“Dalla crisi nipponica una lezione utile per l` Italia” Luigi Zingales

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“Dalla crisi nipponica una lezione utile per l' Italia”
Luigi Zingales, Corriere della Sera
21 June 1998
Dieci anni fa, quando arrivai negli Stati Uniti, la nazione era sbalordita di fronte al miracolo giapponese. Il Giappone
aveva tassi di sviluppo doppi rispetto a quelli americani, la disoccupazione era pressochè inesistente e industrie
nipponiche conquistavano la supremazia in molti settori (come quello automobilistico) una volta dominati da imprese
americane. In quel periodo, il sistema finanziario giapponese fu identificato come una delle ragioni di questo successo.
Dieci anni dopo, la situazione è capovolta. Mentre gli Stati Uniti entrano nel nono anno consecutivo di espansione (la
più lunga del dopoguerra) e la disoccupazione è ai minimi storici, il Giappone si sta avviando alla sua seconda
recessione degli anni Novanta e la disoccupazione è ai massimi storici. Il sistema finanziario giapponese è ora additato
come una delle cause principali della crisi. Che cosa è cambiato? Come è possibile che lo stesso modello finanziario,
che aveva così tanto contribuito al miracolo giapponese nel dopoguerra, sia diventato improvvisamente inefficiente?
Per spiegare questo puzzle è necessario capire come vengono assolte nei due Paesi le funzioni principali di un sistema
finanziario.
Il compito principale della finanza è di trasferire risorse alle imprese che hanno le migliori opportunità. Al tempo
stesso si deve garantire che gli investitori ricevano un rendimento adeguato, chè altrimenti vengono meno gli incentivi
a investire. Ci sono due modi principali in cui queste funzioni possono essere svolte. Il primo consiste nell'affidare
l'allocazione delle risorse finanziarie al mercato. Ogni singola impresa raccoglie i soldi sul mercato dei capitali dove la
quantità e il costo delle risorse raccolte dipenderanno dalla percezione che gli investitori hanno della profittabilità e
del rischio dell'impresa. L'efficienza di questo meccanismo dipende dall'efficienza con cui i prezzi di mercato segnalano
le migliori opportunità di investimento. In questo contesto, prevalente negli Stati Uniti, la tutela degli investitori è
affidata al sistema legale. Alternativamente l'allocazione dei fondi può essere svolta all'interno di gruppi di imprese
legate da partecipazioni azionarie e affiliate con una banca (i keiretsu in Giappone o i chaebol in Corea). Questi
centralizzano le risorse finanziarie e poi le distribuiscono alle varie aziende del gruppo. Gli investimenti, quindi, non
avvengono in base alle valutazioni oggettive del mercato, ma a quelle soggettive e interessate dei manager.
Nell'ambito di questo meccanismo, prevalente in Giappone, la banca o la società finanziatrice mantiene un controllo
diretto sull'impresa finanziata, assicurandosi una protezione anche in assenza di un sistema legale efficiente. In teoria,
entrambi i modelli hanno costi e benefici. Ma in pratica quale funziona meglio?
Un recente studio del McKinsey Global Institute dimostra che la produttività del capitale investito in Giappone è del 37
% più bassa di quella negli Stati Uniti. Il motivo principale è che, lasciate in mano ai manager, le imprese giapponesi
tendono a investire troppo in capacità produttiva che poi rimane inutilizzata. Ma come possiamo essere sicuri che
questo sia dovuto al sistema finanziario? Innanzitutto lo stesso problema emerge in Germania (un Paese che segue uno
schema simile a quello giapponese) dove la produttività del capitale è del 35 % più bassa di quella americana. Secondo,
un problema analogo si riscontra anche negli Stati Uniti in quelle imprese che appartengono a un gruppo industriale e
quindi allocano le risorse "alla giapponese". Recenti studi empirici dimostrano che gli investimenti fatti all'interno del
gruppo sono meno efficienti di quelli fatti da simili imprese esposte alla pressione del mercato. Questo spiega la crisi
del modello giapponese. Ma come si spiegano i successi passati? E perché i gruppi prevalgono nella maggior parte dei
Paesi al mondo? La risposta è molto semplice. Laddove il sistema legale non protegge adeguatamente gli investitori, il
flusso di denaro alle imprese diventa scarso. In questa situazione i benefici di un gruppo (che controlla più
direttamente le risorse investite) eccedono i costi (un'allocazione inefficiente delle risorse). Questo è vero soprattutto
in un Paese in forte crescita, dove tutti i settori hanno grosse opportunità di investimento. In questo caso quanto si
investe è più importante di dove si investe.
Ecco quindi il successo della Germania e del Giappone nel dopoguerra. Quando però l'economia di un Paese raggiunge
una fase di maturità, diventa più importante dove le risorse finanziarie vengono collocate. A questo punto l'inefficienza
dei gruppi nella scelta dei settori in cui investire diventa più costosa ed è necessario lasciare più spazio al mercato.
Questo è quello che l'Fmi ha cercato di fare in Corea, condizionando il prestito internazionale a un parziale
smantellamento dei chaebol. Il processo di trasformazione però non è facile. Perché il mercato funzioni è necessario
avere un sistema legale che protegge gli investitori. In economie dominate dai gruppi (come quella giapponese), non
solo questo non esiste, ma anche è di difficile creazione, perché i gruppi vedono (giustamente) nello sviluppo del
mercato una minaccia alla loro stessa ragion d'essere. Ricordate l'opposizione dei principali gruppi italiani a molte delle
proposte contenute nella bozza Draghi? Dalla crisi giapponese viene dunque una lezione utile per l'Italia.
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