei. I diversi modelli (SA8000, (11) AA1000, (12)
GRI, (13) GBS, (14) Copenhagen Charter (15)), costituiscono una guida operativa che contiene indicazioni utili per l’elaborazione della rendicontazione
sociale. Il primo aspetto che qualifica i modelli di rendicontazione sociale è
il richiamo all’identità o alla mission aziendale. Negli standard GRI, GBS e
Copenhagen Charter questa sezione è prevista obbligatoriamente, mentre
nello standard AA 1000 il suo richiamo è lasciato implicito.
9 Un’iniziativa che merita una menzione è quella del Formez che sta cercando di realizzare
una banca dati della rendicontazione sociale con lo scopo di rispondere all’obiettivo di diffondere cultura e pratiche di rendicontazione sociale.
10 In Italia dal 2006 esiste la Direttiva Ministero funzione pubblica che sta divenendo il riferimento per la rendicontazione sociale.
11 La norma SA8000 rappresenta un codice internazionale di condotta etica cui tutte le
aziende, indipendentemente dall’ambito geografico di riferimento, dal settore di appartenenza e dalle caratteristiche dimensionali, sono invitate ad uniformarsi per operare nel rispetto dei diritti umani dei lavoratori. Elaborato nella sua prima versione nel 1997 ad opera del
Council on Economics Priorities Accreditation Agency (CEPAA), questo standard si contraddistingue per una serie di principi etici di riferimento, al cui rispetto sono preordinate apposite procedure di gestione e di controllo. I requisiti di responsabilità cui si riferisce questo standard sono limitati al rapporto con una sola categoria di stakeholder, i lavoratori (Social Accountability International, 2001).
12 L’AA1000 è uno standard di adesione volontaria elaborato nel 1999 dall’International
Council of the Institute of Social and Ethical AccountaAbility, formato da imprese, Ong, università e società di consulenza. Esso si pone come obiettivo il “miglioramento della responsabilità e
della performance delle organizzazioni”, e focalizza l’attenzione sulla qualità dell’impegno etico e sociale verso i vari interlocutori dell’azienda (Institute of Social and Ethical AccountAbility).
13 La Global Reporting Initiative (GRI) è un’iniziativa internazionale diretta a sviluppare e diffondere delle linee guida per la redazione di un documento che integri l’informativa economica, ambientale e sociale. Il gruppo che l’ha proposta è attivo sin dal 1997, e ad esso aderiscono associazioni di categorie contabili professionali, istituti di ricerca, importanti imprese, associazioni ambientalistiche e sociali, coalizioni imprenditoriali e istituti di certificazione
(Global Reporting Initiative (2002).
14 Il GBS – Gruppo di studio per la statuizione dei principi di redazione del bilancio sociale, formato da studiosi e professionisti provenienti dal mondo accademico e della consulenza, è sorto nel 1998 con l’obiettivo di offrire una guida sulle finalità e sulle procedure di formazione del bilancio sociale, e ha presentato nella primavera 2001 lo standard generale per
la redazione del bilancio sociale. La proposta del gruppo si pone in sintonia con i principi di
AA1000 e della GRI, pur presentando alcuni tratti distintivi (GBS, 2001).
15 La Copenhagen Charter è un documento che propone un modello di riferimento per l’impostazione
di un ciclo manageriale finalizzato alla gestione del rapporto con gli stakeholder, attuato attraverso
l’attività di comunicazione. La finalità che persegue il modello, attraverso l’attivazione di un processo
di feed-back è quella di collegare la mission, la strategia e i valori aziendali alle attese degli
stakeholder chiave, consentendo all’organizzazione di creare valori internamente ed esternamente.
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Accountability e strumenti di rendicontazione sociale nelle province italiane
Un secondo aspetto che distingue gli standard è rappresentato dall’esposizione dei processi di rendicontazione sociale con i tradizionali sistemi
gestionali. Questo elemento è presente negli standard che si occupano di
processo (AA1000, Copenhagen Charter), mentre risulta carente in quei
modelli che sono attenti solo al contenuto del modello (GBA, GRI). L’elemento più qualificante gli standard è però rappresentato dalla presenza del
coinvolgimento degli stakeholder. Tale processo è il principio fondamentale
che informa l’AA1000 e la Copenhagen Charter. Viceversa, pur venendo
richiamato attraverso il principio di inclusione previsto dagli standard GBS
e GRI, non rappresenta un elemento fondamentale per lo sviluppo di questi
modelli. Infatti, i documenti sono focalizzati più sul contenuto che sull’instaurazione di un dialogo continuativo con i portatori d’interesse. Infine, l’ultimo
elemento è rappresentato dalla presenza di un processo di audit effettuato
da professionisti esterni. Questo processo è previsto solo dall’AA1000.
Sono inoltre state emanate delle linee guida nel 2006 e nel 2007. Nel
2006 il Ministero della funzione pubblica ha emesso la Direttiva denominata
“Rendicontazione sociale nelle amministrazioni pubbliche” con lo scopo di
stimolare le amministrazioni pubbliche a rendicontare socialmente rendendo trasparente, valutabile e comprensibile l’attività amministrativa e i risultati raggiunti
al destinatario finale e nel 2007 l’Osservatorio per la finanza e la contabilità
del Ministero dell’interno ha fornito delle linee guida di rendicontazione sociale
aventi per oggetto gli enti di cui all’art. 2 del d.lgs. 267/2000 (Testo unico
delle leggi sull’ordinamento degli enti locali) con diversi scopi tra cui rendere
omogenei i processi e le modalità di rendicontazione sociale, contribuendo al
controllo e alla comparabilità dei risultati. (16)
L’analisi empirica (si veda tabella 2) mostra che il principale modello di
riferimento adottato è quello della Direttiva del Ministero della funzione pubblica del 2006 che riprende le linee guida del Gruppo di studio del bilancio
sociale (GBS), ovvero un modello autonomo anche se collegato alle cifre del
bilancio tradizionale, più riguardoso verso il contenuto del documento che verso
il processo di coinvolgimento degli stakeholder. Il modello GBS, incorporato
nella Direttiva prevede proprio i contenuti minimi del bilancio sociale: identità
aziendale, rappresentazione della dimensione economica, rappresentazione
della dimensione quali-quantitativa. La seconda parte che compone il bilancio
è rappresentata dal calcolo e dalla distribuzione del valore aggiunto. Questa
sezione del bilancio si prefigge di fornire agli stakeholder i dati necessari per
esprimere una valutazione sull’operato dell’ente. Tuttavia, nella maggior parte
delle province italiane, nella parte del bilancio sociale dedicato al calcolo del
16 Le linee guida di rendicontazione sociale tengono conto della comunicazione della
Commissione europea 2 luglio 2002, COM (2002) 347 def., relativa alla “Responsabilità
sociale delle imprese: un contributo delle imprese allo sviluppo sostenibile (Punto 7.7 –
Amministrazioni pubbliche); degli standard della rendicontazione sociale nel settore pubblico
formulati dal Gruppo di studio per il bilancio sociale (GBS); degli standard di rendicontazione
proposto dalla Global Reporting Initiative (GRI) per il settore pubblico (Sector supplement for
public agencies) e degli standard AA1000 e gli altri documenti elaborati da The Institute of
Social and Ethical Accountability (ISEA).
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Accountability e strumenti di rendicontazione sociale nelle province italiane
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valore aggiunto, la riclassificazione non viene fatta ma ci si limita a riportare
i dati del bilancio economico. I dati raccolti confermano una tendenza ad
allegare al bilancio sociale i bilancio d’esercizio, in tutto o in parte. Fornendo
così dati incomprensibili per la maggior parte dei cittadini.
Tabella 2 – Standard/Linee guida adottate dalle province per la rendicontazione sociale
Modello di riferimento
% adozione
Direttiva Ministero funzione pubblica
62%
GBS
36%
Copenhagen Charter
2%
La parte successiva della ricerca ha analizzato il processo seguito nella
rendicontazione sociale.
I dati raccolti mostrano che nel 68% dei casi avviene una rappresentazione dei risultati per aree o ambiti di intervento. Questa rendicontazione
risulta di più facile applicazione perché più vicina alla gestione e all’organizzazione interna dell’ente locale. Il 22% ha scelto di rendicontare per
progetti di particolare rilevanza per il territorio, permettendo al cittadino di
valutare lo stato di realizzazione e di avanzamento della singola opera.
Solo il 13% delle province ha scelto di rendicontare in base alle categorie
di stakeholder (per ciascuna categoria sono state individuate le risorse
destinate, gli interventi realizzati e gli effetti prodotti).
Figura 3 – Aree di rendicontazione Figura 4 – Componenti gruppo di lavoro
Successivamente sono stati analizzati gli indicatori inseriti all’interno del
bilancio sociale. Gli indicatori del bilancio sociale possono essere costituiti
da valori contabili rielaborati, extra-contabili o da descrizioni qualitative
(Mulazzani 2006). Solo un 14% delle province che rendicontano socialmente
ha inserito indici realizzati ad hoc, le altre hanno inserito indici di bilancio
o desunti dal controllo di gestione.
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Accountability e strumenti di rendicontazione sociale nelle province italiane
Altro aspetto analizzato è la composizione del gruppo di lavoro preposto
alla realizzazione della rendicontazione sociale. La maggior parte delle
province (54%) ha costituito un gruppo di lavoro interno all’ente, il 39% un
gruppo misto e il 7% un gruppo di lavoro totalmente esterno all’ente. Ne
deriva un processo prevalentemente gestito internamente.
La ricerca ha inoltre indagato i canali di comunicazione utilizzati dalle
province per divulgare i documenti redatti in tema di rendicontazione sociale.
La pubblicazione e la divulgazione del bilancio sociale rappresentano infatti
un momento importante di legittimazione sociale attraverso cui si comunica alla
comunità di riferimento il lavoro svolto. Predisporre un bilancio e non divulgarlo
vanifica tutto il processo seguito per la sua attuazione e rappresenta un investimento inutile per l’ente e per tutta la comunità. Tuttavia dai dati raccolti risulta che
ben quattro province italiane che hanno rendicontato socialmente non l’hanno
comunicato all’esterno. Altro aspetto importante in tema di comunicazione è il
canale utilizzato per divulgare il documento, in quanto tale canale deve essere
quello che permette di raggiungere meglio gli stakeholder di riferimento. I dati
mostrano che il canale principale utilizzato dalle province italiane per la diffusione e divulgazione del bilancio sociale è il sito istituzionale (68%), seguito dalla
conferenza stampa (50%). Poco utilizzati, invece sono risultati altri mezzi di
comunicazione, quali posta, televisioni e giornali locali (nel complesso il 18%).
Tuttavia in alcuni casi risulta particolarmente difficoltoso reperire il documento
di rendicontazione sociale all’interno del sito non solo per il cittadino comune
che si trova a consultare il sito web per altri motivi, ma anche per chi conosce
l’esistenza della rendicontazione sociale e la cerca di proposito.
L’ultimo aspetto considerato ha riguardato la certificazione della rendicontazione sociale. Quando questa attività viene svolta da un soggetto
esterno all’ente questo potrebbe garantire all’utente/portatore d’interesse
di avere certezza dei dati rendicontati e degli obiettivi raggiunti e potrebbe aiutare l’ente ad avere standard di riferimento condivisi e unificati
per razionalizzare e semplificare l‘attività di rendicontazione. Tuttavia,
in tema di rendicontazione sociale non sono ancora stati definiti degli
standard per la certificazione. Quando la costruzione del documento
viene affidata unitamente alla struttura interna e a un consulente esterno,
a volte è lo stesso consulente nella veste di “social evaluator” a fornire
un’opinione professionale sul documento. Quando, invece il documento
è predisposto autonomamente dalla struttura interna, l’attività di revisione
dovrebbe essere svolta da un auditor esterno. All’estero ma anche in Italia
viene adottata principalmente la tecnica del “panel degli esperti” (Hinna et
al., 2006), in questo modo l’auditor esterno identifica una rosa di opinion
leader rappresentativi delle varie categorie di stakeholder ai quali viene
chiesto di giudicare l’operato della struttura nella loro area di competenza.
Successivamente l’auditor raccoglie i giudizi di tutti gli esperti consultati
nei vari settori e li sintetizza nella sua opinione di auditor; analogamente
viene fatto con i suggerimenti per il miglioramento sia della forma sia del
contenuto del documento attraverso l’emissione della management letter
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Accountability e strumenti di rendicontazione sociale nelle province italiane
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rivolta all’Alta Direzione dell’organizzazione, la quale dovrebbe incentivare ad un successiva rendicontazione di qualità superiore.
Dai dati raccolti risulta che il 45% delle province intervistate ha attuato
una forma di revisione (interna o esterna) del documento sociale, mentre il
55% non ha provveduto. Ciò fa presumere che esista ancora da parte degli
enti una sorta di orientamento all’autoreferenzialità, anche in virtù del fatto
che mancano i principi di revisione del documento sociale, problema ben
evidenziato anche in letteratura (Hinna et al., 2006).
4. Considerazioni conclusive
La ricerca svolta mostra che circa la metà degli enti provinciali italiani attua
una rendicontazione sociale; pertanto, non si può parlare, come gli scritti
più recenti sottolineano, di sperimentazione. Tuttavia si avverte la mancanza
di una concezione univoca relativa alle definizioni utilizzate (bilancio sociale, bilancio partecipativo, ecc.) alle finalità di utilizzo (divulgare l’attività
dell’ente, rendicontare agli stakeholder, misurare l’efficienza/efficacia, ecc.)
ai contenuti e alle linee guida adottate.
Inoltre due grandi problemi sono stati riscontrati: una scarsa comunicazione e un’alta autoreferenzialità. In molti casi la comunicazione non è
efficace; se il destinatario non viene adeguatamente informato dell’esistenza
e del significato della rendicontazione sociale questa rischia di rimanere
solo un’esercitazione fine a se stessa, svolta seguendo una moda e senza
una reale intenzione a realizzare un processo di rendicontazione sociale
in ottica di accountability. Inoltre, l’assenza di regole e la mancanza di una
revisione esterna rischia di delegittimare tale strumento e di renderlo poco
credibile all’opinione pubblica, che potrebbe essere portata a considerarlo
un messaggio promozionale ed elettorale: “l’esaminato e l’esaminando” non
possono coincidere se si vuole acquisire credibilità e serietà.
Sarebbe importante che gli enti locali comprendessero l’importanza di
questo strumento per verificare la soddisfazione degli stakeholder sull’azione
amministrativa, li coinvolgessero nelle diverse fasi di redazione del documento e adottassero efficaci politiche di comunicazione per raggiungere il
maggior numero di persone. Inoltre le province, qualora accorpate potranno
mettere a fattore comune le esperienze sin ora fatte in tema di rendicontazione sociale per realizzare documenti che permettano di incrementare la
trasparenza e l’accountability delle nuove realtà.
La ricerca porta a suggerire che la rendicontazione sociale dovrebbe adottare un linguaggio unico, con linee guida uguali per tutti gli enti pubblici ed
essere sottoposto ad una rigorosa revisione esterna, possibilmente indipendente
dall’ente stesso. Queste considerazioni pongono problematiche importanti di
non facile risoluzione, considerando anche il fatto che non bisogna correre il
rischio di limitare e rendere troppo complesso, da un punto di vista burocratico,
uno strumento come la rendicontazione sociale, che nasce con l’intento di essere dinamico, agile e di facile comprensione (Marcuccio e Steccolini, 2008).
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Accountability e strumenti di rendicontazione sociale nelle province italiane
Il confronto sistemico delle diverse esperienze di rendicontazione potrebbe
portare ad un processo di apprendimento basato sull’analisi e l’interpretazione
delle differenti esperienze (Hinna et al., 2006; Monteduro 2006) finalizzato ad
individuare le best practices da diffondere e implementare al fine di trasformare
le diversità relative in ricchezza. La ricerca futura potrebbe analizzare in modo
approfondito i documenti considerati “best practices”, dal punto di vista sia del
contenuto sia del processo di realizzazione, e realizzare interviste approfondite
con gli attori chiave per comprendere in modo dettagliato il processo seguito,
gli attori coinvolti e le eventuali resistenze incontrare.
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Saggi
La politica di knowledge management nell’Agenzia delle entrate
La politica di knowledge management nell’Agenzia delle entrate: gli strumenti di
comunicazione organizzativa
Marco Pedemonti
Dottorando in economia e gestione delle aziende e delle amministrazioni pubbliche - Università degli studi di Roma
“Tor Vergata”; funzionario dell’Ufficio Comunicazione interna e formazione - Agenzia delle entrate
Rita Varone
Funzionario dell’Ufficio Comunicazione interna e formazione - Agenzia delle entrate
Sommario: 1. Premessa. – 2. La diffusione della conoscenza in una organizzazione. – 3. Il caso dell’Agenzia delle
entrate. – 4. Una possibile evoluzione del portale aziendale.
Il miglioramento della qualità dei servizi pubblici ha bisogno della professionalizzazione del
personale delle amministrazioni pubbliche. Ciò sviluppa una maggiore sensibilità al tema della
comunicazione interna come elemento per la diffusione della conoscenza all’interno dell’organizzazione. Per rispondere a questa esigenza si sono diffusi le intranet e diversi strumenti di gestione
delle relazioni, come le chat e i forum. In alcuni casi, dopo essere stati presentati come grandi
innovazioni, sono diventati meri strumenti di data management con alti costi per il loro mantenimento.
Questo articolo, dopo una premessa teorica, analizza gli strumenti di comunicazione organizzativa
adottati dall’Agenzia delle entrate e ne valuta l’efficacia.
Improving the quality of public services requires the professionalization of government personnel.
As a consequence, greater attention must be paid to internal communication as a tool for the dissemination of knowledge within the organization. Several initiatives, such as intranets, chats and
forums, have been introduced to meet this goal. In some cases, these initiatives were presented as
innovations, only to later become mere data management tools with high maintenance costs. The
article describes the theoretical framework and the tools of organizational communication used by
the Italian Revenue Agency and evaluates their effectiveness.
Parole chiave: Gestione della conoscenza – Intranet aziendale
Key words: Knowledge management – Corporate intranet
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Azienda Pubblica 4.2012
La politica di knowledge management nell’Agenzia delle entrate
Saggi
1. Premessa
In un mondo dove la capacità di innovazione è l’elemento essenziale per
soddisfare il mercato, investire nel capitale umano diventa l’asset strategico
per il raggiungimento della mission aziendale: la socializzazione delle singole
persone permette di sviluppare e condividere un patrimonio di conoscenze
necessario per avviare e sostenere un processo di innovazione continua.
Misurare il contributo delle persone ai risultati conseguiti dall’organizzazione pone però dei problemi di interpretazione: il capitale umano non
può essere considerato come la semplice somma del personale impiegato, è
qualcosa di diverso e maggiormente strutturato. È una fitta rete di relazioni,
formali ed informali, interne ed esterne, che crea conoscenza funzionale a
migliorare i processi produttivi e a introdurre innovazioni. La difficoltà sta
nel codificare la conoscenza prodotta in un linguaggio condiviso dall’organizzazione e nell’implementare strumenti di accesso e gestione del sapere.
Negli ultimi anni si sono diffusi, in ambito aziendale, le intranet e diversi
strumenti di gestione della relazione e della conoscenza, come le chat e i
forum. In alcuni casi, dopo essere stati presentati come grandi innovazioni
che avrebbero rivoluzionato il modo di lavorare, essi sono diventati meri
strumenti di data management con scarso appeal e, alcune volte, sono rimasti “cattedrali nel deserto”, comportando dei costi non indifferenti per il
loro mantenimento. Nei momenti di crisi economica hanno subito i maggiori
“tagli” in termini di investimenti per il loro sviluppo.
Il brano che segue, contenuto nel libro di Stewart (2002, p. 107), è
emblematico per capire l’importanza della diffusione della conoscenza:
“L’ufficio della Banca Mondiale in Pakistan aveva un problema. La Banca
stava predisponendo un prestito per la realizzazione di grandi strade, ma
quelle già esistenti si stavano deteriorando davvero troppo rapidamente. Il
governo meditava se usare un altro tipo di pavimentazione. Il Ministero dei
trasporti voleva una risposta immediata dalla Banca: quella roba andava
bene? è passato il tempo in cui quella domanda sarebbe pervenuta nella
sede centrale di Washington D.C., gli esperti si sarebbero riuniti, avrebbero
forse inviato una delegazione in Pakistan e poi, dopo parecchie settimane,
avrebbero solennemente emanato una risposta. Stavolta (era l’agosto 1998)
il massimo funzionario andò sul sito web della Banca Mondiale e, in una
sezione dedicata ai trasporti, trovò un’area di discussione a cui inviò una
e-mail che riferiva il problema. Nell’arco di un giorno ebbe una promettente
risposta dalla Giordania e dettagliate informazioni dall’Argentina. Due
giorni dopo ricevette il parere degli esperti sudafricani e neozelandesi,
in cui erano accluse direttive neozelandesi su come sfruttare al meglio
la tecnica in questione. Il funzionario in Pakistan fece il suo rapporto al
governo, ma la faccenda non finì lì. Dice Stephen Denning, che guidava il
programma per la conoscenza della Banca Mondiale: «Ora che abbiamo
capito che, come organizzazione, sappiamo qualcosa di un argomento sul
quale non ci eravamo accorti di sapere alcunché, dobbiamo inserire ciò
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La politica di knowledge management nell’Agenzia delle entrate
che abbiamo appreso nella nostra base di conoscenza, in modo tale che
qualsiasi gruppo all’interno dell’organizzazione possa attingervi ovunque
e in ogni momento»”.
Nel presente articolo, si analizzano alcuni approcci metodologici alla
diffusione della conoscenza nell’organizzazione e viene descritto il portale
intranet PAGE dell’Agenzia delle entrate, come realizzazione della filosofia
di knowledge management, per la diffusione della conoscenza tra il personale per svolgere al meglio le attività di prevenzione e contrasto all’evasione
e di assistenza ai contribuenti.
2. La diffusione della conoscenza in una organizzazione
2.1. La conoscenza
La conoscenza è una forma di sapere che mette in relazione le informazioni,
le esperienze e le modalità di apprendimento dell’individuo. Ogni persona,
infatti, al fine di interpretare la realtà, accede a diverse informazioni, le
seleziona e attribuisce loro un particolare significato, creando proprie interconnessioni logiche. La stessa conoscenza è necessaria a una comunità
che può utilizzarla per raggiungere dei risultati o per creare innovazione.
Il modello elaborato da Nonaka e Takeuchi (1995) aiuta a spiegare
meglio il concetto di “generazione della conoscenza”, partendo da due
tipi di conoscenza:
•la conoscenza implicita o tacita, costituita dalla conoscenza personale, non codificata e che non è articolata in flussi comunicativi
strutturati. Questo tipo di conoscenza è direttamente legata al soggetto
che la crea e dipende dalle esperienze vissute e dal background
culturale e sociale;
•la conoscenza esplicita, che è condivisa da una comunità, secondo un
linguaggio formale stabilito dalla stessa. Questo tipo di conoscenza
può essere trasferita da un individuo all’altro utilizzando supporti
come un libro, un documentario, un corso di formazione.
Queste due categorie rappresentano le conoscenze presenti in una organizzazione, la quale ha il compito di esplicitare la conoscenza implicita,
codificandola e diffondendola, affinché diventi fruibile per gli attori interni
al fine di conseguire un vantaggio competitivo.
Nel loro modello, Nonaka e Takeuchi (1995) individuano quattro momenti di trasformazione (figura 1):
•socializzazione: la conoscenza individuale è messa in comune in
modo destrutturato, come per esempio rapporti diretti o collaborazioni
in gruppi, dove avviene un processo di apprendimento interattivo
tra diversi attori che possono avere un background professionale,
culturale e sociale differente ma che, in quel momento, svolgono le
stesse attività lavorative;
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Saggi
La politica di knowledge management nell’Agenzia delle entrate
•esternalizzazione: la conoscenza tacita viene concettualizzata,
articolata e formalizzata secondo un linguaggio comune della organizzazione, trasformandola in conoscenza esplicita;
•combinazione: la conoscenza esplicita è sistematizzata con altre
conoscenze esplicite per essere trasmessa attraverso corsi di formazione, manuali;
•interiorizzazione: la conoscenza esplicita è fatta propria dall’individuo che la capitalizza e diventa la base per la creazione di nuovi
comportamenti organizzativi. In questa fase si verifica l’effetto crossfertilization, così definito da Nonaka (1994).
Figura 1 – Il processo di creazione della conoscenza secondo Nonaka e Takeuchi
A
Conoscenza tacita
Conoscenza esplicita
Conoscenza tacita
Socializzazione
Esternalizzazione
Conoscenza esplicita
Interiorizzazione
Combinazione
Da
2.2. La funzione di comunicazione interna
Le grandi organizzazioni sono caratterizzate dalla presenza di un numero
elevato di attori eterogenei ma interdipendenti che, per operare con efficienza ed efficacia, devono conoscere la strategia dell’organizzazione
ed essere parte attiva nel processo di condivisione della conoscenza. La
comunicazione interna, quindi, rappresenta un fattore determinante per la
creazione e il governo delle relazioni e delle diverse forme di cooperazione
tra questi attori; diventa una risorsa per l’organizzazione e ha il compito di
mettere in comune valori, responsabilità ed esperienze al fine di condividere
modalità di lavoro e costruire relazioni funzionali al raggiungimento degli
obiettivi aziendali (Rullani, 2004).
Nell’ultimo decennio si è affermato il paradigma della comunicazione
organizzativa, definita “come l’insieme dei processi strategici e operativi,
di creazione, di scambio, e di condivisione di messaggi informativi e valoriali all’interno delle diverse reti di relazione che costituiscono l’essenza
dell’organizzazione e della sua collocazione nell’ambiente” (Invernizzi
2000). La funzione della comunicazione interna, che è parte integrante
della comunicazione organizzativa, ha i seguenti obiettivi: creare una
identità aziendale; creare una cultura aziendale; contribuire allo sviluppo
delle risorse umane; gestire i processi di cambiamento.
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La politica di knowledge management nell’Agenzia delle entrate
Secondo Toby Ward (2009), fondatore e presidente della Prescient Digital
Media, le priorità informative del personale sono: gli obiettivi e i risultati
aziendali; i prodotti e i servizi offerti; i competitor (nel caso di una pubblica
amministrazione centrale, le organizzazioni estere che svolgono attività
analoghe); l’andamento del proprio mercato di riferimento; le opportunità
per contribuire a raggiungere gli obiettivi aziendali.
Per raggiungere i suoi obiettivi e rispondere alle esigenze informative del
personale, prendendo in particolare considerazione i rapporti interni, l’organizzazione può agire sui quattro livelli della comunicazione organizzativa:
1. la comunicazione funzionale, per supportare i processi decisionali e
produttivi interni, mediante riunioni di lavoro, circolari informative,
riviste, manuali;
2. la comunicazione strategica, per far conoscere l’organizzazione, le
strategie e le politiche al personale e creare il senso di appartenenza
utilizzando la rivista aziendale, le comunicazioni interne via e-mail,
la intranet;
3. la comunicazione formativa, con l’obiettivo di far apprendere metodi
e modalità di lavoro mediante corsi in aula o in modalità e-learning
o mediante il training on the job in cui si crea una relazione interpersonale diretta tra i colleghi coinvolti;
4.la comunicazione creativa, per la generazione e la trasmissione
della conoscenza attraverso momenti più o meno strutturati, come le
riunioni tra colleghi, chat, forum.
Durante l’elaborazione di una “strategia dell’informazione”, una organizzazione attenta alla diffusione delle conoscenza prende in considerazione
i principi di knowledge management e sceglie gli strumenti più idonei per
la condivisione della conoscenza al suo interno (Iacono, 2000).
2.3. Il knowledge management
La consapevolezza che il sapere è un elemento indispensabile per raggiungere i risultati porta le organizzazioni a sistematizzare la conoscenza
codificata e a costruire strumenti e incentivi per mettere in comune quella
tacita. Le organizzazioni, spinte anche dall’esigenza di rispondere ai bisogni
sempre più sofisticati del consumatore o del cittadino e dall’avvento delle
nuove tecnologie, cercano di superare le rigidità di un modello di gestione
della conoscenza basato su un sistema di comunicazione top-down e sulla
scarsa circolazione delle informazioni.
Nel momento in cui una organizzazione vuole introdurre un sistema
di gestione della conoscenza, lo costruisce con l’obiettivo di scatenare
tre dinamiche: quella della condivisione della conoscenza, quella della
collaborazione e quella della innovazione, tutte finalizzate a creare la
cultura del “mettere in comune” e orientare l’attività di tutti gli attori verso
il raggiungimento dei risultati (Lipparini 2002).
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Saggi
La politica di knowledge management nell’Agenzia delle entrate
Dalla seconda metà degli anni ottanta si è cominciato a parlare, in questo
ambito, di knowlegde management, termine coniato da Karl Wiig, che nel
1993 scrisse il libro “Knowlegde Management Foundations” in cui sono
descritti i principi della gestione della conoscenza. Il knowledge management
può essere definito come un “insieme di attività e di processi di generazione/
creazione, mappatura, selezione e organizzazione, nonché diffusione delle
conoscenze” (Ruta e Turati, 2002), con l’obiettivo di “rintracciare e rendere
utilizzabile la conoscenza dispersa, spesso incompleta e non completamente
coerente, di cui dispongono i singoli individui e che nella sua totalità non
appartiene a nessuno”, (definizione di Quirico – 2003 – che riporta quanto
scritto da Von Hayek negli anni ’30 del secolo scorso).
Figura 2 – Il sistema di knowledge management
Conoscenza
Esplicita
Knowledge
management
Conoscenza
Implicita
Individuo
Gruppo
Organizzazione
Quindi un sistema di knowledge management, che ha l’obiettivo di
rendere la conoscenza tacita esprimibile secondo un linguaggio comune a
tutta l’organizzazione (figura 2), è caratterizzato:
• da una dimensione organizzativa che comporta l’individuazione di un
knowledge manager e dei componenti delle comunità professionali;
• da una dimensione tecnologica per la creazione di un’infrastruttura
informatica, come una intranet aziendale, capace di veicolare la
comunicazione e la conoscenza elaborata;
• da una dimensione sociale attraverso l’adozione di strumenti di interazione tra i componenti delle comunità professionali, come forum
o chat, per creare momenti di socializzazione e diffusione della
conoscenza tacita;
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Saggi
La politica di knowledge management nell’Agenzia delle entrate
• dalla creazione di categorie per codificare la conoscenza tacita;
• dalla creazione di repository ovvero di un database caratterizzato
da funzioni di ricerca, accesso, memorizzazione, indicizzazione e
distribuzione dei saperi esplicitati dalla comunità professionale;
• dalla creazione di un sistema di incentivi per facilitare il contributo
apportato dall’individuo, codificandolo secondo le categorie definite
dall’organizzazione.
La prima figura chiave è il knowledge manager, individuato dal top
management, che può essere in staff all’alta direzione o in una business
unit, nel caso l’esigenza sia sentita solo per un’attività specifica.
Il knowledge manager svolge diversi ruoli: è responsabile del processo di
knowledge management, di cui definisce e gestisce le procedure di creazione,
raccolta, condivisione e valorizzazione della conoscenza. Come responsabile di
processo, ha anche il compito di misurare il ritorno dell’investimento rispetto ai
risultati conseguiti dall’organizzazione. È responsabile tecnologico e, come tale,
si occupa della gestione e dell’aggiornamento delle infrastrutture tecnologiche
che supportano il processo. È responsabile dei contenuti in quanto ha il compito
di tradurre e strutturare la conoscenza tacita, emersa dalle comunità, secondo
gli standard aziendali per renderla comprensibile e di facile fruizione per tutti.
Per far questo, crea e mantiene le relazioni con gli esperti della materia riuniti
in comunità professionali. È responsabile del marketing del servizio, ovvero ha
il compito di promuovere il sistema di knowledge management, di creare una
cultura della conoscenza all’interno dell’organizzazione attraverso i piani di
comunicazione. Nello svolgere queste funzioni si avvale della collaborazione
di una unità organizzativa specifica.
Gli altri attori sono rappresentati dalla comunità professionale, dagli utenti
fruitori e dagli utenti contributori. La comunità professionale è composta da persone che all’interno dell’organizzazione hanno gli stessi interessi professionali e
sono riconosciuti come esperti della materia. La comunità ha natura informale,
ma il management può attribuirgli il compito di “catturare” il sapere spontaneo
per poi diffonderlo. Gli strumenti di condivisione della conoscenza implicita ed
esplicita di cui può avvalersi sono, ad esempio, forum, chat e wiki. Gli utenti
fruitori sono coloro che accedono al sistema di knowledge management per
ricercare e consultare i documenti che contengono la conoscenza codificata
utile a svolgere al meglio l’attività lavorativa. L’utente fruitore, inoltre, può
partecipare a forum di discussione sui temi di proprio interesse professionale e
generare ulteriore conoscenza tacita. Gli utenti contributori hanno la possibilità
di proporre alle comunità professionali dei contenuti relativi alla propria attività
lavorativa, formulati secondo le regole stabilite dall’organizzazione.
Il sistema di knowledge management (figura 3), che ha le caratteristiche e
gli attori appena descritti, è governato da diverse relazioni. In primo luogo, il
knowledge manager e il vertice aziendale decidono se implementare il sistema
a livello di tutta l’organizzazione o relativamente ad una o più unità di business.
Successivamente, il knowledge manager, avvalendosi della collaborazione dei
responsabili delle unità di business e/o dei servizi di supporto, mappa la cono491
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La politica di knowledge management nell’Agenzia delle entrate
scenza codificata e gli strumenti di condivisione già presenti nell’organizzazione
e, dopo aver analizzato i processi che governano le diverse unità, definisce un
sistema categoriale ed un linguaggio per codificare la conoscenza implicita;
definisce l’infrastruttura tecnologica e gli strumenti per catturare, trasformare e
condividere la conoscenza implicita ed esplicita. Con l’avvento, ormai consolidato, della rete, la quasi totalità delle grandi e medie organizzazioni utilizzano
la intranet aziendale come strumento di condivisione e diffusione che può anche
ospitare gli strumenti di collaborazione online, come forum e chat.
Sempre con la collaborazione dei responsabili delle unità di business,
vengono individuati gli “esperti in materia” che formano le comunità professionali. Con essi il knowledge manager definisce la struttura dei repository,
ovvero le knowledge bases che contengono, secondo il linguaggio aziendale, il sapere pratico espresso dalla comunità professionale e, contemporaneamente, definisce il processo di rilevazione, traduzione, redazione e
diffusione della conoscenza.
Le comunità professionali elaborano una nuova conoscenza e, insieme al
knowledge manager, la mappano secondo il sistema categoriale adottato e
lo traducono nel linguaggio codificato dall’organizzazione. Nel caso ricevano dagli utenti contributori un documento su una nuova modalità lavorativa,
questa viene analizzata e, se validata, tradotta (nel caso sia necessario) e
categorizzata. Successivamente, il knowledge manager interviene di nuovo
per adattare il contenuto e la forma secondo le regole redazionali per la
successiva pubblicazione sulla intranet aziendale.
Il sistema, così come descritto, sconta una contraddizione che ha portato
al non pieno successo dei sistemi di knowledge management: il conflitto tra
un modello interpretativo fortemente centralizzato e la natura soggettiva del
linguaggio di ciascun attore. Un buon sistema di knowledge management
dovrebbe facilitare la traduzione di un linguaggio in un altro, senza costringere la condivisione “forzata” di un linguaggio unico.
Figura 3 – Il sistema di knowledge management: attività, attori e output
ATTIVITÀ
Mappatura
conoscenza
codificata e
strumenti di
condivisione già
presenti
Analisi dei
processi delle
unità business/
servizi di
supporto
ATTORI
Knowledge
manager,
responsabili unità
business/servizi
di supporto
OUTPUT
Definizione
infrastruttura
tecnologica
Individuazione
“esperti
in materia”
Elaborazione
nuova
conoscenza
Knowledge
manager,
responsabili
unità business/
servizi di
supporto
Knowledge
manager
Knowledge
manager,
responsabili
unità business/
servizi di
supporto
Knowledge
manager,
comunità
professionale,
utenti
contributori
Sistema
categoriale
Linguaggio
“aziendale”
Internet
aziendale,
forum, chat
Comunità
professionale
Knowledge
bases
Fonte: elaborazione propria
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La politica di knowledge management nell’Agenzia delle entrate
In fase di costituzione di un nuovo sistema di knowledge management,
è bene tener presente questa affermazione: “To be useful il KM deve essere
a livello d’impresa, ma to be successful deve essere contenuto negli scopi,
e quindi dipartimentale, deve indirizzare non l’intera impresa ma una sua
specifica area, e non richiedere eccessivi cambiamenti alla struttura aziendale. Il suo successo ne determinerà poi una successiva espansione ad altre
aree” (Biffi e Camussone, 2000).
3. Il caso dell’Agenzia delle entrate
3.1. L’ente
L’Agenzia delle entrate è un ente pubblico non economico che svolge le
funzioni relative alla gestione, all’accertamento e al contenzioso dei tributi
con l’obiettivo di perseguire il massimo livello di adempimento degli obblighi fiscali. È sottoposta alla vigilanza del Ministero dell’economia e delle
finanze e agisce con piena responsabilità gestionale ed operativa. I rapporti
tra il Ministero e l’Agenzia sono regolati dalla Convenzione triennale in cui
sono indicati i servizi da assicurare, gli obiettivi da raggiungere e le risorse
destinate a queste finalità.
Attualmente l’Agenzia è strutturata su tre livelli (figura 4): centrale, regionale e periferico. A livello centrale sono presenti sette direzioni centrali
e un ufficio di staff:
• quattro direzioni centrali svolgono attività di missione: la Direzione
centrale “accertamento” coordina l’azione di controllo fiscale e ne
definisce strategie e metodologie; la Direzione centrale “affari legali
e contenzioso” cura le funzioni di programmazione, indirizzo e coordinamento della gestione del contenzioso tributario e degli affari
legali; la Direzione centrale “normativa” cura l’interpretazione delle
disposizioni legislative sui tributi di competenza dell’Agenzia, il coordinamento dell’attività svolta dalle direzioni regionali in materia di
interpello, e supporta gli organi competenti per la predisposizione
delle norme tributarie; la Direzione centrale “servizi ai contribuenti”
cura tutti gli aspetti legati al rapporto con i contribuenti;
• tre direzioni centrali con compiti di supporto: la Direzione centrale
“amministrazione, pianificazione e controllo” cura la pianificazione
strategica, la programmazione e il controllo di gestione, la contabilità e il bilancio dell’Agenzia, gli approvvigionamenti e la logistica,
i rapporti con gli enti esterni, lo sviluppo tecnologico e la gestione
dei contratti informatici; la Direzione centrale “audit e sicurezza”
cura la protezione dai rischi gestionali, vigila sull’attuazione delle
misure di prevenzione dei rischi e provvede a controlli di regolarità
amministrativa e contabile; la Direzione centrale del “personale” cura
la gestione amministrativa e lo sviluppo professionale del personale,
l’organizzazione del lavoro e le relazioni sindacali;
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La politica di knowledge management nell’Agenzia delle entrate
• un ufficio in staff al Direttore dell’Agenzia: il Settore comunicazione
cura i rapporti con gli organi di informazione e gli altri interlocutori
istituzionali e si occupa della comunicazione istituzionale mediante
strumenti telematici.
Il livello intermedio è costituito da diciannove direzioni regionali e da due
direzioni provinciali (Bolzano e Trento). Le direzioni regionali esercitano funzioni
di programmazione, indirizzo, coordinamento e controllo nei confronti delle
strutture periferiche; svolgono, inoltre, attività operative di particolare rilevanza
in materia di accertamento, contenzioso, gestione dei tributi, e riscossione.
Figura 4 – La struttura dell’Agenzia delle entrate (2011)
Indirizzo e coordinamento
Direttore
Settore
Comunicazione
Direzione Centrale
Amministrazione
Pianificazione
e Controllo
Indirizzo e coordinamento
a livello regionale
Direzione Centrale
Accertamento
Direzione Centrale
Servizi
ai contribuenti
Direzione Centrale
Audit e sicurezza
Direzione Centrale
Normativa
Direzione Centrale
Affari Legali
e Contenzioso
Direzione Centrale
del Personale
Direzioni Regionali
Direzioni Provinciali
Centro operativi
Centri assistenza multicanale
Attività operativa
19 Direzioni regionali, 108 Direzioni provinciali, 2 Centri operativi, 7 Centri assistenza multicanale
Fonte: www.agenziaentrate.gov.it
Dalle direzioni regionali dipendono le direzioni provinciali; (1) ciascuna
direzione è strutturata in un ufficio legale, che cura le attività operative di
1 Nel biennio 2009-2010 è stata attuata la riforma organizzativa delle strutture periferiche,
con l’istituzione delle direzioni provinciali in sostituzione degli uffici locali.
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La politica di knowledge management nell’Agenzia delle entrate
contenzioso tributario, in un ufficio controlli, che svolge le attività operative di
accertamento, e in uno o più uffici territoriali ai quali sono affidate le attività
per l’informazione e assistenza ai contribuenti e la gestione dei tributi. La
Direzione regionale della Valle d’Aosta e le direzioni provinciali di Bolzano e
Trento, oltre a svolgere le funzioni regionali, si occupano anche delle attività
operative tipiche delle direzioni provinciali. Sono strutture periferiche anche
i centri di assistenza multicanale, che erogano servizi ai contribuenti via telefono, attraverso il sistema di posta elettronica e gli sms, e i centri operativi
che curano, a livello nazionale, attività specialistiche che risulta conveniente
accentrare in un’unica struttura (per esempio l’erogazione dei rimborsi).
3.2. La funzione della comunicazione interna
Gli obiettivi della funzione della comunicazione interna dell’Agenzia sono
principalmente rafforzare l’identità e il senso di appartenenza del personale
e supportare la diffusione delle politiche organizzative e della conoscenza.
Tale funzione è curata dall’Ufficio Comunicazione interna e formazione
della Direzione centrale del personale, dagli uffici deputati a tale attività in
ciascuna Direzione regionale e da particolari figure presenti nelle direzioni
provinciali. L’Ufficio Comunicazione interna e formazione ha il compito di
definirne le strategie nazionali, di introdurre sistemi di condivisione delle
conoscenze, di gestire il sito intranet, di promuovere l’utilizzo di strumenti
tecnologici e verificare l’efficacia dei piani di comunicazione regionali. La
pianificazione delle attività avviene mediante il Piano di comunicazione
annuale costruito sulla base degli obiettivi strategici stabiliti dai vertici
dell’Agenzia. Nel Piano, dopo aver analizzato il contesto e individuato i
target, sono descritti le azioni e gli strumenti che saranno adottati nell’anno,
i tempi e le modalità di valutazione dei risultati conseguiti.
Gli uffici regionali definiscono e attuano il piano di comunicazione interna
nel proprio ambito territoriale, redigendo anche un Piano di comunicazione
regionale, in coerenza con le strategie stabilite a livello centrale.
Invernizzi (2000, pp. 202-209) ha delineato cinque proposizioni operative
che, se applicate integralmente, consentono di affermare che la comunicazione
organizzativa è operante nell’organizzazione. Per attuarla è necessario:
“1.riferire tutte le iniziative di comunicazione a valori guida aziendali
che siano specifici, eticamente fondati ed esplicitati con modalità tali
che tutti li possano conoscere;
2. realizzare un’elevata coerenza e possibilmente sinergie tra tutti gli
atti comunicazionali rivolti all’interno e all’esterno e tra questi e gli
atti gestionali;
3.supportare i processi di innovazione organizzativa e di sviluppo
gestionale con i piani di comunicazione adeguati a farli conoscere
e condividere da tutti;
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La politica di knowledge management nell’Agenzia delle entrate
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4. diffondere le competenze di comunicazione interpersonale tra tutti,
dai top manager agli operatori, e sviluppare la formazione e la
consulenza sui temi della comunicazione;
5. realizzare il presidio strategico della comunicazione da parte del top
management e quello operativo da parte di strutture tra loro integrate
e impiegare tecniche manageriali adeguate per gestire i programmi
di comunicazione”.
Nel contesto Agenzia sono applicate le prime tre proposizioni: il portale
intranet PAGE (Portale AGenzia Entrate) e la rivista Pagine On Line, accessibili da tutto il personale, consentono la condivisione dei principi guida, la
diffusione capillare dell’immagine aziendale e il consolidamento del senso
di appartenenza. Per rafforzare la strategia di comunicazione sarebbe
opportuno anche rafforzare la sinergia e il coordinamento tra le attività di
comunicazione interna e esterna, ad oggi funzioni gestite da strutture distinte
(Ufficio Comunicazione interna e formazione della Direzione centrale del
personale e Settore comunicazione in staff al Direttore dell’Agenzia).
La quarta proposizione è applicata parzialmente: la diffusione delle
competenze di comunicazione interpersonale è stata concentrata su alcune
figure di riferimento presenti nelle strutture centrali, regionali e periferiche.
Sono stati assunti, nel 2005, circa 40 funzionari per lo svolgimento delle
attività di comunicazione ed è stata creata la figura del referente della
comunicazione interna, presente in ogni ufficio locale, (2) con compiti di
sostegno alla comunicazione sia della dirigenza sia dei colleghi. Nonostante
le iniziative formative specifiche, non si è riusciti a ottenere il riconoscimento
del ruolo del referente all’interno della organizzazione e a costruire una rete
coordinata ed efficiente. La rete ha fornito un valido supporto quando nei
progetti aziendali il ruolo del referente della comunicazione era coerente
con le sue competenze specifiche; il più delle volte però i referenti sono
stati impegnati come supporto alle iniziative avviate da funzioni aziendali
diverse dalla comunicazione interna come, ad esempio, le attività collegate
all’accoglienza dei nuovi assunti. Nel nuovo modello organizzativo delle
strutture periferiche è presente il coordinatore dell’area di staff del direttore
provinciale; ha il compito di supportare il direttore nelle attività di gestione
delle risorse umane, tra cui promuovere la comunicazione interna. Rispetto al referente presente negli uffici locali, ha una visione integrata della
gestione del personale della struttura periferica e lavora a diretto contatto
con il direttore provinciale; ciò dovrebbe determinare il rafforzamento del
ruolo della comunicazione interna all’interno della direzione provinciale.
2 L’ufficio locale ha rappresentato la struttura periferica dell’Agenzia delle entrate fino al 2010,
quando si è completata la riorganizzazione a livello provinciale. Ciascun ufficio svolgeva le
attività della attuale direzione provinciale (prevenzione e contrasto all’evasione e assistenza
e informazione ai contribuenti) ma in un ambito territoriale molto più ristretto.
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La politica di knowledge management nell’Agenzia delle entrate
Per la quinta proposizione l’Agenzia realizza il presidio strategico della
comunicazione puntando sul portale come principale strumento della sua politica
di knowledge management. Esso è stato avviato nel 2000, quando ancora
l’Agenzia era un dipartimento del Ministero dell’economia e delle finanze. Il
progetto si proponeva l’obiettivo di semplificare la ricerca delle informazioni
per il personale e mettere in comune le esperienze dei singoli uffici attraverso
la raccolta, l’archiviazione della documentazione e delle modalità di lavoro.
Oggi il sito intranet PAGE è un sistema web più articolato: si compone di
un sito nazionale, di ventuno siti regionali, di siti provinciali, tutti integrati in
unico “contenitore”. La loro realizzazione tiene conto delle regole stabilite a
livello centrale per garantire un unico standard grafico ed un sistema di pubblicazione e gestione della documentazione comune. Il partner tecnico per la
gestione software e hardware del sistema è Sogei, la società di information
e communication technology del Ministero dell’economia e delle finanze.
Il portale dell’Agenzia:
• 2000: avvio del progetto del sito internet;
• 2001: nasce il sito internet nazionale;
• 2002: vengono definite le linee guida per lo sviluppo dei siti internet regionali;
• 2003: è avviata la formazione destinata ai webmaster regionali;
• 2003: sono attivati tutti i siti intranet regionali;
• 2004: sono pubblicati i primi cento siti intranet degli uffici locali;
• 2005: viene introdotto il nuovo portale PAGE;
• 2006: è costituito il comitato per la redazione del portale intranet PAGE;
• 2010: è attivato il nuovo portale.
Il sito offre diverse funzionalità:
•publishing, permette la pubblicazione, la personalizzazione e la
visualizzazione dei contenuti web verso i dipendenti;
• document management, per l’archiviazione, l’indicizzazione e la
ricerca di documenti interni che contengono la conoscenza esplicita;
•community, per la socializzazione che avviene mediante forum moderati suddivisi per temi tecnici;
• self service, attraverso l’utilizzo di servizi interattivi per le attività, per
esempio, di gestione delle presenze e assenze del dipendente.
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La politica di knowledge management nell’Agenzia delle entrate
Saggi
Figura 5 – L’attuale pagina intranet dell’Agenzia delle entrate
Fonte: Agenzia delle entrate
È strutturato secondo un approccio per processi: oltre alla home page,
dove sono pubblicate le notizie in primo piano e le novità del sito, presenta
le seguenti sezioni:
•Agenzia: in cui sono contenute notizie, documenti e informazioni relative
all’attività dell’ente. Questa sezione ha l’obiettivo di far conoscere al
personale le iniziative e gli eventi che interessano l’intera Agenzia.
•Personale: in cui sono contenute le norme, i contratti, le circolari, le
informazioni relative alla valutazione, alla formazione e allo sviluppo
del personale e i link alle procedure per la gestione amministrativa,
come il self service presenze-assenze e il curriculum online.
• Gestione uffici: in cui è possibile reperire la documentazione ed accedere alle applicazioni relative alle attività di supporto governate dalle
direzioni centrali dell’Amministrazione, pianificazione e controllo e
dell’Audit e sicurezza.
• Assistenza, controllo, contenzioso: in queste tre sezioni è contenuta
la conoscenza esplicita relativa alle attività di core business dell’Agenzia. Inoltre sono presenti i link alle diverse applicazioni in uso ai
dipendenti per le attività di assistenza al contribuente, di controllo e
contrasto all’evasione e di gestione del contenzioso.
• Aree regionali: da questa sezione è possibile accedere ai diversi
siti intranet regionali, organizzati anch’essi secondo la logica dei
processi di supporto e operativi.
All’interno dell’Ufficio Comunicazione interna e formazione è stato
costituito un gruppo di lavoro, la redazione intranet, che ha il compito di
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La politica di knowledge management nell’Agenzia delle entrate
garantire il rispetto delle regole redazionali per la pubblicazione di tutti i
documenti, di gestire il sito intranet e curare i rapporti con il fornitore dei
servizi hardware e software. Gruppi redazionali sono presenti a livello
regionale per la gestione delle aree regionali del portale.
4. Una possibile evoluzione del portale aziendale
Un portale evoluto dovrebbe comporsi di quattro sezioni, ognuna delle quali
ha un determinato contenuto e livello di governance, come individuato da
Mark Morrell (3) (2009):
1.ufficiale, destinata a tutto il personale e prodotta da una redazione.
In questa sezione le informazioni pubblicate sono gestite secondo
una serie di regole stabilite dall’organizzazione;
2. di team, dove i gruppi di lavoro, più o meno chiusi, condividono le
modalità operative di lavoro. L’accesso a questa sezione è riservato
a coloro che fanno parte della comunità di riferimento; è presente
un editor con il compito di mettere in comune il materiale;
3.crowd, una sezione aperta in cui chi intende pubblicare non ha bisogno di chiedere l’autorizzazione, ma deve seguire le linee guida
stabilite per la pubblicazione;
4.personale, in cui il dipendente ha la possibilità di creare un blog
personale. Ciascun collega può valutare la bontà del materiale e
delle indicazioni pubblicate dal blogger.
Ad oggi il portale dell’Agenzia si compone delle prime due sezioni. Le
informazioni ufficiali riguardano, come già descritto nel paragrafo precedente,
l’organizzazione dell’Agenzia, la gestione del personale, le attività di core
business e le attività di supporto e i collegamenti ipertestuali alle procedure
informatizzate in uso ai diversi uffici centrali, regionali e periferici. Questa
sezione ha l’obiettivo di informare il personale sulle iniziative strategiche
dell’organizzazione, di creare il senso di appartenenza e diffondere le modalità di lavoro attraverso la pubblicazione di circolari, manuali e note operative.
La sezione di team è rappresentata dai forum tematici, moderati, in cui
il personale, appartenente alla comunità professionale, propone domande
e possibili soluzioni. Visto che i temi affrontati dall’Agenzia riguardano, in
particolare, la gestione del rapporto con il contribuente e l’applicazione
di normative tributarie, il moderatore ha il compito di verificare che le
soluzioni proposte siano compatibili con le regole stabilite nelle circolari
e nelle note operative; se le soluzioni sono innovative, il moderatore le
segnala ai responsabili delle strutture centrali che governano il processo
su cui impatta la proposta per diffonderla al resto dell’organizzazione e
diventare un sapere comune.
3 Intranet manager di British Telecommunications plc.
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La politica di knowledge management nell’Agenzia delle entrate
Saggi
Nel corso degli ultimi anni, grazie anche all’integrazione dei siti regionali, il portale PAGE ha visto crescere in maniera esponenziale i suoi
contenuti: attualmente sono pubblicati al suo interno più di 70.000 documenti tra pagine web e documenti allegati, con un tasso di crescita annuo
di circa il 20%.
La prospettiva futura, considerato l’aumento delle informazioni disponibili
online, è una rivisitazione del portale nazionale, dal punto di vista dell’organizzazione dei contenuti, con l’obiettivo di fornire a ciascun dipendente un
ambiente informativo più vicino alle sue esigenze in funzione dei processi
lavorativi ai quali egli è assegnato. Il modello a cui tendere è quello di
potenziare i servizi di personalizzazione del portale.
Nel 2008 l’Ufficio Comunicazione interna e formazione ha avviato
un’analisi degli strumenti del Web 2.0 (forum, blog e wiki), che consentono la partecipazione attiva del personale alla creazione e alla diffusione
della conoscenza, al fine di valutare la possibilità di integrarli nel portale
aziendale. Nello stesso anno è stato sperimentato l’utilizzo del blog per la
condivisione di case study oggetto del percorso formativo nell’ambito del
tirocinio teorico-pratico per le nuove assunzioni.
L’evoluzione della piattaforma verso il Web 2.0 sconta però, oltre ai
vincoli organizzativi e culturali tipici di una pubblica amministrazione,
anche limiti di carattere tecnologico quali, per esempio, l’integrazione con
le applicazioni aziendali e con i sistemi di notifica della posta elettronica e
la flessibilità nella profilazione degli utenti. Con l’assunzione, dal 2004, di
circa diecimila giovani funzionari (un terzo dei dipendenti dell’Agenzia),
maggiormente predisposti e preparati culturalmente ai linguaggi informatici
e all’utilizzo di nuove tecnologie, l’Agenzia potrebbe introdurre nei prossimi
anni un “social network aziendale” in cui il singolo dipendente partecipa
attivamente alla diffusione della conoscenza, pubblicando sulla propria
pagina web personale, per esempio, materiale inerente l’attività lavorativa
o link ad altre pagine web d’interesse professionale.
In definitiva, il portale PAGE è uno strumento che permette all’Agenzia
di raggiungere in maniera capillare tutto il personale per diffondere le
informazioni, gran parte delle volte, in una logica top-down. La struttura
del portale non rende sempre agevole la diffusione di buone pratiche che
vengono realizzate da una struttura periferica, non avendo aree dedicate.
Un esempio può far comprendere questa difficoltà: la Direzione provinciale
“A” mette in pratica una nuova modalità di lavoro per una determinata attività, rispettando le indicazioni provenienti dalle strutture regionali o centrali
di coordinamento, e la pubblica sulla propria intranet provinciale; questa
potrebbe rimanere confinata nell’ambito provinciale, senza che vi sia una
pubblicizzazione a livello nazionale. La condivisione è anche rallentata a
causa dell’iter complesso di validazione delle pratiche locali da parte delle
strutture centrali.
Inoltre limiti tecnologici e talvolta scelte dell’organizzazione che, in
alcuni momenti, ritiene l’approccio top-down un elemento necessario per
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La politica di knowledge management nell’Agenzia delle entrate
il coordinamento di una organizzazione così ampia (33.000 persone) e
diffusa sul territorio e caratterizzata da attività delicate e complesse, non
consentono di realizzare anche un approccio bottom up per diffondere
conoscenza mediante la intranet. Questo rallenta l’avvicinamento tra le
strutture centrali e periferiche.
Bibliografia
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Azienda Pubblica 4.2012
Fonti di approfondimento
Spoglio riviste
Spoglio riviste
Accounting, Auditing
& Accountability Journal
Networks: Using Research to Inform Scholarship and Practice”, 72(5): 638-648.
Dhanani Alpa, Connolly Ciaran (2012),
“Discharging not-for-profit accountability:
UK charities and public discourse”, 25(7):
1140-1169.
Kim Yong Woon, Brown Trevor L. (2012),
“The Importance of Contract Design”,
72(5): 687-696.
Demirag Istemi, Khadaroo Iqbal, Stapleton
Pamela, Stevenson Caral (2012), “The diffusion of risks in public private partnership
contracts”, 25(8), 1317-1339.
Journal of Public Administration
Research and Theory
Grissom Jason A., Nicholson-Crotty Jill
(2012), “Does My Boss’s Gender Matter?
Explaining Job Satisfaction and Employee
Turnover in the Public Sector”, 22(4): 649673.
Lamothe Meeyoung, Lamothe Scott (2012),
“To Trust or Not to Trust? What Matters in
Local Government-Vendor Relationships?”,
22(4): 867-892.
Public Administration Review
Provan Keith G., Lemaire Robin H. (2012),
“Core Concepts and Key Ideas for Understanding Public Sector Organizational
Public Management Review
Young Suzanne, Macinati Manuela S.
(2012), “Health Outsourcing/Backsourcing. Case studies in the Australian and
Italian health sector”, 14(6): 771-794.
Liguori Mariannunziata, Sicili Mariafrancesca,
Steccolini Ileana (2012), “Some Like it
Non-Financial… Politicians’ and managers’ views on the importance of performance information”, 14(7): 903-922.
Financial accountability
and management
Tremblay Marie-Soleil (2012), “Illusions of
Control? The Extension of New Public
Management Through Corporate Governance Regulation”, 28(4): 395-416.
Liguori Mariannunziata (2012), “Radical
Change, Accounting and Public Sector
Reforms: A Comparison of Italian and Canadian Municipalities”, 28(4): 437-463.
503
Azienda Pubblica 4.2012
Fonti di approfondimento
In libreria
In libreria
Sergio Cherubini
Alberto Padula
Management dei
servizi pubblici
Per lo sviluppo
competitivo e
la crescita del
sistema paese
Indice del volume: Parte I. Aspetti generali. 1. Sistema-paese, servizi pubblici e competitività. 2. Verso il miglioramento dei servizi pubblici. Parte II. La domanda e l’offerta di
servizi pubblici. Premessa. Si può parlare di mercato per i
servizi pubblici?. 3. La domanda e la concorrenza nei servizi pubblici. 4. L’offerta di servizi pubblici. Parte III. La
governance. 5. La governance nel settore dei servizi pubblici. Bibliografia. Leggi, direttive, decreti di riferimento.
Milano:
FrancoAngeli, 2012
pp. 300, € 36,00
Arturo Bianco,
Michele Nico, Patrizio
Ruffini, Stefano Usai
La spending
review negli enti
locali
D.L. 95/2012
convertito in
L.135/2012
D.L. 52/2012
convertito in
L.94/2012
Indice del volume: 1. La gestione del personale, Arturo
Bianco. 2. La gestione associata tra Comuni, Arturo Bianco. 3. Il riordino delle Province, Arturo Bianco. 4. Le novità in materia di appalti. Analisi e commento dell’articolo 1
del d.l. 95/2012, convertito con modificazioni nella legge
135/2012, Stefano Usai. 5. Gli impatti della spending review su bilancio, contabilità e patto di stabilità interno, Patrizia Ruffino. 6. L’ente locale e le partecipate, Michele Nico.
Rimini: Maggioli
Editore, 2012
pp. 252 € 46,00
505
Azienda Pubblica 4.2012
Fonti di approfondimento
In libreria
Elena Gori, Stefano
Pozzoli
(a cura di)
Il sistema dei
controlli negli Enti
locali
Attori e modalità
operative
Rimini: Maggioli
Editore, 2012
pp. 278, € 22,00
Annamaria Bonomo
Informazione
e pubbliche
amministrazioni
Dall’accesso ai
documenti alla
disponibilità delle
informazioni
Indice del volume: 1. Il sistema dei controlli, Stefano Pozzoli.
Parte prima: Il sistema dei controlli esterni. 2. Il controllo sulla gestione e le linee guida della Corte dei Conti, Giancarlo Astegiano. Parte seconda: Il sistema dei controlli interni.
Sezione I: I controlli di regolarità. 3. La revisione contabile,
Antonino Borghi. 4. Il controllo di regolarità e il ruolo del
responsabile dei servizi finanziari, Francesco Bruno. Sezione
II: Il ciclo di strategia e controllo. 5. Il controllo strategico,
Chiara Leardini. 6. Il controllo di gestione: il Piano esecutivo
di gestione e il Piano dettagliato degli obiettivi, Silvia Fissi.
7. Valutazione delle performance negli Enti locali: strumenti
contabili e soggetti coinvolti, Maria Teresa Nardo. 8. La valutazione di performance individuale della dirigenza pubblica
dopo il decreto legislativo 150/2009, Pietro Bevilacqua. 9.
La contabilità analitica, Iacopo Nardini. 10. La balanced score card come strumento di direzione, Federica Farneti. 11. Il
controllo sulle società partecipate, Alberto Romolini. 12. Il bilancio consolidato come strumento di governance, Elena Gori.
Indice del volume: 1. Informazione e potere amministrativo. Parte prima: L’informazione accessibile. 1. La conoscibilità dei dati pubblici attraverso l’accesso individuale.
2. La conoscibilità dei dati pubblici attraverso l’accesso
generalizzo. Parte seconda: L’informazione disponibile.
1. La conoscibilità dei dati pubblici attraverso la loro diffusione. 2. Obblighi di diffusione e strumenti di tutela.
Bari: Cacucci
Editore, 2012
pp. 509, € 45,00
Azienda Pubblica 4.2012
506
Fonti di approfondimento
Domenico Sorace
Diritto delle
amministrazioni
pubbliche
Una introduzione
Bologna: Il Mulino,
2012
pp. 611, € 46,00
In libreria
Indice del volume: Parte prima: Amministrazione pubblica,
politica, diritto. 1. L’amministrazione degli interessi dei cittadini. 2. Il diritto delle amministrazioni pubbliche. Parte seconda: Funzioni e amministrazioni (atti, posizioni giuridiche
soggettive, apparati organizzativi). 3. Amministrazione di regolazione. 4. Amministrazione delle prestazioni. 5. Amministrazione delle funzioni strumentali. 6. Amministrazione delle
funzioni ausiliarie. Parte terza: Nozioni, disciplina e forme
dell’organizzazione. 7. Il potere di organizzare. 8. Forme
e relazioni organizzative. Parte quarta: Nozioni, disciplina
e forme dell’attività. Sezione prima: Caratteri e disciplina
sostanziale. 9. Attività discrezionali e attività vincolate. 10.
Principi e regole dell’attività amministrativa. Sezione seconda: Disciplina procedimentale. 11. Il procedimento amministrativo. 12. Le conclusioni del procedimento. Parte quinta:
Giustizia amministrativa: presupposti e caratteri delle tutele.
13. Invalidità, irregolarità, illiceità: conseguenze e rimedi.
14. Origini, sviluppi e caratteristiche del sistema delle tutele.
507
Azienda Pubblica 4.2012
Note per gli autori
La pubblicazione di contributi su Azienda Pubblica avviene sulla base della seguente procedura:
1.I contributi in lingua italiana o inglese, della lunghezza indicativa di 40.000 battute, devono essere
inviati alla Segreteria in formato word e redatti in coerenza con le norme redazionali. È richiesta l’indicazione di un autore di riferimento, al quale saranno trasmesse tutte le comunicazioni successive.
2. I contributi sono sottoposti al vaglio del Comitato di redazione che, accertatane la conformità con lo
scopo della rivista e i requisiti richiesti, li invia, assieme alla scheda di referaggio, in forma anonima a
due dei referee ufficiali della Rivista e contestualmente richiede l’impegno da parte degli Autori stessi
a non proporre il contributo per altre pubblicazioni per la durata di tutto il processo di valutazione.
3.Le osservazioni dei referee vengono inviate in forma anonima agli Autori con la richiesta di apportare
le revisioni indicate.
4.La nuova stesura, con lettera degli Autori in cui si descrivono puntualmente le modifiche apportate in
risposta a ciascuno dei rilievi dei referee, viene sottoposta agli stessi referee iniziali per un giudizio
definitivo (o eventuale richiesta di ulteriore modifica).
5. Ottenuta la valutazione positiva definitiva da parte dei referee, l’articolo viene accettato per la pubblicazione. Non saranno considerati ed ammessi al referaggio i contributi che non rispettano le seguenti
condizioni:
1) i manoscritti sottoposti ad Azienda Pubblica non devono essere già stati pubblicati o essere stati
presentati per la considerazione presso altre riviste;
2) i manoscritti devono rispettare gli standard di struttura, abstract, note, tabelle, riferimenti bibliografici
precisati di seguito.
Gli autori sono invitati a rispettare le richieste relative alla forma e allo stile per minimizzare ritardi e necessità di revisione. Inoltre, deve essere evitato ogni riferimento che possa consentire un loro riconoscimento
diretto o indiretto e assicurare così un corretto processo di referaggio.
Invio dei contributi
I contributi devono essere presentati alla rivista presso:
Redazione Azienda Pubblica
Istituto di Pubblica Amministrazione e sanità, Università L. Bocconi, IPAS – Via Röntgen, 1 – 20136 Milano
e-mail: [email protected]
La prima pagina deve indicare 1) il titolo del contributo, 2) i nomi degli autori, 3) i loro titoli e le istituzioni
di appartenenza, 4) l’autore che curerà la corrispondenza e il suo indirizzo completo e 5) eventuali ringraziamenti. La seconda pagina deve contenere 1) il titolo (italiano/inglese), 2) l’abstract in italiano, in inglese
e francese (massimo 10 righe), 3) le parole chiave in italiano, inglese e francese (fino ad un massimo di tre)
e 4) il Sommario. Nella terza pagina dopo la ripetizione del titolo, dovrebbe iniziare l’articolo. La struttura
del testo si articola in: Titolo del contributo, Titoli numerati di Paragrafi (es. 1. Introduzione). Non è prevista
un’articolazione in sottoparagrafi (es. 1.1, 1.2, ecc.). Sono invece ammessi “sottotitoli” in corsivo non numerati.
Lunghezza Il contributo si intende di circa 40.000 caratteri (conteggio parole di word) I contributi che si
discostano in maniera significativa da questi standard non saranno ammessi a referaggio.
Formattazione Testo: arial 12 Margini: 3x3x3x3
Abstract Il contributo deve essere corredato da abstract e parole chiave in italiano, inglese e francese (per
l’inserimento in un database di EGPA – European Group of Public Administration).
Azienda Pubblica 4.2012
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Note per gli autori
L’abstract in inglese deve essere redatto in due versioni: una breve (non più di 200 parole) e una più
estesa, utile per l’indicizzazione della rivista sui motori di ricerca internazionali. La versione estesa
deve avere una lunghezza compresa tra le 400 e le 600 parole e una struttura organizzata nelle
seguenti sezioni: title, purpose, methodology, findings, relevance and implications for research and
policy/practice
Note Le note si intendono a pie’ di pagina e devono essere identificate da un numero cardinale. Il numero
delle note e la relativa lunghezza devono essere ridotti al minimo indispensabile in modo da favorire la
snellezza del testo. Si consiglia di non includere nelle note citazioni o riferimenti bibliografici. Se necessarie
si suggerisce di includerle nel testo secondo il sistema autore-data. È responsabilità dell’autore adeguare
l’assetto delle note agli standard della rivista.
Tabelle e figure Figure e tabelle devono essere numerate e avere didascalia, vanno richiamate nel testo e
riportate in file separato. Si ricorda che la rivista è in bianco e nero. Non saranno accettate figure a colori.
Riferimenti bibliografici I riferimenti bibliografici devono limitarsi a quelli espressamente citati nel testo. In
particolare, la rivista utilizza, per le citazioni nel testo, il sistema autore-data. La citazione nel testo prevede
la seguente forma: (Rossi 1997). Per contributi con due autori si usi la forma (Rossi e Bianchi 1997), per
contributi con più di due autori si usi la forma (Rossi et al. 1997). Qualora si citi testualmente un’espressione da un altro autore o da altri autori, il testo deve essere scritto tra virgolette («») e la citazione deve
assumere la seguente forma (Rossi 1997: 347). Per citazioni multiple dello stesso autore e nello stesso
anno, far seguire a, b, c, ecc. all’anno.
Nei riferimenti bibliografici, in coerenza con il sistema autore-data, i riferimenti devono essere riportati a
fine testo nella seguente forma:
Monografie Brunetti G. (1979), Il controllo di gestione in condizioni ambientali perturbate, Milano: Franco
Angeli.
Pubblicazioni con più autori Bruns W.J., Kaplan R.S. (a cura di) (1987), Accounting and Management:
Field Study Perspectives, Boston, MA: Harvard Business School Press.
Saggi in pubblicazioni
Kaplan R.S. (1985), “Accounting lag: the obsolescence of cost accounting systems”, in K. Clark, C. Lorenze
(a cura di), Technology and Productivity: the Uneasy Alliance, Boston, MA: Harvard Business School Press,
pp. 195-226.
Articoli in riviste
Meneguzzo M., Della Piana B. (2002), “Knowledge management e p.a. Conciliare l’inconciliabile?”, Azienda
Pubblica, 21(3)*, pp. 489-512.
Rapporti/Atti OECD (1999), Principle of corporate Governance, Paris: OECD.
Atti Non pubblicati
Zito A. (1994), “Epistemic communities in European policy-making”, Ph.D. dissertation, Department of
Political Science, University of Pittsburgh.
Stile e forma Si richiede uno stile lineare e scorrevole e il testo inviato deve essere già stato sottoposto al
controllo ortografico. È raccomandato l’utilizzo della forma impersonale.
* Laddove 21 indica il Volume e (3) il Numero.
509
Azienda Pubblica 4.2012
Comitato scientifico
Amatucci, Fabio
Bergamin, Maria
Bianchi, Carmine
Buccellato, Armando
Cafferata, Roberto
Cavenago, Dario
Costa, Giovanni
D’Amore, Mariano
Del Vecchio, Mario
Donato, Fabio
Elefanti, Marco
Fattore, Giovanni
Fiorentini, Giorgio
Francesconi, Andrea
Gandini, Giuseppina
Garlatti, Andrea
Giovanelli, Lucia
Giusepponi, Katia
Grossi, Giuseppe
Lega, Federico
Longo, Francesco
Maggi, Davide
Manfredi, Francesco
Marcon, Giuseppe
Marinò, Ludovico
Matacena, Antonio
Mazzoleni, Mario
Miolo Vitali, Paola
Orlandini, Paola
Panozzo, Fabrizio
Persiani, Niccolò
Pezzani, Fabrizio
Pozzoli, Stefano
Propersi, Adriano
Rebora, Gianfranco
Riccaboni, Angelo
Ricci, Paolo
Rondo Brovetto, Paolo
Ruffini, Renato
Sargiacomo, Massimo
Sibilio, Barbara
Storlazzi, Alessandra
Torcivia, Sebastiano
Vagnoni, Emidia
Valotti, Giovanni
Zambon, Stefano
Zuccardi, Mara
Zuffada, Elena