Apprendimento significativo di genere: dimensione emozionale e scientifica della lettura-scrittura creativa “Chi è Silia?” di Giusy Gatti ITIS “E.Majorana” Silia è un “personaggio”. Silia è il personaggio femminile di un’opera teatrale. Un dramma. Silia è un personaggio di genere femminile, visto, interpretato, tratteggiato, creato da un autore MASCHIO, che talvolta, dimentica di esserlo, e la guarda con una sorta di solidale comprensione. Silia è inconsistente, a partire dal nome. Questo nome, “Silia”, è solo un’onomatopea, un nome che NON ESISTE. (cfr “Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo… E.Montale). E’ un sibilo, ha una musicalità intrinseca…ma è un suono…non un nome. Evoca altri personaggi… Iside, Lilith, Kalì: divinità femminili tentatrici, generatrici e rigeneratrici attraverso la morte. Un percorso follia-morte-rinascita che nelle culture arcaiche rappresenta l'avvio di un percorso iniziatico verso l’unicità dell’io. Ma Silia, al contrario, non è una donna, un soggetto, una “persona”, ma solo una MASCHERA (è appena il caso di ricordare che questo termine, “Persona” etimologicamente deriva dal greco “ πρόσωπον, prósōpon”che sta ad indicare la “maschera dell’attore”, entrato nel dizionario italiano tramite l’etrusco “phersu”). “Bambina folle”, viene lasciata “libera” da Leone: ma lei non conosce la libertà, non sa cosa sia, e, in fondo, non le interessa. Tanto è vero, che costringe il marito ad andarla a trovare tutti i giorni (fingendo di non poterne più della sua ingerenza, in realtà gli ha assegnato una “parte”: «la parte, assegnatami da un fatto che non si può distruggere, resta: sono il marito» - afferma, infatti, Leone) e si va ad invischiare in un’altra relazione (con Guido Venanzi, personaggio debole e snob), in una storia che è una ragnatela, un carcere anch’essa. Infatti, Silia, leggera come un guscio vuoto, è libera di una libertà anelata, ma inutile proprio nel momento in cui viene concessa e raggiunta. Risulta, quindi, appesa ai fili della sua stessa angoscia, in una annoiata decadenza, in uno spazio interiore vuoto (speculare allo spazio esterno) di cui è solo apparentemente consapevole. E burattini, sono anche le figure di contorno. I giovani annoiati dell’aristocrazia decadente (come il marchesino Miglioriti), appaiono tali nelle mani di Silia, pure estensioni del suo corpo e dei suoi deliri erotici (per «restare in piedi come quei buffi giocattoli, che tu puoi buttar come vuoi: ti restan sempre ritti per il loro contrappeso di piombo») “Poi, con una luce sinistra negli occhi, come se le fosse balenata una diabolica idea Ma sì, ecco, signori: sono Pepita, sì! Secondo signore ubriaco: ubriaco Viva la Spagna! “ In questo passaggio, scambiata per una prostituta, il suo narcisismo e il suo autocompiacimento raggiungono l’apice, insieme con l’artificiosità della situazione. Esplicativa in questo senso, la scena in cui, nell’allestimento di Giorgio De Lullo del 1970, le mani (dei giovani) e piedi (di Silia) compongono, su un tavolino tondo, un cerchio grottesco. Mani (guantate, che nascondono l’identità, come le maschere che celano il volto) e piedi (nudi, oltraggiosi): le estremità del corpo umano che s’incontrano e si toccano. Ancora una volta viene evocato il cerchio, un cerchio che si chiude, circoscrivendo colei che ne è il centro, stringendola ancora una volta in una gabbia, che non può spezzare nemmeno se veste i panni di Pepita. Non solo: ma anche l’abito di Silia rinvia a due elementi topici della visione pirandelliana: gli scacchi, scacchi bianchi e neri che orlano la casacca, evocano l’intreccio, il reticolato, la prigionia; le paillettes che le ricoprono il corpo, rimandano all’idea dello specchio, deframmentato e multiforme. "Pupi Pupi siamo, siamo caro Signor Fifì! Lo spirito divino entra in noi e si fa pupo. Pupo io, pupo lei, pupi tutti" dice il Ciampa de "Il berretto a sonagli". E realmente Silia incarna questo ruolo, fino a diventare burattinaia ella stessa, tessitrice (uguale e opposta alle eroine omeriche) di una trama, di un meccanismo tragico e folle che finirà per travolgerla. Lei è risoluta nell’idea di punire i giovani che le hanno recato oltraggio (sia pur artificiosamente indotto), per distogliere l’attenzione da se stessa, che, al contrario, merita una punizione più di ogni altro. Infatti, fingendo l'indignazione «d'una signora per bene» e respingendo le accorate richieste di perdono dei giovani, esige una riparazione cavalleresca dello scandalo, costringendo il marito a battersi a duello (duello in cui dovrebbe trovare la morte). Non può prevedere però che Leone (anche il suo nome contiene nessi allegorici, con l’evidente riferimento all'autorità, ma anche a territori ignoti, ancora inesplorati; per gli antichi, l’espressione "Hic sunt leones" era una sorta di resa all'autorità della natura selvaggia ed incomprensibile), scoperto il “giuoco”, trama a sua volta per volgere la situazione a proprio favore. Sarà Guido Venanzi, marito “effettivo” di Silia che dovrà affrontare il duello: e l’”ultimo sangue” sarà il suo. A vincere sarà, alla fine, Leone Gala, autentica incarnazione del personaggio che ha capito il gioco, e, attraverso il ragionamento, realizza la poetica de L'umorismo, fondata sul riconoscimento e sullo smascheramento delle finzioni sociali e personali. Tuttavia, non trarrà alcuna soddisfazione dalla sua vendetta. «Chi ha capito il giuoco – scrive Pirandello - non riesce più a ingannarsi; non può più prendere né gusto né piacere alla vita». Quella della ragione, sostiene l’autore, è sempre una vittoria illusoria, da cui si esce comunque sconfitti. “A Silia che fugge terrorizzata corrisponde l'immobilità di Leone, segno del suo non procedere, non muoversi, non vivere” (Franca Angelini). Dalle interazioni tra i personaggi, si snoda, appunto, un “Giuoco delle parti”, complesso meccanismo di scambi tra ruoli e caratteri, in cui ciascuno dei personaggi, alternativamente, mostra, o il proprio volto, o la maschera che indossa quotidianamente in pubblico, oppure quella che gli viene imposta in quanto proiezione della visione altrui, secondo l’assioma che “il nostro fuori è sempre dentro di noi”. Una geometria che, come in un labirinto di specchi, offre all’infinito il riflesso di un’immagine sempre più deformata, al punto che si perdono ben presto le sembianze dell’originale. Freudianamente i personaggi di questa, come di altre opere di Luigi Pirandello, SI GUARDANO attraverso un’ immagine riflessa, la percepiscono come estranea, si scoprono ignoti a se stessi e finiscono per cercarsi negli occhi degli altri. Con risultati spesso devastanti. "Non t'è mai avvenuto di scoprirti improvvisamente in uno specchio, mentre stai vivendo senza pensarti, che la tua stessa immagine ti sembra quella d'un estraneo, che subito ti turba, ti sconcerta, ti guasta tutto, richiamandoti a te, che so, per rialzarti una ciocca di capelli che t'è scivolata sulla fronte?" Silia, con la sua inconsistenza, non fa eccezione. Fonti bibliografiche: http://users.libero.it/teatro.arte/allestimento.html http://www.teatroteatro.it http://www.flickr.com/photos/astharot/2887090445/ http://www.pirandelloweb.com/teatro/1918_il_giuoco_delle_parti/il_giuoco_delle_parti_copertina.htm http://spazioinwind.libero.it/letteraturait/opere/pirandello08.htm http://www.classicitaliani.it/pirandel/drammi/13_pira_Il_giuoco_delle_parti.htm http://www.unilibro.it/find_buy/Scheda/libreria/autore-pirandello_luigi/sku12381232/il_giuoco_delle_parti_.htm Postille “Ha presente la metafora dell’uovo? Il caso imprevisto che sconvolge l’equilibrio interiore è come un uovo fresco che arrivi addosso all’improvviso: io prontamente lo afferro e me lo bevo, riducendolo ad un guscio vuoto. …ti compiango! Ma tu devi fare la tua parte come io la mia. Il gioco è questo. L’ha capito finanche lei! Ciascuno la sua, fino all’ultimo… Mi vedo e mi vedo giocare, e mi diverto. Basta” (Leone Gala) Ma, scriveva Pirandello in una lettera a Filippo Surico, in forma di autoritratto, tra il 1912 e il 1913 «Chi ha capito il giuoco non riesce più a ingannarsi; non può più prendere né gusto né piacere alla vita». “Gli uomini corrono, corrono sempre verso il nulla. Hanno sempre fretta di morire”. “Solo e chiuso in una stanza d’albergo, rifiatando dall’assillo della moglie, ma senza perder tempo o goderselo in qualche distrazione, aveva trovato il clima adatto per riprendere a scrivere con straordinaria vena il dramma che sarà uno dei capolavori del suo teatro. Tornato a casa, il 4 agosto scrisse a Ruggero Ruggeri: «Mi rimetterò da domani alla nuova commedia, che è già bene avanti. Conto di finirla tra pochi giorni e gliela manderò costà a Torino (se farò in tempo) o a Milano. Le ho cambiato il titolo: invece che Quando si è capito il giuoco la chiamerò Il giuoco delle parti, mi sembra più bello e più proprio». Ruggeri gli rispose il 7 agosto: «Ella sa che la mia stima per Lei è veramente profonda e senza restrizioni: e io non desidero di meglio che provarle, cooperando sotto la sua guida al successo delle sue opere, i miei sentimenti devoti. E così ho gran desiderio di leggere presto "Il giuoco delle parti"». ... “Fu Pirandello il primo a porre sulle scene il contrasto tra essere e esistere. Fu Pirandello il primo a portare o meglio a riportare in teatro la tragedia dei rapporti dell’uomo con se stesso e con la realtà. E’ a Pirandello che si deve se il dramma borghese ha ceduto il luogo finalmente alla tragedia umana. E’ a Pirandello, infine, che dobbiamo se gran parte del teatro convenzionale che ancora oggi affolla le scena d’Italia e del mondo è morto prima ancora di nascere, morto senza residui come è morta la società che l’applaude e dalla quale trae l’ispirazione. […] Grazie a Pirandello e a pochi altri oggi siamo in grado di capire meglio il teatro greco e possiamo sperare in una risurrezione del teatro nel senso greco” Alberto Moravia Eredità di Pirandello nel teatro mondiale in Novecento. Gli scrittori e la cultura letteraria nella società italiana collana diretta da Gianni Grana, nuova ed., vol. III, Milano, Marzorati, 1987. Curiosità Il Giuoco delle parti fu rappresentato per la prima volta al Teatro Valle di Roma nel 1918 da Ruggiero Ruggeri, ed ebbe una pessima accoglienza da parte della critica, che apprezzò l’interpretazione bocciando però il testo (sicuramente a causa della sua aspra modernità ), tant’è che l’attore cambiò spettacolo dopo la prima replica. Il copione ebbe il giusto riconoscimento solo negli anni sessanta, portato in scena dalla Compagnia dei Giovani con Romolo Valli, Rossella Falk e Carlo Giuffrè.