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COMUNICAZIONE E IDENTITÀ NEL SISTEMA DI
IMPRESA E NELLE ISTITUZIONI
Stefano Rolando∗
Abstract
L’autore argomenta il ruolo della problematica identitaria nel presidio professionale e
gestionale delle attività di comunicazione e di relazioni interne/esterne sia nel sistema di
impresa che nelle organizzazioni istituzionali.
La tesi di fondo è che non si possa identificare identità con immagine. Essendo quest’ultima
il prodotto sedimentato di funzioni promosse e di caratteri promozionali percepiti da utenti e
interlocutori dell’azienda o dell’ente.
In tale cornice vengono illustrate le principali componenti dell’identità nel sistema di impresa
individuando dodici fattori essenziali (brand, imprenditore, management, prodotto, ecc.).
Il presidio gestionale e professionale dei caratteri identitari viene definito “strategico”
quando esso concorre a formare decisioni e non quando esso costituisce solo un motivo
collaterale di attività relazionale o di “good-will”.
Particolare attenzione viene attribuita al ruolo dell’identità nei processi di cambiamento in
quanto rischi e resistenze, flessibilità e opportunità sono altrettante condizioni che dal
governo identitario stimolano il cambiamento oppure dalle condizioni di cambiamento
generano modifiche ai caratteri identitari.
Il passaggio centrale dello scritto riguarda i processi comunicativi per la gestione dei fattori
identitari, di cui vengono illustrati alcuni caratteri essenziali: riconoscibilità, reputazione,
coerenza, capacità narrativa, delegabilità, simbolicità, territorialità, condivisibilità.
Key words: problematica identitaria, identità, immagine, fattori identitari
The article analyses the identity factor in managing both internal and external
relationships within the business organisations and institutions.
It is argued that the identity must be distinguished from the image. It is necessary to
underline that the latter is only the is the customers’ and other stakeholders’ perception
resulting from the promotional activities directed to them. The article gives the definition,
principal componentes and twelve essential factors of the identity (brand, enterpreneur,
management, product, etc).
Moreover, identity factors management can be considered as strategic, as long as it
plays a significant role in the decisional processes, instead of being only considered as an
outcome element of the activities undertaken.
*
Professore associato di Economia e gestione delle imprese - Università Iulm di Milano.
e-mail: [email protected]
sinergie n. 59/02
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COMUNICAZIONE E IDENTITÀ NEL SISTEMA DI IMPRESA E NELLE ISTITUZIONI
Identity plays an important role in the processes of changes where, on one hand the
management of the identity influences the environment and, on the other hand, it may be the
result of the changes in the environment itself.
Once the identity factor has been recognized, it can be managed. The article focuses on
the communication processes resulting from identity factors management. While describing
the identity factors, the following expressions can be used: ability to be recognized,
reputation, coherence, narrative capacity, delegation, symbol, territory, sharing.
Key words: identity question, identity, image, identity factors
1. L’identità non è l’immagine. Premesse
L’importanza dell’identità è al tempo stesso culturale, sociale ed economica.
L’identità non è l’immagine. Essa è patrimonio di una soggettività percepita. Non la
costruzione di un modello (tanti sono i modelli possibili) della propria proiezione.
Culturalmente l’identità rappresenta il nesso tra percezione della propria storia e
della propria tradizione e l’immaginazione di un futuro, anche immediato,
considerato possibile. Dunque rappresenta un fattore di razionalità culturale che –
nel caso delle imprese - modera e marginalizza componenti velleitarie non estranee
alla cultura di impresa, come è testimoniato dal tasso di mortalità nell’esperienza
stessa delle aziende.
Socialmente l’identità rappresenta un ponte tra la percezione interna (proiettata
sulle prospettive) e la percezione dell’esterno (proiettata sulle tradizioni) con quei
caratteri di parziale condivisione da cui dipende una quota non insignificante della
legittimazione dell’azienda nel mercato, nei territori di radicamento, nel rapporto
con le istituzioni e con i soggetti della rappresentanza.
Economicamente l’identità rappresenta una componente misurabile del valore. Il
suo presidio strategico – percezione del percorso storico, valutazione dei fattori
valoriali e immateriali nel quadro patrimoniale, analisi del principio di coerenza nei
comportamenti, misurazione in senso riorganizzativo del gap (anche piccolo, un gap
esiste sempre) tra dinamiche interne ed esterne all’impresa – è pre-condizione
dell’aggettivo “aggiunto” .
Nel corso di questa breve trattazione, pur riferendoci essenzialmente alle imprese
operanti sul mercato, terremo conto in alcuni passaggi del carattere similare del
fattore identitario anche per sistemi organizzativi di altro tipo, con particolare
riferimento alle istituzioni, così da allargare il perimetro di osservazione ad un
territorio che vede originati i propri soggetti operativi non solo dalle regole del
mercato e da un ciclo di vita misurabile anche solo attraverso parametri economici,
ma anche da regole sociali e quindi da una relazione tra soggetto e utenza inquadrato
in parametri giuridico-istituzionali e definibile attraverso la natura delle
competenze. Fanno da ponte – come è noto – tra queste due tipologie di
organizzazioni complesse, le imprese di natura pubblica (con buona pace della
letteratura che non concede l’espressione “impresa” che a soggetti privati con
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finalità economiche) o di pubblico servizio, che parimenti non possono essere
sottratte da qualche riflessione concernente il tema in oggetto.
Non si può non far cenno in premessa alla relativa fragilità e soprattutto al
carattere recente della ricerca sul tema dell’identità. Come si ricorda nella voce
omonima dell’Enciclopedia “Treccani” delle Scienze Sociali1, l’utilizzo
dell’espressione ricavata dalla sua radice semantica (dal latino idem, lo stesso) ha
generato a lungo una letteratura un po’ generica e allusiva, alla fine incanalata negli
studi sull’individualità e sul carattere “unitario” della persona; finché le culture
sociali innovative degli anni cinquanta (Claude Lévi-Strauss, ad esempio)2 hanno
cominciato a sostenere il principio della forte interdisciplinarietà dell’espressione
agevolando in seguito studi sull’immigrazione e lo sradicamento, studi sulla
relazione tra identità e società “aperte o chiuse”, studi sull’appartenenza e
l’ideologia, studi sulla fedeltà nei comportamenti economici e valoriali, studi legati
alla geo-politica e, come si vedrà dai seguenti modesti accenni, anche studi possibili
sulle strategie comunicative del sistema di impresa. Oggi lo “scaffale” della
saggistica di ripensamento – probabilmente alimentata dalla spinta da un lato
dell’integrazione europea (e, più in generale, dai processi di globalizzazione) e
dall’altro lato dalle rivendicazioni autonomistiche territoriali – ha ripreso un certo
vigore riconnettendosi ad una storia antica del pensiero nazionale espresso anche
quando non c’era la nazione3.
2. Le principali componenti dell’identità nel sistema di impresa
Sono molteplici i fattori che compongono il perimetro dell’identità nel sistema di
impresa.
Cercare di identificarli e, in un certo senso, di gerarchizzarli predispone ad un
risultato sicuramente inesaustivo. Quelli che qui passeremo in rassegna brevemente,
tuttavia, offrono una base, sia pure a maglie larghe, per disegnare tale perimetro che
è condizione obbligata per ogni successiva riflessione di tipo dinamico.
Faremo qui riferimento ai seguenti fattori:
- la tradizione
- il prodotto
- la figura dell’imprenditore
- il risultato economico
1
2
3
SCIOLLA L. (a cura di), “Identità personale e collettiva”, in Enciclopedia delle Scienze
Sociali, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma, vol. IV, 1994, pp. 496-506.
LÉVI-STRAUSS C., L’identità, Palermo, Sellerio, 1980.
Si consenta – nel rinviare ad alcuni testi recenti indicati nella Nota bibliografica – un
riferimento circa tale dibattito al sintetico scritto “L’identità italiana e la sua
rappresentazione”, di S. ROLANDO, in Italia-Europa. Identità e comunicazione, a cura
di S.ROLANDO e E.LIO, Milano, Franco Angeli, 2000.
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il brand
il management
la comunità di lavoro
l’utenza
il territorio di radicamento
la percezione dei competitors
la percezione degli investors
il presidio comunicativo.
Si è già parlato di tradizione ed è da qui che verrebbe naturale partire per
costruire il profilo identitario. Per breve che sia, per recente che sia, una tradizione
vi è anche nelle imprese fondate sulla discontinuità. Vi è anche chi sostiene che la
completa innovazione porta in sé una “nostalgia della tradizione”, nel senso che si
vorrebbe che quanto si sta per fare innovativamente appartenga ad un mondo di
valori e di tradizioni a cui si crede, al punto da volerlo fondare. Può sembrare un
paradosso, ma esso contiene – nella psicologia dell’imprenditore (privato o
pubblico) – qualcosa di vero e verificato. Da qui la collocazione di questo fattore
nella prima casella di una lunga corsa.
Fa parte dell’esperienza di una lunga cultura generata dall’esperienza
manifatturiera dell’impresa – ora in una parte importante superata dai processi di
finanziarizzazione intesi come finalità strategica dell’impresa, dalla creazione di
immaterialità, dalla alta flessibilità operativa – collocare nel cuore dell’idea di
“tradizione” l’idea di adesione valoriale al proprio prodotto. L’esempio sul grande
scenario industriale italiano delle asserzioni dell’avvocato Agnelli – in un quadro
dominato dall’ombra di accordi che presuppongono la marginalizzazione del
prodotto automobilistico nel futuro dell’azienda di famiglia – di ancorare al prodotto
il rapporto tra il brand dell’impresa Fiat e la stessa vita individuale del suo
presidente onorario ha avuto forte significato nella realtà italiana.
Ciò vale per una molteplicità di imprenditori che hanno qui connesso storia,
innovazione, riconoscenza del mercato, competenza. Tradizione e prodotto, dunque,
generano l’identità stessa di imprenditore nel soggetto di impresa (che può essere
soggetto allargato al quadro famigliare e al management, naturalmente). Si dirà che
ciò vale più nell’area dello small-business che nelle dimensioni di altissimo fatturato
e di dipendenza dal quadro di borsa, più nell’area pmi che nelle grandi articolazioni
di impresa. Ma questa preliminare filiera del processo identitario è una cultura di
base che stinge ancora largamente sui processi di apprendimento, sui comportamenti
imitativi, sulle vocazioni sociali del ruolo professionale.
I tre fattori di base esprimono una fusione di successo se generano ricchezza. Se
essi generano successi finanziari altalenanti, se il denaro diventa una meta e
un’angoscia, questa casella – nel percorso che ha difficoltà ad essere rappresentato
integralmente come diacronico – si minimizza. Ma se la fusione è virtuosa, non vi è
dubbio che il denaro si inquadra come il quarto fattore di base di costruzione di una
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identità che, sul terreno comune di quattro dimensioni a contenuto differenziato,
esprime la quinta casella, ovvero la fisionomia del brand.
Il brand o, nell’espressione italiana, la marca, è un insieme, in definitiva, delle
fondamenta del processo di impresa, non vernice per l’esterno propria dei processi
di immagine. Esso fissa l’insieme delle relazioni, fin qui brevemente descritte, nel
tempo, nella società, nella percezione mediatica, nell’utenza. Genera quindi una
identità preliminare alla prospettiva dell’impresa come sistema creativo,
tendenzialmente superata dagli atti, dalle opzioni, dagli obiettivi di questa capacità
creativa. Ma al tempo stesso ne è la pre-condizione, la radice culturale, il rifugio.
Tra il brand e le necessità di cambiamento dell’impresa, in realtà, possono sorgere
conflitti. Ma fa parte del successo dell’impresa e dell’imprenditore costruire
approcci di coerenza e di compatibilità che – salvo enormi criticità (si pensi
all’avventura della Enron negli Stati Uniti) – abitualmente salvano attorno al brand
tradizione e innovazione4 (è stata questa in Italia, per esempio, la storia fino a poco
tempo fa della Olivetti capace di alcuni salti mortali su se stessa oppure della Pirelli,
in particolare dall’intuizione sulla diversificazione verso il business delle
comunicazioni).Una relazione, dunque, che non si limita alla relazione prodottomercato ma che investe anche interattivamente la dinamica tra il mercato stesso e le
dinamiche sociali in cui l’impresa è collocata5.
Si inquadra, rispetto a questa schiera di cinque fattori (che potrebbero essere
ricondotti trasversalmente all’area della “cultura dell’impresa”6), la problematica
dei riscontri interni ed esterni. Che diventano parte dell’alimentazione stessa alla
trasformazione della dimensione di identità. Difficile qui gerarchizzare. Per cui
diciamo che le prossime sei caselle sono occupate da soggetti che operano
simultaneamente.
All’interno – rispetto alla percezione dell’imprenditore – vi è, con crescente
integrazione di ruolo e di determinazione della cultura interna, innanzi tutto il
management e – con crescente diluizione e relativa fidelizzazione in ordine al
profilo di appartenenza – la filiera professionale e del lavoro dipendente.
4
5
6
VICARI S. (a cura di), Brand Equity, Egea, Milano, 1995.
E’ questo, del resto, il sottotitolo stesso del saggio di A.SEMPRINI dedicato alla marca
(La marca. Dal prodotto al mercato, dal mercato alla società, Milano, Lupetti, 1996),
che ipotizza la marca come “un fenomeno comunicativamente complesso”.
La cultura di impresa rappresenta un tema largamente esplorato e approfondito in
letteratura. Sulla base di modelli di cultura derivati sostanzialmente dall’antropologia, a
partire dagli anni ’50 si sono sviluppati i modelli di cultura organizzativa (di impresa).
Complessivamente, gli studiosi definiscono la cultura organizzativa come “universi
simbolici, valori, norme, idee dominanti, preferenze’, ‘modo tradizionale, abituale e
condiviso di pensare e fare le cose’, ‘capacità, competenze distintive, caratteri
organizzativi, leadership”. A partire da tali aggregati di concetti, si possono estrapolare
elementi di dettaglio per dare corpo e operatività al concetto di cultura; tra questi, si
annoverano appunto i menzionati fattori, in particolare: prodotto, risultato economico,
brand, imprenditore.
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All’esterno vi è – con un principio di fedeltà e di appartenenza che o è oggetto di
accurata e costante ricerca e messa a punto, oppure tende prevalentemente a
scomporsi e ricomporsi sul piano della convenienza e non dei principi culturali –
l’utenza. E, in forma diversa, il contesto dei soggetti significativi nel territorio di
radicamento, qui con situazioni che nei contesti occidentali si presentano a
scacchiera (forte/debole) quanto a compenetrazione identitaria (questo tema sarà un
poco più approfondito in un punto successivo).
Sempre all’esterno costituisce importante argomento di legittimazione
riguardante la proposta identitaria dell’impresa, la valutazione dei competitors e, ben
inteso, il valore dell’impresa percepito dagli investors.
Le dinamiche che riguardano questi interlocutori, più o meno consapevoli
dell’essere identity makers per l’impresa, in quanto relazionati non alla “propria”
impresa se non per il fatto che percepiscono remunerazioni di vario genere (denaro,
piacere, identificazione, eccetera) e diversa ampiezza dall’impresa stessa, comunque
a cambio di valori misurabili (denaro, fatica, apprezzamento, eccetera),
costituiscono il vero campo di esercitazione di una politica della ricerca dell’impresa
che intenda presidiare questo segmento come strategico. Il fatto che la ricerca sulla
relazione identitaria sia per lo più ai margini dello spending dell’impresa
(segnatamente in Italia, dove la cultura delle PMI presuppone una percezione
“nasometrica” della questione) è un segnale di bassa classifica del problema che qui
trattiamo. Ma anche di serio rischio in ordine al valore della cultura dell’impresa
nell’incidenza sulla cultura sociale tout-court.
Piuttosto l’impresa (medio-grande) è attenta alla relazione tra gli ultimi due
fattori che agiscono sulle dinamiche identitarie: da un lato il grado e la modalità
della mediatizzazione dell’impresa; dall’altro lato la capacità, l’esperienza e il
controllo che l’impresa stessa sa esercitare sui processi di comunicazione. È qui che
si corre più che altro il rischio di confondere identità con immagine7. Ed è qui che,
ove manchi la voglia di analizzare e valutare costantemente, la serie dei passaggi fin
qui accennati, il passaggio percettivo rischia di esaurirsi nella banalità e
nell’estemporaneità di un sondaggio. Strumento di per sé né banale né inutile, ma
spesso utilizzato come comprovazione di una condizione identitaria che si misura in
verità in tutt’altro modo.
7
Normann sostanzialmente definisce l’immagine come “identità percepita”, individuando
poi “i fattori portanti” dell’immagine”, che di fatto sono fattori identitari, e sottolineando,
nel suo modello per la gestione dei servizi, i collegamenti strettissimi, anche quando
impliciti, tra immagine, identità e cultura. NORMANN R., La gestione strategica dei
servizi, Milano, Etaslibri, 1985.
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3. Il rapporto tra identità e immagine
Se ne è già fatto cenno ed è dunque venuto il momento di approfondire questa
relazione.
Identità è un tessuto di concatenazioni strutturali che coinvolgono tutti i fattori
interni ed esterni attorno all’impresa in una relazione che muta lentamente, che è
moderatamente sconvolgibile – nel breve – dalle dinamiche mediatiche, che è
sostenuta da alcuni parametri strutturali connessi al rapporto tra storia e valore
dell’impresa stessa8.
Immagine è un cuneo – pur importantissimo nella vita commerciale o nel
posizionamento mediatico – inserito o disinserito rispetto a quel processo, che può
avere correzioni più veloci per quanto instabili (ma corrispondenti ad obiettivi a loro
volta mutevoli) e che può non cancellare, ma per alcuni versi dissimulare, i
parametri strutturali che abbiamo indicato nella relazione storia/valore9.
Alla fine, custode dell’identità in un’impresa si rivela essere prevalentemente
l’ufficio studi. Custode dell’immagine è tendenzialmente l’ufficio comunicazione. Si
pensi alle differenze di approccio e si comprenderanno le differenze di sostanza.
Anche se vi sono modelli organizzativi virtuosi che hanno insegnato al management
– anche grazie all’analisi della relazione tra questi due fattori così importanti per lo
sviluppo stabilizzato dell’azienda – a connettere le funzioni di questi due uffici.
Rendendo impossibile fare ricerca senza implicarne un uso di trasferimento interno
ed esterno di conoscenza e fare comunicazione senza compiere – ex-ante e ex-post –
molteplici e accurati riscontri. Questa espressione (“sviluppo stabilizzato”) ci offre
la prospettiva di mettere basi di coerenza all’inseguimento che l’azienda è indotta a
fare rispetto all’evoluzione del mercato. Non per subire ritardi nella velocità, ma per
saper reggere all’impatto del cambiamento controllando i fattori interni di
metabolizzazione del cambiamento stesso.
Da qui l’orientamento dell’analisi del rapporto distinto e convergente,
complementare oppure oppositivo, tra identità e immagine, nel perimetro che
abbiamo in precedenza disegnato.
La percezione interna di questa relazione modifica la cultura propria
dell’impresa.
8
9
PARKER M., Organizational culture and identity, London, Sage Publications, 2000;
JERVIS G., La conquista dell’identità, Milano, Feltrinelli, 1997.
BERNSTEIN D., Company image, Milano, Guerini e associati, 1988; BACCARANI C.,
GOLINELLI G.M., “L’impresa inesistente: relazioni tra immagine e strategia”, Sinergie
n. 29, 1992; BRONDONI S.M., “Comunicazione, risorse invisibili e strategia
competitiva d’impresa”, Sinergie, n. 43/44, 1997; CODA V., Comunicazione ed
immagine nella strategia dell’impresa, Torino, Giappichelli, 1991; MORGAN, G.,
Images of Organizations, London, Sage Publications, 1986; MORELLI M., La
comunicazione d'impresa e la promozione dell'immagine, Milano, Franco Angeli, 1997.
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La percezione nel mercato di questa relazione crea favore o sfavore in ordine ai
trend dominanti. Ma è abbastanza dominabile attraverso i dati oggettivi (borsa,
rendimento, qualità, eccetera).
La percezione individuale del cliente è orientabile attraverso la comunicazione,
con attenzione a non far correre da sola la pubblicità che rischia di collegare su un
terreno di pura promessa onirica brand e consumi, talvolta in un sogno infinito,
talvolta in un’alba foriera – come si sa – di sogni infranti. Ovvero di avere sempre a
disposizione un piano di comunicazione integrata che equilibri i target congiunturali
rispetto alla percezione storica della missione.
La percezione degli investors e delle fonti alte di mediazione di opinione
costituisce ambiti che abitualmente l’impresa affida a soggetti diversi dagli uffici
studi e dagli uffici comunicazione (relazioni con gli investors e relazioni esterne)
perché qui il confezionamento della verità risponde a logiche tecniche precise
rispetto a cui l’identità e l’immagine hanno un peso al tempo stesso limitato e
delicato.
4. L’impresa come soggetto privato e come sistema di pubblico interesse
Chi ha detto che “identità” sia espressione limitabile all’impresa e che il modo di
essere gestita non abbia grandi sollecitazioni rispetto all’essere impresa anche nel
settore pubblico, nelle pubbliche amministrazioni, nelle istituzioni?
Il fatto che il campo di riflessione sia qui prevalentemente limitato all’impresa
non ci può far dimenticare questo potenziale di trasferimento culturale che, anche su
questo terreno, il sistema di impresa ha determinato – soprattutto negli ultimi dieci
anni – a vantaggio della cultura delle istituzioni e di un modo di presidiare il tema
non discendente dalla pura autoreferenzialità recintata dal quadro di competenze
assegnate dalle leggi, ma costruito anche attraverso le dinamiche socio-culturali che
riguardano la relazione dinamica tra fonti interne e sistemi esterni.
Quanto a identità, è fuori di dubbio che alcune istituzioni la sappiano più lunga
anche di alcune grandi imprese. Dire Banca d’Italia o Ministero degli Esteri, dire
Arma dei Carabinieri o Vigili del Fuoco, dire Nazioni Unite oppure Comune di
Milano, equivale ad un potenziale identitario sostenuto da storie che appartengono
alla cultura diffusa. Ma fa incontrare anche storie di grandi crisi di identità (due
esempi recenti vengono dalla lunga riflessione sulla propria missione nel
cambiamento del quadro istituzionale che ha attraversato la carriera prefettizia e
dalla ancora non esplosa problematica identitaria dell’istituzione che sta ricevendo
più poteri e competenze e che sta meno nel cuore degli italiani, ovvero le Regioni).
A dimostrazione che se c’è storia o se c’è crisi, in entrambi casi si pongono problemi
di presidio, di consolidamento e di correzione che hanno molti tratti comuni e anche
molti tratti di differenza rispetto alla problematica qui applicata alla dimensione
dell’impresa. Essendo quest’ultima regolata da un principio generale di rendimento,
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pena l’estinzione dell’azienda qualunque sia la sua identità, la contaminazione
culturale appare interessante.
Vero è anche che – nel caso italiano – la crisi di molte aziende grandi e
tradizionali, pur sostituite da altre organizzazioni e da altre forme di
imprenditorialità, ha generato una certa crisi di un profilo identitario generale legato
al modello del “miracolo italiano”, degli anni della ricostruzione, della centralità
industriale nel processo di rigenerazione economica. Una crisi che ha fatto ritrovare,
in una parte dell’opinione pubblica, questo carattere di riconoscibilità e di
connessione al riconoscimento delle funzioni in ambiti istituzionali (si pensi al
successo crescente dei Carabinieri e della Polizia di Stato, in particolare nelle
audiences giovanili) che in realtà mantengono una coerenza di ruolo rispetto ad una
catena generazionale e che appartengono, sotto questo profilo, al bisogno ineludibile
di “tradizione”.
Ciò non toglie che anche le nuove imprese hanno e si pongono problemi di
identità e che, rispetto al loro modo di trattare il fenomeno, l’analisi attuale (non
molto diffusa) presenta caratteristiche tecnico-esplorative certamente affascinanti
per lo studioso.
Comunque, va aggiunto, è attorno al profilo dell’interesse pubblico che si aprono
continui aspetti di crisi identitaria, che abitualmente ricadono tanto sulla funzionalità
delle istituzioni, quanto sulle problematiche sussidiarie dell’impresa, quanto sui
bisogni e le attese delle utenze. Si potrebbero fare mille esempi, ma basterà riflettere
solo alla problematica dei medici (il cui studiatissimo burn-out è materia di
management di qualunque contesto sanitario) per comprendere come il fattore
identitario – che attraversa quasi tutte le dimensioni professionali – leghi a sé
profondamente il ruolo delle istituzioni e dei soggetti socio-economici.
Ciò che la società civile identifica come “istituzioni” non ha carattere
omologabile in tutto il contesto nazionale. Così come anche la percezione del ruolo
dell’impresa, dipende dalla tradizione dei contesti socio-economici. Nell’ipotesi di
Milano – città considerata capitale del sistema di impresa – istituzioni sono,
nell’immaginario collettivo ( e quindi nel riscontro identitario) Palazzo Marino e la
Scala, ma anche la Borsa e il Corriere della Sera; i primi due soggetti radicati
pienamente nel quadro istituzionale, i secondi due nel terreno del privato; e, per
completare la gamma, anche la Camera di Commercio e la Fiera che sono soggetti
espressamente ponte tra l’istituzione (contenitore/organizzatore) e i soggetti che ne
animano l’esistenza (appunto imprese che hanno ruolo anche nella composizione di
controllo dell’ente nel caso della Fiera e che hanno accesso partecipato alle attività
societarie derivate nel caso della Camera di Commercio). Ciò a dimostrazione della
delicatezza definitoria di questa materia e, soprattutto, dell’impossibilità di tagliare i
due segmenti con una lama d’acciaio.
Nel profilo borderline vi è naturalmente tutto il settore delle aziende pubbliche e
di pubblico servizio, ancorché in via di parziale privatizzazione, nei casi più rilevanti
ovviamente anche con comportamenti regolati dalla propria collocazione in Borsa.
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L’esperienza del controllo identitario come fonte di molteplici orientamenti
comunicativi (appartenenza, immagine, politicità, eccetera) riguarda numerose
aziende di pubblico servizio locale e territoriale così come alcune grandi aziende
dell’ormai disperso sistema delle Partecipazioni Statali. Il solo riferimento ai
soggetti più forti che sopravvivano in tale sistema (la Rai, l’Eni e la Alitalia) rende
immediatamente percepibile quanto – in tutta la sua verticalità – la riflessione che
qui riferiamo generalmente al rapporto tra identità e impresa per coglierne le
determinazioni sul terreno della comunicazione abbia importanza nella storia di
questa aziende, a cominciare dai loro marchi e dalla cultura dei propri gruppi
dirigenti, per finire ai caratteri addirittura di assimilazione all’identità nazionale
della loro proposta identitaria all’utenza e all’opinione pubblica, anche come tecnica
di marketing e come leva di sollecitazione dei consumi.
5. L’identità, fattore strategico
Concepito dunque il soggetto della nostra argomentazione in un ampio perimetro
in cui organizzazioni orientate al mercato oppure ai servizi – e dunque di natura
privata e pubblica – trovano nella questione identitaria il legame tra l’autopercezione
dell’organizzazione stessa e la percezione da parte dell’environment e, in più, la
connessione tra storia e progetto, ovvero tra tradizione e innovazione, vi è ormai
materia per identificare nella identità un fattore da presidiare strategicamente nello
sviluppo dell’organizzazione stessa.
Essa è, comunque, impresa in quanto cresce attorno alla sua vitalità, alla sua
creatività, alle sue funzioni. Una organizzazione parassitaria – privata quanto
pubblica – finisce in un ripiegamento autoreferenziale in cui è poco importante
comunicare ed è ancor meno importante ricapitolare il proprio processo identitario
come generatore di comunicazione.
Normalmente si intende per “fattore strategico” qualcosa che appartiene al
momento pre-decisionale, non post-decisionale; ovvero un fattore che incide sulle
scelte (di organizzazione, di processo, di prodotto, di management, di risorse,
eccetera) e non una contestualizzazione operativa, esecutiva, di decisioni assunte sui
nodi essenziali della vita stessa di quell’impresa.
Perché sia chiaro al gruppo dirigente che le problematiche identitarie richiedono
un presidio preliminare alle decisioni, bisogna anche immaginare un management
pervaso da una cultura predisposta a questo orientamento. Tanto nel settore
dell’impresa di mercato, quanto nel settore delle organizzazioni di pubblica utilità
orientate ai servizi, questa cultura non è così diffusa, non è così consolidata, non è
così oggetto di investimento. Le brevi considerazioni che qui seguono offrono
alcune argomentazioni proprio a chi dovesse valutare – nella definizione di un
modello organizzativo o, comunque, nello schema di un progetto di sviluppo – cosa,
come e quanto dedicare al fattore identitario.
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Schematizzando potremmo dire che all’interno la leggibilità del fattore
identitario consolida appartenenza. All’esterno consolida nell’ambito della propria
utenza fidelizzazione; nel più generale ambiente che circonda l’impresa reputazione.
Quanto valgano questi fattori nei processi di sviluppo, qualunque manuale di
economia aziendale lo dice nei caratteri di base. La filiera interna sganciata
totalmente da un principio di appartenenza resterebbe interessata al proprio rapporto
di lavoro solo negoziando in punto di interesse. Inoltre non percepire il rapporto tra
storia e progetto di impresa rischierebbe di rendere difficile la consapevole
partecipazione ai processi di cambiamento e trasformando in conflittualità ogni
inevitabile fase riorganizzativa.
Quanto ai processi di fidelizzazione, valanghe di studi e di ricerche ci riportano
al dato, che si va raccorciando nel tempo, di una quota enorme del mercato acquisito
che si volatilizza nel giro di poco tempo in ordine a fattori strutturali. Le tecniche di
fidelizzazione (largamente costruite su una cultura professionale della
comunicazione) valgono almeno quanto le tecniche di conquista di nuovi spazi di
mercato. Il principio di reputazione vale come uno dei fattori costitutivi del processo
di fidelizzazione e vale, per la filiera interna, come un riscontro oggettivo al
sentimento di appartenenza.
In generale ogni processo negoziale che impegna l’impresa utilizza la propria
soglia di reputazione come leva delle condizioni stesse del negoziato. Se identità è
parte costitutiva della reputazione, la soglia minima di questo fattore è una oggettiva
leva per abbassare le barriere del negoziato in proprio favore.
Per l’impresa che ha interesse a svilupparsi in un quadro relazionale
caratterizzato da aspetti istituzionali (legalità, domanda pubblica, gare e appalti,
eccetera) la percezione identitaria (insieme di connotati funzionali e territoriali)
concorre certamente a posizionare quella impresa in un quadro di opportunità che
favorisce soggetti che vengono considerati come parte del “sistema-paese”.
Naturalmente tutte le imprese (anche qui l’espressione vale per soggetti privati e
pubblici) che hanno esigenza di un costante relazionamento con il sistema
dell’informazione e dei media, l’identità percepita sostiene la credibilità della fonte.
E infine – e ciò attiene allo specifico del nostro tema – nei processi di
comunicazione la percezione identitaria costruisce legami simbolico-affettivi tra
brand, mercato e mediatori di opinione.
I legami simbolico-affettivi non hanno valore perenne, non sono immuni dalla
corrosività degli eventi e dalle esperienze di consumo e, comunque, di utenza. Sono
tuttavia fattori forti costruiti in buona parte attraverso investimenti comunicativi.
Investimenti che inseguono il cambiamento e la trasformazione del mercato. Ma che
tentano sempre un punto di coerenza (salvo che la discontinuità diventi una scelta
strategica) con gli elementi che sono stati considerati costitutivi del principio
identitario e che hanno generato, nel tempo, diverse forme di affettività. Quell’area
di impresa che oggi costruisce più investimento sul brand che sui prodotti e le
funzioni, sa che questo equilibrio è delicato e può comportare alti costi di
102
COMUNICAZIONE E IDENTITÀ NEL SISTEMA DI IMPRESA E NELLE ISTITUZIONI
investimento. Ma in generale nessuno si può sottrarre – pur chiamando l’identità
come gli pare, pur connotandola in modo assai diverso, dai caratteri mitici della sua
storia ai caratteri astratti della sua riduzione a logo – a questo genere di
considerazioni.
6. L’identità nei processi di cambiamento
E’ questo il terreno di misurazione del plus e del minus di un fattore fin qui
apprezzato come costituivo, strategico, coesivo che, messo a prova da necessità
trasformative importanti, può reggere ed essere fonte di creatività oppure costituire
una zavorra mortale, accecante, deviante.
Cambiamento è una condizione interattiva, tra condizioni mutate nel mercato e
maturazione di fattori interni di sviluppo: equilibri finanziari, qualità del
management, senso dell’innovazione, modello organizzativo, percezione
interpretativa delle opportunità, eccetera.
Cambiamento è una condizione imposta (trend strutturale, prevedibile o non
prevedibile, determinato da fattori ineludibili) oppure è una condizione di ricerca, di
riposizionamento, di flessibilità.
Cambiamento è una graduale trasformazione del teatro operativo connotato da
spazio e profilo dell’utenza; oppure è un impulso generato da un fulmine (una
normativa, un corto-circuito finanziario, l’irrompere di una irresistibile concorrenza,
una scoperta scientifica, una ribaltamento delle condizioni politico-istituzionali, un
infortunio giudiziario, eccetera). Nel primo caso il competente presidio dei fattori
identitari agisce come essenziale valvola di coerenza; nel secondo caso può generare
una doppia e opposta condizione: salvare il salvabile rigenerando la pianta
duramente potata; radicare errori di comportamento per il prevalere del principio di
coerenza identitaria (o presunta tale) sul bisogno di flessibilità.
Si potrebbe schematizzare che attualmente, in una fase storica in cui sta
crescendo l’immaterialità dell’impresa, l’identità costituisce un fattore di rischio,
ovvero di resistenza al cambiamento, in particolare quando su di essa pesa
eccessivamente
il
rapporto
territorio/prodotto
rispetto
al
rapporto
mobilità/rendimento.
Da questo quadro di criticità – derivante sia da condizione satura dei mercati, sia
da ineluttabile incremento di costi – sono nati i fenomeni di dislocazione di
numerose imprese (fenomeno particolarmente noto nel Triveneto italiano verso l’est
europeo), così come processi di accorpamento e conseguente frequente
denazionalizzazione in settori che non consentivano strategie solitarie e in cui la
debolezza delle condizioni di “sistema-paese” hanno aperto la via ad un abbandono
del “presidio nazionale” (dalla chimica all’agro-alimentare, dall’elettronica
all’organizzazione turistica di alta gamma, tanti sono i settori a denunciare fenomeni
che hanno inevitabile incidenza anche su profili identitari dell’impresa).
STEFANO ROLANDO
103
Al contrario il contesto mutante genera nei presidi identitari un ambito di
prevenzione e di anticipazione delle crisi nei casi in cui i “sensori percettivi” siano
ben formati, sperimentati nella condizione di crisi e di emergenza, adeguatamente
fasati con la cultura aziendale diffusa, generatori di adeguata comunicazione interna
e rispetto ai principali interlocutori di negoziati che possono produrre sinergia o
conflitto. Questo secondo aspetto è quello che ha oggi a che fare con le condizioni
organizzative dell’impresa che ha optato per un orientamento strategico alla
comunicazione.
Vi è una gamma di punti di equilibrio intermedia, tra il ruolo di facilitatore della
percezione del cambiamento o, al contrario, di generatore di resistenze, che il
“presidio identitario” assume nella dinamiche di sviluppo dell’organizzazione, che ci
obbliga a non schematizzare questa relazione. Sta di fatto che anche il contraccolpo
di decisioni giuste e tempestive causato da necessità di cambiamento presuppone,
nel tempo, di stabilizzare alcuni profili di coerenza non astrattamente ma circa la
tenuta delle nuove strategie tra la cultura della filiera interna e l’inclinazione alla
fedeltà del mercato. Così come, nei casi di alto controllo di ciò che fin qui abbiamo
chiamato “identità”, sia percepito che questo controllo è un fattore importante di
accelerazione in quanto condizione di forza perché – come si è già detto di passata –
la cultura della propria identità è cultura tout-court ed è, pertanto, condizione
generativa di metablizzazione e quindi di adattamento.
Nel quadro di trasformazioni di sistemi societari – per acquisto, incorporazione,
fusione, eccetera – le problematiche identitarie sono di solito rintracciabili dal
modo con cui vengono trattati aspetti simbolico-comunicativi. Un esempio plateale
recente, nel panorama italiano, è rappresentato dalla battaglia Telecom-Olivetti a
metà degli anni novanta come caso centrale di rottura (dopo il caso Rai-Fininvest) di
una condizione monopolistica terminata con l’effettiva rottura di un privilegio già
sorretta da forti direttive comunitarie, ma anche dalla crisi societaria dell’azienda
new-entry. Nella riorganizzazione di questa azienda dal marchio e dalla marca di
prestigio (Olivetti) si è assistito addirittura all’acquisto di Telecom da parte di
Olivetti, ma successivamente dall’acquisto di Olivetti da parte di Pirelli. In questa
fase tra i problemi della nuova holding di controllo (Pirelli) vi è – risolto il problema
di autonomia del logo Telecom (per presidiare anche una tipologia societaria leader
nei sistemi europei) – di non sapere più cosa fare del marchio Olivetti, simbolo di
cinque rivoluzioni autotrasformative nel corso di un secolo (dalla scrittura
meccanica al calcolo meccanico, all’elettronica, all’informatica, alle TLC) ma ormai
deprivato di identità di ruolo e di prospettiva e, quindi, galleggiante con un simbolo
che ha puri connotati finanziari.
104
COMUNICAZIONE E IDENTITÀ NEL SISTEMA DI IMPRESA E NELLE ISTITUZIONI
7. Processi comunicativi per la gestione di fattori identitari
Non è questa la sede per una dettagliata classificazione delle tecniche di
informazione e comunicazione più o meno adeguate nel sostegno della identità come
fattore strategico per la vita e lo sviluppo dell’impresa e, in generale, di ogni
complessità organizzativa.
Tutte le tecniche, al limite, sono utili e valide.
Naturalmente la comunicazione integrata presenta una superficie più ampia di
opportunità rispetto allo specifico informativo dal momento che quest’ultimo è
notoriamente più spendibile nella relazione evento/notizia. Mentre la comunicazione
è più in grado di sostenere, in tempi medio lunghi, problematiche che abitualmente
si definiscono “processi”.
È altrettanto chiaro che l’informazione diventa essenziale in molteplici casi:
-
casi di programmata discontinuità10
casi di gestione di crisi e di emergenze11
casi di accompagnamento/contrasto di tipo interpretativo su fatti e accadimenti.
Un presidio organizzato non solo per operare congiunturalmente, ma anche per
raccordare costantemente tradizione e innovazione (dunque per gestire l’identità
strategicamente) è predisposto ad utilizzare professionalmente la relazione
informazione/comunicazione e le diverse filiere tecniche che riguardano questi due
ambiti inscindibili ma – quando serve – nettamente scindibili.
Già i processi telematici costituiscono un crescente ambito di integrazione tra i
due approcci, sia pure per utenze limitate, utenze attive, utenze abitualmente preinformate, che tuttavia - proprio per questi caratteri - contribuiscono in modo
interessante ad orientare qualitativamente la reputazione dell’impresa.
Un vasto approfondimento della modalità con cui la “vetrina continua” di
Internet propone un insieme di comunicazioni funzionali e di comunicazioni
simboliche, con attenzione costante (nello specifico e nei links strategici) all’uso dei
marchi aziendali, permetterebbe di cogliere il quadro di opportunità che la rete
presenta – rispetto alle vetrine reali di una via urbana commerciale o alle sequenze
di spot televisivi – di maggiore arricchimento e di maggiore integrazione tra identità
visiva e contenuto della storia, delle funzioni e della progettualità del soggetto
comunicante.
10
11
BODEGA D., MUSILE TANZI P. (a cura di), Comunicare il cambiamento. Una
raccolta critica di casi, Milano, SDA Bocconi-Egea, 1996.
MITROFF I., The Essential Guide to Managing Corporate Crises, New York, Oxford
University Press, 1996; BUCCI A., MARCHETTI A., PERINI A., TRUPIA F., La
comunicazione di crisi: Le due vie, Roma, Nuova Arnica Editrice, 1998; SAVARESE R.
(a cura di), Comunicazione e crisi, Milano, Franco Angeli, 2002.
STEFANO ROLANDO
105
Recuperiamo alcune grandi aree tematiche fin qui ricondotte al tema dell’identità
per offrire qualche spunto circa lo specifico approccio comunicativo. Questo
passaggio ha valore metodologico generale e non esaurisce una trattazione analitica
della materia.
Limitando i caratteri dell’identità ad un elenco essenziale, in rapporto alla
capacità di generare funzioni comunicative, qui ricorderemo:
-
la riconoscibilità
la reputazione
la coerenza
la capacità narrativa
la delegabilità
la simbolicità
la territorialità
la condivisibilità.
Attorno all’obiettivo della riconoscibilità agiscono – in positivo e in negativo –
quasi tutti gli strumenti disponibili tanto nell’approccio informativo quanto
nell’approccio comunicativo. La riconoscibilità, abitualmente è un valore. Ma anche
un ladro con il passamontagna mentre rapina una banca è riconoscibile. Anche il
nemico sul campo di battaglia è riconoscibile. Anche il commerciante abitualmente
disonesto è riconoscibile. Non vi è carattere di riconoscibilità all’interno del presidio
identitario che non contenga anche una costante alimentazione del principio di
reputazione. La razionale parsimonia dell’utilizzo mediatico è, qui per esempio, una
indicazione generalmente opportuna per limitare danni di sovraesposizione. Così
come la costante ricerca in ordine ai punti forza e ai punti di debolezza dell’impresa
permette di utilizzare oggetti traslati di comunicazione, quando la strategia lo
richiede. La nota diffidenza del mercato americano per il prodotto automobilistico
Fiat non ha quasi mai trovato un risultato di riconoscibilità e di reputazione solo
attraverso il massiccio investimento in pubblicità di prodotto. Anzi, l’iniezione
pubblicitaria ha spesso alimentato il sospetto di un mercato piuttosto ben abituato in
materia di qualità (“la Fiat fa la ruggine”). Non c’è dunque management di
comunicazione di questo gruppo industriale che su quel mercato non abbia utilizzato
– con prudenza e con programmazione – l’immagine del contenuto comunicativo
del gruppo meglio associabile all’obiettivo di rafforzamento dell’identità e di
consolidamento dell’immagine: negli ultimi trenta anni, per esempio, l’avvocato
Agnelli oppure la Ferrari.
Il principio di coerenza non deve costituire una ossessione. La capacità di
coniugare marketing e management creativo aiuta a capire l’apertura di falle e la
loro maggiore o minore gravità circa la tenuta complessiva del tessuto identitario. La
corporate-identity è un segmento tecnico-professionale che interviene (sul brand e
sul modo di declinarlo visualmente) per fronteggiare questo tipo di processi. Ma si
106
COMUNICAZIONE E IDENTITÀ NEL SISTEMA DI IMPRESA E NELLE ISTITUZIONI
interviene anche in questo ambito attraverso l’utilizzo di momenti aziendalmente
importanti (le ricorrenze, la presentazione del bilancio, inaugurazioni, eccetera),
quando cioè compiendo passi in avanti si opera comunicativamente anche per
ricordare i passi compiuti.
Si sarà certamente compreso che l’approccio fin qui delineato suggerisce
un’attitudine al management di comunicazione del fattore identitario che vorremo
sintetizzare nella espressione “capacità narrativa”. Essa non può essere interamente
delegata né a testimoni né a linee fredde di comunicazione. Essa ha bisogno di una
relazione che produca fiducia diretta. Il sempre maggior utilizzo dell’immagine e
della parola dell’imprenditore in persona nella comunicazione pubblicitaria nel
segmento alimentare, per esempio (“parola di Francesco Amadori”, “ve lo dice il
signor Rana in persona”, eccetera) – che è ben spiegabile in ordine alla barriera
determinatasi sul mercato alimentare proprio in materia di sicurezza – corrisponde
(con le evidenti differenze tecniche) all’investimento che l’imprenditore fa,
spendendosi personalmente, sui mercati finanziari, per esempio, in occasione di
road-show di ricapitalizzazione.
Nel rapporto tra identità e comunicazione può essere dunque introdotto un
principio di testimonialità diretta, ma anche forme di testimonialità indiretta e di
delegabilità. Il sistema pubblicitario e promozionale fa leva in forma cospicua su
queste tecniche, che naturalmente possono essere applicate entro una matrice di
opportunità/efficacia che ha limiti e controindicazioni da valutare con perizia.
Nel primo caso si propone all’utente di identificarsi né con ciò che deriva
simbolicamente dal proprio logo, né con figure e contesti che riferiscono alla
fisionomia del proprio prodotto o della propria leadership, ma con figure popolari
(della scienza, dello sport, dello spettacolo, eccetera) che paiono adatte ad assumere
temporaneamente i caratteri di attrazione della fiducia.
Nel secondo caso si promuovono iniziative – nel campo della cultura, dell’arte,
della solidarietà sociale, della salute, dello spettacolo, dello sport – che,
prevalentemente finalizzate in senso socio-educativo (ma con mirata valutazione
dell’incidenza mediatica dell’iniziativa stessa) – utilizzando in forma diversa
tecniche di sponsorizzazione (in una vasta gamma di condivisione/non condivisione
del progetto di evento, ovvero connesso alla proprio quadro funzionale, oppure
sconnesso da tale quadro ma pertinente rispetto alla linea di marketing prescelta,
oppure ancora fuori da tutti i risvolti funzionali ma generato da un puro principio di
mecenatismo, eccetera) comunque miranti a far sovrapporre i benefici di good-will
determinati dall’evento al proprio brand. Affinché si possa parlare di vera e propria
incidenza sui profili identitari – ovviamente – non sarà la casuale appostazione di un
marchio in coda ad un elenco di sponsor in una corsa campestre ad avere un simile
potere. Cioè questo profilo diventa una “politica” quando è perseguito con scelte
programmatiche razionali, con criteri selettivi, con partecipazione reale al merito
dell’evento, con contaminazioni che investono la cultura dell’azienda e che
traspaiono all’interno e all’esterno.
STEFANO ROLANDO
107
Non abbiamo finora messo sufficientemente a fuoco il fattore della territorialità.
Merita qui di riprendere la distinzione tra impresa privata e organizzazione
pubblica fatta in precedenza perché, in ordine al rapporto identità-comunicazione,
essa ha carattere dirimente. Innanzi tutto anche l’impresa – trasformandosi in una
parte rilevante verso dimensioni immateriali, di business finanziario, legata a
prestazioni di servizio, ha abbandonato una notevole quantità di dipendenza dal
fattore territoriale in ordine alla propria identità. Per un’altra parte della dimensione
complessiva del settore il territorio è divenuto anche un fardello, che rende obbligati
alcuni comportamenti che possono incidere sul rendimento. Così che oggi si
possono ben dividere le aziende che – mantenendo in modo strategico il loro
radicamento operativo nel territorio – ricavano da esso cultura e identità e generano
attraverso di esso una parte significativa di atti comunicativi. Rispetto ad altre
aziende che o riconoscono nel territorio un fattore “pesante” di immagine e di
“coperchio identitario” e se ne disfano soprattutto nella connotazione comunicativa
(ciò vale ad esempio per moltissime imprese che operano – anche con efficacia e
successo – in aree geografiche segnate da fenomeni malavitosi o, in generale, da
fattori negativi di immagine e che – in comunicazione – dissimulano il loro
radicamento); oppure che mantenendo affezione per il radicamento non lo
considerano più presidiabile in termini di investimenti comunicativi per molteplici
ragioni (diversificazione nella dislocazione, rischio di assunzione di obblighi
connessi ad attese sociali, eccetera) preferendo che sia l’associazione di categoria
territoriale – alla quale questo genere di impresa delega volentieri eventi o progetti
“identitari” relazionati al territorio – ad assumere questo fattore tra quelli prioritari
nell’azione comunicativa (da qui si generano, tra l’altro, la maggior parte delle
opzioni collettive nell’impresa a sostegno di operazioni di marketing territoriale). È
chiaro che – per alcune specifiche aziende storicamente legate da una non
sostanzialmente mutata connessione territoriale (Fiat-Torino, Marzotto-Valdagno,
Merloni-Fabriano, Illy-Trieste, eccetera), quantunque il processo produttivo e
distributivo si sia oggettivamente globalizzato – la territorialità resta marchiante e, in
una vasta gamma di spendibilità, la connotazione territoriale resta costitutiva dei
caratteri qualitativi di tutto il ciclo produttivo (ciò vale per una parte importante del
settore agro-alimentare o del settore manifatturiero caratterizzato da artigianalità o
ancora per soggetti di impresa facenti parte di specificità distrettuali, eccetera).
In questo ambito va considerato che lo stereotipo positivo connesso al territorio
viene abitualmente utilizzato come essenziale connotazione comunicativa della
tipologia produttiva che ha ragioni reali di radicamento creativo e produttivo con
quel territorio (automobili-Torino, moda-Milano, seta-Como oppure orologiSvizzera, profumi-Parigi, eccetera); ma anche aziende ben identificabili per prodotto
in cui stile, contesto, marca e cultura si intrecciano in forme che trovano argomenti
di valore aggiunto nella comunicazione (Ikea-Svezia, CocaCola-Usa, ToyotaGiappone, Barilla-Italia, eccetera).
108
COMUNICAZIONE E IDENTITÀ NEL SISTEMA DI IMPRESA E NELLE ISTITUZIONI
Diverso è il rapporto tra territorio e istituzioni laddove – per la componente
propria del sistema ordinamentale delle pubbliche amministrazioni – il nesso è
inscindibile ed è qui la natura essenziale della radice identitaria. Natura che può
naturalmente limitarsi alla connotazione formale in una concezione sovraordinata
dell’amministrazione rispetto al territorio amministrato; oppure cercare sinergie,
alimentazioni, fattori di integrazione in una concezione funzionale
dell’amministrazione in cui il dispiegamento delle competenze è al servizio
essenzialmente dello sviluppo.
Vi è ancora un aspetto (tra i tanti che potrebbero essere meglio esaminati) a
meritare attenzione in questa sede perché oggetto di una nuova tendenza di studi
legati allo sviluppo della comunicazione via Internet che, rispetto a fonti riguardanti
organizzazioni complesse e portatrici di una mescolanza di interessi e valori, tende a
verificare le modalità con cui la comunità virtuale genera processi di condivisione,
ovvero come si costruiscono significati condivisi in una relazione spesso randomica
e in sistemi comunicativi non tradizionali. Tale condivisione è una componente di
trasformabilità di rapporti di appartenenza, di fidelizzazione e di identità che viene
oggi presidiata con modalità comunicative di segno nuovo (ricerca, contenuti
visuali, ludicità, velocità, appagamento nei servizi e nell’informazione, eccetera) la
cui cabina di regia – nelle aziende soprattutto – ha un costo non indifferente quando
non si limita al puro sostegno dell’azione commerciale ma vuole mantenere in
coerenza fattori delicati e complessi come lo può essere quello dell’identità
dell’impresa12.
E, infine, un’altra tipologia di condivisione va considerata, ovvero quella che
lega la marca ad un sistema di valori più ampio dello specifico prodotto (e persino
della gamma dei prodotti) e che fa leva – in un quadro comunicativo complesso,
plurimediale, integrato – su una gestione attentissima della weltanshauung appunto
condivisa in un quadro fatto sì da consumi ma – come scrive Giampaolo Fabris – di
evidente minor protagonismo del prodotto (si pensi a casi celebri, quali Disney o
Virgin, dove il principio identitario ispira centralmente le strategie comunicative
attraverso una sostanziale “dematerializzazione dei mercati”)13.
12
13
MANTOVANI G., Comunicazione e identità. Dalle situazioni quotidiane agli ambienti
virtuali, Bologna, Il Mulino, 1995.
FABRIS G.P., “Il valore della marca”, in Tendenze, newsletter di GPF&Associati, n. 2
maggio 2001.
STEFANO ROLANDO
109
8. Identità. Valore sociale o leva di marketing?
Abbiamo fin qui sostenuto la compresenza di entrambe queste connotazioni.
Non ce ne scandalizziamo.
La conclusione di questo – pur breve e dunque non esaustivo percorso – ci porta
a riconoscere in un’organizzazione complessa che la “percezione di sé” corrisponde,
come per gli individui, ad un valore di posizionamento e ad un valore competitivo.
Il primo esprime una consapevolezza, il secondo una strategia.
Il vero tema di regia è quello di gestire con razionalità e passione (cioè con
programmi valutabili e con aggiornamento culturale) la connessione – non sempre
facile, non sempre fasabile – tra due ragioni diverse nel cogliere, nell’esprimere e
nel comunicare l’identità.
Errori di cattivo gusto, di eccesso di cinismo, di forzatura degli stereotipi,
eccetera, possono condurre – come boomerang dei processi comunicativi – ad una
rigetto da parte di chi abbiamo in precedenza indicato come soggetti attivi della
condizione vitale dell’identità.
In questo equilibrio si misura il ruolo, il potere, l’autorevolezza del manager di
comunicazione nei modelli organizzativi di realtà difformi ma in cui, su questo
tema, si può essere profeti o cassandre. Per dirla più tecnicamente, si può essere
solutori o confezionatori. Insomma, valutatori o inascoltati.
La strada della collocazione strategica della comunicazione nei sistemi di
impresa, così come nelle organizzazioni pubbliche, passa anche attraverso la delicata
comprovazione professionale proprio sul tema del presidio identitario.
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