Molto più che stranieri, molto più che italiani. Modi diversi di guardare ai destini dei figli di immigrati in un contesto di crescente globalizzazione Enzo Colombo Introduzione L’Italia è divenuta luogo di immigrazione solo alla fine degli anni settanta, quando la natura stessa dei flussi migratori tende a cambiare in modo profondo (Castles 2002, Faist 2000, Papastergiadis 2000). Altri paesi occidentali – Stati Uniti, Francia, Germania, Gran Bretagna, Olanda, Belgio tra gli altri – hanno vissuto processi immigratori in connessione con fasi di ampio sviluppo industriale, favorendo flussi che possono essere definiti di tipo fordista (Ambrosini 2005, Zanfrini 2004). Questi ultimi hanno dato origine a forme di migrazione che, anche nella lettura accademica e politica, sono state interpretate in base a due modelli principali. Da un lato, il modello dell’insediamento secondo cui gli immigrati si integrano gradualmente nelle relazioni economiche e sociali del paese di approdo, riuniscono le loro famiglie o ne formano di nuove e si assimilano alla società ospitante. Dall’altro, il modello della migrazione temporanea secondo cui i lavoratori migranti rimangono nella società di approdo solo per un periodo limitato, mantenendo i legami con la nazione di provenienza e facendovi ritorno quando il loro obiettivo economico è raggiunto. I processi di globalizzazione e le trasformazioni economiche rimettono in discussione questi modelli. Il proliferare dei flussi di individui, idee, beni materiali (Appadurai 1996), la maggiore disponibilità di tecnologie di trasporto a basso costo, l’inserimento in un contesto economico di tipo post-fordista, centrato sul terziario, sul lavoro precario, spesso irregolare, generano nuove figure di transmigranti (Glick Schiller et al. 1992, Levitt 2001) e trasformano in modo radicale le pratiche materiali e culturali associate alla migrazione, all’inclusione e alla formazione di comunità. Inoltre il nuovo “modello mediterraneo” di migrazione (Pugliese 2002) si vede contraddistinto da una presenza migratoria caratterizzata da complessità e differenziazione (culturale, economica, sociale, nelle competenze professionali), rendendo difficile rintracciare un unico, o prevalente, percorso di inserimento. Una marcata asimmetria di genere contrassegna modelli migratori fortemente differenziati sia per ciò che concerne l’accoglienza e l’impatto sulla società di approdo, sia per le strategie di inserimento, di ricongiungimento familiare o di formazione di nuovi nuclei familiari. Infine, nel caso italiano, i flussi migratori si inseriscono in un contesto culturale in cui le rappresentazioni relative alle differenze etniche non sono ancora organizzate entro una gerarchia netta, stabile e ampiamente condivisa nella popolazione autoctona. Tutto ciò concorre a ritenere che la visione classica delle migrazioni come fatalmente distinte tra definitive o temporanee non sia più pienamente affidabile (Castles 2002), richiedendo strumenti analitici più articolati. La specificità della situazione italiana sembra essere un buon punto di osservazione per evidenziare singolarità e trasformazioni che caratterizzano il processo migratorio in un contesto di crescente interconnessione globale. In particolare, per uscire da una visione ristretta dal tema dell’emergenza e per valutare con maggiore attendibilità il possibile declinarsi di plausibili scenari futuri, sembra interessante prendere in considerazione l’esperienza e il destino dei figli dei migranti. Le seconde generazioni costituiscono infatti un classico ambito di studio delle migrazioni che cerca di evidenziare che tipo di variabili, attraverso quali meccanismi e con quale intensità, influenzano i percorsi e le scelte di inserimento dei figli di migranti. A partire da queste osservazioni, nuove questioni di ricerca appaiono rilevanti. Quale sarà il percorso futuro dei giovani figli di immigrati in una nazione come l’Italia, che sperimenta solo da pochi anni un consistente flusso di immigrazione? Sono destinati a inserirsi nella società e a divenire a pieno titolo degli italiani? Oppure manterranno le loro distinzioni e daranno luogo a una società caratterizzata dalle differenze e, potenzialmente, dall’indifferenza, dalla mancanza di unione e dal conflitto? I destini delle seconde e delle terze generazioni di migranti hanno da sempre costituito ambito di attenzione nelle nazioni occidentali che da più di un secolo sono meta di consistenti flussi migratori, i modelli di analisi sviluppati per queste nazioni sono applicabili anche alla recente esperienza italiana? Oppure, i processi migratori attuali – collocati entro uno scenario caratterizzato da una connettività complessa (Tomlinson 1999) definita come globalizzazione – danno luogo a forme inedite di relazione perché, in Italia, non si inseriscono in un contesto in cui si siano sedimentate e istituzionalizzate le forme di assimilazione tipiche dei paesi che hanno sperimentato l’immigrazione durante il consolidarsi della modernità e dello sviluppo industriale fordista? La globalizzazione e uno scenario sociale in cui non si è ancora sedimentata una chiara e condivisa gerarchia basata sulla presunta appartenenza etnica aprono spazi per processi di inclusione disgiunti da una spinta alla piena acculturazione? Quali forme tende ad assumere questa “inclusione nella differenza”? Dà luogo a identificazioni biculturali, multiple, ibride, transnazionali? I figli dei migranti come specchio dei problemi della società Gli studi che riguardano i figli di immigrati solitamente concentrano la loro attenzione sui percorsi di inclusione e i loro esiti, spesso evidenziando, grazie alla tipica capacità dei fenomeni migratori di fungere da “specchio” (Sayad 2002), più generali nodi problematici della società entro cui questi giovani si trovano a crescere. Un primo rilevante ambito di analisi riguarda i fenomeni di devianza e di marginalità. I figli di migranti sono spesso un punto di osservazione significativo per illustrare più generali processi di esclusione e per mettere in evidenza luoghi e i modi attraverso cui marginalità e disuguaglianza vengono prodotte e riprodotte. Lo studio dei percorsi di criminalizzazione e carcerazione dei giovani migranti (Melossi e Giovanetti 2002) così come gli interventi nei confronti dei minori non accompagnati (Petti 2004) o le azioni di “repressione preventiva” operate dalle forze di polizia nei confronti di giovani africaniitaliani sulla base del colore della pelle (Andall 2003) evidenziano alcuni aspetti dei processi istituzionali di discriminazione e quanto possano essere labili i confini che separano, nell’esperienza di questi giovani, percorsi di integrazione e percorsi di esclusione. La forza dei processi di “etichettamento” e la necessità della loro decostruzione per comprendere le dinamiche di inserimento e di esclusione è evidenziata dalla ricerca di Queirolo Palmas e Torre (2005) sulle “bande” di giovani ecuadoriani a Genova. La ricerca segnala come una carenza di spazi adeguati per una effettiva integrazione sociale in coincidenza con condizioni oggettive di difficoltà nel definire il proprio progetto biografico e il proprio spazio di inserimento in un contesto urbano e sociale in cui ci si sente ampiamente estranei favorisca, da un lato, la formazione di narrazioni sicuritarie e stigmatizzanti, dall’altro, la costruzione di confini (con forte carattere rituale e simbolico) entro cui definire una nuova identità sociale in un periodo di rapida e radicale trasformazione biografica. Anche gli studi sulla scuola (Giovannini, Queirolo Palmas 2002; Favaro, Napoli 2004; Besozzi, Tiana 2005; Queirolo Palmas 2006) che evidenziano le difficoltà dei percorsi formativi dei figli di immigrati, tendono a segnalare quanto rilevante sia il ruolo dell’istituzione scolastica nel definire un percorso di successo o di insuccesso. Il ritardo scolastico dei figli di immigrati così come una loro sovra-rappresentazione nei percorsi orientati a un ingresso anticipato nel mondo del lavoro evidenziano spesso nodi strutturali più generali che interrogano sulla tenuta della funzione educativa della scuola di fronte a una società sempre più complessa. La capacità, tipica della figura sociale dello “straniero” di evidenziare e amplificare i nodi problematici della società è un’importante risorsa critica per la rimessa in discussione delle relazioni di potere che tendono a occultare la loro azione e a divenire egemoniche, ma rischia altresì, come giustamente osserva Queirolo Palmas (2006, 184) di avvalorare «l’assunto che, sulla scorta della letteratura internazionale, vede nella devianza un rischio peculiare delle seconde generazioni». La riflessione attorno alla “devianza” e alla “difficoltà” dei figli di migranti è sicuramente importante perché consente di cogliere le dinamiche di produzione della discriminazione e dell’emarginazione che spesso si celano nel dato-per-scontato delle routine quotidiane, nel discorso comune, mediatico e politico, nelle pratiche istituzionali, consente uno sguardo critico che favorisce processi di cambiamento orientati all’inclusione e al continuo ampliamento degli spazi di partecipazione e di democrazia. Ma spesso il prezzo pagato dall’acuirsi della capacità critica è la reificazione della presunta categoria dei giovani di seconda generazione, reificazione che avviene enfatizzando e ampliando le discontinuità e le distinzioni rispetto ai coetanei autoctoni. Il concetto di seconda generazione rischia di avvalorare in forma acritica l’idea che esista una “differenza sostanziale” tra i giovani figli di immigrati e i giovani autoctoni e che questa differenza sia legata a una presunta appartenenza etnica o nazionale o a un’esperienza migratoria dei genitori che, raramente, si è vissuto in prima persona. Ancor più di quanto avvenga per il termine immigrato, è necessario mantenere una finestra riflessiva e critica che sottolinei che la categoria di “seconda generazione” non deriva da dimensioni oggettive, stabili e definite, di cui i giovani figli di migranti sarebbero portatori, ma è un concetto analitico che segnala una particolare “posizione sociale”, risultato di una serie di relazioni che includono tanto i giovani figli di immigrati quanto la società “autoctona”; un concetto che evidenza una particolare modalità di attribuzione di senso alla realtà sociale che ritiene significativa una distinzione basata sull’origine nazionale o etnica degli individui, contribuendo a crearla, confermarla e renderla fonte plausibile di spiegazione della realtà sociale. La prospettiva dell’assimilazione segmentata Come osserva Ambrosini (2006, 86), un modo speculare di affrontare il tema dei destini dei giovani di seconda generazione consiste nel negare l’esistenza di ogni questione sociale che riguardi il loro l’inserimento. Come è spesso avvenuto in Francia, una pregiudiziale idea che la differenza – sia essa declinata in termini culturali, religiosi, etnici o nazionali – non sia e non debba essere rilevante tende a favorire un egualitarismo formale che occulta sistematiche pratiche di discriminazione. Recenti fatti di cronaca che hanno riguardato le periferie di grandi città francesi, così come il caso dei giovani britannici di discendenza asiatica tragici protagonisti di attentati, hanno forse definitivamente discreditato l’ipotesi di una inclusione lineare e non problematica dei figli di migranti riproponendo il tema dei fattori che favoriscono od ostacolano i processi di inclusione e di inserimento. Già da tempo, del resto, le analisi più accorte sulle seconde generazioni (Piore 1979; Gans 1992) avevano rilevato i limiti dell’idea che il processo di inclusione dei migranti stranieri e dei loro discendenti avrebbe potuto compiersi senza tensioni e conflitti, in un progressivo e inevitabile loro dissolversi entro la classe media autoctona. Il percorso di assimilazione che, per gran parte della modernità, si è pensato essere lineare e scontato si dimostra un percorso accidentato e incerto (bumpy-line theory). I figli di migranti, nonostante frequentino le scuole pubbliche, condividano i valori e gli obiettivi dei loro coetanei autoctoni e assumano modelli di consumo e stili di vita simili ai loro, non “scompaiono” e le loro differenze non si “affievoliscono”; al contrario, spesso le loro “differenze etniche” si conservano o risorgono in forme nuove (Gans 1979). A partire dalla constatazione dell’esito incerto dei percorsi di inserimento dei figli di migranti nelle società occidentali contemporanee, una seconda rilevante linea di ricerca tende a valutare il livello di integrazione a partire dalle caratteristiche dei singoli gruppi etnici e nazionali. In questo caso, la prospettiva sicuramente più articolata e nota è data dalla teoria dell’assimilazione segmentata (Portes 1996; Portes, Rumbaut 2001, Portes, Rumbaut 2005) che evidenzia quanto possano essere differenziati i destini dei figli di immigrati e quali fattori sono in grado di influenzarli. Per alcuni gruppi di migranti, le seconde e le terze generazioni sembrano orientate a integrarsi nella classe media autoctona mentre l’etnicità rimane un semplice ricordo oppure il risultato di scelte personali. L’identificazione etnica costituisce una forma di rielaborazione della memoria familiare e personale, indica il desiderio di mantenere un legame affettivo con la storia passata, ma non esaurisce gli ambiti entro cui ci si riconosce. È spesso manifestata in modo occasionale e strumentale. Per altri gruppi di migranti l’etnicità continua a costituire, anche per le seconde e le terze generazioni, una forma di forza e di protezione e può continuare ad accrescere la propria influenza. Un network etnico sufficientemente ampio, differenziato e compatto può costituire una base rilevante per il successo economico e sociale. Infine, per altri gruppi ancora, l’etnicità si rivela essere una gabbia; lontano dal costituirsi come libera scelta o come fattore di successo, l’appartenenza etnica costituisce il marchio di una subordinazione permanente e orienta verso l’inclusione con i gruppi sociali più emarginati e discriminati. Piuttosto che attribuire rilevanza centrale alle pratiche istituzionali e sociali che possono favorire percossi di discriminazione e di etichettamento stigmatizzante, la teoria dell’assimilazione segmentata privilegia uno sguardo ispirato alla prospettiva economica che vede l’inserimento e l’integrazione come direttamente connessi alla dotazione individuale, cioè alle competenze formative, linguistiche, tecnologiche, professionali e relazionali di cui i giovani sono in possesso. Le persone hanno maggiori difficoltà di inserimento quando sono poco istruite, non conoscono la lingua e le regole di funzionamento della società, non possono contare su una rete di relazioni sufficientemente ampia e forte per sostenerli nelle difficoltà incontrate nel loro tentativo di inclusione nella classe media. Ma, a differenza della teoria economica, la dotazione individuale non è il risultato delle preferenze o delle azioni soggettive, bensì di fattori sociali (Haller, Landolt 2005). Per questa teoria, determinante risultano essere le risorse a disposizione della famiglia: il capitale sociale e culturale dei genitori, la loro storia migratoria, la loro capacità di trasmettere la lingua e un senso di appartenenza alla comunità di origine ma anche un forte progetto familiare di successo e la determinazione necessaria per raggiungerlo. Se e come la dotazione individuale potrà essere favorevolmente utilizzata dipende inoltre da alcuni fattori contestuali: il grado di discriminazione che devono affrontare per avere accesso al mercato del lavoro, il livello di segregazione residenziale e matrimoniale, la presenza di stereotipi negativi che tendono ad assimilare ai gruppi sociali più poveri (Portes, Fernadéz Kelly, Haller 2005). Un rilievo particolare è dato alla struttura del mercato del lavoro e delle reti etniche (Portes 1996). Ciò che guida i reali percorsi di inserimento non è la volontà individuale e la determinazione verso un’integrazione di successo ma il mercato del lavoro. Mentre nel primo e nel secondo dopoguerra le condizioni economiche hanno consentito alle seconde generazioni, spesso di origine europea, di inserirsi con successo in modo quasi lineare e poco problematico, le seconde generazioni successive, spesso provenienti da paesi non occidentali e con basso livello di sviluppo, hanno trovato condizioni economiche più sfavorevoli. Il mercato del lavoro attuale risulta nettamente differenziato in due percorsi distinti (hourglass economy), che non consentono facilmente il passaggio dall’uno all’altro. Da un lato, la richiesta di lavoro altamente qualificato: chi ha le caratteristiche richieste da questo segmento di mercato non incontra ostacoli all’inclusione; dall’altro, la richiesta di lavoro manuale generico e di basso profilo che porta frequentemente a una integrazione subalterna (Ambrosini 2001) o all’assimilazione nella underclass urbana. In questo contesto, se la congiuntura economica definisce il quadro generale entro cui si sviluppano i percorsi di inserimento delle seconde generazioni, il capitale sociale, la struttura e la consistenza delle reti etniche entro cui si è inseriti costituiscono gli elementi capaci di orientare verso un esito positivo o negativo. Quando la prima generazione mantiene una forte rete etnica e la capacità di differenziare la propria immagine sociale da quella delle minoranze discriminate, il percorso di assimilazione delle seconde generazioni presenta un carattere lineare di progressiva inclusione nella classe media. La forte rete etnica assicura lo sviluppo di un elevato capitale sociale – associazioni, chiese, reti di relazioni – che garantiscono opportunità occupazionali e sostegno in caso di necessità (Portes, Sensenbrenner 1993). Forme di mantenimento della lingua o di particolari tradizioni non sono sinonimo diretto di mancata inclusione, ma possono costituire risorse suppletive importanti: il successo dell’integrazione non è più necessariamente congiunto con la piena acculturazione ai valori e ai costumi del gruppo dominante. Uno sguardo critico all’ipotesi dell’assimilazione segmentata Nonostante la sua sofisticata articolazione, la teoria dell’assimilazione segmentata, con la sua enfasi sulla dimensione economica e lavorativa, sembra assumere come scontata l’esistenza di un modello dominante, definito e condiviso, entro cui si possa e si voglia essere assimilati. Il grado di inclusione viene valutato quasi esclusivamente in base ai risultati economici e professionali raggiunti, spesso giudicati secondo l’indiscusso metro valutativo del gruppo maggioritario. Perché ci sia assimilazione di successo è necessario conformarsi alle caratteristiche della maggioranza oppure raggiungere i medesimi obiettivi del gruppo dominante grazie al supporto e all’inclusione in un particolare gruppo etnico, la cui efficacia e la cui potenza sono valutati in base all’aiuto fornito per raggiungere gli obiettivi economici e professionali. Si configurano poche opzioni possibili per i giovani figli di migranti: un percorso virtuoso – che porta a una completa inclusione nella classe media autoctona o a forme di inclusione di successo che utilizzano la differenza e il gruppo etnico come risorsa – oppure un percorso di emarginazione e di esclusione, spesso caratterizzato da un eccessivo attaccamento a una differenza che viene utilizzata come forma di resistenza e di opposizione rispetto al gruppo dominante ma che risulta unicamente capace di rafforzare la discriminazione e la formazione di stereotipi negativi. L’enfasi posta sull’importanza della rete etnica e la tendenza a valutare i destini dei figli di immigranti a partire dalla loro supposta appartenenza etnica rischiano di trasformare l’etnia in un dato vincolante, in una realtà sociale che determina i percorsi individuali. Piuttosto che valutare le peculiarità biografiche e cercare di comprendere come esse si incrocino con fattori strutturali, guardare ai processi di inclusione a partire dall’appartenenza di gruppo significa applicare uno sguardo specifico e selettivo che rischia di trascurare le differenze interne ai gruppi, la capacità di azione individuale, la forza degli elementi contingenti nel definire un particolare percorso biografico. Casi di successo o insuccesso scolastico, di ascesa professionale o di scivolamento verso il basso nella scala sociale si ritrovano invariabilmente nel medesimo gruppo, evidenziando quanto l’etnia debba essere considerata un elemento rilevante nell’attuale contesto sociale ma non possa essere a priori considerata una determinante essenziale (Crul, Vermullen 2003; Wimmer 2004). Molto spesso la classe sociale (Perlmann, Waldinger 1997) o la posizione amministrativa – possedere o meno un regolare permesso di soggiorno, il riconoscimento o meno della cittadinanza – possono costituire elementi più rilevanti nel rendere conto dei destini personali di quanto non lo sia l’appartenenza etnica. Considerare l’etnia come un “dato”, come una “realtà oggettiva” che determina in modo diretto e con poche possibilità di eccezione l’azione dei singoli e dei gruppi non consente di rendere conto di un uso strategico, contestuale e mutevole dell’etnia, nonché della struttura differenziata, stratificata e asimmetrica, che caratterizza ogni gruppo sociale. Anche quando sottolinea il carattere “segmentato” dell’integrazione, cioè quando sottolinea che un percorso di successo e di avanzamento nella scala sociale è possibile anche grazie alla capacità di tenere insieme competenze, relazioni e valori che provengono da diverse tradizioni culturali, questa prospettiva teorica sembra poco attrezzata concettualmente per distinguere rilevanti differenze nelle modalità con cui questa sintesi viene attuata. Sembra infatti importante saper distinguere tra strategie “postmoderne” orientate a mantenere il più possibile congiunti elementi differenziati e incongruenti, anche a costo della coerenza complessiva; strategie “transnazionali” che cercano di evidenziare l’impossibilità di scegliere tra due opzioni e sfruttano il confine come zona vantaggiosa; strategie diasporiche che evidenziano le interconnessioni tra le due parti, enfatizzando il tratto (hyphen) che unisce piuttosto che le polarità estreme, e strategie “cosmopolite” che pongono la differenza in un’ottica relativa, depotenziandone gli elementi assoluti e reificanti, che considerano le diverse opzioni in un contesto di scelte biografiche e collettive uniche ma non necessariamente definitive e insuperabili. Crescere in un contesto di globalizzazione Comprendere con maggiore attenzione i percorsi di identificazione dei figli di immigrati sembra rilevante perché questi giovani si collocano in una posizione sociale particolare, all’incrocio tra due serie distinte di trasformazioni che sembrano avere implicazioni significative per la società nel suo complesso. Da un lato condividono, almeno in parte, le trasformazioni che interessano i fenomeni migratori contemporanei, dall’altro condividono, in quanto giovani, trasformazioni più generali nei modelli di riferimento, nello stile di vita, nelle esperienze quotidiane; trasformazioni solitamente sintetizzate nell’uso del concetto di globalizzazione. Cercare di incrociare i suggerimenti analitici che provengono dai più recenti studi sui figli di immigrati con i suggerimenti analitici che derivano dallo studio dei processi di globalizzazione – con particolare riferimento alle dimensioni culturali del fenomeno – può ampliare le nostre capacità interpretative e suggerire nuove prospettive di indagine. Da diversi anni le scienze sociali sono portate a interrogarsi sull’esistenza, la portata e le conseguenze dei processi di globalizzazione. Il termine, nella sua genericità e per la vastità dei campi (economici, politici, sociali e culturali) a cui rimanda, risulta spesso impreciso e indefinito, ma nondimeno capace di orientare lo sguardo verso una serie di specifiche trasformazioni che sembrano caratterizzare l’esperienza contemporanea. Una prima dimensione rimanda a una crescente interconnessione che favorisce la creazione di sfere pubbliche diasporiche (Appadurai 1996), lo svilupparsi di uno spazio circolatorio per immagini, modelli, individui, risorse economiche e culturali che sganciano l’esperienza personale dalla dimensione spaziale e territoriale per ridefinirla, almeno potenzialmente, su dimensioni planetarie. Essere inseriti in flussi di riconoscimento identitario, consumo, informazione che si costituiscono non necessariamente entro un contesto di relazioni caratterizzate dalla prossimità fisica, ma, al contrario si alimentano all’interno di flussi e di scambi che avvengono secondo modalità di vicinanza definite più dalla scelta, dalle possibilità economiche e tecnologiche, dalle reti relazionali a cui si ha accesso, consente di sperimentare nuove modalità di costruzione di sé e richiede lo sviluppo di nuove competenze. Saper costruire la propria esperienza in modo originale e adeguato agli obiettivi che si intendono raggiungere diviene una necessità e fallire in questo compito uno dei rischi maggiori. Diviene inoltre importante sviluppare la capacità di adeguarsi a contesti relazionali diversificati, caratterizzati da regole, pubblici e interessi differenti, facendo fronte alla crescente difficoltà di trasferire ciò che si è appreso o acquisito in un ambito della vita ad altri ambiti (Melucci 1991). Soprattutto i giovani si trovano a dover fare i conti con la possibilità e la necessità di costruire i propri riferimenti e le proprie preferenze a partire da elementi che provengono da localizzazioni e tradizioni diverse, costruendo nuovi modelli in un lavoro continuo di assemblaggio, ibridazione, compromesso. Si trovano inoltre nella condizione continua di apprendere ad apprendere, cioè a dover necessariamente attrezzarsi per assemblare un insieme ampio e differenziato di competenze e, soprattutto, per comprendere quali tra esse è più efficace utilizzare in determinati contesti in vista di determinati obiettivi. Il bilinguismo, la capacità di contare su riferimenti culturali differenziati, un certo relativismo nella concezione delle regole, la capacità di adattamento e di flessibilità sembrano costituire competenze fondamentali che ogni giovane deve possedere per avere successo in un mondo sempre più globale. Una seconda dimensione rilevante dei crescenti processi di globalizzazione è costituita dal significato acquisito dalla differenza. A partire dalla fine degli anni sessanta, anche grazie all’azione culturale dei “nuovi movimenti sociali” (Melucci 1982; Colombo 2002) e alla sempre più frequente esperienza del contatto con modi di pensare, vivere e progettare il futuro diversi dai propri, la differenza non è più vista come un residuo di fedeltà premoderne, un ostacolo al progresso e alla vita comune, qualcosa che è necessario eliminare per garantire eguali diritti ed eguali opportunità. Al contrario, la differenza tende a divenire un valore, una caratteristica irrinunciabile per una piena realizzazione personale. Le persone private della loro differenza, della loro specificità, non sono che manichini confusi in una massa informe, schiavi di un conformismo che impedisce di sviluppare le proprie, uniche, qualità. Vedersi riconosciuta la propria differenza e riconoscere quella altrui divengono elementi irrinunciabili su cui fondare una più giusta convivenza comune, capace di valorizzare le specificità individuali. Il diritto alla differenza e al suo riconoscimento tendono sempre più ad essere considerati dei diritti fondamentali, indispensabili per la piena realizzazione umana. Come osserva Charles Taylor in un testo che ha avuto notevole influenza nella trasformazione del significato attribuito alla differenza: «un individuo o un gruppo può subire un danno reale, una reale distorsione, se le persone o la società che lo circondano gli rimandano, come uno specchio, un’immagine di sé che lo limita o sminuisce o umilia. Il non riconoscimento o misconoscimento può danneggiare, può essere una forma di oppressione che imprigiona una persona in un modo di vivere falso, distorto e impoverito» (1992, 9). La differenza diviene, per molte persone e in molti ambiti, un elemento centrale per un’azione libera e consapevole, qualcosa a cui non si è disposti a rinunciare: le persone che non possono contare su una loro specificità, adeguatamente riconosciuta dal contesto in cui si trovano ad agire, sono meno sicure di sé, meno autonome, meno interessanti. Se, da un lato, il richiamo all’importanza della specificità individuale sollecita a porre in luce critica l’intolleranza verso ciò che non rientra negli schemi abituali e un conformismo che si traduce in riproduzione delle asimmetrie e in legittimazione degli sfruttamenti, dall’altro, rischia di trasformasi in una forma di ossessione, in una spirale di continua moltiplicazione delle linee di distinzione, in una forma di esclusione e di legittimazione di nuovi privilegi (Colombo 2006). La crescente importanza attribuita alla differenza si connette a una terza rilevante dimensione dei processi di globalizzazione: il diffondersi dell’incertezza, della precarietà e del rischio (Beck 2000, Sennett 1999, Bauman 1999). Per ciò che concerne la riflessione che qui si sta cercando di sviluppare, questa dimensione rimanda alla sempre più diffusa esperienza di non poter contare su punti fermi e stabili che consentano di orientare e strutturare la propria esperienza. Ciò che si è riusciti a costruire in un particolare ambito (quello scolastico, lavorativo, familiare o della sfera dell’amicizia, ad esempio) non può essere considerato acquisito e trasferito da un ambito all’altro. Il riconoscimento della differenza e della specificità devono essere continuamente rinegoziati, mediati in relazione ai contesti entro cui ci si trova ad agire. Si sperimenta sempre più la possibilità di collocazioni discrepanti a seconda dei contesti frequentati e delle regole valide al loro interno. Essere “inclusi” e valorizzati in un particolare ambito non esclude la possibilità di ritrovarsi in posizione marginale e di esclusione in altri. Si promuove così un’immagine di sé non necessariamente coerente e stabile, sfaccettata e costituita da livelli e potenzialità diverse. Questa percezione di sé può condurre sia a forme di resistenza che si impegnano nella ricostruzione di una coerenza e di una stabilità che si sentono minacciate, sia all’abitudine a gestire un certo grado di variabilità e di eclettismo individuale, sostituendo alla coerenza e alla continuità come forme di ricostruzione unitaria della propria esperienza la capacità di trasformarsi e di adeguarsi ai differenti contesti. Una delle conseguenze più problematiche dell’affermarsi dell’idea di differenza, all’interno di uno scenario di crescente globalizzazione, è una radicale messa in discussione dei concetti di universalismo e di assimilazione. Ciò rende difficile continuare a guardare ai figli di migranti interrogandosi sul loro grado di assimilazione, senza considerare problematico il significato da attribuire a questo termine. Non solo risulta più difficile definire quali sono le dimensioni rilevanti con cui valutare l’assimilazione, ma diviene sempre più evanescente anche definire uno spazio entro cui si possa, o si voglia, essere assimilati (Baudrillard 2005). Lo stato nazione (e con esso l’idea di cittadinanza) è sottoposto a un processo di erosione che ne limita la capacità di azione nonché la capacità di presentarsi come la fonte primaria di attribuzione di identità, solidarietà, riconoscimento e controllo. La dimensione dello stato nazione appare inadeguata sia a livello macro, per la gestione di problematiche che superano e attraversano i confini statali (controllo dell’economia, inquinamento e salvaguardia ambientale, governo dei conflitti bellici, immigrazione), sia a livello micro, per la gestione della vita quotidiana e dell’ambito locale (gestione dei sistemi di welfare, interventi sul territorio nel rispetto delle specificità locali, gestione delle quotidianità in contesti multiculturali, riconoscimento dell’individualità e della specificità). Lo stato nazione ha definito, nel periodo moderno, uno spazio fisico, distinto e concreto, entro cui pensare processi di inclusione e assimilazione ed entro cui immaginare una condizione realizzabile di eguaglianza. L’assimilazione, nella sua accezione moderna, è pensabile a partire da una metafora spaziale, da un contenitore adeguato capace di tracciare un confine che distingua tra un dentro, in cui garantire solidarietà ed eguaglianza, e un fuori, in cui accumulare la differenza. L’assimilazione garantisce protezione e sicurezza, ma in cambio pretende un certo grado di riduzione della propria libertà, richiede la disponibilità a riconoscere e onorare una volontà collettiva, reclama una fedeltà al luogo e al gruppo che trascendano gli interessi individuali. L’assimilazione moderna è vincolata ad una logica centralistica: esiste un luogo (il mondo occidentale, gli Usa, l’establishment borghese, maschile e bianco) sede del potere centrale in grado di assicurare protezione e riconoscimento. Oggi, nell’esperienza quotidiana, alla metafora spaziale tende sempre più a sostituirsi quella del processo, del flusso: l’assimilazione riguarda sempre meno una localizzazione spaziale, definita e fissa, e diviene una questione contingente, mobile e mutevole. Non si tratta solo di una questione cognitiva o linguistica: l’assimilazione spaziale, guidata da una logica di opposizioni esclusive (o…, o…) si tramuta in possibile esclusione dai processi e dai flussi retti da una logica di opposizioni inclusive (sia…, sia…) o dal rifiuto di tali opposizioni (né…, né…) (Beck 2005; Colombo 2002). Essere vincolati a un gruppo, essere saldamente ancorati a un solo luogo, a una sola identità, a un’unica appartenenza, si traduce nella perdita di una risorsa fondamentale: la capacità di movimento, mutamento, flessibilità (Bauman 1999). La prospettiva transnazionale e cosmopolita La crescente attenzione per le trasformazioni indotte dai processi di globalizzazione modifica il nostro modo di guardare ai fenomeni migratori, ma, più in generale, segnala trasformazioni profonde che riguardano non solo i migranti e i loro figli, ma tutti noi, per molti aspetti della nostra vita quotidiana. A partire da una prospettiva attenta all’intensificarsi dei fenomeni di interconnessione planetaria la condizione del migrante diviene una condizione “esemplare”, che anticipa ed enfatizza trasformazioni che probabilmente sono destinate a divenire esperienza comune e condivisa. Come i migranti e i loro figli gestiscono la loro esperienza entro un contesto di crescente interdipendenza – in cui la valutazione della differenza e la percezione del rischio, della continuità e dell’identità personale si trasformano – non è rilevante solo per mettere in primo piano i punti critici della società occidentale, né per evidenziare i percorsi e i possibili ostacoli ai processi di inclusione. Diviene, piuttosto, un buon punto di osservazione per comprendere come si sta trasformando l’intera società (Castles 2002). Collocare i processi migratori contemporanei entro una più ampia cornice di trasformazioni globali consente di superare l’idea moderna che essi si risolvano inevitabilmente nel modello dell’assimilazione, caratterizzato dalla progressiva dissoluzione dei migranti nella classe media autoctona, o in quello della temporaneità, caratterizzato da una presenza “separata” e destinata a concludersi entro un periodo limitato. L’attenzione viene posta sulle modalità di costruzione dei legami comunitari, dell’identità individuale e collettiva, delle strategie adottate per garantirsi successo economico e sociale in un contesto che non può più essere letto unicamente secondo le categorie dello stato nazione o della dimensione locale. Una parte della riflessione teorica contemporanea è portata a collocare i fenomeni migratori entro una prospettiva transnazionale, segnalando come il contesto di globalizzazione tenda a costituire nuovi campi sociali che connettono luoghi e gruppi spazialmente separati nonché una nuova categoria di attori sociali – i transmigranti (Glick Schiller et al. 1992, Vertovec 1999) – che mantengono un ampio insieme di relazioni sociali di tipo affettivo e strumentale che travalicano i confini nazionali. In un contesto di crescente interconnessione globale, la propria identificazione è tratta principalmente dal flusso transnazionale in cui si è inseriti, piuttosto che direttamente dalle caratteristiche locali (Faist 2000; Levitt and Waters 2002). Rimanda a una dimensione relazionale e immaginativa che trascende quella spaziale (Kivisto 2001, Levitt 2001). È il risultato, continuamente rinnovato, di una sintesi dinamica che tende a tenere congiunti elementi legati al passato (alla memoria condivisa, a una narrazione comune), elementi legati all’esperienza del presente (alla vita quotidiana e alle sue relazioni) ed elementi orientati al futuro (a progetti e immaginazioni che si nutrono di modelli e linguaggi costruiti e diffusi su scala globale). A partire da una prospettiva transnazionale, i figli di migranti tendono ad assumere gli elementi di base per la costruzione della loro identificazione tanto dal flusso di cultura globale quanto dai contesti locali entro cui sono inseriti o da quelli di provenienza dei genitori (Hall 1996, Soysal 2000). Non sono semplici riproduttori delle “differenze” dei genitori, risultato meccanico dell’azione della cultura, delle tradizioni o delle “radici” che si sarebbero ereditate, ma neppure malleabile materia prima che si adegua, senza residui e resistenze, ai modelli dei gruppi dominanti. Al contrario, sempre più negoziano e definiscono identità collettive che sono dissociate dalla cittadinanza etnica e culturale senza però assumere come modello diretto quelle dominanti nel paese di migrazione dei loro genitori. Il concetto di cosmopolitismo viene sempre più frequentemente proposto per cercare di rendere conto di queste nuove forme di produzione di identificazione che si sviluppano entro un orizzonte globale (Hannerz 2001; Fetherstone 2002; Beck 2003, Skrbis et al. 2004). Il termine cosmopolita intende segnalare la dimensione processuale dei processi di identificazione, come questi non si configurino come essenza, costituzioni stabili e definitive, ma piuttosto come capacità di costituire sintesi continue che tengono conto delle esperienze passate per adeguarle alle necessità dei contesti presenti o agli obiettivi futuri. Assumere uno sguardo cosmopolita intende evidenziare, come sottolinea Beck, «senso del mondo, senso della mancanza di confini. Uno sguardo quotidiano, vigile sulla storia, riflessivo. Uno sguardo dialogico capace di cogliere le ambivalenze nel contesto delle differenze che sfumano e delle contraddizioni culturali. Esso mostra non soltanto la “lacerazione”, ma anche la possibilità di organizzare in una cornice culturale multietnica la propria vita e la convivenza. È uno sguardo nello stesso tempo scettico, disilluso, autocritico» (2005, 14). I giovani figli di immigrati sono in una posizione favorevole per sviluppare un’identificazione cosmopolita, perché sperimentano una poligamia di luoghi, un legame duraturo con diversi mondi e culture (Beck 203). La prospettiva cosmopolita consente di sottoporre a critica un’idea troppo semplicistica di assimilazione: in un contesto di globalizzazione il problema più sentito non è quello di essere completamente incluso, anche a costo di rinunciare alla propria specificità, ma piuttosto di non essere escluso, di vedersi rifiutato l’accesso a beni e situazioni sociali senza mantenere la possibilità di far valere la propria differenza, senza mantenere una distanza critica. Il successo dell’assimilazione, e della capacità di convivenza democratica, tende a non essere più misurato principalmente dalla capacità di creare uniformità e consenso, quanto dalla capacità di riconoscere e accogliere le specificità, di far fronte e di conservare la complessità (Touraine 1998). Nelle sue versioni più radicali, la prospettiva cosmopolita a volte sembra insistere eccessivamente sulla libertà e sulla creatività individuale, trasformando la differenza in un processo continuo che la rende irrilevante, puro esercizio di costruzione estetica, manifestazione di una sterile onnipotenza creativa di soggetti orientati alla loro sola gratificazione immediata. Le identità personali e collettive sono presentate come delle scelte, risultato non di essenze o di necessità naturali che precludono possibilità di modifica e spazi autonomi di azione ma come esito di un’opera continua di costruzione, miscelazione, ibridazione. Questo, da un lato, consente di restituire dinamismo, storicità e collocazione sociale ai processi di selezione e di costruzione dei confini che creano distinzioni e identità, dall’altro, se portato all’eccesso, rischia di togliere valore a qualsiasi distinzione e a qualsiasi identità, negando la rilevanza delle sedimentazioni, delle abitudini, delle credenze condivise e dei fattori strutturali che rendono possibile o meno la costruzione dei confini e ne assicurano visibilità, stabilità e riproducibilità. L’enfasi sui processi di miscelazione rischia inoltre di scivolare su un piano normativo che occulta le dinamiche di potere presentando l’ibrido come sempre positivo, emancipazione da precedenti vincoli e poteri, condizione auspicabile per una maggiore consapevolezza e una più ampia garanzia di libertà e di giustizia (West 1992; Anthias 2001). Rischia inoltre di considerare l’identificazione collettiva come un puro dato contestuale, privo di consistenza e di stabilità, in netto contrasto con situazioni sociali in cui il riconoscimento dell’appartenenza collettiva è per gli attori tutt’altro che marginale ma muove passioni, anima conflitti, produce esclusioni. Una maggiore attenzione alle capacità di azione Uno sguardo sui figli di immigrati sensibile agli effetti delle trasformazioni contemporanee consente di restituire un’immagine più articolata e dinamica dei processi di inserimento e dei percorsi di definizione delle identificazioni individuali e collettive. Considerare questi percorsi come non completamente definiti dalle dimensioni strutturali, pur senza esserne completamente sganciati, consente di porre in adeguato rilievo le capacità di azione individuali e collettive, di focalizzare l’importanza delle scelte, delle strategie e delle tattiche, nonché il rilievo assunto da fattori contingenti. L’assimilazione non è più lineare non solo perché segue un percorso accidentato, con esito incerto, ma perché l’idea stessa di assimilazione non può più essere facilmente ridotta a un modello dominante, facilmente individuabile e misurabile. In uno scenario di crescente interconnessione globale i “processi” sembrano assumere capacità esplicativa superiore ai “dati”, ai “fatti”. Più che le identità, le identificazioni o l’assimilazione sembrano rilevanti i “modi” – i percorsi, le condizioni entro cui sono possibili, i loro attori – in cui e con cui questi “fatti sociali” sono continuamente costruiti, riprodotti e contestati. Questo pone in primo piano gli aspetti “banali”, quotidiani: è qui che sembra più rilevante osservare come vengano costruiti e decostruiti i confini significativi e come locale e globale si mescolano continuamente. Soffermarsi sugli aspetti di cosmopolitismo banale (Beck 2005) o di multiculturalismo quotidiano (Colombo 2006) – cioè sulle situazioni concrete e quotidiane di relazione in cui la differenza è considerata, per almeno uno degli attori coinvolti, un elemento significativo – consente di guardare ai figli di migranti come attori attivamente impegnati nel dare un senso alla loro “differenza” e alla loro specificità senza che essa si trasformi in una “essenza” vincolante e immutabile né si dissolva in un flusso continuo privo di stabilità e di consistenza. L’attenzione alle dimensioni quotidiane consente di restituire una prospettiva di “normalità” ai percorsi biografici dei figli di migranti – cioè di sottrarsi alla stretta dell’immagine del giovane in difficoltà, sospeso tra due mondi, deviante o criminale – pur senza negarne le specificità. L’insistenza sulla particolare collocazione biografica, caratterizzata sia da forme di discontinuità rispetto al vissuto migratorio dei genitori sia da modalità specifiche e inedite di fare esperienza della condizione giovanile in un contesto di crescente globalizzazione, invita ad assumere una prospettiva generazionale (Mannheim 1928; Demarie, Molina 2004; Saint-Blancat 2004; Bosisio et al. 2005), togliendo enfasi all’identificazione etnica. Quest’ultima diviene “una” delle variabili influenti, ma non è più intesa come la determinante principale, a priori capace di individuare i percorsi e i destini dei figli di immigrati. È così possibile sottolineare come i giovani figli di immigrati assomiglino ai coetanei italiani nei modelli di consumo, negli orientamenti di valore, nelle difficoltà nei rapporti con i genitori, nei progetti per il futuro (Cologna, Breveglieri 2003; Zanfrini, Asis 2006), pur vivendo in modo intenso la sensazione di essere comunque “stranieri” e situazioni in cui ci si sente soli o esclusi. Altri studi insistono sulle capacità di azione dei giovani figli di migranti nella loro ricerca di percorsi di autonomia; ne sottolineano l’impegno nel definire sia un loro spazio all’interno della società entro cui si trovano a crescere e dalla quale non vogliono essere esclusi, sia una loro collocazione, spesso critica, all’interno delle abitudini familiari e delle tradizioni religiose o etniche dei loro genitori. Chantal Saint-Blancat (2004) evidenzia come i giovani figli di migranti di religione islamica sappiano utilizzare in modo attivo la dimensione religiosa sia per avanzare richieste politiche di riconoscimento nei confronti della società in cui vivono sia per opporre resistenza verso le concezioni dei genitori e della loro comunità nazionale rispetto ai rapporti di genere, ai modelli di relazioni e di comando all’interno della famiglia, allo spazio di libertà concesso ai figli. La ricerca evidenzia come i giovani mussulmani figli di migranti non possano essere analizzati solo attraverso una loro presunta forte e stabile identità religiosa e siano invece continuamente impegnati a mediare la loro immagine e la loro collocazione sia nei confronti della società in cui stanno crescendo sia nei confronti della tradizione e delle abitudini dei genitori. La dimensione strategica e il tentativo di definire uno spazio di identificazione e di integrazione autonomo e non facilmente riconducibile alla scelta tra assimilazione, attaccamento alla tradizione o devianza, è sottolineata anche dal lavoro di Annalisa Frisina (2006) in uno studio tra i membri dell’associazione dei Giovani mussulmani d’Italia (Gmi). La ricerca evidenzia come la differenza possa essere utilizzata sia come una tattica quotidiana (de Certeau 1990) di inclusione o di resistenza alla discriminazione (usandola o negandola per costruire confini adeguati agli obiettivi contestuali o per contestare quelli esistenti), sia come una strategia di ascesa sociale (ad esempio diventando mediatori culturali). La differenza non è qualcosa che i figli di migranti “possiedono” o si “portano sulle spalle”, ma piuttosto una dimensione significativa che può essere utilizzata – od occultata – in base a precise esigenze contestuali o agli obiettivi che si intendono raggiungere. In questa logica, la “differenza” e l’inclusione non sono caratterizzabili in modo statico e definitivo, ma assumono il valore di vincolo e di risorsa a cui attingere o con cui confrontarsi a seconda delle situazioni e dei contesti. I figli di migranti non sono quindi “definiti” dalla loro differenza, ma ne sono piuttosto degli utilizzatori accorti, pur sperimentandone anche il carattere vincolante e, spesso, discriminante. La capacità di creare nuove combinazioni, ibridi e patchwork, utilizzando la scuola e l’istruzione, ma anche la banda giovanile, come contesti entro cui costruire nuove forme di identificazione e di riconoscimento è segnalata dalla ricerca di Queirolo Palmas e Torre (2005) tra i giovani figli di emigrati ecuadoriani a Genova. Anche in questo caso, i modelli di identificazione e le richieste di riconoscimento dell’eguaglianza o della differenza sono utilizzate in modo mutevole, in sintonia con i pubblici e i contesti. Come sottolinea Queirolo Palmas (2006, 153): «la fluttuazione delle rappresentazioni e delle pratiche è indice al tempo stesso di una possibile reversibilità delle situazioni […] così come un’attitudine attiva dei giovani a ricercare un proprio percorso pur nel quadro dei vincoli e dei limiti definiti da un lato dall’integrazione subalterna dei genitori, dall’altro dalla criminalizzazione mediatica di cui sono oggetto». La ricerca ha il merito di evidenziare chiaramente come i percorsi di inclusione o di esclusione non possano essere letti unicamente a partire da presunti caratteri ascritti (l’appartenenza etnica) o dalle strategie volontaristiche dei soggetti (gli obiettivi personali), ma siano più comprensibili se inseriti in un processo continuo che vede i giovani come soggetti attivi impieganti a costruire identificazioni e azioni coerenti con gli obiettivi e l’immagine di sé che si vuole sostenere in un determinato contesto. Gli esiti di queste costruzioni «si spiegano anche attraverso la configurazione delle opportunità veicolate dal sistema economico, politico, giuridico, simbolico. In primo luogo, inclusione ed esclusione si articolano in un contesto in cui la precarietà è nei fatti la norma per vaste porzioni della popolazione giovanile e non solo, e in cui le carriere lavorative e le mobilità sono sempre più spezzate e si dispiegano su mercati fortemente polarizzati fra occupazioni dequalificate e occupazioni ad alta professionalità e riconoscimento sociale» (Idib. 189). Uno sguardo eccentrico Le trasformazioni introdotte dai processi di globalizzazione consentono di applicare anche uno sguardo più radicale ed eccentrico sui percorsi biografici dei figli dei migranti. Si può immaginare che il contesto di interconnessione globale, la capacità di inserirsi in flussi di informazioni, valori, modelli di consumo che si dispiegano su dimensioni che trascendono la collocazione locale, l’abitudine ad assemblare modelli di identificazione e di azione differenziati in base alle esigenze e agli obiettivi contestuali utilizzando risorse disparate e disomogenee, siano condizioni che si riferiscono non solo ai giovani figli di immigrati, ma costituiscano il contesto di riferimento per gran parte dei giovani contemporanei. Da un lato, questo consente di evidenziare la “normalità” dei figli di migranti, evitando letture eccessivamente appiattite sulla dimensione della “difficoltà” e della devianza, dall’altro segnala che se esiste una differenza tra questi giovani e loro coetanei che non hanno un’esperienza familiare diretta della migrazione, tale differenza è data dal fatto che i primi sono spesso nella condizione di sperimentare le trasformazioni indotte dai processi di globalizzazione in forma anticipata e più intensa. Fare i conti con la differenza, con diversificate competenze linguistiche, sapersi destreggiare tra modelli culturali distinti, transitare da un contesto all’altro riconoscendone i codici e le regole e sapendoli utilizzare in modo adeguato sembrano essere destini condivisi da tutti i giovani contemporanei. In questa prospettiva, i giovani figli di migranti – perlomeno quelli tra loro che hanno a disposizioni maggiori risorse familiari, culturali e sociali, che investono in modo forte sulla loro educazione superiore e sul loro successo professionale – possono essere visti come “profeti”, come coloro che «“parlano avanti”, annunciano ciò che si sta formando senza che ancora ne sia chiara la direzione e lucida la coscienza» (Melucci 1982, 7). Non si tratta di favorire una esaltazione acritica di ciò che viene prodotto, né di abbracciare una visione irenica che occulta la dimensione del conflitto, ma di proporre uno sguardo analitico che individui i processi sociali e di identificazione attivati da questi giovani come “luogo significativo e privilegiato” di produzione di nuovi codici (non necessariamente migliori, democratici, fautori di convivenze pacifiche e privi di potenziali discriminanti). Collocandosi nel solco della sociologia dei nuovi movimenti sociali (Gamson 1990, Touraine 1993, Melucci 1996, Castells 2002) sembra lecito assumere che in determinati contesti e in determinati periodi storici, gruppi minoritari ed elite subordinate siano in grado di produrre modelli di azione e di senso che possono poi costituire punti di riferimento per l’intera società. È possibile dunque ipotizzare che la parte più dotata di risorse tra i giovani figli di migranti si possa presentare come un’avanguardia, dei precursori di situazioni ed esperienze che diverranno presumibilmente consuetudini comuni, potenziale nucleo di riferimento per l’elaborazione di discorsi, pratiche e modelli di relazione con la società italiana che troveranno più ampia diffusione. Non si intende sottolineare che la “condizione” di questi giovani – ampio capitale culturale e sociale, forte investimento nel percorso educativo, capacità di attingere a un contesto di riferimento globale – diverrà condizione comune dei figli di immigrati (pur se lecito supporre che il carattere inclusivo del sistema scolastico italiano porti a un incremento della scolarizzazione, anche superiore e universitaria, dei figli di migranti), quanto la possibilità che i loro modi di interagire con la società italiana, i loro modelli di identificazione, le resistenze e i processi di mimetismo, le modalità di reazione ai probabili processi di discriminazione nel campo lavorativo o nella costruzione dei legami affettivi e amicali, i codici di espressione di sé e di definizione dei confini, gli stili di vita e di consumo, possano costituire i riferimenti necessari, le “materie prime”, con cui una fascia più ampia di giovani costruirà i propri riferimenti e i propri modelli. Concentrare l’attenzione sui giovani figli di migranti inseriti nella scuola superiore (Bosisio et al. 2005) consente allora di analizzare non un segmento statisticamente significativo e capace di illustrare la condizione e i percorsi biografici tipici dei giovani figli di immigrati ma di mettere in evidenza le specificità di un segmento “esemplare” perché potenzialmente capace di creare quell’insieme di modelli, di linguaggi, di simboli e di pratiche che potrebbero costituire gli elementi di base con cui un gruppo più ampio di giovani si troveranno a costruire e a mediare la propria collocazione sociale. Accanto a forme di chiusura che utilizzano l’appartenenza etnica come un segnale di sfida e di differenziazione rispetto al resto della società, forme di identificazione che favoriscono una logica inclusiva, che si impegnano per sottolineare il tratto che unisce (hyphen), la connessione che consente di essere contemporaneamente membri di un gruppo senza rinunciare ad altre forme di solidarietà e di appartenenza o forme di identificazione che pongono in una luce relativa le differenze (cosmopolitismo), legandone il valore e la rilevanza alle dimensioni del contesto entro cui sono esibite e riconosciute tratteggiano nuovi modelli relazionali e un nuovo modo di intendere e vivere la differenza, l’inclusione e la partecipazione. Osservare come questi giovani stanno costruendo i loro modelli di identificazione, quali domande di inclusione avanzano e con quali strategie può costituire un elemento rilevante per comprendere come e verso quali direzioni sta mutando la società contemporanea. 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