HABERMAS

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HABERMAS
Habermas indica tra i vari motivi che lo portarono a distinguere il suo pensiero dalla
Teoria Critica della Scuola di Francoforte quello che va sotto il nome di ‘svolta
comunicativa’ secondo cui “il mezzo categoriale per superare la carenza normativa della
Teoria Critica sarebbe (...) un concetto di intesa comunicativa in termini di teoria del
linguaggio” (Honneth, p. 228). L’intuizione che ha cercato di sviluppare nella sua opera
principale e di cui appunto è debitore della teoria del linguaggio “E’ l’intuizione che nella
linguistica è incorporato un telos di intesa reciproca. (...) Fin qui ... va il tentativo di
accertarsi di un concetto di ragione con i mezzi della pragmatica formale, cioè con i mezzi di
un’analisi delle proprietà universali di un agire orientato verso l’intesa. (...) Il passo
successivo deve rendere applicabile a rapporti sociali, a nessi di interazione
istituzionalizzati, il concetto di razionalità comunicativa”. (Habermas, p. 227 Dialettica...).
La ‘svolta linguistica’ comporta un ‘mutamento di paradigma’ vale a dire dal paradigma
della ‘filosofia della coscienza’ o ‘del soggetto’ al paradigma
della ‘filosofia del
linguaggio’ o piuttosto dello ‘agire comunicativo’. L’abbandono della ‘filosofia della
coscienza’ comporta che “i presupposti impliciti della riflessione filosofica, che dall’idea di
un soggetto inteso come coscienza solitaria, passa a quella di un soggetto che è tale in
quanto parte di un contesto intersoggettivo strutturato linguisticamente.” (Privitera, 1983, p.
179). Il superamento della filosofia della coscienza solitaria e riflettente alla comunità di
discorso dei soggetti.
Il pensiero di Habermas può essere presentato come il tentativo di argomentare tra loro tre
intuizioni che riguardano la modalità attraverso la quale tramite il linguaggio gli individui
sono in relazione. Il linguaggio, infatti, veicola la possibilità della comunicazione nel doppio
senso che tramite esso gli individui accomunano sempre di nuovo il loro essere accomunati.
Nella comunicazione il mettere in comune linguistico è lo sviluppo della possibilità
dell’essere già ac-comunati secondo le scansioni fissate dal linguaggio:
1) “nella comunicazione linguistica è incorporato un telos di intesa reciproca”;
2) esiste “un nesso interno fra strutture del mondo vitale e strutture dell’immagine
linguistica del mondo”, tradizione che risale a Humboldt;
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3) la distinzione di Bühler delle tre funzioni dell’uso dei segni: “cognitiva di
rappresentazione di uno stato di fatto, espressiva di comunicazione dell’esperienze di vissute
del parlante e appellativa di esortazione rivolta al destinatario. Da questi punti di vista il
segno linguistico funziona contemporaneamente da simbolo, sintomo e segnale: ‘E’ simbolo
in forza della sua correlazione ad oggetti e stati di fatto, sintomo (segnale, indizio) in forza
della sua dipendenza dal trasmittente di cui esprime l’interiorità e segnale in forza del suo
appello all’uditore di cui guida l’atteggiamento interiore ed esteriore alla stregua di altri
segni di relazione’ “ (Teoria...p.382).
La funzione rappresentativa è solo una delle funzioni cooriginarie del linguaggio. Le
proposizioni che sono usate comunicativamente servono nello stesso tempo ad esprimere le
intenzioni e/o le esperienze di un parlante; a rappresentare gli stati delle cose, o qualcosa che
avviene nel mondo; a contrarre o a inter-agire con un destinatario. “in queste tre funzioni si
rispecchiano i tre aspetti basilari dell’intender-si / su qualcosa / con un altro. Si stabilisce un
triplice rapporto fra il significato di un’espressione linguistica e 1) ciò che si intende dire
con essa; 2) ciò che si dice e 3) il modo della sua utilizzazione nell’atto linguistico.”
L’atto linguistico colloca l’espressione linguistica in tre diversi rapporti: in rapporto con
il parlante, con l’ascoltatore, con il mondo.
Il “cambiamento di paradigma” o la “svolta linguistica della teoria critica della società,
comporta due conseguenze:
1° “l’abbandono della filosofia della coscienza e della filosofia critica della società della
Scuola di Francoforte per la filosofia del linguaggio. All’orizzonte coscienziale della
filosofia moderna Habermas sostituisce il riferimento al linguaggio, quale orizzonte a sua
volta intrascendibile ed universale. Attraverso l’analisi della comunicazione linguistica,
Habermas, introduce il paradigma della razionalità comunicativa [«Il concetto di razionalità
comunicativa va analizzato sul filo conduttore della comprensione linguistica. Il concetto di
comprensione rinvia a un’intesa razionalmente motivata raggiunta fra i partecipanti che si
commisura a pretese di validità criticabili. Queste ultime (verità preposizionale, giustezza
normativa e veridicità soggettiva) contraddistinguono diverse categorie di un sapere che è
materializzato simbolicamente in espressioni. Queste ultime si possono analizzare con
maggiore precisione, dal lato di come possono essere fondate, dall’altro di come gli attori
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mediante esse fanno riferimento a qualcosa in un mondo» (id. p. 144)], che consente
superare
la razionalità strumentale finalizzata, di riconsiderare il processo di
razionalizzazione della vita sociale e la teoria sociologica dell’azione di Weber, ma anche di
rinterpretare i concetti tradizionali di reificazione o di autocoscienza.
La formulazione di una teoria pragmatica della comunicazione e dell’agire comunicativo,
che mira ad una nozione di ragione comunicativa inscindibile dai nessi vitali della prassi
sociale, spinge Habermas a confrontarsi direttamente con il pensiero sociologico e a
conferire uno statuto prevalentemente sociologico alla sua teoria.
2° L’abbandono della filosofia della coscienza se, da un lato, investe direttamente i
presupposti filosofici, dall’altro, porta a un cambiamento radicale dell’oggetto dell’idea di
società, pensata non più a partire da un soggetto, colto come coscienza solitaria, ma pensata
a partire da più soggetti capaci di linguaggio e di azione in quanto soggetti socializzati e
integrati alla società del mondo vitale, interattivi in situazioni – contesto, strutturate
intersoggettivamente e funzionalmente.
La riflessione spinge il Nostro a ricercare nella struttura stessa del linguaggio i criteri del
superamento e dell’abbandono del paradigma della filosofia del soggetto (quale campo della
pensabilità e conoscibilità del sociale) e a vedere nella stessa struttura del linguaggio il
nuovo paradigma.
Ad ogni atto e/o azione dell’uomo inerisce una dimensione comunicativa, spesso anche
sotto forma di enunciato linguistico che risponde a leggi specifiche e ad una razionalità
argomentativa appropriata a seconda dei casi e delle situazioni. Occorre tener distinta la
nozione di azione dalla nozione di enunciato linguistico, per quanto si diano molteplici
connessioni tra azione e linguaggio, agire e parlare.
Le azioni sono attività finalizzate allo scopo tramite le quali un agente interviene nel
mondo per realizzare il fine che si è proposto mediante la scelta e l’impiego di mezzi
opportuni. Un enunciato linguistico è un atto tramite il quale un parlante vuole intendersi
con un altro su qualcosa nel mondo. L’atto linguistico permette all’ascoltatore, che partecipa
all’azione linguistica, di riconoscere l’intenzione del parlante in quanto ne condivide la
lingua e parte del comune mondo della vita. Inoltre l’ascoltatore può cogliere, grazie al
contenuto semantico dell’enunciato, le modalità dell’uso dell’enunciato, cioè quale azione
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viene eseguita per mezzo di esso. L’enunciato di qualcosa, che un parlante rivolge ad un
ascoltatore, in forma di promessa, di ordine, di consiglio riguarda non tanto la sfera
linguistica quanto la sfera pragmatica: il modo in cui viene usato l’enunciato, che è
contenuto nell’enunciato stesso, indica il tipo di interazione che il parlante vuole stabilire
con l’ascoltatore. Chi fa una promessa nel promettere qualcosa stabilisce una relazione con
l’altro, stabilisce un legame, un’intesa che ne coordina l’interazione. In generale, nella
comunicazione gli interlocutori assumono le posizioni reciproche e scambievoli di parlanti e
di ascoltatori; in particolare la comunicazione avviene all’interno di un quadro discorsivo
che conferisce a colui che formula l’enunciato, a colui che ascolta e al referente, al
“qualcosa” di cui tratta l’enunciato, delle posizioni che possono essere definite dal
linguaggio stesso oppure, come avviene quasi sempre, che sono adeguate alle posizioni e ai
ruoli dei soggetti.
Nella cornice della lezione, il parlante si situa nella posizione di colui che “sa”, che
trasmette un sapere, l’ascoltatore in quella di chi apprende, mentre il referente appartiene al
gioco denotativo del sapere e della sua comunicazione o trasmissione. Il sapere differenzia
le posizioni dell’interazione, che la comunicazione ribadisce. In questo caso la
comunicazione non si svolge integralmente secondo i principi ad essa immanenti, ma
secondo istanze che sono ad essa in parte estranee.
Ci possiamo chiedere se sia possibile una comunicazione che si dispieghi secondo una
propria “forza generativa” ad essa interna e, pertanto, indipendente da ogni istanza
istituzionalizzata, e che si sviluppi soddisfacendo le condizioni stesse dell’agire linguistico
dimodoché il parlante e l’ascoltatore si scambino le loro posizioni rispettive e
complementari così specificate, e il linguaggio si possa dispiegare come medium della
formazione razionale dell’intesa e del legame.
In questo pro-memoria possiamo procedere schematicamente, per punti:
1° punto: Habermas distingue la comunicazione linguistica di un soggetto solitario che
agisce in ottemperanza di un fine da conseguire dalla comunicazione che tematizza il
linguaggio come ambito privilegiato del riconoscimento intersoggettivo e della intesa
reciproca. Nel primo tipo, la comunicazione (comunicazione monologica) ha una funzione
informativa tra soggetti coinvolti; nel secondo tipo, la comunicazione tematizza le modalità
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stesse di comunicazione di modo che essa si pone rispetto ai soggetti come quadro
trascendentale.
2° punto: comunicazione e agire comunicativo non vanno equiparati. Il linguaggio è un
medium di comunicazione che consente ai soggetti la reciproca comprensione ed intesa,
sebbene questi possano perseguire i loro specifici scopi di azione. Ai concetti di azione è
indispensabile la struttura teleologica, sia che vengano perseguiti dai soggetti fini
egocentrici o egoistici oppure intese su valori e norme regolati dalla tradizione o
dall’innovazione o fini cooperativi oppure strategici. Solo nell’agire comunicativo la
reciproca comprensione ed intesa costituiscono il meccanismo stesso del coordinamento
delle azioni “L’azione comunicativa non si esaurisce nell’atto della comprensione compiuto
mediante l’interpretazione” (Teoria... p.178).
3° punto: la teoria della comunicazione, sviluppata all’interno di una pragmatica
universale, è adeguata ad una teoria sociologica dell’azione a condizione che si mostri come
atti comunicativi “assumano la funzione del coordinamento di azioni e contribuiscono a
stabilire delle interazioni.” (Teoria... p.386).
4° punto: “l’agire comunicativo dipende da contesti situazionali che rappresentano a loro
volta squarci del mondo vitale dei partecipanti all’interazione.” (ibidem). “Soggetti che
agiscono in modo comunicativo si intendono sempre nell’orizzonte di un mondo vitale. Il
loro mondo vitale si compone di convincimenti di sfondo più o meno diffusi, sempre
aproblematici. Tale sfondo di mondo vitale funge da fonte per definizioni situazionali che
sono presupposte in modo aproblematico dai partecipanti.” (Teoria... p.138).
5° punto: l’impostazione pragmatica che apre il linguaggio a nuove funzioni, non
restringendolo unicamente a quella descrittiva, e che rende sfumato il confine tra linguaggio
ed azione, consente infatti di vedere che quando un parlante esprime qualcosa sotto forma di
un ordine, di una promessa, ecc. il suo atto locutorio non riguarda tanto o solo le sfera
linguistica dell’espressione quanto o soprattutto la definizione della modalità del porsi
nell’interazione con un altro (atto illocutorio).
Habermas trova nell’opera di G. H. Mead (1863-1931) e di E. Durkheim (1858-1917) gli
elementi che gli consentono di modificare il paradigma della filosofia della coscienza:
“Entrambi elaborano dei concetti fondamentali nei quali è possibile assumere la teoria di
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Weber della razionalizzazione e liberarla dalle aporie della filosofia della coscienza. Mead
con una fondazione della sociologia in termini di teoria della comunicazione, Durkheim con
una teoria della solidarietà sociale che finisce col mettere in relazione reciproca anche
l’integrazione sociale e quella sistemica” (Teoria....p.547).
“Mead analizza i fenomeni coscienziali dal punto di vista della loro formazione nelle
strutture dell’interazione mediata linguisticamente o simbolicamente. Il linguaggio riveste
un significato costitutivo per la forma socio-culturale di vita: ’Nell’uomo la differenziazione
funzionale tramite il linguaggio crea un principio di organizzazione di tipo totalmente
diverso che produce non solo un diverso tipo di individuo, ma anche una diversa società’
(MEAD, Mente, sé e società)”.
Mead formula una teoria che “poggia sull’idea di una comunità ideale di comunicazione”,
venendo così a prospettare “una intersoggettività intatta che consente l’intesa priva di
coazione degli individui tra di loro”. (Teoria... p. 548). Questo approccio è insufficiente,
nota Habermas, alla formulazione di una teoria della società, può essere tuttavia ritenuto
sufficiente per ricostruire “la riproduzione simbolica di un mondo vitale di gruppi sociali
colto da una prospettiva interna”, vale a dire dal lato dei soggetti coinvolti nelle interazioni
comunicative. Mead non prende le mosse dall’individuo isolato e separato che a partire dalla
propria soggettività muove verso l’altro, ma dall’interazione di più individui. Questa
prospettiva comporta una mutazione dell’indirizzo metodologico di analisi, diverso da
quello dell’individualismo metodologico, “In psicologia sociale - scrive Mead - non
intendiamo costruire il comportamento del gruppo sociale attraverso il comportamento degli
individui separati che ne fanno parte; piuttosto cominciamo da un determinato insieme
sociale costituito da complesse attività di gruppo e al suo interno analizziamo (come
elementi singoli) il comportamento di ciascuno dei separati individui che lo compongono”.
L'analisi deve includere anche il comportamento orientato simbolicamente e consentire la
ricostruzione di strutture universali di interazioni mediate attraverso il linguaggio: “La
psicologia sociale è comportamentista nel senso che prende le mosse da un’attività
osservabile . il processo dinamico e gli atti sociali che sono i suoi elementi costitutivi - e tale
attività viene studiata e analizzata scientificamente. Ma non è comportamentista nel senso di
ignorare l’esperienza interiore dell’individuo - la fase interiore del processo dell’attività”,
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Cosicché il “senso” non è tanto e solo del soggetto, quale fenomeno di coscienza, quanto è
incorporato nell’interazione sociale, essendo accessibile pubblicamente agli stessi agenti,
come, del resto, all’osservatore.
“la sua teoria della comunicazione non si limita agli atti di comprensione, essa fa
riferimento all’agire comunicativo: Mead si interessa ai simboli linguistici solo in quanto
essi mediano le interazioni, i modi di comportamento e le azioni di più individui. Nell’agire
comunicativo il linguaggio, al di là della funzione di intesa, assume il ruolo di
coordinamento di attività in vista di un fine di diversi soggetti di azione, come pure il ruolo
di un medium di socializzazione di questi stessi soggetti. Mead considera la comunicazione
linguistica quasi esclusivamente sotto questi due aspetti dell’integrazione sociale di soggetti
agenti in vista di un fine e della socializzazione di soggetti capaci di azione, mentre trascura
gli apporti di intesa e la struttura interna del linguaggio. Sotto tale profilo la sua teoria della
comunicazione deve integrarsi con analisi, quali sono state svolte nella semantica e nella
teoria degli atti linguistici” (Teoria... pp. 551-552).
L’intento dell’opera di Mead è di far vedere a partire dalle dinamiche delle relazioni il
sorgere e lo sviluppo di gesti e di simboli dotati di significato comune a più esseri viventi.
Un significato si forma quando il vivente che compie un gesto è capace di anticipare dentro
di sé la reazione dell’altro vivente a cui il suo gesto è indirizzato. Esemplifica Mead “il
gesto vocale diventa un simbolo significativo quando esercita il medesimo effetto
sull’individuo che lo compie e sull’individuo al quale esso è rivolto o che gli risponde
esplicitamente, ed implica perciò un rapporto con il ‘sé’ dell’individuo che lo compie”
(Mead, p. 72). Perché si dia un simbolo significativo occorre che Ego sia in grado di
anticipare la risposta di Alter, vale a dire Ego deve essere capace di “assumere
l’atteggiamento” di Alter e di condividere un’identica interpretazione del significato del
“gesto vocale”. Inoltre, per poter anticipare la risposta di Alter, Ego deve aver fatto proprio
il significato: deve averlo internalizzato, interiorizzato, “L’internalizzazione, nell’ambito
della nostra esperienza, delle conversazioni esterne di gesti che teniamo con gli altri
individui nel processo sociale, costituisce l’essenza del pensiero”. (Mead, p.74).
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Habermas, tuttavia, avanza delle riserve circa la capacità del modello di Mead di spiegare
compiutamente il sorgere e il formarsi di un significato “identico” per tutti i parlanti di un
gruppo. Habermas 560-63
Habermas ritiene che occorra procedere oltre il meccanismo della “assunzione
dell’atteggiamento dell’altro”. Sono necessari due passaggi: 1) quando Ego apprende ad
interpretare il proprio gesto in modo simile a come l’interpreta Alter, non può che rivolgersi
ad Alter come ad un possibile interprete del suo gesto, mutando di conseguenza il proprio
atteggiamento originario. Ora, se ciò vale per Ego, deve valere anche per Alter: vi è dunque
un’assunzione reciproca dei ruoli comunicativi, vale a dire Ego ed Alter imparano a
compiere i loro gesti con un’intenzione comunicativa e ad assumere i ruoli interscambiabili
del parlante e dell’uditore: “Non appena essi assumono questo atteggiamento anche verso se
stessi, apprendono i ruoli comunicativi di parlante e ascoltatore; essi si rapportano l’uno
all’altro come un Ego che dà qualcosa da intendere a un Alter Ego”. (Habermas , p. 563).
2) Tuttavia, se “assumere l’atteggiamento dell’altro è un meccanismo che prende le mosse
dalla reazione comportamentale di un altro al proprio gesto”, occorre che questo si estenda
verso “ulteriori componenti dell’interazione”: Ego (il parlante) diviene capace non solo di
prevedere (dopo aver imparato dalle precedenti esperienze in cui sue aspettative sono state
deluse) ciò che Alter (questo Alter) farà in risposta ai suoi gesti e atti comunicativi, ma
anche di attendersi, di prevedere, ciò che qualsiasi altro Alter dovrebbe fare nella data
situazione, pur sapendo che potrebbe comportarsi in un altro modo da quello atteso.
Cosicché gli interlocutori imparano ad interpretare l’eventuale fallimento di un’attesa di
comportamento come il fallimento di un’intenzione comunicativa e ad esprimersi
reciprocamente la delusione per la mancata intesa. Ciò consentirà di stabilire agli
interlocutori, secondo regole convenzionali, un significato identico: “Dato che ora Ego ha
già interpretato il suo gesto alla luce dell’anticipazione della reazione comportamentale di
Alter, sussiste da parte sua, in relazione a b), un’attesa prognostica che può andare a vuoto.
Supponiamo che Ego, qualora sotto tale profilo venga sorpreso da Alter con una reazione
comportamentale inattesa, esprima la propria delusione. La sua reazione tradirà allora la sua
delusione per una comunicazione non riuscita e non per le conseguenze indesiderate del
comportamento fattuale di Alter. Se supponiamo inoltre che questo valga anche per Alter, si
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creerà una situazione in cui il meccanismo dell’interiorizzazione può essere applicato una
terza volta, e precisamente a quella presa in posizione con la quale Ego e Alter esprimono
reciprocamente la loro delusione per i malintesi. Assumendo nei confronti di se stessi la
presa di posizione critica dell’altro sull’interpretazione non riuscita di un atto comunicativo,
essi creano regole dell’uso simbolico. Possono fin da principio riflettere se utilizzare in una
data situazione un gesto fornito di significato (significant gesture) in modo tale che l’altro
non abbia motivo per una presa di posizione critica. In tal modo si sviluppano le convenzioni
semantiche e i simboli utilizzabili con significato identico”. (Habermas, p. 565).
L’impiego di simboli dal significato identico implica l’aspettativa del modo in cui tali
simboli debbano essere intesi, l’aspettativa del modo in cui tali simboli debbano essere
intesi, ossia il passaggio descritto da Mead dall’interazione gestuale (stadio animale)
all’interazione simbolica (stadio umano), segna anche il passaggio alla formazione di azioni
rette da regole. Seguendo Mead, Habermas ha ri-costruito la radice intersoggettiva della
comunicazione linguistica, e come questa richieda la regola: «L’uso costante del punto di
vista del significato – del medesimo simbolo – non deve essere dato solo in sé. bensì deve
essere riconoscibile per gli stessi fruitori del simbolo. E tale identità dei significati può
essere assicurata soltanto dalla validità intersoggettiva di una regola che fissa ‘in modo
convenzionale’ il significato di un segno. In tal senso il passaggio dall’interazione mediata
dai gesti a quella mediata simbolicamente significa al tempo stesso la costituzione di un
comportamento guidato da regole, di un comportamento che può venire spiegato in base ai
concetti dell’orientamento a convenzioni semantiche» (p. 567).
Ora, nel riprendere l’analisi di Wittgenstein del concetto di regola, ricostruisce la genesi,
genesi intersoggettiva, della regola. La validità di una regola poggia sul riconoscimento
intersoggettivo: “Nel concetto di regola sono uniti i due momenti che caratterizzano l’uso di
simboli semplici: significato identico e validità intersoggettiva. L’universale che costituisce
il significato di una regola può essere rappresentato in quante azioni esemplari si vuole.”
(Habermas, p. 567). Seguire una regola sta a significare che quando si agisce in conformità
ad una regola si agisce ipse facto in conformità ad una regola con valore intersoggettivo.
Infatti “seguire una regola” non è possibile per un soggetto isolato: “Con l’analisi del
concetto di ‘seguire una regola’ Wittgenstein dimostra che l’identità dei significati è
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riconducibile alla capacità di seguire insieme ad un altro soggetto regole che valgano
intersoggettivamente. In ciò entrambi devono disporre della competenza sia per un
comportamento guidato da regole, sia per la valutazione critica di tale comportamento. Un
soggetto solitario e isolato, che per di più dispone soltanto di una delle competenze
menzionate, è tanto poco in grado di sviluppare il concetto di regola quanto di usare i
simboli con identità di significato. Se analizziamo in tal modo la ‘validità intersoggettiva’ di
una regola, ci imbattiamo in due tipi diversi di attese: a) l’attesa di B che A intenda
compiere un’azione utilizzando una regola, b) l’attesa di A che B riconosca la sua azione
come adempimento di una regola oppure la faccia valere in quanto tale”. (Habermas, p.
570).
L’analisi del pensiero di Witgenstein consente ad Habermas di integrare l’analisi del
pensiero di Mead (pp.570-575) delineandone nello stesso tempo i limiti.
Secondo Habermas i limiti dell’analisi di Mead sono i seguenti:
a. Mead, in base al concetto di interazione mediata simbolicamente, spiega solo “come sia
possibile la comprensione tramite significati identici”; invece i sistemi linguistici sono
caratterizzati da una grammatica, che consente complesse associazioni simboliche, e da
contenuti semantici staccati dal substrato dei significati naturali. Non funzionano da
semplici sostituti, “da dispositivi attivanti con i quali l’organismo, in forza delle sue
disposizioni comportamentali ‘si mette in moto’ secondo schemi di comportamento” (p.
576), giacché ci si deve aspettare che “retroagisca sulla struttura degli impulsi e dei modi di
comportamento degli organismi partecipi” (576) [confronta Benveniste]
b. Mead non distingue con chiarezza lo stadio dell’interazione mediata simbolicamente da
quello di comunicazione, caratterizzato da un linguaggio differenziato; occorre distinguere il
linguaggio come medium di coordinamento delle azioni e di socializzazione degli individui.
Occorre precisare che il linguaggio funge non solo da ‘medium di comprensione’ e della
trasmissione del sapere, ma anche e soprattutto da ‘medium di coordinamento delle azioni e
di socializzazione degli individui’ e di integrazione sociale, in quanto ‘medium di intesa’. Il
linguaggio produce orientamenti soggettivi e sistemi di orientamento sovrasoggettivi,
produce individui sociali e istituzioni sociali. Per quanto ciò avvenga attraverso atti di
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comprensione mediati culturalmente, contribuisce a produrre le strutture simboliche del sé e
della società.
(pp. 578-582)
Nell’affrontare l’altro problema, vale a dire di come sia possibile legare di nuovo, dopo la
disgregazione della dialettica idealistica, la teoria dell’azione con la teoria sistemica,
Habermas prende le mosse dal pensiero sociologico di Durkheim. Per Durkheim
l’integrazione sociale nelle società moderne “si compie attraverso il nesso sistemico di
ambiti di azione funzionalmente specializzati” (Habermas, p. 699) reso possibile dalla “forza
di integrazione sociale di regole morali”. Ciò che interessa ad Habermas non sono tanto le
risposte ricercate e date da Durkheim quanto le modalità con cui il sociologo francese pone
il problema del nesso tra integrazione sociale e integrazione sistemica.
A giudizio di Habermas l’integrazione sociale, sia che sia intesa da Mead come
interazione, sia che sia intesa da Durkheim come rappresentazione collettiva, è da entrambi
concepita nella “prospettiva partecipativa di soggetti agenti come mondo vitale di un gruppo
sociale” (Habermas, p. 703).
La distinzione tra integrazione sistemica e integrazione sociale, che è condotta a partire
dai differenti meccanismi di coordinamento delle azioni (l’integrazionee sociale attraverso
gli orientamenti di azione dei soggetti partecipanti alle azioni comunicative, l’integrazione
sistemica attraverso l’interconnessione funzionale delle conseguenze di quegli orientamenti),
deve essere analizzata e interpretata sul piano evolutivo-storico della società moderna.
A questo punto Habermas rilegge il concetto di mondo vitale, che costituisce il mondo
proprio o il retroterra dei soggetti partecipanti alle azioni sociali, alla luce della teoria
dell’agire comunicativo. Il mutamento del paradigma della filosofia della coscienza (cfr. pp.
718-720), a cui s’ispirava ancora la ricerca fenomenologica di Husserl, con quello
linguistico porta a “pensare il mondo vitale rappresentato da una riserva culturalmente
tramandata e linguisticamente organizzata di modelli interpretativi” (p. 712), e porta a
vedere i nessi di riferimento tra il soggetto e il suo mondo di vita come “nessi semantici che
sussistono tra un’espressione comunicativa data, il contesto immediato e i loro orizzonte di
significato connotativo. I nessi di riferimento rimandano a relazioni regolate
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grammaticalmente fra elementi di una riserva linguisticamente organizzata”. (Habermas, p.
712).
Riprendendo una tradizione che risale ad Humboldt, Habermas sostiene che si dà un
legame interno tra la struttura del mondo vitale e le strutture della immagine linguistica del
mondo secondo il quale il linguaggio e la cultura tradizionale (linguisticamente codificata e
mediata) svolgono una funzione "in "un certo senso trascendentale" rispetto a tutto ciò che
può divenire parte di una situazione comunicativa. Per i partecipanti alla comunicazione il
linguaggio e la cultura "sono costitutivi dello stesso mondo vitale", cosicché sia che
esperimentino qualcosa di oggettivo (mondo oggettivo) sia che si comportino secondo
aspettative normate (mondo sociale) sia che esprimano qualcosa di soggettivo (mondo
soggettivo) essi trovano già contenutisticamente interpretato il nesso tra mondo oggettivo,
sociale e soggettivo. In quanto essi si muovono all’interno del loro linguaggio e della loro
cultura, in una parola, del loro mondo di vita, non possono che comunicare qualcosa di
intersoggettivo", che forma ciò che Habermas chiama il sapere di sfondo che rimane,
tuttavia, aproblematico.
«Questa riserva di sapere munisce gli appartenenti di convinzioni di sfondo
aproblematiche, supposte unanimemente come garantite; e da esse si forma di volta in volta
il contesto di processi di comprensione, nei quali i partecipanti utilizzano o collaudate
definizioni di situazioni o ne concordano di nuove. I partecipanti alla comunicazione
trovano già contenutisticamente interpretato il nesso tra mondo oggettivo, sociale e
soggettivo. Se oltrepassano l’orizzonte di una situazione data, non possono cadere nel vuoto;
si ritrovano subito in un altro ambito, ora attualizzato, e tuttavia pre-interpretato, di ciò che
è culturalmente evidente. Nella prassi comunicativa quotidiana non vi è nessuna situazione
sconosciuta, tout court. Anche situazioni nuove emergono da un mondo vitale che è
costruito a partire da una riserva di sapere culturale già da sempre familiare. Rispetto ad esso
gli agenti comunicativi possono altrettanto poco assumere una posizione extra-mondana
quanto rispetto al linguaggio quale medium dei processi di comprensione mediante i quali si
mantiene il mondo vitale. Mentre utilizzano una tradizione culturale, la proseguono» (p.
713). In altri termini, la ‘categoria del mondo vitale’ ha uno ‘status diverso’ da quello dei
concetti formali di mondo finora analizzati. «Gli agenti comunicativi si muovono sempre
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all’interno dell’orizzonte del loro mondo vitale; da esso non possono uscire. In quanto
interpreti appartengono essi stessi, con le loro azioni linguistiche, al mondo vitale, ma non
possono rapportarsi ‘a qualcosa nel mondo vitale’ alla stessa stregua in cui si rapportano a
fatti, norme o esperienze vissute. Le strutture del mondo vitale stabiliscono le forme
dell’intersoggettività di una possibile intesa. » (p. 714).
Vale a dire, il cambiamento del paradigma comporta un mutamento della concezione
dello stesso mondo vitale. Secondo la svolta linguistica le strutture dell’intersoggettività
sono mediate linguisticamente mentre secondo la tradizione fenomenologia sono mediate
dalla coscienza, si danno nel rispecchiamento dell’esperire soggettivo di una coscienza
solitaria. [da qui il tema dell’intersoggettività, e le aporie conseguenti].
“ il medium dell'intendersi rimane in una singolare semi trascendenza. Finché i
partecipanti alla comunicazione mantengono il loro atteggiamento performativo, il
linguaggio usato resta alle loro spalle. Rispetto ad esso i parlanti non possono assumere una
posizione extra-mondana. La medesima cosa vale per i modelli interpretativi culturali che
sono tramandati in linguaggio." (Habermas, p. 713).
(pp 7I2-715)
Habermas espone lo sviluppo dei concetti di mondo vitale, in ispecie nel pensiero di
Schütz (pp. 715-727), (Schütz rimane legato, esemplifica Habermas, alla coscienza
egologica di Husserl «per la quale le strutture generali del mondo della vita sono date come
condizioni soggettive necessarie dell’esperienza di un mondo della vita concretamente
connotato e improntato storicamente», p. 718), di produzione e riproduzione nella
quotidianità del mondo vitale della cultura, della società e della personalità (pp. 727-734).
Habermas critica la riduzione in termini di cultura del concetto di mondo della vita
operata dalla fenomenologia. Il mondo vitale non consiste solo di certezze culturali
«consiste anche di abilità individuali, di sapere intuitivo, su come si viene a capo di una
situazione, e di pratiche socialmente in atto, di sapere intuitivo su cui si può fare
affidamento in una situazione» (p.726). «L’individualità del mondo vitale, grazie al quale si
agisce in modo comunicativo, è dovuta anche alla sicurezza che l’attore possiede grazie a
solidarietà comprovata e a competenze sperimentali» (p. 727).
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Il mondo della vita non offre solo il quadro delle risorse culturali di interpretazione con
cui i partecipanti alle interazioni sociali identificano e definiscono le situazioni, le azioni
interpersonali non sono solo processi interpretativi ma insieme sono processi di integrazione
sociale e di socializzazione Cosicché il mondo della vita non si costituisce solo intorno a
comuni criteri di validità, ma soprattutto si costituisce e si costruisce intorno a criteri di
intesa e di collaborazione e di solidarietà tra gli appartenenti, e a criteri di identità tra gli
individui socializzati: “I partecipanti all'interazione, rivolti verso il 'mondo’, mentre
riproducono con le loro prestazioni di comprensione il sapere culturale dal quale attingono,
riproducono al tempo stesso la propria appartenenza ai collettivi e la propria identità. Se uno
solo di questi due aspetti balza in primo piano il concetto di mondo vitale riceve una
formulazione unilaterale, ridotta o in un senso istituzionalistico o di teoria della
socializzazione”. (Habermas, pp. 732-733).
Habermas mette, inoltre, in risalto che ciò che unisce fra loro gli individui socializzati,
assicurandone 1’ integrazione sociale, è un tessuto di azioni comunicative che possono
riuscire in quanto capitalizzano la tradizione culturale. La solidarietà e il legame degli
appartenenti ad un comune mondo vitale non discendono pertanto dai meccanismi sistemici
della società che, come tali, sono sottratti al loro “sapere intuitivo”. Tuttavia le azioni
teleologiche degli appartenenti non sono coordinate soltanto attraverso processi
comunicativi volti all’intesa, ma anche attraverso nessi funzionali che fanno parte dei
meccanismi -sistemici di integrazione. Habermas ribadisce la sua proposta di distinguere tra
integrazione sociale e integrazione sistemica: la prima si riferisce agli orientamenti di azione
attraverso i quali la seconda funziona: pp.744-749.
Habermas passa ad esaminare il processo di differenziazione del sistema sociale e del
mondo della vita (evoluzione sociale): alla crescente complessità del primo corrisponde la
razionalizzazione del secondo (cfr. p.748). L'analisi storico comparativa consente di porre in
luce come il mondo vitale -razionalizzato abbia favorito il sorgere e la crescita dei
sottosistemi che, a loro volta resisi autonomi, si sono ripercossi su quello (rilettura del
processo di razionalizzazione della vita sociale di M. Weber). La teoria dell'agire
comunicativo rilegge, infatti, la storia sociale sotto due aspetti interconnessi: sistema e
mondo della vita. Con la "modernità" il sistema sociale, 1’ economia e lo stato si sono
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differenziati dal mondo della vita, vale a dire dal mondo dell’esperienza vissuta.. I fenomeni
sociali possono essere mediati o attraverso il mondo della vita, comunicativamente, o
attraverso gli "imperativi del sistema", attraverso denaro e potere, strumentalmente. Nel
processo evolutivo il mondo della vita in cui la cultura, la società e la personalità hanno la
loro mediazione, può o espandersi o essere colonizzato. Con "colonizzazione del mondo
della vita", Habermas intende il processo attraverso il quale quegli ambiti della vita sociale
possono essere sottoposti sotto il dominio degli imperativi del sistema, vale a dire essere
sottoposti al controllo della razionalità strumentale piuttosto che della razionalità
comunicativa.
La teoria di Parsons costituisce, a giudizio di Habermas, il tentativo più maturo della
teoria sociologica di connettere in un tutt'uno la teoria dell'azione e la teoria sistemica. Il
Nostro analizza in modo dettagliato il pensiero di Parsons nel cap. VII di Teoria dell’agire
comunicativo. Parsons interpreta le componenti strutturali del mondo vitale (cultura, società,
personalità) come dei sistemi di azione che costituiscono ambiente l’uno per 1' altro;
cosicché il concetto di mondo della vita viene sussunto sotto quello di sistema e, di
conseguenza, le componenti strutturali del mondo del la vita diventano sotto-sistema di un
"Sistema generale di azione'. Habermas, invece, vuole salvaguardare la differenza tra mondo
vitale e sistema; tale differenza discende dal diverso approccio metodologico: il primo
costruito a partire dal punto di vista degli orientamenti delle azioni dei membri di un gruppo
sociale, il secondo a partire dagli effetti funzionali delle loro azioni finalizzate.
Habermas interpreta il concetto di societal community di Parsone in continuità con il
concetto di integrazione sociale di Durkheim e con quello di mondo della vita della
fenomenologia:
«Nella tradizione che risale a Durkheim, alla base della teoria della società sta un
concetto di mondo vitale limitato all’aspetto dell’integrazione sociale. Per esso Parsone
sceglie l’espressione societal community, con essa intende il mondo vitale di un gruppo
socialmente integrato. Esso costituisce il nucleo di ogni società, ove ‘società’ è intesa come
la componente strutturale che, attraverso relazioni interpersonali ordinate in modo legittimo,
stabilisce lo status, ossia i diritti e i doveri degli appartenenti ai gruppi. La cultura e la
società sono immaginate soltanto come completamente funzionali della societal community.
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La cultura fornisce alla società valori che possono essere istituzionalizzati e gli individui
socializzati vi contribuiscono con motivazioni che sono adeguate alle aspettative
comportamentali normate » (id., p. 733).
16
***
Ad ogni atto o azione dell’uomo inerisce una dimensione comunicativa spesso anche
sotto forma di enunciato linguistico che risponde a leggi specifiche e ad una razionalità
argomentativa appropriata. Occorre tener distinta la nozione di azione da quella
di
enunciato linguistico per quanto si diano molteplici connessioni tra azione e linguaggio,
agire e parlare.
Le azioni sono attività finalizzate allo scopo, tramite le quali un agente interviene nel
mondo per realizzare il fine che si è proposto mediante la scelta e l’impiego di mezzi
opportuni. Un atto linguistico è un atto tramite il quale un parlante vuole intendersi con un
altro su qualcosa nel mondo. L’atto linguistico permette all’ascoltatore che partecipa
all’azione linguistica di riconoscere l’intenzione del parlante in quanto ne condivide la
lingua, il linguaggio, e il comune mondo della vita.
L’ascoltatore, inoltre, coglie, grazie al contenuto dell’enunciato, la modalità del suo uso,
cioè quale azione (atto) viene eseguita per mezzo di esso. Un parlante può rivolgersi ad un
ascoltatore con un enunciato in forma di promessa, di ordine, di supplica, ecc. Il modo in cui
viene usato l’enunciato indica il tipo di intenzione che il parlante vuole stabilire con
l’ascoltatore. Chi fa una promessa, nel promettere, stabilisce una relazione con l’altro,
stabilisce un legame, un’intesa.
Fra agire e parlare, azione e linguaggio, esistono molteplici connessioni, sebbene agire e
parlare siano aspetti diversi di agire. L’agire può essere esemplificato come un’attività
qualsiasi, come camminare, scrivere, ecc; mentre parlare può essere esemplificato con atti
linguistici, come ordinare, confessare, ecc. Per sottolineare le differenze tra agire e parlare,
Habermas si avvale di due modelli descrittivi. Con ‘azione’ intende le “attività finalizzate
allo scopo, tramite le quali un attore interviene nel mondo per poter realizzare quei fini che
si è proposto, mediante la scelta e l’impiego di mezzi opportuni” (Habermas, Il pensiero
post-metafisico, p. 59). Con ‘parlare’ intende gli atti linguistici “tramite i quali il parlante
vuole intendersi con un altro su qualcosa nel mondo”.
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Tra i due tipi di agire vi sono delle differenze. Un’azione può essere descritta sia da chi la
compie sia da chi l’osserva; ma tra le due descrizioni, che sono date secondo prospettive
diverse, si danno differenze. Nel caso degli atti linguistici, invece, è sempre possibile una
descrizione nella prospettiva sia del parlante che dell’ascoltatore, con cui il parlante
stabilisce una connessione di intesa, l’intendersi su qualcosa.
Ad esempio, se osservo un uomo che attraversa in fretta una strada, da questo suo
comportamento, il procedere in fretta, posso inferire un’intenzione: il suo comportamento,
‘camminare in fretta’, lo collego ipoteticamente ad una sua intenzione o motivo. Tuttavia
non mi è possibile desumere con certezza la sua intenzione dalla osservazione, anche nel
caso che l’osservazione della situazione offra elementi che consentano di comprenderla (ad
es. ‘fugge da un pericolo’, è ‘vicino alla stazione’): “Nella prospettiva di un osservatore noi
possiamo identificare un’azione, ma non la possiamo descrivere con sicurezza come
l’attuazione di uno specifico piano d’azione, dal momento che dovremmo per questo
conoscere l’intenzione relativa. Noi possiamo desumerlo, sulla base di indicatori,
attribuendola in via ipotetica al soggetto agente; ma per poterci accertare di tale intenzione,
noi dovremmo poter assumere la prospettiva del partecipante” (idem, p. 60). In altre parole
l’azione non-linguistica “non si dà a conoscere per se stessa come quell’azione che è stata
progettata”.
[Tuttavia rimane aperto un problema: nell’osservare quell’uomo che attraversa la strada,
come mi è possibile qualificare quel comportamento come ‘camminare in fretta’? Proviamo
a metterci nei panni di un etnografo che si trova in una società a lui sconosciuta, di cui non
conosce affatto il linguaggio, ciò che gli si offre all’osservazione non potrà che,
inizialmente, interpretarlo secondo la sua esperienza e conoscenze etnografiche. Solo in
seguito, dopo una lunga esperienza presso i membri di quella società, potrà qualificare in
modo diverso i comportamenti che osserva. Ciò che prima gli sembrava un ‘camminare in
fretta’ gli si può rivelare, ora, come un comportamento normale dei membri di quella
società: ‘camminare in fretta’ è un comportamento normale che ad un osservatore di quella
società non pone alcun problema di interpretazione. In altre parole, ritornando al nostro
esempio, posso dire con una qualche certezza che quell’uomo cammina ‘in fretta’ perché lui
ed io apparteniamo alla medesima società, e ne condividiamo i comportamenti e le pratiche.
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Oppure, posso, seguendo R. Boudon, ritenere che quell’uomo ha “buone ragioni” per
‘camminare in fretta’; perché, ad esempio, è in ritardo all’appuntamento. Posso così ritenere
che quest’uomo reputa che affrettare il passo sia la ragione più idonea per non mancare
l’appuntamento o non perdere il treno. Il suo comportamento, secondo Boudon, può essere
spiegato senza fare ricorso ad altre ragioni, quali l’influenza di norme o di valori socioculturali. Allo stesso modo, come osserva Weber, che, quando piove, ci si ripara dall’acqua:
un simile comportamento non implica nulla di sociale. Infatti, il ripararsi dalla pioggia, se
non ci si vuole bagnare, è una buona ragione per adottare un simile comportamento. Eppure
tra i due esempi si danno differenze. Proviamo a pensare situazioni sociali in cui il tempo sia
scandito dalle lancette dell’orologio oppure dal percorso del sole. Nel primo caso, un
appuntamento è fissato tramite il tempo dell’orologio, ad esempio le 12, esso è preciso,
puntuale. Nel secondo caso è stabilito dall’altezza del sole rispetto all’orizzonte,
mezzogiorno, esso è meno preciso, presenta un margine maggiore di durata. Nella prima
situazione, la data dell’appuntamento è precisa, essa è alle 12 in punto; è scandita dalle
lancette dell’orologio, la lancetta occupa un punto preciso del quadrante dell’orologio. Nella
seconda, l’appuntamento deve avvenire quando il sole è al punto zenit; per quanto
l’indicazione sia precisa, diversa è la durata temporale in cui è fissato l’appuntamento: il
sole deve trovarsi in un punto/spaziale del cielo che deve percorrere. L’indicazione dell’ora
dell’appuntamento è più flessibile. Ora i comportamenti degli individui coinvolti si devono
adeguare a queste due diverse situazioni. Inoltre, un appuntamento implica un terzo
elemento: l’altro con cui si ha un appuntamento. Implica di conseguenza altri aspetti che
sono regolati dalle consuetudini sociali, che derivano dal valore che viene attribuito
all’appuntamento. L’appuntamento è una modalità di coordinamento della interazione, che
regola i rispettivi comportamenti dei soggetti coinvolti. Tali soggetti non possono non
tenerne conto nella misura in cui attribuiscono una qualche importanza, valore,
all’appuntamento.]
Invece gli atti linguistici si danno a conoscere per se stessi. Se qualcuno ordina a me o a
qualcun altro di fare una certa cosa, prendere, ad es., un libro dalla biblioteca, io o l’altro
comprendiamo (se comprendiamo) l’ordine ricevuto. Io o l’altro, e un eventuale osservatore,
sappiamo “con discreta precisione” quale azione è stata eseguita: ossia l’enunciazione di un
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determinato ordine. In questo caso sia a me che all’altro è possibile riconoscere l’intenzione
del parlante. Infatti “un ascoltatore può cogliere, dal contenuto semantico dell’enunciato, il
modo in cui la frase enunciata viene impiegata, vale a dire quale tipo di azione viene
eseguito attraverso di essa. Le azioni linguistiche sono autointerpretabili, dal momento che
possiedono una struttura autoreferente. L’elemento illocutorio determina nella forma di un
commento pragmatico, il senso di impiego di ciò che si è detto “ (ibidem, p. 61).
Con l’enunciato “prendimi quel libro dalla biblioteca!”, Tizio dà un ordine a Caio (atto
illocutorio) ossia fa qualcosa nel dire e, secondo la teoria degli atti linguistici di Austin,
sottolinea Habermas, Tizio dice anche ciò che fa, ossia dà un ordine, comanda. Ora, l’azione
linguistica di Tizio ha tale effetto su Caio perché entrambi partecipano all’azione e perché
parlano la stessa lingua e condividono assieme il medesimo mondo della vita. L’intento di
Habermas è quello di sottolineare in che modo si distinguono gli atti linguistici dalle azioni,
sebbene le azioni possano essere linguistiche o non-linguistiche e sebbene siano
interpretabili come orientate ad un fine.
Nell’azione linguistica sia Tizio che Caio debbono condividere il medesimo mondo della
vita affinché Caio possa comprendere il significato di ciò che Tizio dice e possa riconoscere
come valido ciò che Tizio dice. Pertanto :
1. l’ordine di Tizio, “prendimi il libro”, il fine dell’azione linguistica, non può essere
riconosciuto da Caio a prescindere dall’intesa che è sottintesa dall’uso del linguaggio
2. Tizio, nel dire “prendimi quel libro”, sa bene che il successo di questo suo invito o
ordine non dipende solo dal fatto che Caio comprenda quanto egli dice, ma anche dal fatto
che Caio acconsenta e cooperi. Tizio raggiunge il suo scopo solo se Caio collabora.
3. Tizio e Caio, nell’appartenere al mondo della vita intersoggettivamente condiviso,
possono assumere un atteggiamento performativo in quanto si comprendono reciprocamente
su qualcosa. Tuttavia occorre sottolineare, secondo la pragmatica degli atti linguistici così
come essa è interpretata dallo stesso Habermas, la differenza tra atti illocutivi e atti
perlocutivi, ossia la differenza tra l’atto linguistico dell’ordinare inerente al dire e il fare
qualcosa, l’eseguire il comando. Ne consegue, come da esempio, che il successo dell’atto
illocutivo è subordinato alla finalità dell’azione linguistica, atto perlocutivo, di influire sul
comportamento dell’interlocutore. Nelle perlocuzioni, le azioni linguistiche sono”...incluse
20
in quanto mezzi in azioni teleologiche, orientate al successo.” (Teoria dell’agire
comunicativo, p.402). Questa differenza è fondamentale, essa, infatti, consente ad Habermas
di operare la distinzione tra l’agire comunicativo e l’agire strategico: “Gli effetti perlocutivi
segnalano l’integrazione di azioni linguistiche in nessi di azione strategica. Esse fanno parte
delle conseguenze intenzionali di azioni o di risultati di un’azione teleologica che l’attore
intraprende nell’intento di influire in un determinato modo sull’uditore con l’aiuto di
successi illocutivi. Le azioni linguistiche possono però servire a tale obiettivo non-illocutivo
di influenzare l’uditore soltanto se sono adatte a conseguire fini illocutivi.” (ibidem).
4. Tizio e Caio, nell’appartenere al mondo della vita intersoggettivamente condiviso,
possono assumere un atteggiamento performativo in quanto si comprendono reciprocamente
su qualcosa e perseguire, così, tramite le azioni linguistiche “fini illocutivi”. Essi, pertanto,
muovono da un atteggiamento orientato all’intesa che si dispiega e si chiarifica solo “sulla
base di atti illocutivi”:
«Faccio quindi rientrare nell’agire comunicativo quelle interazioni linguisticamente mediate
nelle quali tutti i partecipanti perseguono con le proprie azioni linguistiche fini illocutivi e
soltanto quelli. Per contro considero come agire strategico mediato attraverso il linguaggio
quelle interazioni nelle quali almeno uno dei partecipanti con le sue azioni linguistiche vuole
produrre presso un interlocutore effetti perlocutivi.» (ibidem, pp.404-405).
Nelle azioni non esclusivamente linguistiche, occorre tener presente che l’attività
orientata allo scopo è un agire regolato da fini che produce effetti nel mondo. Alla base di
tale agire si trova una valutazione della situazione “in cui il fine dell’azione viene
determinato (a) indipendentemente dai mezzi che intervengono, (b) come uno stato che
deve essere causalmente ottenuto, (c) nel mondo oggettivo” (Il pensiero post-metafisico, p.
62).
Cosicché, in genere nell’azione, gli enunciati sono mezzi, ossia strumenti, per ottenere
uno scopo; il fine è qualcosa che è prodotto casualmente, di cui il buon esito è attribuito
all’agente. In questo tipo di agire, gli agenti si incontrano come entità separate nel mondo,
che si “raggiungono a vicenda”, “come oggetti o controparte”.
21
Mentre chi persegue uno scopo assume un atteggiamento oggettivante verso qualche cosa
nel mondo oggettivo; invece chi partecipa a un processo linguistico e/o comunicativo
assume un atteggiamento performativo con pretese di validità che consente un orientamento
alternativo, e che può provocare una valutazione critica in chi ascolta. Di modo che, come
afferma altrove Habermas, “il riconoscimento intersoggettivo di una qualsiasi pretesa” può
servire da “fondamento di un consenso razionalmente motivato. Parlante e uditore, in quanto
si intendono fra loro in atteggiamento performativo, sono al contempo partecipi di quelle
funzioni che le loro azioni comunicative soddisfano per riprodurre il comune mondo della
vita” ( Etica del discorso, pp. 30-31). Ossia l’agire orientato allo scopo e gli atti linguistici
soddisfano diverse condizioni di razionalità che hanno a che fare non tanto con il possesso
del sapere quanto con l’uso che i soggetti ne fanno. Ora il modo con cui viene utilizzato il
sapere per conseguire il fine, il successo, distingue il senso della razionalità delle azioni
teleogiche da quelle comunicative: “Mentre la razionalità orientata allo scopo rinvia alle
condizioni per interventi causalmente efficaci nel mondo degli stati di cose esistenti, la
razionalità dei processi d’intesa si misura invece sulla interrelazione fra le condizioni di
validità degli atti linguistici, le pretese di validità sollevate attraverso gli atti linguistici, e le
motivazioni per il soddisfacimento discorsivo di tali pretese. Le condizioni per la razionalità
di azioni linguistiche riuscite, hanno un altro taglio rispetto alle condizioni di razioanlità di
un’attività orientata con successo allo scopo” (ibidem, p. 64). Nel primo caso la razionalità
dell’azione è orientata allo scopo, nel secondo all’intesa. Questa è la ragione di fondo della
distinzione e della irriducibilità tra i due modelli di agire.
Le teorie sociologiche dell’azione hanno interesse a chiarire il concetto dell’agire sociale.
La sociologia ha, dunque, interesse a chiarire non già il concetto di agire in generale bensì di
agire sociale e, pertanto, ha interesse a chiarire “come l’agire sia possibile in quanto agire
sociale”. Ora, l’agire è sociale in quanto due o più agenti coordinano vicendevolmente le
loro azioni “per condurre un piano di azione comune”. Ad esempio, il lavoro è una forma di
interazione attraverso la quale due o più agenti perseguono, coordinando tra loro le azioni,
un fine comune. Il lavoro rende “possibile un reticolo regolare e stabile di interazioni” di
22
modo che è grazie al lavoro che gli agenti coordinano reciprocamente le loro azioni
contribuendo individualmente alla realizzazione di un fine.
La questione di “come è possibile l’agire sociale?”, secondo Habermas, non è che il verso
dell’altra questione di “come è possibile l’ordine sociale?” [vedi Parsons], giacché non si ha
solo a che fare con i “caratteri formali” dell’agire sociale ma anche con le inter-azioni, le
relazioni reciproche, che, di fatto, regolano e stabiliscono le azioni. Non è, quindi, solo una
questione di diritto, vale a dire una questione del tipo ‘che cos’è che rende possibile l’agire
sociale’, ma soprattutto è una questione che, a partire dai decorsi sociali, mira a ricercare le
condizioni che rendono possibile ad Alter ed a Ego di orientare reciprocamente le proprie
azioni. Di fatto gli individui entrano in relazioni che coordinano il loro agire, sia che questo
sia conflittuale oppure concorde o di intesa, o di consenso. Il lavoro, ad esempio, è un
“meccanismo” che coordina le azioni in vista di un obiettivo; tramite esso gli agenti
individuali coordinano le loro azioni. Il loro agire è retto da forme interattive che ne
regolano i gesti, ne articolano le modalità di combinazione, ecc. Il lavoro è un tipo
particolare di relazione perché, per quanto sia posto in atto dagli agenti, rende possibile il
loro stesso agire nel coordinarlo: tramite la particolare modalità di lavoro gli individui
entrano tra loro in relazione, si coordinano e si integrano. Il lavoro è una forma sociale
dell’integrazione.
Per questi motivi l’analisi sociologica dell’azione sociale pone un ordine nuovo di
problemi, che la teoria tradizionale dell’azione non affrontava. Questa, sulla scia del
pensiero di Aristotele, sostiene Habermas, tematizza la “struttura dell’attività finalistica” di
soggetti agenti isolati, già capaci di conoscere e di agire, secondo il paradigma della filosofia
della coscienza. Invece, la teoria sociologica dell’azione sociale ha da chiarire “un ordine
sociale ripartito in modo intersoggettivo”. La sociologia ha a che fare con l’individuazione
“di meccanismi della coordinazione dell’azione; che rendono possibile un reticolo regolare e
stabile di interazioni” (Delucidazioni sul concetto di agire comunicativo, p. 5), deve
pervenire all’elaborazione di modelli dell’interazione. Ora “Modelli di interazioni si
formano solo se le sequenze dell’azione, alle quali contribuiscono i diversi attori, non sono
lacerate in modo contingente ma sono coordinate secondo regole” (ibidem). Habermas
23
distingue, innanzitutto, modelli secondo i quali i meccanismi dell’azione si regolano o sul
conseguimento della “intesa” o sul uso della “influenza”.
In generale, le teorie sociologiche presentano degli aspetti comuni, ma soprattutto
assumono la “prospettiva interna di colui che agisce”:
“Una azione si lascia comprendere come realizzazione di un piano di azione che si fonda su
una interpretazione di una determinata situazione. Mentre l’attore sviluppa un piano di
azione, egli domina una situazione. La situazione di azione forma un settore di un mondo
circostante interpretato dall’attore. Questo settore si costituisce alla luce di possibilità di
azione, che l’attore percepisce come rilevanti per condurre il suo piano di azione. Le teorie
dell’azione si differenziano dalle impostazioni di tipo teoretico-comportamentale proprio
perché esse attribuiscono all’attore un sapere dalla struttura proposizionale. L’attore deve
ripetere in modo per così dire ‘foro interno’ gli enunciati di un osservatore (il soggetto, A,
ritiene o crede, vuole o ha in mente, desidera, o teme, che qualcosa, ‘p’, accada) e deve
potersi indirizzare a se stesso. In definitiva le teorie sociologiche dell’azione esigono per
quanto riguarda i partecipanti all’interazione almeno un sapere coincidente: le loro
interpretazioni della situazione si devono sovrapporre in modo sufficiente. Pertanto esse
ammettono anche la comunicazione linguistica, in ogni caso lo scambio di informazioni”.
(ibidem, p.5)
Tuttavia, nota Habermas, le teorie dell’azione si possono distinguere secondo che per il
coordinamento dell’azione venga postulata “una intesa, dunque un sapere comune oppure
unicamente una influenza esterna”. Questa precisazione riveste un ruolo importante per la
formulazione ed elaborazione della teoria dell’agire comunicativo, proposta dallo stesso
Habermas, che si distingue dalle altre teorie dell’azione sociale. Infatti, in generale le teorie
dell’agire, nel mantenere fisso il ruolo centrale svolto dal soggetto agente, si basano sulla
“influenza” piuttosto che sulla “intesa” nella descrizione e spiegazione delle azioni sociali.
Se per un sapere comune si deve intendere quel sapere che costituisce una intesa con
“pretese di validità criticabili” “nel riconoscimento intersoggettivo”, “intesa significa che i
partecipanti accettano un sapere come valido, cioè come vincolante in maniera
intersoggetiva. Solo in questo senso un sapere comune… può assumere le funzioni di
24
coordinamento dell’azione” (ibidem, p. 6). Il coordinamento delle azioni tramite intesa
forma un tipo di coordinamento diverso da quello operato e/o ricercato tramite l’influenza,
che agisce dall’esterno su un partecipante o sui partecipanti all’interazione. Mentre
nell’intesa i partecipanti nel maturare convinzioni condivise si sentono vincolati
all’interazione in maniera reciproca. Invece l’influenza non può che avere “un carattere
unilaterale”, non avendo i caratteri di un sapere comune condiviso, agisce “in maniera
causale”. Per Habermas, infatti, una teoria dell’azione sociale deve incorporare il riferimento
all’intersoggettività. Il che vuol dire che non è possibile costruire una teoria sociologica
dell’agire sociale muovendo unicamente o solo da una teoria del soggetto agente, che
persegua fini individuali e che stabilisca solo in questo modo con altri intese vincolanti.
Occorre, dunque, ritenere che ciò che rende possibile l’agire sociale è qualcosa che
accomuna e che per ciò stesso già vincola reciprocamente i soggetti per i quali si rende così
possibile l’intesa, e ricercare intersoggettivamente i criteri comuni di validità delle
interazioni. Con le parole di Habermas:
“Intesa significa che i partecipanti accettano un sapere come valido, cioè come
vincolante in maniera intersoggettiva. Solo in questo senso un sapere comune, nella
misura in cui contiene elementi rilevanti dal punto di vista dell'interazione oppure
implicazioni che hanno conseguenze sul piano interattivo, può assumere le funzioni
di coordinamento dell'azione. Vincoli reciproci nascono solo sulla base di
convincimenti condivisi in maniera intersoggettiva. Al contrario l'influenza esterna
(nel senso di effetto causale) sulle convinzioni di un altro partecipante all'interazione
conserva un carattere unilaterale.
Convincimenti condivisi in maniera intersoggettiva vincolano i partecipanti
all'interazione in maniera reciproca. Il potenziale di ragioni collegato con le
convinzioni forma allora un fondamento accettato sul quale analogamente uno può
fare appello all'opinione dell'altro. Invece un convincimento che uno induce
sull'altro, per esempio con l'aiuto di una menzogna, può non avere questo effetto di
vincolo. Convinzioni di tipo monologico ossia ciò che ciascuno foro interno ritiene
vero o giusto possono solo modificare gli atteggiamenti di volta in volta propri. Nel
modello dell'influenza unilaterale (oppure dell'influsso reciproco) le ragioni non
possono formare alcuna istanza di tipo appellativo per quanto possano essere buone.
In questo modello le buone ragioni, i buoni motivi non hanno alcun valore
posizionale privilegiato. Non conta il tipo dei mezzi, ma solamente il successo
dell'influsso sulle decisioni di un antagonista, sia che ciò venga condotto per mezzo
del denaro o della violenza o delle parole”. (ibidem p. 6).
25
Pertanto l’intesa e l’influenza sono “meccanismi della coordinazione dell’azione” che,
considerati dal lato degli agenti, non possono che escludersi, giacché “una intesa non può
essere imposta”, essa “perde il carattere di convincimenti comuni non appena il soggetto
riconosce che essa risulta da un’influenza esterna di un altro su di lui” (ibidem, p. 7).
Ciò che, dunque, consente di distinguere le diverse teorie dell’azione è il modo con cui si
istituisce il coordinamento delle azioni (contro il concetto dell’agire finalizzato di un
soggetto agente che persegue scopi col realizzare un piano adeguato, che da Aristotele in poi
è il nodo centrale delle teorie filosofiche dell’azione). A seconda di come si intende il
coordinamento è possibile operare una prima distinzione tra le teorie, ossia tra le teorie che
“si basano sull’influenza empirica dell’ego sull’alter”, oppure che si basano sulla produzione
di una intesa motivata in maniera razionale tra ego e alter. A seconda dell’una di queste due
posizioni, i partecipanti alle interazioni assumono un atteggiamento orientato o al successo
oppure alla comprensione” (p. 8). Ossia, a seconda che le azioni sono orientate all’intesa o
all’influenza si stabiliscono connessioni diversificate di interazioni e possono essere così
distinte le varie teorie dell’azione sociale. E’ l’orientamento che connette, è esso che dispone
gli agenti reciprocamente nel conseguimento di un fine che, nell’agire comunicativo, che
muove all’intesa, è per così dire immanente alla stessa connessione, ne è il telos; invece,
negli altri casi, la connessione è strumentale, perché l’agire è volto a conseguire un fine che
è soggettivo, individuale o collettivo, e insieme esterno, per così dire, alla connessione delle
azioni.
Habermas distingue i diversi tipi di agire in relazione alla connessione/coordinamento che
in essi si effettua (è necessario ricordare che non si può parlare di azione senza tener conto
che l’agire si muove in una connessione di azioni e che, pertanto, anche l’agire teleologico si
rende possibile in una coordinazione di singole azioni di singoli soggetti o attori).
Ė così possibile distinguere le azioni sociali in base al fatto che i partecipanti assumano
un orientamento al successo/influenza oppure all’intesa. I partecipanti stessi impegnati
nell’interazione sanno distinguere intuitivamente quando il loro agire è volto ad influenzare
e a fare pressione sugli altri, oppure quando è volto alla comprensione e all’intendersi e
valutare i loro tentativi di intesa. In queste due categorie di azioni, il linguaggio svolge
funzioni assai diverse. Habermas ritiene che sia possibile distinguere, infatti, tra azioni in cui
26
il linguaggio è usato in quanto mezzo per conseguire fini o per influenzare, ossia orientate al
successo, e azioni in cui il linguaggio stesso è volto all’intesa, ossia in cui la
comprensione/intesa “inerisce come telos al linguaggio umano”, “il linguaggio è medium di
comprensione”, ossia veicolo di intesa.
I quattro concetti fondamentali di azione sociale:
«A partire da Aristotele il concetto di agire teleologico sta al centro della teoria filosofica
dell’azione. L’attore realizza uno scopo ovvero provoca il verificarsi di uno stato auspicato,
scegliendo i mezzi che nella situazione data promettono successo e applicandoli in maniera
adeguata. Il concetto centrale è la decisione fra alternative di azione, orientata alla
realizzazione di uno scopo, guidata da massime e basata su una interpretazione della
situazione.
Il modello di azione teleologica viene ampliato a modello di azione strategica se nel
calcolo del successo dell’agente può entrare l’aspettativa di decisioni di almeno un altro
attore che agisce in modo orientato allo scopo. Tale modello di azione viene spesso
interpretato in senso utilitaristico; allora si suppone che l’attore scelga e calcoli i mezzi e gli
scopi in un’ottica di massimizzazione dell’utilità ovvero di aspettative di utilità. Questo
modello di azione sta alla base degli approcci della teoria della decisione e della teoria dei
giochi in economia, sociologia e psicologia sociale.
Il concetto di agire regolato da norme non si riferisce al comportamento di un attore in
linea di principio solitario, che trova già nel suo ambiente altri attori, bensì a membri di un
gruppo sociale che orientano il proprio agire in base a valori comuni… Le norme esprimono
un’intesa esistente in un gruppo sociale. Tutti i membri di un gruppo, per i quali vale una
determinata norma, devono attendersi reciprocamente l’attuazione ovvero l’omissione delle
azioni di volta in volta prescritte. Il concetto centrale di osservanza delle norme significa
che l’aspettativa generalizzata di un comportamento viene soddisfatta…. Questo modello di
azione normativa sta alla base della teoria dei ruoli.
Il concetto di agire drammaturgico non si riferisce in prima linea né ad un attore singolo,
né al componente di un gruppo sociale, bensì a partecipanti all’interazione che creano l’uno
per l’altro un pubblico dinanzi al quale essi si rappresentano. L’attore evoca nel suo
pubblico una determinata immagine, un’impressione di se stesso rivelando in modo più o
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meno orientato la propria soggettività. Ogni agente può controllare l’accesso pubblico alla
sfera delle proprie intenzioni, idee, atteggiamenti, desideri, sentimenti ecc., alla quale lui ha
un accesso privilegiato. Nell’agire drammaturgico i partecipanti traggono profitto da tale
circostanza e guidano la loro interazione mediante la regolazione del reciproco accesso alla
rispettiva soggettività. Il concetto centrale di autorappresentazione non significa perciò un
comportamento espressivo spontaneo, bensì la stilizzazione della manifestazione delle
proprie esperienze vissute in funzione degli spettatori. Tale modello di azione
drammaturgica
serve
in
primo
luogo
alle
descrizioni
di
interazioni
orientate
fenomenologicamente; ma a tutt’oggi esso non è stato ancora elaborato come approccio
generalizzante dal punto di vista teorico.
Il concetto di agire comunicativo infine si riferisce all’interazione di almeno due soggetti
capaci di linguaggio e di azione che (con mezzi verbali o extraverbali) stabiliscono una
relazione interpersonale. Gli attori cercano un’intesa attraverso la situazione di azione per
coordinare di comune accordo i propri piani di azione e quindi il proprio agire. Il concetto
centrale di interpretazione si riferisce in prima linea al concordare definizioni di situazioni
suscettibili di consenso. In tale modello di azione il linguaggio viene ad assumere un posto
preminente.» (Teoria dell’agire comunicativo, pp. 155-157).
In particolare, per quanto riguarda i presupposti e i riferimenti ontologici dei quattro
modelli di azione, Habermas precisa quanto segue:
l’agire teleologico e quello strategico presuppongono delle relazioni tra un attore o più attori
e un “mondo di stati di fatto esistenti”, vale a dire presuppongono solo un mondo oggettivo:
“totalità degli stati di fatto che esistono o possono verificarsi ovvero essere prodotti da un
intervento orientato” (id. p. 158).
L’agire regolato da norme presuppone delle relazioni tra attori e un mondo oggettivo e
sociale, ha riferimento a due mondi «cui appartiene l’attore in quanto soggetto che svolge
dei ruoli, come pure altri attori che possono stabilire tra loro delle relazioni regolate in modo
normativo. Un mondo sociale consta di un contesto normativo che stabilisce quali
interazioni appartengano alla totalità di relazioni interpersonali autorizzate. E tutti gli attori,
per i quali valgono le norme corrispondenti (da essi accettate come valide), appartengono
allo stesso mondo sociale» (id. p. 160). Tale modello presuppone che l’agente sia in grado di
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distinguere “le componenti fattuali da quelle normative della sua situazione di azione, vale a
dire le condizioni e i mezzi dai valori” (id., pp. 162-163).
L’agire drammaturgico presuppone relazioni anche con il mondo soggettivo. Questo
modello non presenta uno statuto teorico soddisfacente. E. Goffman lo presenta nel 1956
nella sua ricerca sull’autorappresentazione nel quotidiano per caratterizzare le interazioni
semplici: «La prospettiva – scrive Goffman – che viene usata in questo lavoro è quella della
rappresentazione teatrale; i principi che ne derivano sono di tipo drammaturgico. Prenderò in
esame il modo in cui un individuo, in normali situazioni di lavoro, presenta se stesso e le sue
azioni agli altri, il modo in cui guida e controlla le impressioni che costoro si fanno di lui, e
il genere di cose che può o non può fare mentre svolge la sua rappresentazione in loro
presenza. Nell’usare questo modello, non cercherò di celare le sue palesi carenze: il
palcoscenico presenta delle finzioni; presumibilmente, invece, la vita presenta cose vere e
non sempre ben imparate in precedenza. Cosa ancora più importante, forse, è che in teatro
un attore si presenta nelle vesti di un personaggio che si riflette nei personaggi proiettati
dagli altri attori; il pubblico costituisce un terzo elemento dell’interazione: elemento
essenziale, che, tuttavia, se la rappresentazione fosse realtà, non avrebbe occasione di
esistere. Nella vita quotidiana i tre elementi si riducono a due soli; la parte rappresentata da
un individuo è adattata alle parti rappresentate dagli altri, ma questi, a loro volta,
costituiscono anche il pubblico» (Goffman:La vita quotidiana come rappresentazione, p. 9.
Tr. it. il Mulino). Nell’agire l’attore, dovendo dare una rappresentazione di se stesso, deve
rapportarsi al suo mondo soggettivo. Habermas intende con tale espressione “la totalità delle
esperienze vissute soggettive alla quale l’agente ha un accesso privilegiato rispetto agli
altri”. «Secondo il modello di azione drammaturgia i partecipanti possono assumere un
atteggiamento verso la propria soggettività nel ruolo dell’attore e un atteggiamento verso il
manifestarsi espressivo di un altro attore nel ruolo del pubblico, soltanto nella
consapevolezza che il mondo interiore di Ego è delimitato da un mondo esterno. In
quest’ultimo l’attore può certo distinguere fra componenti normative e non-normative della
situazione dell’agire; ma nel modello goffmanniano di azione non è previsto che egli si
rapporti al mondo sociale con un atteggiamento di conformità » (Teoria dell’agire
comunicativo, p. 167).
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L’agire comunicativo presuppone relazioni tra agenti e i tre mondi soggettivo, sociale e
oggettivo. Rispetto agli altri modelli, la comprensione linguistica riveste un ruolo
preminente come meccanismo, medium, di coordinamento delle azioni. In tutti gli altri
modelli “il linguaggio viene concepito unilateralmente sotto profili di volta in volta diversi”
(id. p. 169). Nel modello dell’agire comunicativo il «linguaggio [è assunto] come medium di
comprensione e di intesa non-ridotta, ove i parlanti e gli uditori, dall’orizzonte del loro
mondo vitale pre-interpretato, fanno contemporaneamente riferimento a qualcosa nel mondo
oggettivo, sociale e soggettivo per trattare comuni definizioni della situazione» (id. p. 170).
«L’agire comunicativo poggia su un processo cooperativo di interpretazione nel quale i
partecipanti si riferiscono contemporaneamente a qualcosa nel mondo oggettivo [“in quanto
totalità delle entità sulle quali sono possibili delle comunicazioni vere” (p.706)], in quello
sociale [“in quanto totalità delle relazioni interpersonali regolate in modo legittimo”], e in
quello soggettivo [“in quanto totalità delle esperienze vissute accessibili in modo
privilegiato che il parlante può esprimere in modo veridico dinanzi ad un pubblico”], anche
se nella loro espressione sottolineano tematicamente soltanto una delle tre componenti. Qui
parlante ed ascoltatore usano il sistema di riferimento dei tre mondi come quadro
interpretativo all’interno del quale essi elaborano definizioni comuni della loro situazione di
azione.» (id. p.707).
Appendice, concetto di comunità societaria di Parsons.
«Il concetto di cittadinanza, nel senso qui usato, si riferisce alla
piena appartenenza a ciò che definisco comunità societaria (Parsons,
1966a). Questo termine si riferisce a quell'aspetto della società complessiva intesa come sistema che forma una Gemeinschaft, cioè il
fulcro della solidarietà o mutua lealtà dei suoi mèmbri e che costituisce la base consensuale sottostante all'integrità politica. Questa
appartenenza è cruciale per quello che significa essere definito nella nostra nazione - come "un americano". [...]
Forse è John Rawls che ha espresso più chiaramente di chiunque
altro, in termini filosofici generali, il senso in cui la piena cittadi30
nanza implica una fondamentale uguaglianza di diritti - non uguaglianza in tutti i sensi, ma nel senso che attribuiamo ai diritti propri
dello status di appartenente alla comunità societaria (Rawls, 1963).
Dal punto di vista dei componenti, la comunità societaria è una categoria dell'impegno dei mèmbri nei confronti della collettività in cui
sono associati, e dei mèmbri l'uno verso l'altro. Essa è il centro delle lealtà, che non devono essere assolute, invero non possono esserlo, ma che richiedono un'alta priorità rispetto alle lealtà dei mèmbri
(Shils, 1956). Per occupare questa posizione, la struttura associativa
deve concordare con i valori comuni della società: i mèmbri sono
impegnati verso di essa sia perché realizza i loro valori, sia perché
organizza i loro interessi in relazione ad altri interessi. In questo secondo caso, essa è la base per definire regole per il gioco degli interessi tali da rendere possibile l'integrazione, prevenendo che gli inevitabili elementi di conflitto conducano a circoli viziosi radicalmente distruttivi per la comunità. È inoltre la base di riferimento dei criteri per l'allocazione delle risorse mobili disponibili in comunità
complesse.
In tutte le società "avanzate", la comunità societaria è legata alla
organizzazione politica, ma ne è anche differenziata. Anche se tutte
le società avanzate sono "organizzate politicamente", questo aspetto
della loro organizzazione, ciò che comunemente, a livello societario,
definiamo come governo, non coincide con la comunità nel senso
qui impiegato. È esattamente quando i due si trovano in qualche
modo in conflitto che possono sorgere situazioni rivoluzionarie.»
(da T. Parsons, Comunità societaria e pluralismo, tr. It.
FrancoAngeli, Milano
pp. 114-115)
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