Per riflettere, a margine dei discorsi della scorsa lezione
Generalmente sono di piccola statura e di pelle scura. Non amano l’acqua, molti di loro puzzano,
perché tengono lo stesso vestito per molte settimane. Si costruiscono baracche di legno e alluminio
nelle periferie delle città dove vivono gli uni vicino agli altri.
Quando riescono ad avvicinarsi al centro, affittano appartamenti fatiscenti a caro prezzo. Si
presentano di solito in due, cercano una stanza con uso di cucina e dopo pochi giorni diventano
quattro, sei, dieci. Tra loro parlano lingue a noi incomprensibili, probabilmente antichi dialetti.
Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l’elemosina, ma sovente davanti alle chiese donne
vestite di scuro e uomini quasi sempre anziani invocano pietà con toni lamentosi e petulanti. Fanno
molti figli che faticano a mantenere, e sono sempre molto uniti tra di loro. Dicono che siano dediti
al furto e, se ostacolati, violenti. Le nostre donne li evitano, non solo perché poco attraenti e
selvatici, ma perché si è diffusa la voce di alcuni stupri consumati dopo agguati in strade
periferiche, quando le donne tornano dal lavoro.
I nemici come minaccia
I Galli
Livio (V, 44, parla Furio Camillo): “Quelli che si avventano contro di noi in schiera scomposta sono
un popolo a cui la natura ha dato un corpo e un animo più grandi che costanti; pertanto in ogni
scontro mettono più terrore che forza. (…) Pieni di cibo e di vino tracannato in fretta, quando la
notte li coglie si sdraiano qua e là lungo i corsi d’acqua senza riparo, senza porre sentinelle di
guardia, al modo delle fiere”.
I Cartaginesi
Livio (XXII, 59, parla il console all’indomani della sconfitta di Canne)
“Non combattiamo contro i Sanniti o gli Etruschi, così che se anche ci venisse tolta l’egemonia,
questa rimarrebbe comunque in Italia; il nemico punico ha portato qui soldati che non vengono
nemmeno dall’Africa, ma dagli estremi confini della terra, dal mare Oceano e dalle colonne di
Ercole. E questi, che per natura e abitudini sono già disumani e feroci, il comandante in persona li
ha fatti ulteriormente incrudelire, facendo loro costruire ponti e trincee con ammassi di cadaveri
umani e, cosa che raccapriccia al solo dire, insegnando loro a nutrirsi di corpi umani. E questi, che
hanno banchettato con queste nefande portate, questi, che noi non potremmo neppure toccare senza
macchiarci di empietà, li dovremmo vedere e tenere come padroni, e dovremmo ricevere il diritto
dall’Africa e da Cartagine, e dovremmo tollerare che l’Italia sia una provincia dei Numidi e dei
Mauri; per chi, nato in Italia, tutto ciò non sarebbe detestabile?”.
I Greci
Livio (XXXIV, 4, parla Catone): “Quanto più favorevole e prospera diviene di giorno in giorno la
sorte dello stato, quanto più si accresce la nostra autorità – e ormai siamo passati in Grecia e in
Asia, terre colme di ogni attrattiva di piacere, e abbiamo messo le mani persino sui tesori regi -,
tanto più io ho il terrore di questi flagelli, che siano essi ad aver conquistato noi, più che noi loro”.
Ritratti di nemici
Annibale
(Livio, Ab urbe condita, XXI, 1; 4)
“Non ci fu mai un’indole così adatta a cose diversissime: obbedire e comandare. E così
difficilmente avresti potuto capire se Annibale fosse più amato dal comandante o dall’esercito, e
Asdrubale, quando si trattava di azioni che richiedevano coraggio e costanza, non sceglieva mai un
altro; e i soldati non avevano altrettanta fiducia in nessun altro comandante, né erano mai così
coraggiosi come quando erano guidati da lui. Era massimamente temerario nell’affrontare i pericoli,
e massimamente prudente nel gestirli. Da nessuna fatica il suo corpo non poteva esser sfiancato o il
suo coraggio vinto. Sopportava allo stesso modo il caldo e il freddo, mangiava e beveva solo per
bisogno naturale, mai per piacere; non aveva tempi stabiliti né di notte né di giorno per dormire o
star sveglio: si riposava solo il tempo che gli restava dopo aver compiuto quel che doveva fare, e il
riposo non aveva bisogno di una coperta morbida o di silenzio; molti spesso lo videro sdraiato per
terra, fra le vedette e i soldati di guardia, coperto dal mantello militare. Non si notava fra i suoi
coetanei per le vesti, ma per le armi e i cavalli. Fra i fanti e i cavalieri era di gran lunga il primo; per
primo scendeva in battaglia, per ultimo, terminata la battaglia, lasciava il campo. Queste virtù così
grandi erano eguagliate da vizi immensi: una crudeltà disumana, una slealtà più che cartaginese,
non considerava nulla vero, nulla inviolabile, non aveva alcun timore degli dei, nessun rispetto dei
giuramenti, nessuno scrupolo religioso”.
Giugurta
Sallustio (Bellum Iugurthinum, VI):
“Non appena giunse alla giovinezza, egli, di costituzione fisica vigorosa, di aspetto avvenente, ma
soprattutto di intelligenza brillante, non si lasciò corrompere dal lusso e dall’inerzia, ma, come è
costume di quel popolo, si esercitava nell’equitazione, nel lancio, nelle gare di corsa con i coetanei;
e, pur ottenendo riconoscimenti superiori a tutti, tuttavia a tutti era caro; inoltre, trascorreva la
maggior parte del tempo a cacciare, colpendo per primo o tra i primi il leone e altre fiere: compiva
moltissime imprese, ma lui parlava pochissimo di sé (…). Con molto impegno e zelo, e inoltre
obbedendo rispettosamente e assumendo spesso compiti pericolosi, in breve tempo era diventato
tanto famoso da divenire sinceramente caro ai nostri, e sommamente temuto dai Numantini. E
invero, qualità sommamente difficile, era sia strenuo in battaglia, sia ponderato nelle decisioni,
caratteristiche che invece solitamente degenerano: la prudenza genera paura, il coraggio la
temerarietà”
L’imperialismo
Virgilio(I sec. a.c, Aeneis, VI, 853):
Parcere subiectis et debellare superbos, “risparmiare i vinti, debellare i superbi”.
Cassio Dione (III sec. d.C., Storia romana, XXXVIII, 39;42. Parla Giulio Cesare),
“[...] noi non possiamo imitare quei popoli che non possiedono un impero come il nostro. A costoro
basta vivere in pace e stare sottomessi nella sicurezza agli ordini degli altri; per noi invece è
necessario faticare, guerreggiare e mantenere, sfidando i pericoli, il benessere che abbiamo. [...] Per
prima cosa noi non avremmo dovuto innalzarci tanto al di sopra dei popoli: ora, siccome siamo
diventati così potenti e abbiamo conquistato un impero così vasto, è destino che o teniamo
saldamente in pugno il comando o andiamo interamente in rovina. [...] È nostro dovere difenderci
da coloro che tentano di offenderci, non solo per quello che fanno, ma anche per quello che hanno
intenzione di fare, impedendo l’accrescimento della loro potenza, prima che ci arrechino dei danni,
e non aspettare di punirli quando ci hanno già danneggiato”
Tacito, (I sec. d.c., De vita et moribus Iulii Agricolae, 30-32, parla Calgaco, principe caledone,
prima dello scontro definitivo dei Britanni contro i Romani)
“Rapinatori del mondo, dopo che sono mancate le terre al loro devastare, ora scrutano i mari. Sono
avidi se il nemico è ricco, arroganti se è povero. Sono fatti in modo tale che né l’Oriente né
l’Occidente li ha saziati. Sono i soli a desiderare con pari intensità sia le ricchezze che la povertà di
chiunque. Il razziare, il trucidare, il devastare lo chiamano con falsi nomi imperium, e dove fanno il
deserto la chiamano pace (atque ubi solitudinem faciunt, pacem appellant).
Il pragmatismo dinamico della civiltà romana: da hostes a cives
Livio (VIII, 13, sta parlando Furio Camillo dopo la vittoria sui Latini nel 338)
“Per quanto riguarda i Latini, potete garantirvi una pace duratura o infierendo o perdonando. Volete
agire crudelmente nei confronti di coloro che si sono arresi e consegnati a voi? (…) Volete,
sull’esempio degli antenati, accrescere lo stato romano accogliendo i vinti nella cittadinanza?”.
(Ep. II, 1, 146): Graecia capta ferum victorem cepit, “la Grecia conquistata conquistò il feroce
vincitore”.
La disponibilità all’integrazione rivendicata come cifra identitaria dei Romani
Livio (IV, 3, parla il tribuno Canuleio, promotore della legge sulla concessione dello ius conubii ai
plebei)
“Credete forse che non si sia mai sentito dire che Numa Pompilio fu re a Roma, per ordine del
popolo e col patrocinio del senato, nonostante egli non solo non fosse patrizio, ma neppure cittadino
romano, mandato a chiamare dal territorio sabino? E in seguito L. Tarquinio, che non solo non era
di stirpe romana, ma neppure italica, figlio di Demarato di Corinto, immigrato da Tarquinia,
divenne re, nonostante i figli di Anco fossero in vita. E dopo questi Servio Tullio, figlio di una
prigioniera di Cornicolo, di padre ignoto, di madre schiava, ottenne il regno per il suo ingegno e il
suo valore. E che dire del Sabino T. Tazio, che lo stesso Romolo, il padre della città, associò al
regno? Dunque la potenza romana crebbe senza disdegnare alcuna stirpe in cui risplendesse il
valore”.