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25 gennaio 2013
FRONT
24 ore di Krapp in un foglio
Digest quotidiano a cura della redazione di Krapp’s Last Post – www.klpteatro.it
Anticorpi Explo e la mancanza del tempo della crescita
di Stefania Zepponi
Déjà vu… un anno fa, stesso luogo, stessa serata: Nuova Danza Italiana, Anticorpi Explo, vetrina
della giovane danza d’autore promossa dal network Anticorpi XL. In un panorama asfittico per
risorse e spazi e povero dal punto di vista formativo come quello della danza contemporanea
italiana, fa specie pensare quanti giovani si misurino con il pensiero coreografico, apparendo,
sparendo, a volte permanendo.
Anche quest’anno sono quattro i brani in serata.
Apre il giovanissimo Nicola Galli: scricchiolio osseo di giunture sottoposte a massime estensioni,
che si tramuta in scricchiolio del materiale che accoglie la sua danza, un perimetro bianco
composto di sfere d’aria ermeticamente compresse; sarà questa la colonna sonora dell’intero
brano.
Movimenti lineari, traslocamento del peso per punti, una danza algida e fredda che niente concede
a una non razionalità che possa essere estranea all’intento iniziale.
Il secondo brano è un duetto estrapolato da uno spettacolo a serata intera, prima produzione per
questa compagnia composta da Elisabetta Lauro, italo-inglese, e César Augusto Cuenca
Torres, colombiano, diplomati entrambi alla Folkwang Hochschule di Essen.
Due esseri umani muovono i loro primi passi legati da un’interdipendenza che si sostanzia in
prese, sollevamenti, camminate in cui l’uno è di sostegno all’altra; i corpi si separano, la danza
aumenta di intensità fino a che i corpi esausti cedono al silenzio. E nel silenzio una domanda:
“Pensi che siamo morti?”. L’incertezza che permane, che non da tranquillità; bravi interpreti per
una cifra stilistica abbastanza scontata.
Breve intervallo e si prosegue con Manolo Perrazzi, un assolo in cui il danzatore si è immaginato
in una stanza a pianterreno in preda ad un alternarsi di momenti di smarrimento e lucidità. O
almeno così leggiamo nelle note di sala. Nella visione abbiamo un corpo che si disarticola,
spezzandosi in movimenti elettrici, accompagnato da una martellante musica elettronica,
claustrofobia. Si placa solo alla fine, in un lontano ed esiguo taglio di luce.
Conclude la serata “Le coltri stanche”, per la coreografia di Tiziana Bolfe.
Ispirato alla scultura “Le tre grazie” di Antonio Canova, si apre su tre figure poste di schiena con le
braccia intrecciate, tre donne che rimandano ad altrettante diverse età riconoscibili nelle pieghe dei
corpi, nella brizzolatura dei capelli.
In un lungo passaggio abitato solo da movimenti sinuosi delle braccia che danno un po’ troppo
l’impressione di una improvvisazione non strutturata, le “tre grazie” si allontanano verso il fondo
della scena, lasciando dietro di sé lo strascico delle lunghe gonne. Solo la donna giovane resta ad
offrire una danza realizzata sempre rigorosamente di schiena, visione che non spiega il perché
della mancanza della rappresentazione delle altre età.
Si chiude così la serata, nella sensazione che le strade da percorrere siano ancora lunghe, che la
sola bravura non basti a giustificare una messa in scena, e che un pensiero coreografico capace di
avvincere e significare abbia bisogno del tempo della crescita per creare segni in grado di
affascinare.
O | PROIEZIONE DELL’ARCHITETTURA OSSEA
progetto: MDV | Nicola Galli
HAY UN NO SE QUE NO SE DONDE
di e con: Elisabetta Lauro & César Augusto Cuenca Torres
PIANTERRENO
di e con: Manolo Perazzi
LE COLTRI STANCHE
di e con: Tiziana Bolfe
Visti ad Ancona, Teatro Studio c/o Mole Vanvitelliana, il 17 gennaio 2013
Rassegna OFF/side - Anticorpi Explo
Url articolo: http://www.klpteatro.it/anticorpi-explo-e-la-mancanza-del-tempo-della-crescita
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25 gennaio 2013
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24 ore di Krapp in un foglio
Digest quotidiano a cura della redazione di Krapp’s Last Post – www.klpteatro.it
La nuova Antigone di Valeria Parrella
di Valeria Nicoletti
Ecco l’ennesima rilettura del mito di Antigone, si potrebbe pensare. Tuttavia, non è proprio così.
Valeria Parrella, classe 1974, scrittrice di origini campane, giornalista letteraria nonché membro
del comitato artistico del Teatro Stabile di Napoli, mette le mani “nelle nervature della classicità”,
come ha dichiarato in una recente intervista, e ne tira fuori non una semplice riscrittura, ma una
figura contemporanea inedita, “una donna con una confidenza senza pari con la morte”,
un’Antigone che profuma d’antico e leggende ma rivela inevitabilmente i segni del suo tempo, che
porta “la radice del contrasto nel nome” e conduce maieuticamente al dubbio e all’interrogativo.
“Io stessa da sola, vivendo, sono una domanda”, afferma senza timore l’eroina di Sofocle a un
Legislatore inevitabilmente sordo alle leggi umane che governano e muovono lo spirito indomato
per eccellenza nella mitologia greca.
Il mito, incentrato sul dialogo tra Antigone e Creonte, è minimale. Lo stesso Creonte è senza
nome, è semplicemente il Legislatore, l’incarnazione della forma contro la sostanza, incapace di
ritornare indietro sui suoi passi, invischiato in una ridicola legge divina che gli impedisce anche di
dare ascolto all’indovino Tiresia, alle obiezioni del figlio, innamorato di Antigone.
“Ma non è la più bella delle opportunità che si danno a un uomo quella di ripensare a ciò che ha
fatto?”, si chiede invano Emone davanti ad un padre troppo occupato a conservare la propria
integrità piuttosto che a ritrovare la giustizia. Un governatore sordo anche ai giudizi impliciti del
coro, che resta sullo sfondo e non può fare altro che inseguire e commentare la struttura binaria
della pièce, come sguardo collettivo, lasciandosi andare solo a terribili constatazioni. “Tutta
l’umanità deve bagnarsi nell’orrore del giorno”, racchiude in una frase il corifeo.
Nella pièce di Parrella, Polinice, mantenuto in vita dall’alimentazione artificiale, muore per un atto di dignità, quando Antigone viola la legge e stacca finalmente la spina,
sola contro tutti, anche contro Ismene, la sorella timorosa delle conseguenze. “La vita è un soffio che esce, signore, non uno che entra”, ecco perché condannata al
carcere a vita, Antigone, che accetta la pena con un solo delitto sulla coscienza, quello “di non aver voluto essere lo scherno della vita”, rimasta sola nella sua cella, si dà la
morte, lasciando un ultimo soffio di speranza in una lettera diretta a Emone. Perché “vita e morte sono degne quando possono essere condotte autonomamente”.
“Ciò che è accaduto, è accaduto perché Antigone è il movimento”, decreta l’indovino Tiresia, facendo dell’eroina sofoclea una donna dall’intelletto in continuo divenire,
preda del dubbio, le cui volute del linguaggio sono il riflesso di un’intelligenza indipendente e libera, inevitabilmente agli antipodi dello statico Legislatore, della legge cieca e
arbitraria, di una società che non tollera la violazione di un editto e la disobbedienza di una donna. Una storia che ricorda una disparità ancora di triste attualità e tematiche
come l’accanimento terapeutico e l’eutanasia.
Portato in scena lo scorso autunno, con la regia di Luca De Fusco, che ha diretto l’interpretazione di Gaia Aprea, presso il Teatro Stabile di Napoli, l’Antigone di Valeria
Parrella scivola su una lingua poetica, densa, che sfrutta lievi incursioni nel registro arcaico che fa da contrappeso solenne alla leggera soavità di Antigone, che vorrebbe
essere come una foglia “tesa in una rugiada che le dà la vita senza vita conoscere […], che non sa perché sta germinando da quel ramo e non da quello che segue,
eppure continua. Che non prova sofferenza se la pioggia si fa mancare per giorni, pur sentendo la linfa sua venire meno”.
Antigone
di Valeria Parrella
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