Molto più che italiani - Dipartimento di Scienze Umane per la

Molto più che stranieri, molto più che italiani.
Modi diversi di guardare ai destini dei figli di immigrati
in un contesto di crescente globalizzazione
Enzo Colombo
Introduzione
L’Italia è divenuta luogo di immigrazione solo alla fine degli anni settanta, quando la
natura stessa dei flussi migratori tende a cambiare in modo profondo (Castles 2002,
Faist 2000, Papastergiadis 2000). Altri paesi occidentali – Stati Uniti, Francia,
Germania, Gran Bretagna, Olanda, Belgio tra gli altri – hanno vissuto processi
immigratori in connessione con fasi di ampio sviluppo industriale, favorendo flussi che
possono essere definiti di tipo fordista (Ambrosini 2005, Zanfrini 2004). Questi ultimi
hanno dato origine a forme di migrazione che, anche nella lettura accademica e politica,
sono state interpretate in base a due modelli principali. Da un lato, il modello
dell’insediamento secondo cui gli immigrati si integrano gradualmente nelle relazioni
economiche e sociali del paese di approdo, riuniscono le loro famiglie o ne formano di
nuove e si assimilano alla società ospitante. Dall’altro, il modello della migrazione
temporanea secondo cui i lavoratori migranti rimangono nella società di approdo solo
per un periodo limitato, mantenendo i legami con la nazione di provenienza e facendovi
ritorno quando il loro obiettivo economico è raggiunto.
I processi di globalizzazione e le trasformazioni economiche rimettono in discussione
questi modelli. Il proliferare dei flussi di individui, idee, beni materiali (Appadurai
1996), la maggiore disponibilità di tecnologie di trasporto a basso costo, l’inserimento
in un contesto economico di tipo post-fordista, centrato sul terziario, sul lavoro precario,
spesso irregolare, generano nuove figure di transmigranti (Glick Schiller et al. 1992,
Levitt 2001) e trasformano in modo radicale le pratiche materiali e culturali associate
alla migrazione, all’inclusione e alla formazione di comunità.
Inoltre il nuovo “modello mediterraneo” di migrazione (Pugliese 2002) si vede
contraddistinto da una presenza migratoria caratterizzata da complessità e
differenziazione (culturale, economica, sociale, nelle competenze professionali),
rendendo difficile rintracciare un unico, o prevalente, percorso di inserimento. Una
marcata asimmetria di genere contrassegna modelli migratori fortemente differenziati
sia per ciò che concerne l’accoglienza e l’impatto sulla società di approdo, sia per le
strategie di inserimento, di ricongiungimento familiare o di formazione di nuovi nuclei
familiari. Infine, nel caso italiano, i flussi migratori si inseriscono in un contesto
culturale in cui le rappresentazioni relative alle differenze etniche non sono ancora
organizzate entro una gerarchia netta, stabile e ampiamente condivisa nella popolazione
autoctona.
Tutto ciò concorre a ritenere che la visione classica delle migrazioni come fatalmente
distinte tra definitive o temporanee non sia più pienamente affidabile (Castles 2002),
richiedendo strumenti analitici più articolati. La specificità della situazione italiana
sembra essere un buon punto di osservazione per evidenziare singolarità e
trasformazioni che caratterizzano il processo migratorio in un contesto di crescente
interconnessione globale.
In particolare, per uscire da una visione ristretta dal tema dell’emergenza e per valutare
con maggiore attendibilità il possibile declinarsi di plausibili scenari futuri, sembra
interessante prendere in considerazione l’esperienza e il destino dei figli dei migranti.
Le seconde generazioni costituiscono infatti un classico ambito di studio delle
migrazioni che cerca di evidenziare che tipo di variabili, attraverso quali meccanismi e
con quale intensità, influenzano i percorsi e le scelte di inserimento dei figli di migranti.
A partire da queste osservazioni, nuove questioni di ricerca appaiono rilevanti. Quale
sarà il percorso futuro dei giovani figli di immigrati in una nazione come l’Italia, che
sperimenta solo da pochi anni un consistente flusso di immigrazione? Sono destinati a
inserirsi nella società e a divenire a pieno titolo degli italiani? Oppure manterranno le
loro distinzioni e daranno luogo a una società caratterizzata dalle differenze e,
potenzialmente, dall’indifferenza, dalla mancanza di unione e dal conflitto?
I destini delle seconde e delle terze generazioni di migranti hanno da sempre costituito
ambito di attenzione nelle nazioni occidentali che da più di un secolo sono meta di
consistenti flussi migratori, i modelli di analisi sviluppati per queste nazioni sono
applicabili anche alla recente esperienza italiana? Oppure, i processi migratori attuali –
collocati entro uno scenario caratterizzato da una connettività complessa (Tomlinson
1999) definita come globalizzazione – danno luogo a forme inedite di relazione perché,
in Italia, non si inseriscono in un contesto in cui si siano sedimentate e istituzionalizzate
le forme di assimilazione tipiche dei paesi che hanno sperimentato l’immigrazione
durante il consolidarsi della modernità e dello sviluppo industriale fordista? La
globalizzazione e uno scenario sociale in cui non si è ancora sedimentata una chiara e
condivisa gerarchia basata sulla presunta appartenenza etnica aprono spazi per processi
di inclusione disgiunti da una spinta alla piena acculturazione? Quali forme tende ad
assumere questa “inclusione nella differenza”? Dà luogo a identificazioni biculturali,
multiple, ibride, transnazionali?
I figli dei migranti come specchio dei problemi della società
Gli studi che riguardano i figli di immigrati solitamente concentrano la loro attenzione
sui percorsi di inclusione e i loro esiti, spesso evidenziando, grazie alla tipica capacità
dei fenomeni migratori di fungere da “specchio” (Sayad 2002), più generali nodi
problematici della società entro cui questi giovani si trovano a crescere.
Un primo rilevante ambito di analisi riguarda i fenomeni di devianza e di marginalità. I
figli di migranti sono spesso un punto di osservazione significativo per illustrare più
generali processi di esclusione e per mettere in evidenza luoghi e i modi attraverso cui
marginalità e disuguaglianza vengono prodotte e riprodotte. Lo studio dei percorsi di
criminalizzazione e carcerazione dei giovani migranti (Melossi e Giovanetti 2002) così
come gli interventi nei confronti dei minori non accompagnati (Petti 2004) o le azioni di
“repressione preventiva” operate dalle forze di polizia nei confronti di giovani africaniitaliani sulla base del colore della pelle (Andall 2003) evidenziano alcuni aspetti dei
processi istituzionali di discriminazione e quanto possano essere labili i confini che
separano, nell’esperienza di questi giovani, percorsi di integrazione e percorsi di
esclusione. La forza dei processi di “etichettamento” e la necessità della loro
decostruzione per comprendere le dinamiche di inserimento e di esclusione è
evidenziata dalla ricerca di Queirolo Palmas e Torre (2005) sulle “bande” di giovani
ecuadoriani a Genova. La ricerca segnala come una carenza di spazi adeguati per una
effettiva integrazione sociale in coincidenza con condizioni oggettive di difficoltà nel
definire il proprio progetto biografico e il proprio spazio di inserimento in un contesto
urbano e sociale in cui ci si sente ampiamente estranei favorisca, da un lato, la
formazione di narrazioni sicuritarie e stigmatizzanti, dall’altro, la costruzione di confini
(con forte carattere rituale e simbolico) entro cui definire una nuova identità sociale in
un periodo di rapida e radicale trasformazione biografica.
Anche gli studi sulla scuola (Giovannini, Queirolo Palmas 2002; Favaro, Napoli 2004;
Besozzi, Tiana 2005; Queirolo Palmas 2006) che evidenziano le difficoltà dei percorsi
formativi dei figli di immigrati, tendono a segnalare quanto rilevante sia il ruolo
dell’istituzione scolastica nel definire un percorso di successo o di insuccesso. Il ritardo
scolastico dei figli di immigrati così come una loro sovra-rappresentazione nei percorsi
orientati a un ingresso anticipato nel mondo del lavoro evidenziano spesso nodi
strutturali più generali che interrogano sulla tenuta della funzione educativa della scuola
di fronte a una società sempre più complessa.
La capacità, tipica della figura sociale dello “straniero” di evidenziare e amplificare i
nodi problematici della società è un’importante risorsa critica per la rimessa in
discussione delle relazioni di potere che tendono a occultare la loro azione e a divenire
egemoniche, ma rischia altresì, come giustamente osserva Queirolo Palmas (2006, 184)
di avvalorare «l’assunto che, sulla scorta della letteratura internazionale, vede nella
devianza un rischio peculiare delle seconde generazioni».
La riflessione attorno alla “devianza” e alla “difficoltà” dei figli di migranti è
sicuramente importante perché consente di cogliere le dinamiche di produzione della
discriminazione e dell’emarginazione che spesso si celano nel dato-per-scontato delle
routine quotidiane, nel discorso comune, mediatico e politico, nelle pratiche
istituzionali, consente uno sguardo critico che favorisce processi di cambiamento
orientati all’inclusione e al continuo ampliamento degli spazi di partecipazione e di
democrazia. Ma spesso il prezzo pagato dall’acuirsi della capacità critica è la
reificazione della presunta categoria dei giovani di seconda generazione, reificazione
che avviene enfatizzando e ampliando le discontinuità e le distinzioni rispetto ai
coetanei autoctoni. Il concetto di seconda generazione rischia di avvalorare in forma
acritica l’idea che esista una “differenza sostanziale” tra i giovani figli di immigrati e i
giovani autoctoni e che questa differenza sia legata a una presunta appartenenza etnica o
nazionale o a un’esperienza migratoria dei genitori che, raramente, si è vissuto in prima
persona. Ancor più di quanto avvenga per il termine immigrato, è necessario mantenere
una finestra riflessiva e critica che sottolinei che la categoria di “seconda generazione”
non deriva da dimensioni oggettive, stabili e definite, di cui i giovani figli di migranti
sarebbero portatori, ma è un concetto analitico che segnala una particolare “posizione
sociale”, risultato di una serie di relazioni che includono tanto i giovani figli di
immigrati quanto la società “autoctona”; un concetto che evidenza una particolare
modalità di attribuzione di senso alla realtà sociale che ritiene significativa una
distinzione basata sull’origine nazionale o etnica degli individui, contribuendo a crearla,
confermarla e renderla fonte plausibile di spiegazione della realtà sociale.
La prospettiva dell’assimilazione segmentata
Come osserva Ambrosini (2006, 86), un modo speculare di affrontare il tema dei destini
dei giovani di seconda generazione consiste nel negare l’esistenza di ogni questione
sociale che riguardi il loro l’inserimento. Come è spesso avvenuto in Francia, una
pregiudiziale idea che la differenza – sia essa declinata in termini culturali, religiosi,
etnici o nazionali – non sia e non debba essere rilevante tende a favorire un
egualitarismo formale che occulta sistematiche pratiche di discriminazione. Recenti fatti
di cronaca che hanno riguardato le periferie di grandi città francesi, così come il caso
dei giovani britannici di discendenza asiatica tragici protagonisti di attentati, hanno
forse definitivamente discreditato l’ipotesi di una inclusione lineare e non problematica
dei figli di migranti riproponendo il tema dei fattori che favoriscono od ostacolano i
processi di inclusione e di inserimento.
Già da tempo, del resto, le analisi più accorte sulle seconde generazioni (Piore 1979;
Gans 1992) avevano rilevato i limiti dell’idea che il processo di inclusione dei migranti
stranieri e dei loro discendenti avrebbe potuto compiersi senza tensioni e conflitti, in un
progressivo e inevitabile loro dissolversi entro la classe media autoctona. Il percorso di
assimilazione che, per gran parte della modernità, si è pensato essere lineare e scontato
si dimostra un percorso accidentato e incerto (bumpy-line theory). I figli di migranti,
nonostante frequentino le scuole pubbliche, condividano i valori e gli obiettivi dei loro
coetanei autoctoni e assumano modelli di consumo e stili di vita simili ai loro, non
“scompaiono” e le loro differenze non si “affievoliscono”; al contrario, spesso le loro
“differenze etniche” si conservano o risorgono in forme nuove (Gans 1979). A partire
dalla constatazione dell’esito incerto dei percorsi di inserimento dei figli di migranti
nelle società occidentali contemporanee, una seconda rilevante linea di ricerca tende a
valutare il livello di integrazione a partire dalle caratteristiche dei singoli gruppi etnici e
nazionali. In questo caso, la prospettiva sicuramente più articolata e nota è data dalla
teoria dell’assimilazione segmentata (Portes 1996; Portes, Rumbaut 2001, Portes,
Rumbaut 2005) che evidenzia quanto possano essere differenziati i destini dei figli di
immigrati e quali fattori sono in grado di influenzarli. Per alcuni gruppi di migranti, le
seconde e le terze generazioni sembrano orientate a integrarsi nella classe media
autoctona mentre l’etnicità rimane un semplice ricordo oppure il risultato di scelte
personali. L’identificazione etnica costituisce una forma di rielaborazione della
memoria familiare e personale, indica il desiderio di mantenere un legame affettivo con
la storia passata, ma non esaurisce gli ambiti entro cui ci si riconosce. È spesso
manifestata in modo occasionale e strumentale. Per altri gruppi di migranti l’etnicità
continua a costituire, anche per le seconde e le terze generazioni, una forma di forza e di
protezione e può continuare ad accrescere la propria influenza. Un network etnico
sufficientemente ampio, differenziato e compatto può costituire una base rilevante per il
successo economico e sociale. Infine, per altri gruppi ancora, l’etnicità si rivela essere
una gabbia; lontano dal costituirsi come libera scelta o come fattore di successo,
l’appartenenza etnica costituisce il marchio di una subordinazione permanente e orienta
verso l’inclusione con i gruppi sociali più emarginati e discriminati.
Piuttosto che attribuire rilevanza centrale alle pratiche istituzionali e sociali che possono
favorire percossi di discriminazione e di etichettamento stigmatizzante, la teoria
dell’assimilazione segmentata privilegia uno sguardo ispirato alla prospettiva
economica che vede l’inserimento e l’integrazione come direttamente connessi alla
dotazione individuale, cioè alle competenze formative, linguistiche, tecnologiche,
professionali e relazionali di cui i giovani sono in possesso. Le persone hanno maggiori
difficoltà di inserimento quando sono poco istruite, non conoscono la lingua e le regole
di funzionamento della società, non possono contare su una rete di relazioni
sufficientemente ampia e forte per sostenerli nelle difficoltà incontrate nel loro tentativo
di inclusione nella classe media. Ma, a differenza della teoria economica, la dotazione
individuale non è il risultato delle preferenze o delle azioni soggettive, bensì di fattori
sociali (Haller, Landolt 2005). Per questa teoria, determinante risultano essere le risorse
a disposizione della famiglia: il capitale sociale e culturale dei genitori, la loro storia
migratoria, la loro capacità di trasmettere la lingua e un senso di appartenenza alla
comunità di origine ma anche un forte progetto familiare di successo e la
determinazione necessaria per raggiungerlo. Se e come la dotazione individuale potrà
essere favorevolmente utilizzata dipende inoltre da alcuni fattori contestuali: il grado di
discriminazione che devono affrontare per avere accesso al mercato del lavoro, il livello
di segregazione residenziale e matrimoniale, la presenza di stereotipi negativi che
tendono ad assimilare ai gruppi sociali più poveri (Portes, Fernadéz Kelly, Haller 2005).
Un rilievo particolare è dato alla struttura del mercato del lavoro e delle reti etniche
(Portes 1996). Ciò che guida i reali percorsi di inserimento non è la volontà individuale
e la determinazione verso un’integrazione di successo ma il mercato del lavoro. Mentre
nel primo e nel secondo dopoguerra le condizioni economiche hanno consentito alle
seconde generazioni, spesso di origine europea, di inserirsi con successo in modo quasi
lineare e poco problematico, le seconde generazioni successive, spesso provenienti da
paesi non occidentali e con basso livello di sviluppo, hanno trovato condizioni
economiche più sfavorevoli. Il mercato del lavoro attuale risulta nettamente
differenziato in due percorsi distinti (hourglass economy), che non consentono
facilmente il passaggio dall’uno all’altro. Da un lato, la richiesta di lavoro altamente
qualificato: chi ha le caratteristiche richieste da questo segmento di mercato non
incontra ostacoli all’inclusione; dall’altro, la richiesta di lavoro manuale generico e di
basso profilo che porta frequentemente a una integrazione subalterna (Ambrosini 2001)
o all’assimilazione nella underclass urbana. In questo contesto, se la congiuntura
economica definisce il quadro generale entro cui si sviluppano i percorsi di inserimento
delle seconde generazioni, il capitale sociale, la struttura e la consistenza delle reti
etniche entro cui si è inseriti costituiscono gli elementi capaci di orientare verso un esito
positivo o negativo. Quando la prima generazione mantiene una forte rete etnica e la
capacità di differenziare la propria immagine sociale da quella delle minoranze
discriminate, il percorso di assimilazione delle seconde generazioni presenta un
carattere lineare di progressiva inclusione nella classe media. La forte rete etnica
assicura lo sviluppo di un elevato capitale sociale – associazioni, chiese, reti di relazioni
– che garantiscono opportunità occupazionali e sostegno in caso di necessità (Portes,
Sensenbrenner 1993). Forme di mantenimento della lingua o di particolari tradizioni
non sono sinonimo diretto di mancata inclusione, ma possono costituire risorse
suppletive importanti: il successo dell’integrazione non è più necessariamente congiunto
con la piena acculturazione ai valori e ai costumi del gruppo dominante.
Uno sguardo critico all’ipotesi dell’assimilazione segmentata
Nonostante la sua sofisticata articolazione, la teoria dell’assimilazione segmentata, con
la sua enfasi sulla dimensione economica e lavorativa, sembra assumere come scontata
l’esistenza di un modello dominante, definito e condiviso, entro cui si possa e si voglia
essere assimilati. Il grado di inclusione viene valutato quasi esclusivamente in base ai
risultati economici e professionali raggiunti, spesso giudicati secondo l’indiscusso
metro valutativo del gruppo maggioritario. Perché ci sia assimilazione di successo è
necessario conformarsi alle caratteristiche della maggioranza oppure raggiungere i
medesimi obiettivi del gruppo dominante grazie al supporto e all’inclusione in un
particolare gruppo etnico, la cui efficacia e la cui potenza sono valutati in base all’aiuto
fornito per raggiungere gli obiettivi economici e professionali. Si configurano poche
opzioni possibili per i giovani figli di migranti: un percorso virtuoso – che porta a una
completa inclusione nella classe media autoctona o a forme di inclusione di successo
che utilizzano la differenza e il gruppo etnico come risorsa – oppure un percorso di
emarginazione e di esclusione, spesso caratterizzato da un eccessivo attaccamento a una
differenza che viene utilizzata come forma di resistenza e di opposizione rispetto al
gruppo dominante ma che risulta unicamente capace di rafforzare la discriminazione e
la formazione di stereotipi negativi.
L’enfasi posta sull’importanza della rete etnica e la tendenza a valutare i destini dei figli
di immigranti a partire dalla loro supposta appartenenza etnica rischiano di trasformare
l’etnia in un dato vincolante, in una realtà sociale che determina i percorsi individuali.
Piuttosto che valutare le peculiarità biografiche e cercare di comprendere come esse si
incrocino con fattori strutturali, guardare ai processi di inclusione a partire
dall’appartenenza di gruppo significa applicare uno sguardo specifico e selettivo che
rischia di trascurare le differenze interne ai gruppi, la capacità di azione individuale, la
forza degli elementi contingenti nel definire un particolare percorso biografico. Casi di
successo o insuccesso scolastico, di ascesa professionale o di scivolamento verso il
basso nella scala sociale si ritrovano invariabilmente nel medesimo gruppo,
evidenziando quanto l’etnia debba essere considerata un elemento rilevante nell’attuale
contesto sociale ma non possa essere a priori considerata una determinante essenziale
(Crul, Vermullen 2003; Wimmer 2004). Molto spesso la classe sociale (Perlmann,
Waldinger 1997) o la posizione amministrativa – possedere o meno un regolare
permesso di soggiorno, il riconoscimento o meno della cittadinanza – possono costituire
elementi più rilevanti nel rendere conto dei destini personali di quanto non lo sia
l’appartenenza etnica.
Considerare l’etnia come un “dato”, come una “realtà oggettiva” che determina in modo
diretto e con poche possibilità di eccezione l’azione dei singoli e dei gruppi non
consente di rendere conto di un uso strategico, contestuale e mutevole dell’etnia, nonché
della struttura differenziata, stratificata e asimmetrica, che caratterizza ogni gruppo
sociale.
Anche quando sottolinea il carattere “segmentato” dell’integrazione, cioè quando
sottolinea che un percorso di successo e di avanzamento nella scala sociale è possibile
anche grazie alla capacità di tenere insieme competenze, relazioni e valori che
provengono da diverse tradizioni culturali, questa prospettiva teorica sembra poco
attrezzata concettualmente per distinguere rilevanti differenze nelle modalità con cui
questa sintesi viene attuata. Sembra infatti importante saper distinguere tra strategie
“postmoderne” orientate a mantenere il più possibile congiunti elementi differenziati e
incongruenti, anche a costo della coerenza complessiva; strategie “transnazionali” che
cercano di evidenziare l’impossibilità di scegliere tra due opzioni e sfruttano il confine
come zona vantaggiosa; strategie diasporiche che evidenziano le interconnessioni tra le
due parti, enfatizzando il tratto (hyphen) che unisce piuttosto che le polarità estreme, e
strategie “cosmopolite” che pongono la differenza in un’ottica relativa, depotenziandone
gli elementi assoluti e reificanti, che considerano le diverse opzioni in un contesto di
scelte biografiche e collettive uniche ma non necessariamente definitive e insuperabili.
Crescere in un contesto di globalizzazione
Comprendere con maggiore attenzione i percorsi di identificazione dei figli di immigrati
sembra rilevante perché questi giovani si collocano in una posizione sociale particolare,
all’incrocio tra due serie distinte di trasformazioni che sembrano avere implicazioni
significative per la società nel suo complesso. Da un lato condividono, almeno in parte,
le trasformazioni che interessano i fenomeni migratori contemporanei, dall’altro
condividono, in quanto giovani, trasformazioni più generali nei modelli di riferimento,
nello stile di vita, nelle esperienze quotidiane; trasformazioni solitamente sintetizzate
nell’uso del concetto di globalizzazione.
Cercare di incrociare i suggerimenti analitici che provengono dai più recenti studi sui
figli di immigrati con i suggerimenti analitici che derivano dallo studio dei processi di
globalizzazione – con particolare riferimento alle dimensioni culturali del fenomeno –
può ampliare le nostre capacità interpretative e suggerire nuove prospettive di indagine.
Da diversi anni le scienze sociali sono portate a interrogarsi sull’esistenza, la portata e le
conseguenze dei processi di globalizzazione. Il termine, nella sua genericità e per la
vastità dei campi (economici, politici, sociali e culturali) a cui rimanda, risulta spesso
impreciso e indefinito, ma nondimeno capace di orientare lo sguardo verso una serie di
specifiche trasformazioni che sembrano caratterizzare l’esperienza contemporanea.
Una prima dimensione rimanda a una crescente interconnessione che favorisce la
creazione di sfere pubbliche diasporiche (Appadurai 1996), lo svilupparsi di uno spazio
circolatorio per immagini, modelli, individui, risorse economiche e culturali che
sganciano l’esperienza personale dalla dimensione spaziale e territoriale per ridefinirla,
almeno potenzialmente, su dimensioni planetarie.
Essere inseriti in flussi di riconoscimento identitario, consumo, informazione che si
costituiscono non necessariamente entro un contesto di relazioni caratterizzate dalla
prossimità fisica, ma, al contrario si alimentano all’interno di flussi e di scambi che
avvengono secondo modalità di vicinanza definite più dalla scelta, dalle possibilità
economiche e tecnologiche, dalle reti relazionali a cui si ha accesso, consente di
sperimentare nuove modalità di costruzione di sé e richiede lo sviluppo di nuove
competenze. Saper costruire la propria esperienza in modo originale e adeguato agli
obiettivi che si intendono raggiungere diviene una necessità e fallire in questo compito
uno dei rischi maggiori. Diviene inoltre importante sviluppare la capacità di adeguarsi a
contesti relazionali diversificati, caratterizzati da regole, pubblici e interessi differenti,
facendo fronte alla crescente difficoltà di trasferire ciò che si è appreso o acquisito in un
ambito della vita ad altri ambiti (Melucci 1991). Soprattutto i giovani si trovano a dover
fare i conti con la possibilità e la necessità di costruire i propri riferimenti e le proprie
preferenze a partire da elementi che provengono da localizzazioni e tradizioni diverse,
costruendo nuovi modelli in un lavoro continuo di assemblaggio, ibridazione,
compromesso. Si trovano inoltre nella condizione continua di apprendere ad apprendere,
cioè a dover necessariamente attrezzarsi per assemblare un insieme ampio e
differenziato di competenze e, soprattutto, per comprendere quali tra esse è più efficace
utilizzare in determinati contesti in vista di determinati obiettivi.
Il bilinguismo, la capacità di contare su riferimenti culturali differenziati, un certo
relativismo nella concezione delle regole, la capacità di adattamento e di flessibilità
sembrano costituire competenze fondamentali che ogni giovane deve possedere per
avere successo in un mondo sempre più globale.
Una seconda dimensione rilevante dei crescenti processi di globalizzazione è costituita
dal significato acquisito dalla differenza. A partire dalla fine degli anni sessanta, anche
grazie all’azione culturale dei “nuovi movimenti sociali” (Melucci 1982; Colombo
2002) e alla sempre più frequente esperienza del contatto con modi di pensare, vivere e
progettare il futuro diversi dai propri, la differenza non è più vista come un residuo di
fedeltà premoderne, un ostacolo al progresso e alla vita comune, qualcosa che è
necessario eliminare per garantire eguali diritti ed eguali opportunità. Al contrario, la
differenza tende a divenire un valore, una caratteristica irrinunciabile per una piena
realizzazione personale. Le persone private della loro differenza, della loro specificità,
non sono che manichini confusi in una massa informe, schiavi di un conformismo che
impedisce di sviluppare le proprie, uniche, qualità. Vedersi riconosciuta la propria
differenza e riconoscere quella altrui divengono elementi irrinunciabili su cui fondare
una più giusta convivenza comune, capace di valorizzare le specificità individuali.
Il diritto alla differenza e al suo riconoscimento tendono sempre più ad essere
considerati dei diritti fondamentali, indispensabili per la piena realizzazione umana.
Come osserva Charles Taylor in un testo che ha avuto notevole influenza nella
trasformazione del significato attribuito alla differenza: «un individuo o un gruppo può
subire un danno reale, una reale distorsione, se le persone o la società che lo circondano
gli rimandano, come uno specchio, un’immagine di sé che lo limita o sminuisce o
umilia. Il non riconoscimento o misconoscimento può danneggiare, può essere una
forma di oppressione che imprigiona una persona in un modo di vivere falso, distorto e
impoverito» (1992, 9).
La differenza diviene, per molte persone e in molti ambiti, un elemento centrale per
un’azione libera e consapevole, qualcosa a cui non si è disposti a rinunciare: le persone
che non possono contare su una loro specificità, adeguatamente riconosciuta dal
contesto in cui si trovano ad agire, sono meno sicure di sé, meno autonome, meno
interessanti. Se, da un lato, il richiamo all’importanza della specificità individuale
sollecita a porre in luce critica l’intolleranza verso ciò che non rientra negli schemi
abituali e un conformismo che si traduce in riproduzione delle asimmetrie e in
legittimazione degli sfruttamenti, dall’altro, rischia di trasformasi in una forma di
ossessione, in una spirale di continua moltiplicazione delle linee di distinzione, in una
forma di esclusione e di legittimazione di nuovi privilegi (Colombo 2006).
La crescente importanza attribuita alla differenza si connette a una terza rilevante
dimensione dei processi di globalizzazione: il diffondersi dell’incertezza, della
precarietà e del rischio (Beck 2000, Sennett 1999, Bauman 1999). Per ciò che concerne
la riflessione che qui si sta cercando di sviluppare, questa dimensione rimanda alla
sempre più diffusa esperienza di non poter contare su punti fermi e stabili che
consentano di orientare e strutturare la propria esperienza. Ciò che si è riusciti a
costruire in un particolare ambito (quello scolastico, lavorativo, familiare o della sfera
dell’amicizia, ad esempio) non può essere considerato acquisito e trasferito da un
ambito all’altro. Il riconoscimento della differenza e della specificità devono essere
continuamente rinegoziati, mediati in relazione ai contesti entro cui ci si trova ad agire.
Si sperimenta sempre più la possibilità di collocazioni discrepanti a seconda dei contesti
frequentati e delle regole valide al loro interno. Essere “inclusi” e valorizzati in un
particolare ambito non esclude la possibilità di ritrovarsi in posizione marginale e di
esclusione in altri. Si promuove così un’immagine di sé non necessariamente coerente e
stabile, sfaccettata e costituita da livelli e potenzialità diverse. Questa percezione di sé
può condurre sia a forme di resistenza che si impegnano nella ricostruzione di una
coerenza e di una stabilità che si sentono minacciate, sia all’abitudine a gestire un certo
grado di variabilità e di eclettismo individuale, sostituendo alla coerenza e alla
continuità come forme di ricostruzione unitaria della propria esperienza la capacità di
trasformarsi e di adeguarsi ai differenti contesti.
Una delle conseguenze più problematiche dell’affermarsi dell’idea di differenza,
all’interno di uno scenario di crescente globalizzazione, è una radicale messa in
discussione dei concetti di universalismo e di assimilazione. Ciò rende difficile
continuare a guardare ai figli di migranti interrogandosi sul loro grado di assimilazione,
senza considerare problematico il significato da attribuire a questo termine. Non solo
risulta più difficile definire quali sono le dimensioni rilevanti con cui valutare
l’assimilazione, ma diviene sempre più evanescente anche definire uno spazio entro cui
si possa, o si voglia, essere assimilati (Baudrillard 2005).
Lo stato nazione (e con esso l’idea di cittadinanza) è sottoposto a un processo di
erosione che ne limita la capacità di azione nonché la capacità di presentarsi come la
fonte primaria di attribuzione di identità, solidarietà, riconoscimento e controllo. La
dimensione dello stato nazione appare inadeguata sia a livello macro, per la gestione di
problematiche che superano e attraversano i confini statali (controllo dell’economia,
inquinamento e salvaguardia ambientale, governo dei conflitti bellici, immigrazione),
sia a livello micro, per la gestione della vita quotidiana e dell’ambito locale (gestione
dei sistemi di welfare, interventi sul territorio nel rispetto delle specificità locali,
gestione delle quotidianità in contesti multiculturali, riconoscimento dell’individualità e
della specificità).
Lo stato nazione ha definito, nel periodo moderno, uno spazio fisico, distinto e concreto,
entro cui pensare processi di inclusione e assimilazione ed entro cui immaginare una
condizione realizzabile di eguaglianza. L’assimilazione, nella sua accezione moderna, è
pensabile a partire da una metafora spaziale, da un contenitore adeguato capace di
tracciare un confine che distingua tra un dentro, in cui garantire solidarietà ed
eguaglianza, e un fuori, in cui accumulare la differenza. L’assimilazione garantisce
protezione e sicurezza, ma in cambio pretende un certo grado di riduzione della propria
libertà, richiede la disponibilità a riconoscere e onorare una volontà collettiva, reclama
una fedeltà al luogo e al gruppo che trascendano gli interessi individuali.
L’assimilazione moderna è vincolata ad una logica centralistica: esiste un luogo (il
mondo occidentale, gli Usa, l’establishment borghese, maschile e bianco) sede del
potere centrale in grado di assicurare protezione e riconoscimento.
Oggi, nell’esperienza quotidiana, alla metafora spaziale tende sempre più a sostituirsi
quella del processo, del flusso: l’assimilazione riguarda sempre meno una
localizzazione spaziale, definita e fissa, e diviene una questione contingente, mobile e
mutevole. Non si tratta solo di una questione cognitiva o linguistica: l’assimilazione
spaziale, guidata da una logica di opposizioni esclusive (o…, o…) si tramuta in
possibile esclusione dai processi e dai flussi retti da una logica di opposizioni inclusive
(sia…, sia…) o dal rifiuto di tali opposizioni (né…, né…) (Beck 2005; Colombo 2002).
Essere vincolati a un gruppo, essere saldamente ancorati a un solo luogo, a una sola
identità, a un’unica appartenenza, si traduce nella perdita di una risorsa fondamentale: la
capacità di movimento, mutamento, flessibilità (Bauman 1999).
La prospettiva transnazionale e cosmopolita
La crescente attenzione per le trasformazioni indotte dai processi di globalizzazione
modifica il nostro modo di guardare ai fenomeni migratori, ma, più in generale, segnala
trasformazioni profonde che riguardano non solo i migranti e i loro figli, ma tutti noi,
per molti aspetti della nostra vita quotidiana.
A partire da una prospettiva attenta all’intensificarsi dei fenomeni di interconnessione
planetaria la condizione del migrante diviene una condizione “esemplare”, che anticipa
ed enfatizza trasformazioni che probabilmente sono destinate a divenire esperienza
comune e condivisa. Come i migranti e i loro figli gestiscono la loro esperienza entro un
contesto di crescente interdipendenza – in cui la valutazione della differenza e la
percezione del rischio, della continuità e dell’identità personale si trasformano – non è
rilevante solo per mettere in primo piano i punti critici della società occidentale, né per
evidenziare i percorsi e i possibili ostacoli ai processi di inclusione. Diviene, piuttosto,
un buon punto di osservazione per comprendere come si sta trasformando l’intera
società (Castles 2002).
Collocare i processi migratori contemporanei entro una più ampia cornice di
trasformazioni globali consente di superare l’idea moderna che essi si risolvano
inevitabilmente nel modello dell’assimilazione, caratterizzato dalla progressiva
dissoluzione dei migranti nella classe media autoctona, o in quello della temporaneità,
caratterizzato da una presenza “separata” e destinata a concludersi entro un periodo
limitato. L’attenzione viene posta sulle modalità di costruzione dei legami comunitari,
dell’identità individuale e collettiva, delle strategie adottate per garantirsi successo
economico e sociale in un contesto che non può più essere letto unicamente secondo le
categorie dello stato nazione o della dimensione locale.
Una parte della riflessione teorica contemporanea è portata a collocare i fenomeni
migratori entro una prospettiva transnazionale, segnalando come il contesto di
globalizzazione tenda a costituire nuovi campi sociali che connettono luoghi e gruppi
spazialmente separati nonché una nuova categoria di attori sociali – i transmigranti
(Glick Schiller et al. 1992, Vertovec 1999) – che mantengono un ampio insieme di
relazioni sociali di tipo affettivo e strumentale che travalicano i confini nazionali.
In un contesto di crescente interconnessione globale, la propria identificazione è tratta
principalmente dal flusso transnazionale in cui si è inseriti, piuttosto che direttamente
dalle caratteristiche locali (Faist 2000; Levitt and Waters 2002). Rimanda a una
dimensione relazionale e immaginativa che trascende quella spaziale (Kivisto 2001,
Levitt 2001). È il risultato, continuamente rinnovato, di una sintesi dinamica che tende a
tenere congiunti elementi legati al passato (alla memoria condivisa, a una narrazione
comune), elementi legati all’esperienza del presente (alla vita quotidiana e alle sue
relazioni) ed elementi orientati al futuro (a progetti e immaginazioni che si nutrono di
modelli e linguaggi costruiti e diffusi su scala globale).
A partire da una prospettiva transnazionale, i figli di migranti tendono ad assumere gli
elementi di base per la costruzione della loro identificazione tanto dal flusso di cultura
globale quanto dai contesti locali entro cui sono inseriti o da quelli di provenienza dei
genitori (Hall 1996, Soysal 2000). Non sono semplici riproduttori delle “differenze” dei
genitori, risultato meccanico dell’azione della cultura, delle tradizioni o delle “radici”
che si sarebbero ereditate, ma neppure malleabile materia prima che si adegua, senza
residui e resistenze, ai modelli dei gruppi dominanti. Al contrario, sempre più negoziano
e definiscono identità collettive che sono dissociate dalla cittadinanza etnica e culturale
senza però assumere come modello diretto quelle dominanti nel paese di migrazione dei
loro genitori.
Il concetto di cosmopolitismo viene sempre più frequentemente proposto per cercare di
rendere conto di queste nuove forme di produzione di identificazione che si sviluppano
entro un orizzonte globale (Hannerz 2001; Fetherstone 2002; Beck 2003, Skrbis et al.
2004).
Il termine cosmopolita intende segnalare la dimensione processuale dei processi di
identificazione, come questi non si configurino come essenza, costituzioni stabili e
definitive, ma piuttosto come capacità di costituire sintesi continue che tengono conto
delle esperienze passate per adeguarle alle necessità dei contesti presenti o agli obiettivi
futuri. Assumere uno sguardo cosmopolita intende evidenziare, come sottolinea Beck,
«senso del mondo, senso della mancanza di confini. Uno sguardo quotidiano, vigile
sulla storia, riflessivo. Uno sguardo dialogico capace di cogliere le ambivalenze nel
contesto delle differenze che sfumano e delle contraddizioni culturali. Esso mostra non
soltanto la “lacerazione”, ma anche la possibilità di organizzare in una cornice culturale
multietnica la propria vita e la convivenza. È uno sguardo nello stesso tempo scettico,
disilluso, autocritico» (2005, 14). I giovani figli di immigrati sono in una posizione
favorevole per sviluppare un’identificazione cosmopolita, perché sperimentano una
poligamia di luoghi, un legame duraturo con diversi mondi e culture (Beck 203).
La prospettiva cosmopolita consente di sottoporre a critica un’idea troppo semplicistica
di assimilazione: in un contesto di globalizzazione il problema più sentito non è quello
di essere completamente incluso, anche a costo di rinunciare alla propria specificità, ma
piuttosto di non essere escluso, di vedersi rifiutato l’accesso a beni e situazioni sociali
senza mantenere la possibilità di far valere la propria differenza, senza mantenere una
distanza critica. Il successo dell’assimilazione, e della capacità di convivenza
democratica, tende a non essere più misurato principalmente dalla capacità di creare
uniformità e consenso, quanto dalla capacità di riconoscere e accogliere le specificità, di
far fronte e di conservare la complessità (Touraine 1998).
Nelle sue versioni più radicali, la prospettiva cosmopolita a volte sembra insistere
eccessivamente sulla libertà e sulla creatività individuale, trasformando la differenza in
un processo continuo che la rende irrilevante, puro esercizio di costruzione estetica,
manifestazione di una sterile onnipotenza creativa di soggetti orientati alla loro sola
gratificazione immediata. Le identità personali e collettive sono presentate come delle
scelte, risultato non di essenze o di necessità naturali che precludono possibilità di
modifica e spazi autonomi di azione ma come esito di un’opera continua di costruzione,
miscelazione, ibridazione. Questo, da un lato, consente di restituire dinamismo, storicità
e collocazione sociale ai processi di selezione e di costruzione dei confini che creano
distinzioni e identità, dall’altro, se portato all’eccesso, rischia di togliere valore a
qualsiasi distinzione e a qualsiasi identità, negando la rilevanza delle sedimentazioni,
delle abitudini, delle credenze condivise e dei fattori strutturali che rendono possibile o
meno la costruzione dei confini e ne assicurano visibilità, stabilità e riproducibilità.
L’enfasi sui processi di miscelazione rischia inoltre di scivolare su un piano normativo
che occulta le dinamiche di potere presentando l’ibrido come sempre positivo,
emancipazione da precedenti vincoli e poteri, condizione auspicabile per una maggiore
consapevolezza e una più ampia garanzia di libertà e di giustizia (West 1992; Anthias
2001). Rischia inoltre di considerare l’identificazione collettiva come un puro dato
contestuale, privo di consistenza e di stabilità, in netto contrasto con situazioni sociali in
cui il riconoscimento dell’appartenenza collettiva è per gli attori tutt’altro che marginale
ma muove passioni, anima conflitti, produce esclusioni.
Una maggiore attenzione alle capacità di azione
Uno sguardo sui figli di immigrati sensibile agli effetti delle trasformazioni
contemporanee consente di restituire un’immagine più articolata e dinamica dei processi
di inserimento e dei percorsi di definizione delle identificazioni individuali e collettive.
Considerare questi percorsi come non completamente definiti dalle dimensioni
strutturali, pur senza esserne completamente sganciati, consente di porre in adeguato
rilievo le capacità di azione individuali e collettive, di focalizzare l’importanza delle
scelte, delle strategie e delle tattiche, nonché il rilievo assunto da fattori contingenti.
L’assimilazione non è più lineare non solo perché segue un percorso accidentato, con
esito incerto, ma perché l’idea stessa di assimilazione non può più essere facilmente
ridotta a un modello dominante, facilmente individuabile e misurabile. In uno scenario
di crescente interconnessione globale i “processi” sembrano assumere capacità
esplicativa superiore ai “dati”, ai “fatti”. Più che le identità, le identificazioni o
l’assimilazione sembrano rilevanti i “modi” – i percorsi, le condizioni entro cui sono
possibili, i loro attori – in cui e con cui questi “fatti sociali” sono continuamente
costruiti, riprodotti e contestati. Questo pone in primo piano gli aspetti “banali”,
quotidiani: è qui che sembra più rilevante osservare come vengano costruiti e decostruiti
i confini significativi e come locale e globale si mescolano continuamente.
Soffermarsi sugli aspetti di cosmopolitismo banale (Beck 2005) o di multiculturalismo
quotidiano (Colombo 2006) – cioè sulle situazioni concrete e quotidiane di relazione in
cui la differenza è considerata, per almeno uno degli attori coinvolti, un elemento
significativo – consente di guardare ai figli di migranti come attori attivamente
impegnati nel dare un senso alla loro “differenza” e alla loro specificità senza che essa
si trasformi in una “essenza” vincolante e immutabile né si dissolva in un flusso
continuo privo di stabilità e di consistenza.
L’attenzione alle dimensioni quotidiane consente di restituire una prospettiva di
“normalità” ai percorsi biografici dei figli di migranti – cioè di sottrarsi alla stretta
dell’immagine del giovane in difficoltà, sospeso tra due mondi, deviante o criminale –
pur senza negarne le specificità.
L’insistenza sulla particolare collocazione biografica, caratterizzata sia da forme di
discontinuità rispetto al vissuto migratorio dei genitori sia da modalità specifiche e
inedite di fare esperienza della condizione giovanile in un contesto di crescente
globalizzazione, invita ad assumere una prospettiva generazionale (Mannheim 1928;
Demarie, Molina 2004; Saint-Blancat 2004; Bosisio et al. 2005), togliendo enfasi
all’identificazione etnica. Quest’ultima diviene “una” delle variabili influenti, ma non è
più intesa come la determinante principale, a priori capace di individuare i percorsi e i
destini dei figli di immigrati.
È così possibile sottolineare come i giovani figli di immigrati assomiglino ai coetanei
italiani nei modelli di consumo, negli orientamenti di valore, nelle difficoltà nei rapporti
con i genitori, nei progetti per il futuro (Cologna, Breveglieri 2003; Zanfrini, Asis
2006), pur vivendo in modo intenso la sensazione di essere comunque “stranieri” e
situazioni in cui ci si sente soli o esclusi.
Altri studi insistono sulle capacità di azione dei giovani figli di migranti nella loro
ricerca di percorsi di autonomia; ne sottolineano l’impegno nel definire sia un loro
spazio all’interno della società entro cui si trovano a crescere e dalla quale non vogliono
essere esclusi, sia una loro collocazione, spesso critica, all’interno delle abitudini
familiari e delle tradizioni religiose o etniche dei loro genitori. Chantal Saint-Blancat
(2004) evidenzia come i giovani figli di migranti di religione islamica sappiano
utilizzare in modo attivo la dimensione religiosa sia per avanzare richieste politiche di
riconoscimento nei confronti della società in cui vivono sia per opporre resistenza verso
le concezioni dei genitori e della loro comunità nazionale rispetto ai rapporti di genere,
ai modelli di relazioni e di comando all’interno della famiglia, allo spazio di libertà
concesso ai figli. La ricerca evidenzia come i giovani mussulmani figli di migranti non
possano essere analizzati solo attraverso una loro presunta forte e stabile identità
religiosa e siano invece continuamente impegnati a mediare la loro immagine e la loro
collocazione sia nei confronti della società in cui stanno crescendo sia nei confronti
della tradizione e delle abitudini dei genitori.
La dimensione strategica e il tentativo di definire uno spazio di identificazione e di
integrazione autonomo e non facilmente riconducibile alla scelta tra assimilazione,
attaccamento alla tradizione o devianza, è sottolineata anche dal lavoro di Annalisa
Frisina (2006) in uno studio tra i membri dell’associazione dei Giovani mussulmani
d’Italia (Gmi). La ricerca evidenzia come la differenza possa essere utilizzata sia come
una tattica quotidiana (de Certeau 1990) di inclusione o di resistenza alla
discriminazione (usandola o negandola per costruire confini adeguati agli obiettivi
contestuali o per contestare quelli esistenti), sia come una strategia di ascesa sociale (ad
esempio diventando mediatori culturali). La differenza non è qualcosa che i figli di
migranti “possiedono” o si “portano sulle spalle”, ma piuttosto una dimensione
significativa che può essere utilizzata – od occultata – in base a precise esigenze
contestuali o agli obiettivi che si intendono raggiungere. In questa logica, la
“differenza” e l’inclusione non sono caratterizzabili in modo statico e definitivo, ma
assumono il valore di vincolo e di risorsa a cui attingere o con cui confrontarsi a
seconda delle situazioni e dei contesti. I figli di migranti non sono quindi “definiti” dalla
loro differenza, ma ne sono piuttosto degli utilizzatori accorti, pur sperimentandone
anche il carattere vincolante e, spesso, discriminante.
La capacità di creare nuove combinazioni, ibridi e patchwork, utilizzando la scuola e
l’istruzione, ma anche la banda giovanile, come contesti entro cui costruire nuove forme
di identificazione e di riconoscimento è segnalata dalla ricerca di Queirolo Palmas e
Torre (2005) tra i giovani figli di emigrati ecuadoriani a Genova. Anche in questo caso,
i modelli di identificazione e le richieste di riconoscimento dell’eguaglianza o della
differenza sono utilizzate in modo mutevole, in sintonia con i pubblici e i contesti.
Come sottolinea Queirolo Palmas (2006, 153): «la fluttuazione delle rappresentazioni e
delle pratiche è indice al tempo stesso di una possibile reversibilità delle situazioni […]
così come un’attitudine attiva dei giovani a ricercare un proprio percorso pur nel quadro
dei vincoli e dei limiti definiti da un lato dall’integrazione subalterna dei genitori,
dall’altro dalla criminalizzazione mediatica di cui sono oggetto». La ricerca ha il merito
di evidenziare chiaramente come i percorsi di inclusione o di esclusione non possano
essere letti unicamente a partire da presunti caratteri ascritti (l’appartenenza etnica) o
dalle strategie volontaristiche dei soggetti (gli obiettivi personali), ma siano più
comprensibili se inseriti in un processo continuo che vede i giovani come soggetti attivi
impieganti a costruire identificazioni e azioni coerenti con gli obiettivi e l’immagine di
sé che si vuole sostenere in un determinato contesto. Gli esiti di queste costruzioni «si
spiegano anche attraverso la configurazione delle opportunità veicolate dal sistema
economico, politico, giuridico, simbolico. In primo luogo, inclusione ed esclusione si
articolano in un contesto in cui la precarietà è nei fatti la norma per vaste porzioni della
popolazione giovanile e non solo, e in cui le carriere lavorative e le mobilità sono
sempre più spezzate e si dispiegano su mercati fortemente polarizzati fra occupazioni
dequalificate e occupazioni ad alta professionalità e riconoscimento sociale» (Idib. 189).
Uno sguardo eccentrico
Le trasformazioni introdotte dai processi di globalizzazione consentono di applicare
anche uno sguardo più radicale ed eccentrico sui percorsi biografici dei figli dei
migranti. Si può immaginare che il contesto di interconnessione globale, la capacità di
inserirsi in flussi di informazioni, valori, modelli di consumo che si dispiegano su
dimensioni che trascendono la collocazione locale, l’abitudine ad assemblare modelli di
identificazione e di azione differenziati in base alle esigenze e agli obiettivi contestuali
utilizzando risorse disparate e disomogenee, siano condizioni che si riferiscono non solo
ai giovani figli di immigrati, ma costituiscano il contesto di riferimento per gran parte
dei giovani contemporanei. Da un lato, questo consente di evidenziare la “normalità”
dei figli di migranti, evitando letture eccessivamente appiattite sulla dimensione della
“difficoltà” e della devianza, dall’altro segnala che se esiste una differenza tra questi
giovani e loro coetanei che non hanno un’esperienza familiare diretta della migrazione,
tale differenza è data dal fatto che i primi sono spesso nella condizione di sperimentare
le trasformazioni indotte dai processi di globalizzazione in forma anticipata e più
intensa.
Fare i conti con la differenza, con diversificate competenze linguistiche, sapersi
destreggiare tra modelli culturali distinti, transitare da un contesto all’altro
riconoscendone i codici e le regole e sapendoli utilizzare in modo adeguato sembrano
essere destini condivisi da tutti i giovani contemporanei. In questa prospettiva, i giovani
figli di migranti – perlomeno quelli tra loro che hanno a disposizioni maggiori risorse
familiari, culturali e sociali, che investono in modo forte sulla loro educazione superiore
e sul loro successo professionale – possono essere visti come “profeti”, come coloro che
«“parlano avanti”, annunciano ciò che si sta formando senza che ancora ne sia chiara la
direzione e lucida la coscienza» (Melucci 1982, 7). Non si tratta di favorire una
esaltazione acritica di ciò che viene prodotto, né di abbracciare una visione irenica che
occulta la dimensione del conflitto, ma di proporre uno sguardo analitico che individui i
processi sociali e di identificazione attivati da questi giovani come “luogo significativo
e privilegiato” di produzione di nuovi codici (non necessariamente migliori,
democratici, fautori di convivenze pacifiche e privi di potenziali discriminanti).
Collocandosi nel solco della sociologia dei nuovi movimenti sociali (Gamson 1990,
Touraine 1993, Melucci 1996, Castells 2002) sembra lecito assumere che in determinati
contesti e in determinati periodi storici, gruppi minoritari ed elite subordinate siano in
grado di produrre modelli di azione e di senso che possono poi costituire punti di
riferimento per l’intera società. È possibile dunque ipotizzare che la parte più dotata di
risorse tra i giovani figli di migranti si possa presentare come un’avanguardia, dei
precursori di situazioni ed esperienze che diverranno presumibilmente consuetudini
comuni, potenziale nucleo di riferimento per l’elaborazione di discorsi, pratiche e
modelli di relazione con la società italiana che troveranno più ampia diffusione. Non si
intende sottolineare che la “condizione” di questi giovani – ampio capitale culturale e
sociale, forte investimento nel percorso educativo, capacità di attingere a un contesto di
riferimento globale – diverrà condizione comune dei figli di immigrati (pur se lecito
supporre che il carattere inclusivo del sistema scolastico italiano porti a un incremento
della scolarizzazione, anche superiore e universitaria, dei figli di migranti), quanto la
possibilità che i loro modi di interagire con la società italiana, i loro modelli di
identificazione, le resistenze e i processi di mimetismo, le modalità di reazione ai
probabili processi di discriminazione nel campo lavorativo o nella costruzione dei
legami affettivi e amicali, i codici di espressione di sé e di definizione dei confini, gli
stili di vita e di consumo, possano costituire i riferimenti necessari, le “materie prime”,
con cui una fascia più ampia di giovani costruirà i propri riferimenti e i propri modelli.
Concentrare l’attenzione sui giovani figli di migranti inseriti nella scuola superiore
(Bosisio et al. 2005) consente allora di analizzare non un segmento statisticamente
significativo e capace di illustrare la condizione e i percorsi biografici tipici dei giovani
figli di immigrati ma di mettere in evidenza le specificità di un segmento “esemplare”
perché potenzialmente capace di creare quell’insieme di modelli, di linguaggi, di
simboli e di pratiche che potrebbero costituire gli elementi di base con cui un gruppo
più ampio di giovani si troveranno a costruire e a mediare la propria collocazione
sociale.
Accanto a forme di chiusura che utilizzano l’appartenenza etnica come un segnale di
sfida e di differenziazione rispetto al resto della società, forme di identificazione che
favoriscono una logica inclusiva, che si impegnano per sottolineare il tratto che unisce
(hyphen), la connessione che consente di essere contemporaneamente membri di un
gruppo senza rinunciare ad altre forme di solidarietà e di appartenenza o forme di
identificazione che pongono in una luce relativa le differenze (cosmopolitismo),
legandone il valore e la rilevanza alle dimensioni del contesto entro cui sono esibite e
riconosciute tratteggiano nuovi modelli relazionali e un nuovo modo di intendere e
vivere la differenza, l’inclusione e la partecipazione.
Osservare come questi giovani stanno costruendo i loro modelli di identificazione, quali
domande di inclusione avanzano e con quali strategie può costituire un elemento
rilevante per comprendere come e verso quali direzioni sta mutando la società
contemporanea.
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