IntroduzIone. una dIscontInuItà storIca

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IntroduzIone.
una dIscontInuItà storIca
L’8 novembre 2012, in occasione del XVIII congresso nazionale del Partito Comunista Cinese (PCC), veniva presentato in forma ufficiale un
nuovo obiettivo per l’ascesa della Cina: «costruire una potenza marittima» ( jianshe haiyang qiangguo, 建设海洋强国) 1. A indicare questo orizzonte era il più importante documento politico presentato a congresso: il rapporto letto dal segretario generale uscente Hu Jintao per conto
del comitato centrale del partito. Il concetto di «potenza marittima» vi
veniva declinato in chiave prevalentemente economica, con riferimento
particolare all’espansione dell’economia marittima della Cina – sfruttamento delle risorse naturali contenute nei mari, potenziamento degli
strumenti di tutela degli interessi marittimi, maggiore attenzione alla
protezione dell’ambiente marino. A questa dimensione si affiancava
tuttavia anche una componente più strettamente militare: proprio negli
oceani veniva infatti individuato uno dei tre teatri cruciali per la futura sicurezza del paese, assieme allo spazio extra-atmosferico e alle reti
informatiche (Hu Jintao 2012).
In effetti, da alcuni anni la cronaca della politica internazionale
ci ha abituati a una Cina che guarda con crescente interesse ai mari. I
media internazionali restituiscono l’immagine di un paese sempre più
fiducioso nelle proprie capacità – anche militari – e impaziente di proiettare il proprio potere navale sui mari dell’Asia Orientale e oltre. È
diffusa la percezione che la Cina sia diventata più intransigente nel riaf-
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fermare le proprie rivendicazioni su arcipelaghi e spazi marittimi contesi nel Mar Cinese Orientale e Meridionale (Swaine e Fravel 2011). Ne
sarebbe una manifestazione la linea che la Cina ha tenuto negli ultimi
anni sulle Isole Senkaku (o Diaoyu, secondo la denominazione cinese),
arcipelago del Mar Cinese Orientale controllato dal Giappone ma rivendicato da Pechino. Nel settembre del 2012, in particolare, la Cina reagì
con notevole fermezza alla decisione del governo giapponese di nazionalizzare alcune delle isole: alle vibrate proteste diplomatiche, Pechino affiancò da subito l’invio di navi delle proprie agenzie di amministrazione marittima nelle acque contese. Ne scaturivano pericolosi
momenti di stallo, con un logorante confronto tra navi delle amministrazioni marittime dei due paesi e – in alcuni casi – il coinvolgimento
di navi e aerei delle rispettive forze armate (International Crisis Group
2013). Dinamiche simili si sono riproposte periodicamente anche
nel Mar Cinese Meridionale, come testimoniato dalle gravi tensioni
tra Cina e Filippine nella primavera del 2012 attorno a Scarborough
Shoal (Huangyan Dao). In generale, quel che si è osservato è quindi
un sistematico rafforzamento della presenza navale della Cina nell’intera sfera marittima dell’Asia Orientale – non solo attraverso i pattugliamenti delle agenzie di amministrazione marittima, ma anche attraverso
esercitazioni di unità della Marina dell’Esercito Popolare di Liberazione (EPL).
Questa crescente attenzione della Cina per i mari non è però limitata alle sole acque dell’Asia Orientale, né assume solamente i tratti di
una maggiore intransigenza in un contesto di montante conflittualità.
Al contrario, va evidenziato che la Cina si è del pari impegnata in meccanismi di cooperazione internazionale per la sicurezza marittima. Da
inizio 2009 la Marina dell’EPL partecipa alle operazioni internazionali per il contrasto della pirateria nel Golfo di Aden. Navi militari cinesi
scortano imbarcazioni civili in transito nella regione, contribuendo alla
sicurezza di vie di comunicazione che sono cruciali per i commerci tra
Europa, Medio Oriente e Asia. Per la Marina dell’EPL questa missione non rappresenta soltanto il primo dispiegamento al di fuori dell’A-
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sia Orientale con compiti operativi, ma anche l’occasione per sperimentare nuove forme di coordinamento con le marine militari delle altre
maggiori potenze: nella regione sono infatti operative unità navali della
NATO, dell’Unione Europea e di singoli stati, tra cui l’India, il Giappone, la Corea del Sud e la Russia.
Accanto alla scala crescente delle operazioni, un segnale importante è dato dai progressi compiuti dalla Cina nel settore della modernizzazione navale. Non è un caso che – all’interno del più ampio processo di modernizzazione che riguarda l’intero EPL – proprio i programmi
destinati alla Marina abbiano attratto maggiormente l’attenzione degli
osservatori internazionali. Caso emblematico è quello della prima portaerei cinese: la nave Liaoning, consegnata ufficialmente alla Marina
dell’EPL a settembre 2012. Con essa la Cina ha potuto finalmente accedere – ultima tra i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite – all’esclusivo club delle potenze dotate di portaerei. Benché non ancora operativa, la Liaoning è così diventata – a
torto o a ragione – il simbolo di una nuova Cina, sempre più proiettata sui mari globali.
A un’analisi più attenta, tuttavia, questo crescente interesse per i
mari è significativo non solo perché ben percepibile nella quotidianità della politica internazionale: lo è ancor di più perché rappresenta in
effetti un elemento di discontinuità storica. Per secoli, infatti, la politica di sicurezza della Cina è stata caratterizzata non già dalla proiezione militare sui mari, bensì da un prevalente continentalismo. Se da un
lato la marina mercantile cinese dominava i mari dell’Asia Orientale,
animando una fitta rete di interazioni commerciali tra la Cina e gli altri
stati della regione (Kang 2010, pp. 110-121), dall’altro la marina militare deteneva un ruolo secondario nella politica di sicurezza del paese,
che rimaneva orientata principalmente verso le periferie continentali –
localizzate alle frontiere settentrionali, occidentali e sud-occidentali. È
questo l’orientamento prevalso quanto meno dalla fine del XVII secolo,
quando la dinastia Qing consolidò il proprio potere sconfiggendo gli
ultimi sostenitori della precedente dinastia Ming che si erano ritirati a
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Taiwan. Compiuta la riunificazione dell’isola al continente, i mari persero di rilevanza militare diretta per il governo Qing, che si volse allora
al consolidamento del proprio controllo sulle periferie continentali del
paese (Spence 2002; Elman 2004).
Da allora questo impianto continentale della politica di sicurezza si
mantenne largamente inalterato. Non venne sostanzialmente modificato neppure in seguito alla sconfitta subita dalla Cina per mano dell’Inghilterra nella prima guerra dell’oppio (1839-1842). Benché l’aggressione fosse stata allora portata proprio dai mari, si dovette attendere
un’ulteriore, grave sconfitta imposta dalle potenze occidentali – nella
seconda guerra dell’oppio (1856-1860) – perché il governo Qing adottasse infine un programma di modernizzazione navale. Così, negli ultimi decenni del XIX secolo, la Cina tentò tra mille contraddizioni di
costruire una moderna Marina, dotata di navi all’avanguardia acquisite
all’estero o costruite nei nuovi cantieri navali del paese. Ma alla prova
dei fatti questi sforzi si rivelarono tardivi: la Marina cinese venne sconfitta dapprima nel 1884-1885 dalla Francia e poi di nuovo dieci anni
dopo dal Giappone, che riuscì agevolmente ad annientare la maggiore delle flotte cinesi – quella Flotta del Mare Settentrionale (beiyang
shuishi, 北洋水师) in cui avevano riposto le proprie aspettative i fautori della modernizzazione navale (Liu e Smith 1980; Elman 2004; Elleman 2009).
Con il crollo della dinastia Qing nel 1911-1912, la Cina si avviò verso
una lunga fase di frammentazione politica. Quando l’autorità centrale
venne infine ristabilita con la proclamazione della Repubblica Popolare Cinese (RPC) nel 1949, il nuovo governo si affidò – ancora una volta
– a una politica continentalista. Pur se ideologicamente lontana dalla
Cina Qing, la dirigenza della «nuova Cina» – e Mao in testa – manteneva su questo terreno non pochi elementi di continuità con i suoi
predecessori. Così, la priorità venne nuovamente identificata nel consolidamento del controllo sulle periferie continentali: Tibet, Xinjiang,
Manciuria e Mongolia Interna. Quest’ordine di priorità contribuisce
per altro a spiegare la determinazione con la quale Pechino perseguì
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allora l’obiettivo di un trattato con l’Unione Sovietica, che garantisse il
riconoscimento della sovranità cinese su queste regioni – obiettivo infine raggiunto con la firma del Trattato sino-sovietico di amicizia, alleanza e mutua assistenza nel febbraio 1950 (Nakajima 1987). All’attenzione
rivolta alle periferie eurasiatiche corrispondeva una sostanziale disattenzione per i mari dell’Asia Orientale. La neonata Marina dell’EPL venne
così incaricata di limitarsi a difendere il perimetro costiero della Cina,
secondo una dottrina navale che estendeva in mare – entro una fascia
di poche miglia dalla costa – principi e concetti dottrinali elaborati per
operazioni di terra.
Il continentalismo della Cina maoista raggiunse l’apice nella fase
della cosiddetta politica del «Terzo Fronte» (da san xian, 大三线), tra
il 1962 e il 1974. Nella convinzione che una terza guerra mondiale
fosse ormai imminente, il governo cinese ritenne essenziale creare una
base industriale autosufficiente nelle regioni più isolate del paese, dalle
quali poter guidare la resistenza armata in caso di occupazione straniera. Venne pertanto attuato un imponente piano per il trasferimento di
interi impianti produttivi dalle regioni costiere a un terzo fronte di resistenza finale, nelle province occidentali e sud-occidentali del Ningxia,
Gansu, Guizhou, Sichuan e Yunnan (Naughton 1988). Per più di un
decennio, la Cina si preparò così a sostenere un imponente sforzo bellico da queste estreme roccaforti, non diversamente da quanto aveva
già fatto durante la seconda guerra mondiale, con il governo nazionalista asserragliato a Chongqing (Collotti Pischel 1982, pp. 359-361). Una
volta di più, il continentalismo tornava ad accomunare nuovi e vecchi
governanti, al di là delle pur evidenti diversità ideologiche.
Rispetto a questa tradizione, l’interesse che la Cina manifesta oggi
per i mari rappresenta un elemento di notevole discontinuità storica. Né
l’intransigenza nel difendere i propri interessi marittimi in Asia Orientale, né tanto meno la proiezione navale al di là dei confini della regione paiono infatti corrispondere all’impianto spaziale di lungo periodo
della politica di sicurezza del paese. Questa evidente, marcata discontinuità solleva alcuni quesiti.
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Innanzitutto ci si deve chiedere che cosa esattamente sia cambiato
nella politica di sicurezza della Cina. In questo senso, un primo quesito riguarda dunque il rapporto stesso tra continuità e cambiamento. A
quale livello della politica di sicurezza del paese si colloca la discontinuità? Qual è il tessuto delle continuità di più lungo periodo entro cui
essa si inserisce? La tesi sostenuta nelle pagine che seguono è che il cambiamento si collochi in effetti al livello della dottrina militare. Nelle
Relazioni Internazionali e negli Studi Strategici si intende con questo
termine quel sistema di credenze che regola l’impiego dei mezzi militari per il perseguimento di obiettivi politici. In quanto tale, la dottrina decide anche dei teatri spaziali entro cui lo strumento militare viene
impiegato, nonché del rapporto tra di essi. Come si vedrà, è appunto
questo il livello a cui è intervenuto il cambiamento – che potrà quindi essere meglio qualificato come un riequilibrio marittimo della dottrina militare.
Una seconda domanda che ci si deve porre è quando (e come) questo cambiamento si sia verificato. Il riequilibrio marittimo risale ad
anni recenti, oppure è la manifestazione visibile di una trasformazione avvenuta in precedenza? E, ancora, il cambiamento è intervenuto in
forma di evoluzione incrementale, o ha invece assunto i connotati di
una trasformazione rivoluzionaria? Si evidenzierà in questa sede – più
di quanto si sia generalmente fatto in letteratura – come le origini del
riequilibrio marittimo risalgano in realtà alla metà degli anni Ottanta
e si inseriscano nel quadro delle profonde trasformazioni intervenute
allora tanto nelle dinamiche di politica interna della Cina quanto nella
sua politica estera. Fu in quegli anni che, per la prima volta, la dottrina militare individuò negli spazi marittimi dell’Asia Orientale un teatro cruciale per le forze armate cinesi: il processo di riequilibrio marittimo si sarebbe quindi protratto per i tre decenni successivi, alimentato
da consecutive revisioni della dottrina militare.
Infine, un terzo e fondamentale quesito è quali siano le ragioni di
questa discontinuità. Che cosa ha innescato a metà anni Ottanta il riequilibrio marittimo della dottrina? Che cosa ne ha trainato da allora
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il procedere incrementale? Si possono avanzare al riguardo due diverse interpretazioni: l’una incentrata sugli interessi regionali del paese
– dall’irrisolta questione di Taiwan alle controversie marittime con i
vicini – e l’altra incentrata sulle sue crescenti ambizioni globali. Solo
un’appropriata combinazione di queste due prospettive consente però
di spiegare il riequilibrio marittimo nelle sue diverse fasi. Avviato infatti trent’anni fa sulla spinta di interessi regionali, il cambiamento dottrinale è stato dirottato in tempi recenti dai nuovi interessi globali del
paese: a una logica di proiezione navale in acque esclusivamente regionali si è così sovrapposta in seguito una logica di proiezione (selettiva)
verso i mari globali.
A ben vedere, queste tre domande sono collegate al più ampio dibattito sull’ascesa della Cina e sulle sue conseguenze per l’attuale ordine
internazionale. Trovare risposte convincenti può infatti aiutare a meglio
definire il potenziale impatto dell’ascesa militare della Cina sul sistema internazionale a egemonia americana. Si consideri che fondamento della supremazia militare degli Stati Uniti è la capacità di controllare
i cosiddetti spazi comuni – mari, cieli e spazio extra-atmosferico (Posen
2003). Il riequilibrio marittimo della Cina investe dunque un ambito di
singolare importanza per la tenuta di tale supremazia, sollevando una
serie di interrogativi cruciali per il futuro delle relazioni tra l’egemone in carica e la potenza in ascesa. La crescente proiezione marittima
della Cina pone Pechino in rotta di collisione con Washington? Stiamo forse assistendo ai prodromi di una riedizione della sfida tedesca
all’egemonia britannica sui mari a fine Ottocento? È il caso di anticipare sin da ora che le caratteristiche del riequilibrio marittimo cinese suggeriscono in realtà conclusioni meno pessimistiche. Per quanto
il potenziamento delle capacità navali cinesi ponga in effetti una sfida
alla supremazia americana sui mari dell’Asia Orientale, la Cina resta
tuttavia ben lontana dall’acquisizione di capacità di proiezione che le
consentano di sfidare gli Stati Uniti al di là dei confini della regione. Al
contrario, il riequilibrio marittimo crea per altri versi enormi opportunità di cooperazione militare tra Pechino e Washington. La Cina, infat-
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ti, condivide oggi con gli Stati Uniti l’interesse alla sicurezza marittima
lungo le principali rotte internazionali e dispone ormai delle capacità
navali necessarie a dare il proprio contributo in questo settore – come
dimostrato dalla citata missione antipirateria nel Golfo di Aden. In questo senso, quindi, proprio gli spazi marittimi potrebbero divenire il fulcro di nuove forme di cooperazione militare tra Cina e Stati Uniti, con
benefici per la relazione bilaterale nel suo complesso.
Nei capitoli che seguono, le tre domande formulate sopra faranno da
filo conduttore della trattazione. Il Capitolo 1 risponderà alla domanda
del «che cosa», delineando il quadro di continuità e cambiamento entro
cui si inserisce il crescente interesse della Cina per i mari. Muovendo
da una discussione critica della letteratura, la discontinuità verrà collocata al livello della dottrina militare, indicando gli strumenti attraverso cui il riequilibrio marittimo sarà osservato e studiato nel resto del
libro. Il Capitolo 2 sarà quindi dedicato alla domanda del «quando» e
del «come», con un’analisi dei tempi e del ritmo del processo di cambiamento dottrinale. Con il Capitolo 3 si passerà invece alla domanda
finale: il «perché», vale a dire origini e ragioni del riequilibrio marittimo – questione alla quale sarà dedicata la parte restante del libro. Verranno articolate le due diverse interpretazioni cui si è accennato sopra:
l’una incentrata sugli interessi marittimi regionali della Cina, e l’altra
sui suoi crescenti interessi globali. Su queste basi, i Capitoli 4, 5 e 6 ricostruiranno il processo di cambiamento dottrinale lungo i tre decenni
intercorsi dalla metà degli anni Ottanta ai giorni nostri. Le implicazioni saranno infine il tema delle Conclusioni, che allargheranno la visuale al più ampio dibattito sull’ascesa della Cina e sulle sue conseguenze
per l’attuale ordine internazionale. Lungo l’intero percorso si attingerà a un vasto campione di fonti in lingua cinese – documenti ufficiali
del governo, pubblicazioni degli istituti di formazione e ricerca dell’EPL, letteratura accademica e stampa. Questo libro muove infatti da una
convinzione semplice quanto non scontata: che per studiare la politica
estera e di sicurezza della Cina sia necessario combinare l’applicazione
rigorosa di metodi e tecniche della Scienza Politica all’impiego sistema-
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tico delle numerosissime fonti in lingua cinese oggi disponibili. È questa, in ultima istanza, la sola via per cercare risposte attendibili ai tanti
interrogativi che l’ascesa della Cina solleva.
Nota
1. Per la trascrizione fonetica delle parole cinesi si utilizzerà di seguito il pinyin.
Faranno eccezione i nomi propri per i quali tale sistema non è d’uso comune nella
letteratura occidentale: Kuomintang, Lee Teng-hui, Taipei ecc.
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