Humanitas Scrivere un pezzo per il giornale parrocchiale è diventata per me una bella consuetudine; temo però di essermi in questo modo creata un’immagine di inguaribile brontolone dal momento che spesso mi lamento di cose che non vanno per il verso giusto: la perdita dei valori, la confusione dei ruoli, i guasti ecologici, l’uso eccessivo del telefonino, eccetera, eccetera. Questa volta vorrei invece parlare di qualche cosa che vedo in maniera positiva, che penso sia utile per la collettività. L’occasione mi è stata data alcuni giorni or sono, assistendo alla presentazione, tenuta nell’aula magna dell’ospedale CTO, di una nuova disciplina che verrà presto introdotta nel corso di laurea in medicina e chirurgia dell’Università di Torino che tratta di Humanitas, che insegna cioè, a sviluppare nei futuri medici l’attitudine a sapersi rapportare con i pazienti in maniera diversa, ponendo al centro della propria attenzione la persona, prima zia apprendere che d’ora in poi, nell’era del tecnicismo più avanzato, si desidera dare spazio, quindi tempo e risorse, all’aspetto umano che oggi viene un po’ trascurato. È come tornare indietro, nei secoli, quando in Occidente le attività ospedaliere nacquero e si svilupparono sull’onda del sentimento di carità cristiana verso coloro che soffrono, quando le conoscenze scientifiche erano ancora limitate e curare era prima di tutto un atto di umanità. Il dovere di cura, sancito con il giuramento d’Ippocrate, deve essere inteso come dovere di cura a tutto tondo, dove la malattia necessariamente deve essere affrontata dal medico per essere sconfitta senza però dimenticare di prendersi cura anche dell’aspetto psichico ed emotivo del paziente che, per forza di cose, deve rimettersi alle decisioni dello specialista, ma che vuole essere informato, capire, essere sostenuto quando la diagnosi purtroppo si presenta nefasta. Paziente non più visto ancora della malattia che l’ha colpita. Mi sembra veramente importante che si promuovano iniziative, come questa, aventi lo scopo di arricchire la formazione dei futuri medici curando, accanto alla preparazione scientifica, questo aspetto che tanta importanza riveste per coloro che si trovano nella necessità di dover affrontare percorsi segnati dalla sofferenza fisica, dall’incertezza del buon esito delle cure, dal timore di sottoporsi ad un intervento chirurgico. Il progresso scientifico ha, in molti casi, disumanizzato i rapporti interpersonali, tutto è regolato da rigidi protocolli ed è incanalato in procedure standard; le discipline mediche sono state settorializzate per cui al paziente si sovrappone l’organo o la parte del corpo umano sotto analisi e lo specialista spesso perde di vista l’individuo nel suo insieme, con le sue preoccupazioni e le sue paure, con il suo bisogno di essere rassicurato o consolato. È davvero una bella noti- 5 come utente dunque, ma come fratello che si trova nel bisogno di essere aiutato per superare un ostacolo che si è presentato tanto inatteso quanto gravoso. Tanti bravi medici hanno già questa attitudine e sensibilità ma, il fatto che il corpo accademico senta la necessità di introdurre tale disciplina d’insegnamento significa che c’è la consapevolezza che non sempre è così e che sicuramente si può e si deve fare di più. C’è da augurarsi che questa bella ed utile iniziativa serva da esempio e possa essere presa da modello in altri settori nei quali delicati rapporti interpersonali con soggetti deboli (malati, anziani, bambini) impongono che la retribuzione del lavoro svolto non sia l’unica motivazione professionale ma che l’umanizzazione della propria attività venga sempre sentita come componente necessaria, fonte di soddisfazione irrinunciabile per se e per gli altri. Francesco Palmese