Conversazione sulla psicoanalisi1 Primo dialogo: a proposito del contesto filosofico e culturale all’epoca di “Della Interpretazione” Giuseppe Martini: Siamo nella casa del professor Ricoeur a Châtenay Malabry, nei pressi di Parigi. Il professor Ricoeur ha accettato, e di questo lo ringraziamo sentitamente, di dialogare con noi a proposito del tema “ermeneutica e psicoanalisi”. Questa intervista parte da un testo classico, pubblicato in Francia 40 anni fa, che è stato recentemente riedito in Italia: Della interpretazione. E’ però una riflessione che va ben oltre questo stesso testo in quanto riteniamo che i contributi di Ricoeur alla psicoanalisi, contributi in qualche modo “involontari” in cui non ha direttamente parlato di questa disciplina, siano estremamente importanti anche dopo la pubblicazione di questo libro (pensiamo, ad es., a Sé come un Altro). In questa discussione affronteremo temi cogenti e critici sia dell’ermeneutica in generale, sia dell’ermeneutica psicoanalitica, come ad es. la questione della verità, del paradigma costruttivo e ricostruttivo, la questione della irrappresentabilità e della funzione del linguaggio in psicoanalisi, che è a sua volta correlata con la questione: sino a che punto si può spingere in psicoanalisi il paradigma della traduzione? La psicoanalisi è stata infatti spesso comparata, e legittimamente, a un esercizio traduttivo. Recentemente Ricoeur ha pubblicato dei contributi a proposito della traduzione in cui ha sottolineato la stretta interconnessione tra il traducibile e l’intraducibile, nonché lo scarto rispetto all’ideale della traduzione perfetta. Infine la nostra discussione proseguirà e si concluderà affrontando il tema del Sé, del Soggetto, così importante tanto in filosofia quanto nelle differenti scuole della psicoanalisi contemporanea. Lasciamo ora la parola al professor Ricoeur per una breve introduzione, per poi passare all’intervista. 1 Traduzione integrale di Giuseppe Martini dell’intervista effettuata a Châtenay Malabry il 22 febbraio 2003, su testo rivisto dall’Autore Paul Ricoeur: La ringrazio molto per questa intervista che sarà, credo, piuttosto una conversazione tra di noi, che mi sarà particolarmente utile dal momento che mi sono molto allontanato dalla mia interpretazione della psicoanalisi che avevo proposto nel libro su Freud, che ha corrisposto ad un'epoca passata della mia ricerca. Vorrei per questo ricordare le circostanze che hanno accompagnato il mio lavoro in quegli anni (intorno al '65 ). Avevo allora finito di scrivere un libro che si intitola "Finitudine e colpa". Questo libro era fondato su un esame delle immagini e delle rappresentazioni del male. Dunque all'epoca era il problema del male che attirava la mia attenzione e il mio interesse culturale, tema dal quale mi sono molto allontanato sia culturalmente che personalmente. Potremmo dire che sono passato, grazie alle esperienze della vita, da una cultura della colpa a una cultura della compassione. Quando ho iniziato questo lavoro su Freud e la filosofia ho pensato di accogliere la psicoanalisi come una sorta di sfida rispetto alle posizioni che avevo sviluppato sul piano morale e spirituale, che riguardavano il bene, il male, il perdono, etc.; allora mi ero posto la domanda: "cosa la psicoanalisi ha portato di specifico alla nostra riflessione sulla colpa?". Oggi non solo mi sono allontanato da quella domanda, ma ne ho trovata un'altra che all’inizio non mi ero posto: devo dire che quello su cui mi sono soffermato nella lettura di Freud è l'aspetto sistematico. Ciò ha fatto sì che io abbia costruito quel libro unicamente basandomi sulle parti sistematiche dell'opera di Freud: sui concetti di inconscio, di libido, di oggetto e infine anche sulla teoria della cultura che era il campo su cui mi volevo soffermare. Tutto ciò mi ha condotto verso qualcosa che non avevo previsto: l'opposizione fondamentale tra la psicoanalisi e quella che io consideravo la mia filosofia di riferimento, la filosofia riflessiva nella sua declinazione husserliana da una parte, e dall'altra nella tradizione della filosofia riflessiva francese di Jean Nabert. Era anche il periodo in cui mi ero interessato a Gadamer. Per me, se il suo uso della parola "dialettica" ha una forza nell’ambito della mia riflessione è perché essa rappresenta questo conflitto fra una parte riflessiva del pensiero padrone del senso e, per contro, il carattere non solamente non dominabile, ma anche non rappresentabile dei contenuti inconsci. Si potrebbero evitare queste difficoltà grazie allo stesso vocabolario di Freud perché egli parla sempre di “pensieri” dell’inconscio. Tuttavia non ha mai detto che l’inconscio era un pensatore, ed io continuo a restare legato all’ idea che Io penso, sebbene ci siano dei pensieri e delle rappresentazioni inconsce. V’è dunque questo rapporto tra le rappresentazioni che io formo in modo argomentativo e le rappresentazioni di cui non ho - direi - la chiave di comprensione e perciò, soprattutto, non ho il controllo dell'origine. Dato che non ho discusso altro che i capitoli teorici di Freud, mi sono tenuto a latere della pratica freudiana. E penso sempre più che nella pratica analitica vis à vis della cura vi sia molto di più che nelle teoria psicoanalitica. La pratica eccede la teoria, soprattutto se parliamo del ruolo del transfert e del controtransfert. Ora io sono ben consapevole di essere escluso in forma per così dire radicale dallo spazio analitico, dato che non sono passato per questa esperienza del transfert e del controtransfert. Questo è il motivo per cui non ho più scritto sulla psicoanalisi, pensando che bisognasse avere un'esperienza dall'interno della pratica psicoanalitica. Ma non penso tuttavia che per questa ragione il mio libro sia da mettere all’indice. Quando Freud pubblicava lo faceva non per i suoi pazienti o per i suoi colleghi, bensì per il grande pubblico, vale a dire un pubblico che non ha esperienza della cura attraverso il linguaggio, né di quella situazione che lui stesso chiama l’ “arena intermedia” tra il conflitto originario e la situazione attuale del paziente. Dunque, una giustificazione parziale del mio approccio sta nella natura stessa della scrittura freudiana che non era contrassegnata dall’aspetto incomunicabile della sua pratica, bensì dall’aspetto comunicabile dei suoi concetti. Per questo ho potuto, tranquillamente e in buona fede, ricollegarmi alla sua teoria della cultura, che era quanto a quell’epoca mi interessava maggiormente: il ruolo della censura, la liberazione della libido in uno spazio pubblico di linguaggio che è quanto ha caratterizzato questo evento culturale rappresentato dall'entrata della psicoanalisi nella nostra cultura in maniera così rilevante: il fatto che se ne possa parlare, ed è a partire da questa possibilità di parlare che noi ora siamo entrati nell'era della scoperta dell'irrappresentabile; e questo perché Freud ha portato in uno spazio pubblico quello che era uno specie di segreto di famiglia e di segreto della sofferenza. E' proprio lì il luogo della transizione tra la rappresentazione riflessiva e le rappresentazioni dell’inconscio. Al di là di queste rappresentazioni (quanto noi assumiamo ora come irrappresentabile), nel solco tra la riflessione e l’inconscio, vi è il luogo del linguaggio. Ed allora vorrei dire qualche parola su quanto io ho sostenuto ulteriormente in riferimento al linguaggio: su ciò che nella fenomenologia crea uno spazio possibile di confronto con la psicoanalisi, vale a dire: l’ante-predicativo nel linguaggio prima della formulazione in forma di proposizione. Ho preso coscienza di questo aspetto delle cose soprattutto durante il mio insegnamento venticinquennale negli Stati Uniti, dove sono stato continuativamente confrontato con la filosofia analitica (“analitica” nel senso di opposta a “continentale”), ove si è sempre nella chiarezza della proposizione. La filosofia analitica consentiva anche, da parte sua, una possibilità di confronto, quando alla dittatura del proposizionale si è opposta a poco a poco la distinzione tra “locutorio”, “illocutorio”, “perlocutorio”, vale a dire quanto implica la presenza del soggetto, di modo che i valori di verità delle proposizioni sono cambiati. E’questo il caso di tutte quelle forme illocutorie, ove ciò che io dico produce delle situazioni nuove, come è il caso dell’imperativo, dell’auspicio, dell’interdizione, della promessa, che è forse l’esempio più rimarchevole dell’illocutorio. Per il solo fatto che io dico: prometto, sono impegnato a fare, per il fatto che dico, mi sottopongo all’obbligo di quel fare. Dunque questa regione dell’illocutorio permetteva di ridefinire dei livelli di possesso ma anche di non-possesso; infatti, nel momento in cui si impegna con l’illocutorio, il soggetto non è più il padrone del senso. Anche se egli pensa di essere il padrone del senso proposizionale, la pretesa (claim) illocutoria delle sue proposizioni non gli appartiene. E’ dunque verso ciò che non è dominabile, non rappresentabile che si è indirizzata la mia ricerca ulteriore. Secondo dialogo: Ricoeur ripensa “Della interpretazione” Martini : Mentre Lei parlava di questa dimensione meglio definibile, se ho ben capito, come potenzialmente linguistica, piuttosto che pre-linguistica, pensavo alla centralità che il linguaggio ha assunto anche nella riflessione filosofica contemporanea, soprattutto dopo Heidegger, ed a come poter correlare questa riflessione su linguaggio e psicoanalisi, con una riflessione d’ordine più filosofico sul rapporto tra il linguaggio e l’assoluto. Mi chiedevo se in tal senso il linguaggio non possa vedersi come il trait d’union tra la dimensione dell’assoluto e la dimensione dell’inconscio. Cercherei a questo punto di riallacciarmi anche a quella che voleva essere la terza questione da sottoporle. A mio parere quanto è ancora particolarmente vivo del suo testo Della interpretazione è proprio l’idea del carattere intrinsecamente e strettamente dialettico della interpretazione e della psicoanalisi stessa. Nel suo volume Lei poneva un’articolazione dialettica tra l’aspetto archeologico che affidava alla psicoanalisi e l’aspetto teleologico che affidava alla filosofia e eventualmente alla teologia. Ma poi, nelle sue opere successive lei ha esplorato differenti e fecondi orizzonti del pensiero dialettico, non più legati alla psicoanalisi, in multiformi campi. Ricorderei, uno per tutti, la coppia ipseità-medesimezza in Sé come un altro.Vorrei porle una duplice questione: da un lato invitarla ad una riflessione sulla questione del linguaggio come ponte tra l’inconscio e l’assoluto e dall’altro chiederle se pensa che la dialettica abbia ancora una sua funzione in psicoanalisi e soprattutto in filosofia. Ricoeur: Attualmente sono incline a pensare che l’opposizione tra l’archeologico ed il teleologico sia la parte più debole del mio libro su Freud : si tratta, in fondo, di una soluzione di compromesso, in quanto ero partito dalla convinzione dell’irriducibilità della scoperta psicoanalitica dell’inconscio alle filosofie riflessive, che erano tutte quante filosofie della coscienza. Tra il conscio e l’inconscio c’era un confronto a prima vista senza mediazioni. La mediazione verso la quale noi attualmente ci orientiamo è invece da ricercare a livello dei processi del linguaggio: attraversare una serie di piani, di livelli, etc. A quell’epoca avevo colto una sorta di corto circuito, in quanto avevo centrato tutta la mia analisi di Freud sul conflitto tra l’aspetto economico, energetico, in termini di rapporti di forze, e il senso come capace di essere detto, compreso, comunicato. Sottolineavo dunque il carattere archeologico della psicoanalisi, come se la psicoanalisi avesse a che fare solo con l’aspetto regressivo della nostra esistenza, mentre la filosofia, sul modello hegeliano, avesse in qualche modo il privilegio, se non l’esclusività del senso, nella sua progressione nell’ordine della comprensione. Oggi io mi sono assai allontanato da questo cammino verso l’assoluto attraverso la filosofia, e, d’altra parte, sono molto più sensibile al versante linguistico e pre-linguistico, prerappresentazionale, dell’inconscio. Non mi sentirei più di sostenere l’incarceramento, in qualche modo, della psicoanalisi nell’archeologico, per la gloria della teleologia, che sarebbe il luogo stesso del senso filosofico. Io penso che la dialettica non sia là, tra l’archeologico e il teleologico; ed è in tal senso che prendo atto del limite principale del libro, vale a dire il suo esser privo di un riferimento all’esperienza analitica. Della stessa esperienza analitica si può dire che si muove nell’archeologia, certamente, ma al fine di condurla teleologicamente al riconoscimento del senso del trauma primitivo. C’è dunque una teleologia della cura, rappresentata, se non dalla guarigione, in ogni caso dall’accettazione del trauma originario. Il contributo di Paul Ricoeur alla psicoanalisi clinica 1. Della Interpretazione: la rilettura di Paul Ricoeur nella Intervista del 2002 (con proiezione della parte relativa alle pagg.153-1562 & 158-160 ed. it.) 2. Della Interpretazione: una rilettura di parte psicoanalitica cinquant’anni dopo 3. Le trasformazioni della psicoanalisi dell’ultimo mezzo secolo: interpretazionetransfert- relazione- intersoggettività- campo- simbolo – immagine- inconscioirrappresentabile 4. I possibili utilizzi del pensiero di Paul Ricoeur nel lavoro psicoanalitico: narrazione –traducibile\intraducibile- Sé- linguaggio Domanda Martini + risposta Ricoeur (153-156: 0’-16’10”) & domanda Martini + risposta Ricoeur 158-160: 29’53”-36’35”); oppure in alternativa mostrare tutto il primo pezzo dell’intervista sino appunto a p.160. 2