Revocatoria riformata (tratto da Zucchetti Software

LA REVOCATORIA FALLIMENTARE
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LA REVOCATORIA RIFORMATA
(decreto legge 14 marzo 2005, n. 35)
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REVOCATORIE FALLIMENTARI
Sommario.
1-Le revocatorie fallimentari. Principi generali
2-La revocatoria degli atti a titolo gratuito
a-Concetto di gratuità
b-Casistica
b.1-Costituzione fondo patrimoniale
b.2-Comunione tra coniugi
b.3-Donazione remuneratoria
b.4-Rinuncia all’eredità
b.5-Garanzie per debito altrui
b.6-Varie
c-Atti gratuiti non soggetti all’inefficacia
3-La revocatoria di cui all’art. 67 l.fall.
3.1-Caratteristiche generali
a-Il danno
b-Il consilium fraudis
c-Il periodo sospetto
d-La prescrizione
e-Determinatezza dell’oggetto della domanda revocatoria
3.2-Le singole fattispecie revocatorie
3.2.1-Il primo comma dell’art. 67 l.fall.
a-I num. 1 e 2 del primo comma dell’art. 67 l.fall.
a.1-La notevole sproporzione
a.2-Il pagamento con mezzi anormali
b-I num. 3 e 4 del primo comma dell’art. 67 l.fall.
b.1-La contestualità
3.2.2-Il secondo comma dell’art. 67 l.fall.
a-Gli atti a titolo oneroso
a.1-Sono stati ritenuti revocabili
a.2-Sono stati ritenuti non revocabili
b-Le garanzie per debiti contestualmente creati
c-Il pagamento di crediti liquidi ed esigibili
c.1-Pagamenti coattivi.
c.2-Pagamenti in favore di legalmonopolista.
c.3-Pagamenti di crediti assistiti da garanzia reale consolidata
c.4-Pagamento effettuato da terzo.
c.5-Pagamento effettuato dal terzo su conto corrente bancario del fallito
c.6-Pagamento effettuato dal terzo fideiussore.
c.7-Varie
d-Il pagamento di crediti liquidi ed esigibili. La revocatoria delle rimesse in conto corrente bancario.
d.1-Rimesse solutorie e ripristinatorie
d.2-Saldo disponibile
d.3-Operazioni bilanciate
d.4-Pluralità di conti e compensazione
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d.5-Pluralità di linee di credito
d.6-Distribuzione dell’onere probatorio
d.7-Distribuzione dell’onere probatorio
3.3-L’elemento soggettivo
a-concetto di insolvenza
b-La scientia decotionis nell’ipotesi di fallimento del socio illimitatamente responsabile
c-La scientia decotionis nelle fattispecie regolate dal 1° comma dell’art. 67
d- La scientia decotionis nelle fattispecie regolate dal 2° comma dell’art. 67
d.1-La prova per presunzioni
d.2-La qualifica di banchiere dell’accipiens
d.3-Casistica
3.4-Aspetti processuali
a-Competenza e giurisdizione
b-Composizione del tribunale
c-Legittimazione attiva
c.1-La legittimazione nell’ipotesi di fallimento di società di persone
c.2-La pozione di terzo del curatore
d-Autorizzazioni all’esercizio dell’azione
e-rapporti tra le varie fattispecie normative e modifica della domanda
f-Improseguibilità della revocatoria e concordato fallimentare
g-L’interesse ad agire
h-Legittimazione passiva
3.5-Effetti della pronuncia revocatoria
a-Effetti tra le parti e nei confronti della massa
b-Effetti del’azione revocatoria nei confronti dei terzi subacquirenti
b.1-esperibilità dell’azione
b.2-Significato della mala fede
b.3-distribuzione dell’onere probatorio della mala fede
3.6-Le esenzioni dalla revocatoria
a-Istituti autorizzati
b-Credito fondiario
c-Factoring
d-Esenzioni da altre leggi speciali
3.7-La ricollocazione del credito di restituzione
a-La reviviscenza delle garanzie e delle prelazioni
a.1-Reviviscenza della fideiussione
a.2-Reviviscenza dell’ipoteca
a.3-Reviviscenza dei privilegi
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1-Le revocatorie fallimentari. Principi generali
Nell’attuale legge fallimentare, improntata ad una visione del fallimento come procedura essenzialmente
liquidatoria dell’impresa, l’azione revocatoria fallimentare è stata configurata come strumento
tendenzialmente inteso a colpire tutte le operazioni compiute dal fallito nel periodo sospetto, con
un’attenuazione dei presupposti ed una maggiore agevolazione probatoria rispetto alla revocatoria ordinaria,
dato che quest’ultima comporta utilità per il solo creditore procedente, il quale può poi coattivamente
soddisfarsi sul bene alienato dal debitore al terzo, nel mentre la revocatoria fallimentare determina
l'accrescimento delle attività fallimentari a giovamento dell’intera massa dei creditori. Consentita è
comunque l'utilizzo di uno o dell’altro rimedio a scelta del curatore, che può preferire fare ricorso alla
revocatoria ordinaria, nonostante la necessità di assolvere agli oneri probatori di cui all’art. 2901 c.c., quando
l’atto non ricade nel periodo sospetto o quando un creditore abbia, precedentemente alla dichiarazione di
fallimento, iniziato uti singulus un'azione revocatoria, che il curatore può, appunto, proseguire nell' interesse
dalla massa.
Le norme cardini del sistema revocatorio fallimentare sono quelle di cui agli artt. 64 e 67 l.fall.; la prima
sancisce l’inefficacia degli atti a titolo gratuito compiuti dall’imprenditore poi fallito nei due anni antecedenti
la dichiarazione di fallimento e la seconda sancisce l’inefficacia di tutti gli atti a carattere oneroso, comprese
costituzioni di garanzie e pagamenti, compiuti dal fallito nell’ultimo anno o negli ultimi due anni antecedenti
la dichiarazione di fallimento.
La natura gratuita od onerosa dell’atto revocando comporta una notevole differenza tra le due fattispecie, che
si traduce, a sua volta, in una differente regolamentazione normativa. È sufficiente, infatti, porre a raffronto
la disciplina dell’art. 64 (e 65) con quella dell’art.67 (e. 66) per evidenziare una chiara differenza tra le varie
ipotesi di inefficacia relativa di atti giuridici nei confronti della massa, si vede, così che mentre nel primo
gruppo il dettato normativo determina direttamente la privazione di effetti di determinati atti (sono privi di
effetto rispetto ai creditori), per cui l'inopponibilità dei singoli atti alla massa dei creditori viene data per
presupposta al semplice realizzarsi della fattispecie, nel secondo gruppo l'inopponibilità o viene
esplicitamente subordinata ad una domanda della curatela (art. 66 per la revocatoria ordinaria nel falli mento,
secondo cui "il curatore può domandare che siano dichiarati inefficaci"), o viene correlata ad una speciale
ripartizione dell'onere della prova tra le parti (art. 67, 1 e 2 comma, così pure gli artt. 68 e 69 l.fall.), con la
conseguenza di fare assumere al contraddittorio processuale il ruolo di uno strumento necessario per ottenere
la modificazione giuridica degli effetti di determinati atti.
Da questo raffronto emerge come ai destinatari degli atti gratuiti (art. 64), o che hanno elementi di gratuità
(art. 65), la legge abbia inteso conferire una minore tutela rispetto a quelli che hanno una loro autonoma
causa giustificativa, essendo evidente che, nel raffronto tra gli interessi della massa e quelli del singolo, chi si
è avvantaggiato senza corrispettivo, con pregiudizio certo per la massa e violazione della par condicio in
presenza di uno stato di insolvenza in atto, deve cedere all’esigenza della tutela collettiva, che si traduce
nella inefficacia degli atti a titolo gratuito per precetto normativo, quanto meno dalla dichiarazione di
fallimento, indipendentemente dalla consapevolezza delle parti in ordine alla sussistenza dell'insolvenza di
una di esse. Al contrario per quegli atti che hanno una loro corrispettività ed una causa giustificativa, la tutela
della massa è subordinata all'accertamento sia di situazioni soggettive di consapevolezza (ancorché talora
presunte in virtù dell'oggettiva anomalia dell'atto che di per sé è indice di detta consapevolezza, salvo prova
contraria), sia di pregiudizio per la massa, ancorché concretizzato nella violazione della par condicio;
situazioni che la lettera ed il sistema probatorio dell'art. 67 deferiscono ad una pronuncia giudiziale dalla
quale l'inefficacia relativa, nonché il credito restitutorio alla finalità satisfattiva della massa, deriva. Da ciò
deriva che mentre l’azione disciplinata dall’art. 64 ha carattere oggettivo, costituito dalla natura gratuita
dell’atto, opera automaticamente, indipendentemente dalla condizione soggettiva dei soggetti che hanno
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partecipato all’atto, l’azione è imprescrittibile e la sentenza che riconosce inefficacia ha carattere
dichiarativo, la sentenza che dichiara l’inefficacia ex art. 67 l.fall. immuta una situazione giuridica in termini
nuovi ed originali in forza di una decisione del giudice, per cui assume carattere costitutivo in quanto
modifica ex post una situazione giuridica preesistente, sia nel privare di effetto nei confronti della massa
fallimentare atti che altrimenti avevano già conseguito la loro piena efficacia, sia nella conseguente
pronuncia restitutoria dei beni o delle somme oggetto di revoca alla funzione di garanzia generale (principio
di responsabilità ex art. 2740 C.C.) ed alla soddisfazione dei creditori di una delle parti dell'atto.
A queste conclusioni la S.C. è pervenuta dopo un lungo ed articolato dibattito sulla natura costitutiva o
dichiarativa dell’azione revocatoria fallimentare di cui all’art. 67 l.fall., del quale è superfluo rendere conto
perché la questione può ormai ritenersi superata con l’espressa presa di posizione delle Sezioni Unite nel
senso sopra indicato.
Invero, le Sezioni Unite sono intervenute due volte. La prima volta con due sentenze a breve distanza (Cass.
S.u. 13-6-1996, n. 5443 e Cass. S.u. 8-7-1996, n. 6225) hanno affermato che la situazione giuridica vantata
dalla massa ed esercitata dal curatore non integra un diritto di credito (alla restituzione della somma o dei
beni) esistente prima del fallimento (nè nascente all'atto della dichiarazione dello stesso) e
indipendentemente dall'esercizio dell'azione giudiziale, per cui rappresenta un vero e proprio diritto
potestativo all'esercizio dell'azione revocatoria, rispetto al quale non è configurabile l'interruzione della
prescrizione a mezzo di semplice atto di costituzione in mora (conf. la giurisprudenza successiva, cfr. Cass.
5-9-1996, n. 8086; Cass.16-2-1998, n. 1635; Cass. 8-1-2003, n. 58). La seconda volta hanno statuito che “in
ipotesi di vittorioso esperimento della revocatoria fallimentare relativa ad un pagamento eseguito dal fallito
nel periodo sospetto, l'obbligazione restitutoria dell’accipiens soccombente in revocatoria ha natura di debito
di valuta e non di valore, atteso che l'atto posto in essere dal fallito è originariamente lecito e la sua
inefficacia sopravviene solo in esito alla sentenza di accoglimento della revocatoria, dovendosi ritenere la
natura costitutiva di tale sentenza e perciò qualificare come diritto potestativo (e non come diritto di credito)
la situazione giuridica facente capo al curatore fallimentare che agisce in revocatoria; ne consegue che gli
interessi sulla somma da restituirsi da parte del soccombente decorrono dalla data della domanda giudiziale e
che il risarcimento del maggior danno conseguente al ritardo con cui sia stata restituita la somma di denaro
oggetto della revocatoria spetta solo ove l'attore alleghi specificamente tale danno e dimostri di averlo
subito” (Cass. S.U. 15-6-2000, n. 437). Quasi obbligata questa seconda soluzione dal precedente intervento,
ma molto significativa in quanto rifiuta quell’interpretazione alla base della quale vi era la convinzione della
natura illecita ab origine del pagamento poi soggetto a revocatoria, “il cui elemento oggettivo è dato dalla
sottrazione dei beni alla massa e l'elemento soggettivo è costituito dalla consapevolezza da violare le regole
della par condicio creditorum” (così testualmente Cass. n. 2936-97 ); con la conseguente attribuzione
all'azione revocatoria di una funzione meramente accertativa dell'illecito stesso e dichiarativa della correlata
obbligazione restitutoria, appunto ex illicito e, come tale, di valore. Le S.u. hanno, invece, ribadito l’opposta
linea interpretativa, che- muovendo dalla inversa configurazione dell'azione revocatoria come azione
costitutiva in quanto diretta a privare di efficacia, con riguardo alla finalità di ricostituire la garanzia
patrimoniale del debitore, un atto perfettamente valido (e non quindi illecito) tra le parti, è pervenuta alla
diversa conclusione che è solo dal vittorioso esperimento della predetta azione, con conseguente rimozione
dell'effetto della sottrazione della somma pagata all'azione esecutiva concorsuale, che nascono, per il terzo
convenuto, l'obbligazione personale di restituzione del tantundem (debito, per tale profilo, quindi, di valuta)
e, per la massa, il corrispondente diritto di esigerlo per i fini indicati.
Sebbene queste pronunce siano finalizzate alla soluzione delle specifiche problematiche della interruzione
della prescrizione con un atto stragiudiziale e della natura del debito restitutorio conseguente alla pronuncia
di inefficacia di pagamenti e dei riflessi sul computo degli interessi, è indubbio che esse, anche per la bontà
degli argomenti addotti, hanno posto un punto fermo sulla natura costituiva dell’azione di revocatoria
fallimentare, i cui effetti refluiscono in più direzioni, da cui non è possibile più prescindere.
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2-La revocatoria degli atti a titolo gratuito
a-Concetto di gratuità
L’art.64 sancisce l’inefficacia degli atti a titolo gratuito compiuti dal fallito nei due anni anteriori alla
dichiarazione di fallimento.
Ciò sta a significare che l'art. 64 propone un concetto ampio di gratuità, che si fonda unicamente sulla
diminuzione del patrimonio del fallito senza corrispettivo. Invero, la giurisprudenza più recente ha ben
chiarito che occorre distinguere non solo tra negozio a titolo gratuito e negozio a titolo oneroso, ma anche tra
gratuità e liberalità (Cass.24-2-2004, n. 3615; Cass., 5-12-1998, n. 12325), nel senso che, infatti, l'assenza di
corrispettivo, se è sufficiente a caratterizzare i negozi a titolo gratuito (così distinguendoli da quelli a titolo
oneroso), non basta invece ad individuare i caratteri della donazione, per la cui sussistenza sono necessari,
oltre all'incremento del patrimonio altrui, la concorrenza di un elemento soggettivo (lo spirito di liberalità)
consistente nella consapevolezza di attribuire ad altri un vantaggio patrimoniale senza esservi in alcun modo
costretti e di un elemento di carattere obbiettivo, dato dal depauperamento di chi ha disposto del diritto o ha
assunto l'obbligazione
Ciò significa che ai fini della inefficacia sancita dall'art. 64 sono irrilevanti, oltre alla sussistenza o meno
dell'insolvenza dell'imprenditore al momento dell'atto in contestazione e alle situazioni soggettive tipiche di
varie ipotesi revocatorie (la conoscenza o la conoscibilità dei presupposti soggettivi ed oggettivi del
fallimento all'epoca dell'atto contestato), anche le situazioni tipiche della donazione (lo animus donandi),
proprio perchè la nozione di gratuità, contenuta nella norma fallimentare, non è coincidente con la categoria
civilistica dei negozi liberali non assumendo rilievo alcuno l'aspetto soggettivo della condotta dispositiva, sia
nei rapporti tra solvens e accipiens sia nei riguardi dello stato di insolvenza. La S.C. ha, altresì, bene
evidenziato come la nozione di gratuità contenuta nell'art. 64 non sia coincidente neppure con la categoria
dei negozi tipici a titolo gratuito (comodato, mutuo senza interessi, deposito gratuito), perchè in questi manca
il depauperamento del patrimonio di chi li pone in essere e normalmente non vi è neppure aumento
patrimoniale di chi ne beneficia, e, nel sistema dell'art. 64 l.fall., al di fuori di una menomazione patrimoniale
(intesa nel senso ampio accennato nel primo parag.) sfuma la ragione stessa della previsione normativa in
esame. Se, invero, lo schema di riferimento essenziale, anche se non esclusivo, delle fattispecie dell'art. 64
l.fall. inerisse ai contratti tipici a titolo gratuito senza depauperamento patrimoniale per il disponente, alla
tutela del fallimento sarebbe sufficiente l'esercizio delle azioni contrattuali di restituzione, e non avrebbe
spiegazione la statuizione di inefficacia che trova nella disciplina dell'art. 64, una delle più drastiche
disposizioni, fondata esclusivamente su situazioni oggettive che, come è pur stato rilevato, trova eguale
rigore solo nel dettato dell'art. 44 l.fall..
Di conseguenza, la nozione ricavabile dalla lettera e dalla collocazione dell'art. 64 è che per atto gratuito
deve intendersi l'atto di disposizione compiuto dal fallito senza alcun corrispettivo, diretto o indiretto; ossia,
la norma colpisce, con la dichiarazione di inefficacia, l'atto gratuito in quanto esso refluisce negativamente
sul patrimonio del fallito diminuendo la garanzia dei creditori, senza tener conto della posizione del terzo
contraente, sicchè nessuna protezione viene a questi accordata quando non abbia sopportato alcun sacrificio
riversabile nel patrimonio del fallito, perchè la legge ha come punto di riferimento la tutela dei creditori per
gli effetti dell'atto sul patrimonio del fallito.
E, a ben vedere, non potrebbe essere diversamente perchè l'art. 64 l.fall. copre l'intera area di tutela dei
creditori del fallito rispetto agli atti a titolo gratuito, per cui è impensabile sottrarre alla sanzione
dell'inefficacia solo gli atti a titolo gratuito per entrambi i soggetti. Se così fosse, infatti, mancherebbe per i
creditori del fallito qualsiasi strumento di tutela specifica per quegli atti compiuti dal fallito nel periodo
sospetto, senza spirito di liberalità, che comunque abbiano determinato una diminuzione patrimoniale senza
contropartita. Si pensi, ad esempio, alla costituzione di fondo patrimoniale, agli atti unilaterali di rinuncia ad
un diritto obbligatorio o reale parziale non determinato da animus donandi, e, più in generale, agli atti
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dispositivi che si traducono in un beneficio per un terzo compiuti dal fallito nell'imminenza del fallimento
non per attuare una donazione indiretta, ma con lo scopo preciso di sottrarre i beni all'aggressione dei
creditori (esempio tipico: acquisto con danaro proprio di beni che vengono intestati ad altri).
E’ pur vero che l'art. 64 l.fall. sottrae all'inefficacia alcuni atti di liberalità, quali i regali d'uso, gli atti
compiuti in adempimento di un dovere morale o a scopo di pubblica utilità, che, pur provocando sul
patrimonio del fallito lo stesso pregiudizio di altri atti a titolo gratuito, non subiscono la stessa sanzione in
considerazione della loro apprezzabilità sociale e, quindi, in considerazione della causa dell'atto, degna di
speciale tutela, e non degli effetti patrimoniali; ma questa parte della norma costituisce una disposizione di
carattere eccezionale nella disciplina della fattispecie, per cui non può assurgere a principio generale e,
comunque, anche per le eccezioni viene in parte recuperato il criterio della gratuità sanzionabile in quanto la
sottrazione all'inefficacia viene condizionata ad un giudizio di proporzionalità; giudizio che ha come termini
di riferimento la liberalità da un lato e il patrimonio del fallito dall'altro, sicchè gli atti citati sono opponibili
ai creditori del fallito nella misura in cui non abbiano determinato un vero e reale pregiudizio per essi.
In realtà, proprio queste limitate e tassative esenzioni, proposte dalla norma in via di eccezione, fanno capire
come la regola comune sia quella contenuta nella prima parte della norma, che, comprende, quindi, ogni altro
atto del fallito, che disponga del suo patrimonio senza che il medesimo riceva in cambio un qualche
significativo vantaggio, senza che possa assumere rilievo il fatto che il solvens disponga del proprio
patrimonio a vantaggio di un terzo, ovvero che l’accipiens sia creditore di un terzo in favore del quale il
solvens abbia effettuato il pagamento (Cass., 12-5-1992, n. 5616; Cass. 28-9-1991, n. 10161). In altre parole,
la sanzione di inefficacia di cui all’art. 64 colpisce il pagamento in sé considerato e non già il beneficio che
da tale pagamento può derivare all’accipiens.
Nell’ipotesi in cui un atto a titolo oneroso dissimuli la gratuità dell’atto dispositivo, occorrerà esperire in via
preliminare, contestualmente all’azione di inefficacia ex art. 64 l’azione di simulazione relativa per pervenire
all’accertamento della gratuità dell’atto inefficace.
Per quanto concerne, infine, la prova del carattere gratuito dell’atto dispositivo, va ricordato che, secondo il
constante orientamento giurisprudenziale, la natura gratuita di un atto di disposizione patrimoniale, agli
effetti della declaratoria d’inefficacia ai sensi dell’art. 64 può essere desunta dalla mancanza di corrispettività
contabile nei libri dell’imprenditore fallito e dalla mancata deduzione ad opera del convenuto di un rapporto
giuridico fondato su un apprezzabile e coerente sinallagma negoziale.
b-Casistica
b.1-Costituzione fondo patrimoniale
La costituzione del fondo patrimoniale determina soltanto un vincolo di destinazione sui beni confluiti nel
fondo stesso, affinché con i loro frutti assicurino il soddisfacimento dei bisogni della famiglia e di
conseguenza, assumendo il contenuto della formazione di patrimonio di scopo, il fondo resta insensibile
all’attrazione alla massa; tuttavia, poichè la costituzione non incide sulla titolarità della proprietà dei beni
stessi, nè implica l'insorgere di una posizione di diritto soggettivo in favore dei singoli componenti del
nucleo familiare, in quanto non è previsto alcun obbligo dei coniugi a provvedere al mantenimento della
famiglia mediante la creazione di tale fondo, questo rimane un atto gratuito in mancanza di qualsiasi
corrispettivo in favore dei costituenti, che incide riduttivamente sulla garanzia generica dei creditori ai sensi
dell'art. 2740 c.c. (Cass., 29-11-2000, n. 15297, Cass., 20-6-2000, n. 8379; Cass., 5-4-2000, n. 4174; Cass.
25-7-1997, 6954;Cass. 2-9-1996, n. 8013; Cass. 18-3-1994, n. 2604; Cass. 28-11-1990 n. 11449).
b.2-Comunione tra coniugi
L’attribuzione alla comunione tra coniugi ex art. 177 c.c. di beni personali dell’imprenditore è stata
considerata atto gratuito revocabile (Cass., 23-1-1990, n. 351; Cass. 17-2-1989, n. 954, contra Cass., 24-51982, n. 3164, poiché atto costituente adempimento di un dovere morale), così come, di contro, la
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convenzione con la quale i coniugi scelgono il regime della separazione dei beni, e la successiva
dichiarazione negoziale con la quale il coniuge non acquirente conferma che il bene non appartiene alla
comunione (App. Trento 6-11-2001 in Giur. merito 2002, 1269 (s.m.).
b.3-Donazione remuneratoria
La figura della donazione remuneratoria, prevista dall'art. 770, 1 comma, c.c., è caratterizzata dalla rilevanza
giuridica che assume il "motivo" dell'attribuzione patrimoniale, correlata specificamente ad un precedente
comportamento dei donatori, nei cui confronti la liberalità si pone come riconoscenza, apprezzamento di
meriti o "speciale rimunerazione" di attività svolta. Ancorché dominata da tale "motivo", l'attribuzione non
cessa peraltro di essere spontanea, e l'atto conserva la "causa" di liberalità, perché discrezionale, nel
quomodo e nel quantum, non essendovi il donante tenuto né in base ad un vincolo giuridico, nè in
adempimento di un dovere morale o di una consuetudine sociale, con la conseguenza che in nessun caso
l'attribuzione patrimoniale può assumere la qualificazione giuridica di corrispettivo, neppure per la parte
corrispondente al valore del servizio reso (In termini, Cass., 14-2-1997, n. 1411; conf. Cass., 22-2-1995, n.
1989).
b.4-Rinuncia all’eredità
Non configura atto a titolo gratuito la rinuncia all’eredità, impugnabile nelle forme e con i limiti di cui
all’art. 524 c.c. (Cass., 10-8-1974, n. 2395).
Egualmente, qualora il fallito, quale legittimario pretermesso, abbia rinunziato all'azione di riduzione nei
confronti delle disposizioni testamentarie lesive dei propri diritti, il curatore che intenda reagire avverso tale
decisione pregiudizievole degli interessi dei creditori fallimentari, non può ricorrere all'azione revocatoria di
cui all'art. 64 l. fall., ma deve impugnare la rinunzia all'azione di riduzione ai sensi dell'art. 524 c.c., norma
che ancorché dettata per la rinunzia all'eredità deve ritenersi applicabile anche alla rinunzia ai diritti che
spettano al legittimario (Trib. Napoli, 15-10-2003 in Giur. napoletana 2003, 469)
b.5-Garanzie per debito altrui
Ai fini della declaratoria di inefficacia di cui all’art. 64, gli atti di costituzione di garanzia per debito altrui,
reale o personale, vanno distinti in contestuali o non contestuali al sorgere del credito.
I primi sono di natura onerosa. La S.C. ha, infatti anche di recente (Cass. 24-2-2004, n.3615) ribadito che
"con riguardo ad un atto costitutivo di garanzia prestata dal terzo contestualmente alla erogazione di un
credito in favore di altro soggetto, il principio stabilito per l'azione revocatoria ordinaria dall'art. 2901,
secondo comma, c.c.- secondo il quale le prestazioni di garanzia, anche per debiti altrui, sono considerati atti
a titolo oneroso, quando sono contestuali al sorgere del credito garantito- è estensibile anche al sistema
revocatorio fallimentare, essendo tale principio coerente con la natura intrinseca dell'atto (di prestazione di
garanzia), il quale, nei confronti del soggetto erogatore del finanziamento, non può essere considerato
gratuito- con conseguente inapplicabilità dell'art. 64 della l.fall. (salva la revoca ex art. 67, secondo comma,
della legge stessa), perché viene a porsi in relazione di corrispettività con la contestuale erogazione del
credito" (conf. Cass., 25-6-2003, n. 10072; Cass., 7-6-1999, n. 5562; Cass., 2-9-1996, n. 7997; Cass., 20-51987, n. 4608; Cass., 20-5-1985, n. 3085; contra Cass., 28-5-1998, n. 5264).
In questo caso, infatti, non può affermarsi che il soggetto erogatore del credito riceva una prestazione
gratuita, anche se il garante non veda in concreto ricompensata la sua prestazione. Viene in gioco, cioè, non
solo la posizione del terzo concedente la garanzia, ma anche quella del beneficiario della garanzia stessa, in
una valutazione comparativa e bilanciata che porta ad escludere la gratuità quando la garanzia costituisce la
condicio sine qua non dell'operazione creditizia, perché la garanzia, che nella sua fase attuativa individua una
situazione di sussidiarietà, quando non di accessorietà, del credito, nella fase costitutiva può integrare un
presupposto dell'operazione di credito, nel senso che l'operazione stessa non vi sarebbe stata se non vi fosse
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la garanzia (Cass., 5-12-1992, n. 12948). Non sarebbe né ragionevole né equo, pertanto, privare il creditore
di una garanzia senza la quale non avrebbe affatto erogato il credito, rendendola inefficace in nome di
un'eventuale gratuità che non lo coinvolge, posto che egli è del tutto estraneo e indifferente al rapporto tra
garante e garantito.
Ovviamente, l'art. 2901 c.c. fissa una presunzione di onerosità per la prestazioni di garanzia contestuali, ma
non stabilisce affatto una presunzione di gratuità per le prestazioni di garanzia non contestuali, che possono
essere, in relazione alla fattispecie, a titolo oneroso, ed allora rientreranno nella previsione dell’art. 67 l.fall.,
ovvero a titolo gratuito, trovando in tal caso disciplina nell'art. 64 l.fall., come nel caso della mancanza di un
corrispettivo economicamente apprezzabile proveniente dal debitore principale o dal creditore garantito
(Cass., 20-5-1987, n. 4608).
E’ stato, invece, ritenuto oneroso il contratto di prestazione di garanzia ipotecaria per un debito altrui,
qualora il creditore garantito presti corrispettivamente il consenso alla proroga di scadenza del debito del
terzo suo debitore (Cass., 28-9-1991, n. 10161).
Sulla contestualità si rinvia al commento del primo comma dell’art. 67.
b.6-Varie
Sono, altresì, inefficaci il patto di riservato dominio nella vendita di beni mobili, nel caso in cui il patto
stesso sia reso opponibile nei confronti dei terzi con atto scritto successivo alla conclusione del contratto in
forma verbale (Cass., 5-5-1993, n. 5213, Cass., 13-5-1991, n. 5324), il pagamento di debito altrui da parte
del terzo successivamente fallito, che costituisce atto a titolo gratuito nei confronti dell’originario debitore
rimasto estraneo all’atto solutorio (Cass., 21-11-1983, n. 6929), la rinuncia al credito vantato verso la società
da parte del socio di maggioranza successivamente fallito (Cass., 9-1-1987, n. 73).
c-Atti gratuiti non soggetti all’inefficacia
Si è già detto che l’art. 64 sottrae alla declaratoria di inefficacia i regali d’uso e gli atti compiuti in
adempimento di un dovere morale o a scopo di pubblica utilità, purché vi sia proporzione tra la liberalità ed
il patrimonio del donante.
Per quanto attiene il requisito della “proporzione” tra l’atto gratuito ed il patrimonio del fallito, è opinione
dominante che il giudizio di proporzionalità debba tenere conto del patrimonio del fallito al netto delle
passività esistenti al momento dell’atto (Cass., 7-4-1972, n. 1045). La giurisprudenza di legittimità, in tema
di adempimento di un dovere morale, ha, inoltre, affermato la necessità di accertare sia l’esistenza della
situazione tale da integrare, nella sua oggettività, gli estremi del dovere morale, sia che lo scopo perseguito
dal solvens fosse stato effettivamente quello di adempiere al dovere morale (Cass., 29-5-1999, n. 5268; Cass.
24-5-1982, n. 3164).
Per quanto attiene ai regali d’uso, il criterio di quantificazione viene solitamente individuato nelle donazioni
di modico valore, di cui all’art. 783 c.c. (Cass., 13-5-1987, n. 4394). Per atti compiuti a scopo di pubblica
utilità devono intendersi gli atti che, non potendo essere ricompresi tra i regali d’uso e gli atti compiuti in
adempimento di un dovere morale, costituiscono adempimento di principi di solidarietà sociale.
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3-La revocatoria di cui all’art. 67 l.fall.
3.1-Caratteristiche generali
a-Il danno
La dottrina tradizionale ritiene che un atto sia soggetto a revocatoria solo se ed in quanto abbia apportato un
pregiudizio al patrimonio del debitore poi fallito, che può essere costituito anche dalla lesione della par
condicio provocata dall’atto revocando (tesi indennitaria). Negli anni settanta è stata prospettata la funzione
redistributiva della revocatoria fallimentare in quanto ha lo scopo di ripartire la perdita normalmente
derivante dall’insolvenza accertata dalla sentenza dichiarativa di fallimento, non solo tra i creditori esistenti
al momento della sentenza, ma tra una collettività più ampia, comprensiva anche di coloro che hanno avuto
causa dal fallito prima del fallimento, quale rimedio rivolto a ripristinare la parità di trattamento tra tutti i
creditori, pur nel rispetto delle eventuali cause di prelazione, e, quindi, mirante a garantire il rispetto della par
condicio creditorum. E’ questo il sunto della tesi antindennitaria, per la quale, quindi, la revocatoria
fallimentare non ha tra i suoi presupposti il danno causato dall’atto impugnato, tendendo, appunto a ripartire
la perdita tra i creditori, per cui possono essere assoggettati a revocatoria anche atti che non hanno causato
pregiudizio o addirittura hanno portato ad un incremento del patrimonio del fallito rispetto alla consistenza
precedente al compimento dell’atto.
La giurisprudenza, pur continuando ad individuare nel danno uno dei presupposti della revocatoria
fallimentare, ritiene anche che non è necessario l’accertamento dell’effettivo pregiudizio della massa dei
creditori, essendo questo presunto, fatta salva, peraltro, la possibilità di una prova contraria a tale
presunzione, così sfumando l’onere probatorio a carico della curatela. Nell’applicazione giurisprudenziale è,
quindi, fortemente sfumata la differenza tra la tesi indennitaria e antindenniataria, conseguenza inevitabile
nel momento in cui il legislatore ha ammesso la revoca dei pagamenti e la giurisprudenza ha, come si vedrà
meglio in seguito, ritenuto il pagamento un atto autonomamente revocabile indipendentemente dalla revoca
dei contratti sottostanti; scomposto, infatti, un rapporto sinallagmatico nelle sue varie componenti, il
pagamento come atto autonomo è sempre necessariamente dannoso, nel mentre, se inserito nel contesto in
cui è stato effettuato, poteva non essere pregiudizievole in considerazione della controprestazione ricevuta.
O, almeno, lo è il pagamento di un creditore chirografario, ove il pregiudizio nasce dal soddisfacimento
parziale ottenuto da un creditore a danno degli altri qualora l’attivo sia insufficiente alla integrale
soddisfazione di tutti.
Ricondotta la lesione della par condicio nella più ampia categoria del pregiudizio, si spiega perchè la
giurisprudenza dica che per i creditori il danno è presunto concretandosi nella stessa lesione della par
condicio (Cass., 30-3-2000, n. 3878; Cass., 19-2-1999, n. 1390). Si tratta, tuttavia, di presunzione iuris
tantum, restando a carico del convenuto la dimostrazione dell’inesistenza del pregiudizio alla massa
fallimentare (Cass., 15-12-1997, n. 9146; Cass., 12-11-1996, n. 9908; Cass. 16-9-1992, n. 10570)- mentre è
precluso al giudice qualunque accertamento d’ufficio (Cass., 16-10-1987, n. 7649; Cass., 19-2-1999, n.
1390).
In realtà, posto che la prova della sussistenza del danno negli atti a titolo oneroso è anch’essa implicita e
comunque verificabile solo in sede di riparto finale, il riferimento alla assenza o meno del pregiudizio viene
dalla giurisprudenza quasi esclusivamente riferito alla revoca dei pagamenti ai creditori assistiti da
prelazione. In questi casi, e, in particolare, nella revocatoria dei pagamenti assistiti da garanzia ipotecaria, si
dice che la revocatoria deve ritenersi ammissibile se il curatore provi che, ad onta della garanzia, sussista
ugualmente il pregiudizio per la massa e cioè che il credito soddisfatto non troverebbe comunque capienza
totale o parziale per la concorrenza di crediti privilegiati poziori (Cass. 19-7-2000, n. 9479; Cass. 15-9-1997,
n. 9146; Cass. 8-3-1993, n. 2751; Cass. 18-1-1991, n. 495). In questi casi, cioè, l’interesse ad azionare la
revocatoria sussiste soltanto se e nei limiti in cui il curatore dimostri che il creditore, senza quel pagamento,
non avrebbe trovato capienza, in tutto o in parte, sul ricavato del bene cui la garanzia si riferisce, in ragione
della sua insufficienza ovvero della concorrenza su di esso di crediti privilegiati poziori; quel pagamento,
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pertanto, è pregiudizievole per la massa ove non abbia permesso la soddisfazione di creditori di grado
poziore rispetto al creditore ipotecario soddisfatto.
Il punto di arrivo di questo faticoso cammino si trova riassunto nella sentenza della S.C. del 12.9.2003, n.
13443, per la quale “in tema di fallimento, il legislatore, nel dettare le norme di cui all'art. 67 commi 1 e 2 l.
fall., ha ipotizzato, all'interno della stessa revocatoria fallimentare, due diverse fattispecie, sul presupposto
che il concetto di danno possa assumere, rispetto agli atti a titolo oneroso, una portata diversa, sancendo così,
con l'art. 67 comma 2, il principio di una più incisiva indisponibilità (relativa) del patrimonio nell'imminenza
della dichiarazione del fallimento del suo titolare, sicché il concetto di "eventus damni", in tal caso, lungi
dall'essere correlato ad una sproporzione delle prestazioni, consiste nella lesione della "par condicio",
presunta per il fatto stesso del compimento di un atto dispositivo che vincoli le possibilità liquidative e
satisfattive della massa dei creditori”. Da tanto si può ricavare il principio che il danno va individuato nella
creazione dello stato di insolvenza, nel suo aggravamento, nel depauperamento, nel peggioramento delle
condizioni del patrimonio o, più semplicemente, nella lesione della par condicio.
Tra le ipotesi nelle quali la giurisprudenza, in applicazione dei menzionati principi, ha escluso la revocabilità
per difetto del danno, si possono ricordare la vendita il cui prezzo sia stato integralmente destinato al
soddisfacimento di creditori aventi garanzia reale consolidata sul bene stesso (Cass., 18-1-1991, n. 495;
Cass., 28-4-1975, n. 1626), il pagamento effettuato dal terzo che si è rivalso sul debitore fallito in moneta
fallimentare (Cass., 22-3-1991, n. 3110), i versamenti in conto corrente effettuati dal terzo in adempimento
di un proprio obbligo fideiussorio nei confronti della banca creditrice (Cass., 11-9-1998, n. 9018), spettando
in siffatte ipotesi al curatore l’onere di provare che la massa ha comunque subito un danno (Cass., 8-3-1993,
n. 2751; Cass., 18-1-1991, n. 495).
b-Il consilium fraudis
Nella revocatoria fallimentare non è richiesto, a differenza che in quella ordinaria, il consilium fraudis e,
cioè, la volontà del debitore di danneggiare i creditori, stante la connessione tra atto revocando e momento
temporale in cui l’atto è compiuto. Ossia l’atto compiuto nel periodo sospetto si presume, senza possibilità di
prova contraria, che sia stato compiuto dal debitore insolvente nella consapevolezza che esso quanto meno
aggravi lo stato di insolvenza, sicchè dei tre elementi della revocatoria ordinaria (consilium fraudis,
partecipatio fraudi e eventus damni) rimane da provare la partecipatio fraudi, intesa come conoscenza dello
stato di insolvenza da parte del terzo. Anche questa condizione, tuttavia, come si vedrà, in alcuni casi è
presunta e compete al terzo dimostrare la inscientia decotionis.
c-Il periodo sospetto
Il periodo sospetto è indicato dalla legge in uno o due anni a seconda del tipo di atto interessato che, come si
vedrà esaminando le singole fattispecie, è collegato alla conformità rispetto alla normale attività di impresa,
avendo il legislatore ritenuto che l’insolvenza non è uno stato che si crea all’improvviso ma si forma via via,
per cui preesiste già da qualche tempo alla dichiarazione di fallimento.
Il termine a ritroso del quale vanno computati gli atti inizia con la data del deposito della sentenza
dichiarativa di fallimento, non avendo alcun rilievo la data di deliberazione in camera di consiglio o quella di
comunicazione della sentenza o quella di affissione della stessa.
E’ pacifica e costante la giurisprudenza nell’affermare che nell'ipotesi di successione della procedura
fallimentare a quella di amministrazione controllata, il computo a ritroso del cosiddetto "periodo sospetto"
decorre dalla data del decreto di ammissione alla prima procedura e non da quella della dichiarazione di
fallimento, atteso che il presupposto dell'ammissione all'amministrazione controllata è del tutto analogo a
quello del fallimento, senza che spieghi influenza la circostanza che tra le due procedure sia intercorsa
soluzione di continuità, atteso che la continuità tra le procedure non si risolve in un mero dato temporale,
configurandosi, per converso, come fattispecie di consecuzione (più che di successione) tra esse, il fallimento
rappresentando lo sviluppo della condizione di dissesto che diede causa all'amministrazione controllata (cfr.
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da ult. Cass. 16-4-2003, n. 6019). Concetto ancor più valido in caso di consecuzione del fallimento al
concordato preventivo per l’identità del presupposto oggettivo dell’insolvenza ed esteso a tutte le ipotesi di
consecuzione delle procedure concorsuali, delle quali la prima sia un'amministrazione controllata e l'ultima
della serie una procedura il cui presupposto oggettivo sia costituito dallo stato d'insolvenza.
Nel caso che dopo la dichiarazione di fallimento dell'imprenditore individuale venga scoperta l'esistenza di
una società di fatto fra lo stesso imprenditore ed altri soci, o che dopo la dichiarazione di fallimento di una
società con soci a responsabilità illimitata l'esistenza di altro socio con responsabilità illimitata,
giurisprudenza risalente aveva ritenuto che gli effetti della sentenza successiva si producono, anche ai fini
della esperibilità dell'azione revocatoria, ex nunc, in virtù del carattere autonomo che va riconosciuto
all'ultima dichiarazione di fallimento (cfr, tra le altre, Cass., 10-8-1991, n. 8757; Cass., 6-11-1985, n. 5394;
Cass. 11-11-1977, n. 4883; Cass. 15-3-1961, n. 583), ma la S.C. ha rimeditato la questione, alla luce dei
rilievi espressi in dottrina e nella giurisprudenza di merito alla soluzione in precedenza adottata, affermando
che, ai fini della determinazione del periodo sospetto, deve prendersi in considerazione la data della prima
dichiarazione di fallimento (Cass., 1-8-1996, n. 6971) e non quella della successiva dichiarazione.
d-La prescrizione
Il termine di prescrizione dell’azione revocatoria fallimentare è quello ordinario quinquennale di cui all’art.
2903 c.c., con decorrenza dalla data della dichiarazione di fallimento in quanto quest'azione può essere
esercitata soltanto in virtù ed a seguito dell'apertura della procedura concorsuale. Questo spiega perchè,
invece, la prescrizione dell’azione revocatoria ordinaria prevista dall'art. 66, l. fall.- che si identifica con
l'azione che i creditori, anteriormente alla dichiarazione di fallimento, possono esercitare ai sensi degli art.
2901 ss., c.c., in riferimento agli atti di disposizione del patrimonio posti in essere dal debitore in pregiudizio
delle loro ragioni- decorre dalla data dell'atto impugnato; quest’azione, infatti, preesisteva al fallimento e
resta disciplinata, quanto ai presupposti, dalle norme del codice civile, rilevando l'apertura della procedura
concorsuale al fine dell'attribuzione della sua cognizione al tribunale fallimentare, dell'estensione dei suoi
effetti a vantaggio di tutti i creditori ammessi al passivo e dell'attribuzione al curatore della esclusiva
legittimazione a proporla, ovvero a proseguirla, restando quindi escluso che la dichiarazione di fallimento
identifichi il giorno dal quale il diritto può essere fatto valere, che segna invece il "dies a quo" della
prescrizione dell'azione revocatoria fallimentare (Cass. 5-12-2003, n. 18607).
Stante la natura costitutiva dell’azione, nel termine indicato deve essere proposta l’azione, non essendo
sufficiente, come già detto, ad interrompere la prescrizione la messa in mora stragiudiziale.
e-Determinatezza dell’oggetto della domanda revocatoria
Una volta scelta la fattispecie giuridica di riferimento, la domanda, come già accennato, deve avere un
petitum ben preciso e determinato. La questione si pone non tanto per l’impugnazione di singoli atti, quanto
per la revocatoria di pagamenti, in particolare delle rimesse bancarie per le quali la Cassazione (Cass.
18.4.2003, n. 6309) riprendendo l’indirizzo prevalente tra i giudici di merito, ha affermato che la “citazione è
nulla per incertezza del petitum allorché, dall’esame complessivo dell’atto, esteso anche alla parte espositiva,
non sia identificabile o risulti sommamente incerto il bene giuridico al cui conseguimento tende l’azione
proposta”, sicché è nullo l’atto di citazione per assoluta indeterminatezza dell’oggetto della domanda ove sia
chiesta la revoca di tutti i versamenti aventi natura solutoria effettuati dal debitore sui conti correnti
intrattenuti con la banca e di tutte le operazioni qualificabili come contratti mediante le quali il debitore
aveva ceduto alla banca a titolo oneroso, crediti, titoli mobiliari, secondo le risultanze che sarebbero emerse
dal conto bancario.
Con successiva sentenza, tuttavia, la S.C. /Cass. 12.11.2003, n. 17023) ha ribaltato questa posizione,
ritenendo che anche quando il curatore non indichi partitamente ogni singola rimessa di cui chiede la revoca,
ma abbia comunque l’accortezza di specificare i numeri dei conti correnti bancari sui quali siano affluite le
rimesse nel periodo sospetto preso in considerazione e il totale delle stesse oggetto di revoca, l’atto di
citazione non è affetto da nullità per indeterminatezza del petitum. In sostanza la domanda di revoca di tutte
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le rimesse affluite sul conto corrente n. tot, nell’anno anteriore alla dichiarazione di fallimento, per l’importo
complessivo di € tot, non è affetta da nullità, secondo questo indirizzo.
E’ consigliabile, comunque, in vista di una revocatoria da espletare da indicare esattamente i singoli atti o le
singole rimesse solutorie che dovranno essere oggetto di impugnazione, in modo da consentire al g.d. una
valutazione completa al momento dell’autorizzazione e al legale nominato di non fare richieste generiche che
potrebbero subire la sorte inizialmente indicata.
3.2-Le singole fattispecie revocatorie
3.2.1-Il primo comma dell’art. 67 l.fall.
Il 1° comma dell’art. 67 prevede quattro tipologie di atti revocabili, caratterizzate tutte dalla anormalità dei
rapporti presi in considerazione, valutata dal legislatore quale indice presuntivo dello stato di insolvenza
dell’imprenditore successivamente fallito e della conoscenza di detto stato da parte del terzo.
a-I num. 1 e 2 del primo comma dell’art. 67 l.fall.
L’aspetto appena indicato è particolarmente evidente nelle fattispecie di cui ai primi due numeri dell’art. 67.
Il n. 1 stabilisce, infatti, la revocabilità degli atti a titolo oneroso compiuti nei due anni anteriori alla
dichiarazione di fallimento in cui le prestazioni eseguite o le obbligazioni assunte dal fallito sorpassano
notevolmente la controprestazione del terzo; il n. 2, invece, contempla la revocabilità del pagamento nei due
anni anteriori alla dichiarazione di fallimento di debiti pecuniari scaduti ed esigibili non effettuata con denaro
o con altri mezzi normali di pagamento (estesa, in via di interpretazione ai pagamenti con mezzi anormali di
debiti non ancora scaduti all’epoca del loro soddisfacimento, purché aventi scadenza anteriore alla
dichiarazione di fallimento- Cass., 6-2-1999, n. 1036; Cass., 30-3-1981, n. 1816).
In entrambi questi casi si presume che il terzo avesse conoscenza dello stato di insolvenza del fallito per la
posizione di debolezza del fallito che ha agevolato la speculazione altrui; chi specula su tale debolezza o
accetta pagamenti anormali non può, secondo una logica considerazione, tradotta nella citata presunzione,
non sapere o, quanto meno, non intuire che la controparte è ridotta in condizioni economiche critiche. In
entrambi i casi, quindi, il curatore fallimentare che agisce in revocatoria ha solo l’onere di provare il
compimento dell’atto revocando nel biennio anteriore alla dichiarazione di fallimento e che esso è
caratterizzato dalla lamentata sproporzione tra le prestazioni o dalla anormalità del mezzo di pagamento.
a.1-la notevole sproporzione
Con più specifico riferimento alla prima fattispecie, il concetto di notevole sproporzione non è collegato a
criteri fissi o parametri, conseguentemente, la valutazione della sproporzione, che deve essere fondata
sull’approfittamento del contraente in bonis, viene rimessa caso per caso all’apprezzamento del giudice con
apprezzamento di fatto che, se logicamente e congruamente motivato, è sottratto al sindacato di legittimità
(Cass., 9-4-1998, n. 3677; Cass., 15-3-1994, n. 2471; Cass., 6-11-1986, n. 6501) ed è riferita all’epoca di
conclusione dell’atto, senza che possano assumere rilievo circostanze che successivamente abbiano fatto
cessare lo squilibrio tra le prestazioni (Cass., 19-4-1995, n. 4408).
La giurisprudenza di merito ha generalmente riconosciuto la sproporzione rilevante ai fini della revocatoria
nei casi in cui lo squilibrio tra le prestazioni non sia inferiore al quarto, pur affermando che il prezzo di
mercato non costituisce l’esclusivo criterio di riferimento, dovendosi anche tenere conto di altri criteri
rilevanti nell’ordinaria prassi commerciale, quali la variabilità del prezzo e della maggiore o minore offerta
del bene.
Il convenuto in revocatoria potrà opporre la simulazione relativa del prezzo. La prova del maggior prezzo
dissimulato deve essere, però, fornita con documento di data certa anteriore al fallimento che consenta di
dimostrare non solo il pagamento in favore dell’imprenditore fallito del maggiore importo, ma anche il
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collegamento di tale versamento con l’atto revocabile (Cass., 15-9-2000, n. 12172; Cass., 26-9-1996, n.
8500; Cass., 30-1-1995, n. 1110; Cass., 22-5-1993, n. 5792).
a.2-il pagamento con mezzi anormali
La graduazione dell'incisività della tutela dei creditori soddisfatti non è correlata nel sistema fallimentare alla
doverosità o meno dell'atto, ma alla anormalità dell'atto estintivo (ciò anche per l'ipotesi di cui all'art. 65
L.F.), che giustifica un diverso regime della prova della scientia decotionis: maggiore tutela a chi ha ricevuto
quanto dovuto in pagamento di un debito liquido ed esigibile, con onere della prova della scientia decotionis
a carico del curatore; minore tutela a chi ha ricevuto quanto dovuto con mezzi anormali, con onere della
prova della inscientia decotionis a carico del creditore; minore ancora ha chi ha ricevuto il pagamento di un
credito non scaduto, inefficace di diritto, in quanto, in questo caso, l'atto estintivo presenta caratteri tali di
anormalità da essere per se stesso rilevatore dell'insolvenza.
Con riferimento al pagamento effettuato con mezzi anormali, l’anormalità del mezzo di pagamento deve
essere valutata in relazione agli usi commerciali (Cass., 28-11-1984, n. 6185), per cui sono stati ritenuti
mezzo normale di pagamento, oltre il denaro, la cambiale, anche se girata, purché non produca gli effetti di
una mera cessione di credito (Cass., 19-6-1981, n. 4018; Cass., 2-6-1978, n. 2761), i vaglia cambiari, gli
assegni bancari, anche se postdatati (Cass., 6-12-1976, n. 4033; Cass., 3-9-1976, n. 3082).
Permangono in giurisprudenza posizioni differenziate in merito al fatto se il sindacato sull’anormalità del
mezzo di pagamento debba essere condotto in astratto, ovvero in concreto, con riferimento alla singola
vicenda ed al contesto commerciale nel quale abbiano agito le parti, dandosi rilievo, ad esempio, al fatto che
la modifica delle condizioni contrattuali di pagamento non comporta, di per sé, un’anomalia del rapporto.
-Fattispecie tipica della revocabilità del pagamento effettuato con mezzi anormali è la datio in solutum di cui
all’art. 1197 c.c., giacchè la liberazione del debitore dalle proprie obbligazioni mediante l’esecuzione di una
prestazione diversa da quella originariamente pattuita è ritenuto indice sintomatico dell’incapacità
dell’imprenditore successivamente fallito di adempiere regolarmente le proprie obbligazioni (Cass., 9-121985, n. 6217). E’ stato, peraltro, precisato che affinché sia possibile raffigurare nell’atto revocando una
forma di pagamento anormale, qualificabile come datio in solutum, è necessario accertare che la prestazione
perseguiva una finalità satisfattoria del debito del fallito (Cass., 13-7-1999, n. 7406). Tra le più ricorrenti
ipotesi di datio in solutum vi è la restituzione, anche parziale, della merce acquistata e non ancora pagata
eseguita dal compratore successivamente fallito al fine di sanare ogni pregresso rapporto (Cass., 8-1-2001, n.
193; Cass., 24-7-2000, n. 9690; Cass., 2-6-1999, n. 5356); occorre tuttavia accertare quale sia stata la reale
volontà delle parti, atteso che la restituzione delle merci potrebbe essere state effettuata, anziché con finalità
satisfattiva, a seguito di risoluzione consensuale del contratto (Cass., 8-5-1992, n. 5512; Cass., 8-78-1985, n.
4069), nel qual caso, ricorrendone i presupposti di legge, potrà costituire oggetto di revocatoria, ex art. 67,
2° comma l.fall., la risoluzione del contratto.
-Un’ulteriore fattispecie di pagamento effettuato con mezzi anormali è stata individuata nel mandato in rem
propriam all’incasso di crediti nei confronti di un terzo con il conferimento della facoltà di utilizzare le
omme incassate per l’estinzione, totale o parziale, di un debito verso il mandatario, anche se tale pattuizione
è coeva al sorgere del rapporto principale (Cass. 13-4-2000, n. 4754; Cass., 4-11-1998, n. 11057; Cass., 8-51998, n. 4688).
-E’ stato altresì affermato che, qualora l'imprenditore successivamente dichiarato fallito abbia stipulato un
contratto di mutuo, convenendo l'apertura di un conto corrente bancario e l'attribuzione al mutuante della
facoltà di prelevare le somme su questo versate al fine di ridurre pregresse passività soddisfare, questa
pattuizione conferisce all'intera operazione, costituita dai negozi collegati, carattere anormale e,
conseguentemente, gli atti di estinzione del debito nei confronti del mutuante configurano mezzi anomali di
pagamento (Cass. 19-11- 2003, n. 17540; Cass., 13-7-1994, n. 6569; Cass., 25-2-1993, n. 2330).
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-Parimenti, è stata riconosciuta la revocabilità della cessione di credito effettuata con finalità solutoria (Cass.,
3-2-1987, n. 950; Cass., 17-5-1982, n. 3047), fatto salvo il caso in cui la cessione di credito sia stata prevista
come mezzo di estinzione contestuale al sorgere del debito con essa estinto (Cass., 5-7-1997, n. 6047, contra
Cass., 25-7-1987, n. 6467), dovendosi precisare che oggetto della revocatoria è il contratto di cessione e non
il pagamento effettuato dal debitore ceduto, con la conseguenza che per il computo del “periodo sospetto”
occorre avere riguardo alla data delle cessione del credito (Cass., 18-8-1992, n. 9603) e che il debitore ceduto
non è litisconsorte necessario (Cass., 10-11-1992, n. 12091; Cass., 22-9-1978, n. 4523).
-E’ stata, inoltre, affermata la revocabilità della delegazione di pagamento (Cass., 27-6-1994, n. 6149; Cass.,
19-7-1980, n. 4745); della cessione dei beni ai creditori (Cass., 17-12-1981, n. 6675); della compensazione
volontaria se il pactum de compensando non era contenuto negli accordi contrattuali che hanno originato
l’obbligazione estinta per compensazione, mentre si esclude la revocabilità della compensazione legale
(Cass., 16-9-1986, n. 5621; Cass., 23-5-1986, n. 3447).
b-I num. 3 e 4 del primo comma dell’art. 67 l.fall.
Il 1° comma dell’art. 67 ai numeri 3 e 4 assoggetta a revocatoria, rispettivamente, i pegni, le anticresi e le
ipoteche volontarie costituiti nei due anni anteriori alla dichiarazione di fallimento per debiti preesistenti non
scaduti ed i pegni, le anticresi e le ipoteche giudiziali o volontarie (elencazione ritenuta non tassativa,
potendo essere assoggettate a revocatoria anche garanzie atipiche quali, ad esempio, il pegno su merci- Cass.,
5-2-1982, n. 652) costituiti entro l’anno anteriore alla dichiarazione di fallimento per debiti scaduti.
La graduazione dell'incisività della tutela dei creditori garantiti è correlata esclusivamente al momento in cui
viene costituita la garanzia rispetto al credito garantito: maggiore tutela a chi ha ricevuto la garanzia
contestualmente al sorgere del credito, con onere della prova della scientia decotionis a carico del curatore
(art. 67, comma 2); minore tutela a chi ha ricevuto la garanzia per un credito preesistente scaduto, con onere
della prova della inscientia decotionis a carico del creditore (art. 67, comma 1, n. 4); minore ancora a chi ha
ricevuto la garanzia per un debito preesistente non ancora scaduto, nel qual caso vige lo stesso criterio
presuntivo probatorio ma il periodo sospetto si estende al biennio e non all'anno anteriore alla dichiarazione
di fallimento (art. 67, comma 1, n. 3).
In realtà, anche in tema di garanzie, il motivo che ha spinto il legislatore ad attuare una maggiore o minore
tutela al creditore garantito è quello comune in tema di revocatoria, e cioè la maggiore o minore "normalità"
dell'atto compiuto oggetto di revoca, quale rilevatore della sussistenza e della conoscenza dello stato di
insolvenza. E' questo principio che spiega perchè la concessione della garanzia contestualmente alla
concessione del credito subisca un trattamento più rigoroso sotto il profilo revocatorio: perchè essa è indice
di una normalità operativa, nell'ambito della normale cautela di chi intenda adeguare le condizioni di rischio
alle situazioni personali e patrimoniali del debitore. Dalla normalità di tale operazione non può, quindi,
derivare alcuna presunzione di conoscenza da parte del creditore della situazione di insolvenza del debitore
che, pertanto, deve essere oggetto dell'onere probatorio posto a carico del curatore, giusto il disposto del
secondo comma dell'art. 67. Più sintomatico di una situazione di crisi del debitore e della conoscenza della
stessa è la richiesta del creditore di un rafforzamento della garanzia generica nel corso del rapporto di
credito già precostituito, perchè essa vuol dire che le originarie condizioni di rischio, liberamente accettate
nel concedere il credito, hanno subito un peggioramento, tanto che il creditore è disposto a continuare il
rapporto solo a fronte di una copertura del rischio. La sistematicità dell'insolvenza espressa dalla richiesta di
garanzia per crediti preesistenti alla garanzia stessa, giustifica la presunzione agevolativa della prova inerente
alle fattispecie revocatorie del primo comma dell'art. 67.
Nell'ambito di queste fattispecie, già individuate dalla non con testualità della garanzia, è ancora la rilevanza
sintomatica del comportamento che giustifica la diversa regolamentazione dei num. 3 e 4, perchè diverso è il
valore che assume l'acquisizione della garanzia a seconda che avvenga in presenza dell'inadempimento del
debitore o no (in questo traducendosi il riferimento all'avvenuta scadenza o non dei crediti preesistenti al
momento della costituzione della garanzia, che distingue le due ipotesi normative richiamate). E' indubbia,
infatti, la maggiore sospettabilità del comportamento del creditore che richieda la garanzia per un credito
15
preesistente non ancora scaduto, prima, cioè, che si manifesti l'inadempimento, perchè vuol dire che vi sono
stati dei segnali di allarme sulla realizzabilità del credito; e questa situazione di maggior sfavore per il
creditore si è tradotta, sul piano normativo, nell'estensione a due anni del periodo sospetto.
Questo meccanismo revocatorio non fa riferimento, come si vede, alla onerosità e gratuità della garanzia, ma
questo si spiega non con l'irrilevanza ai fini revocatori della natura gratuita o meno dell'atto costitutivo, ma
con il fatto che l'inefficacia degli atti gratuiti è contemplata nell'art. 64 e non nell'art. 67 l.fall, di modo che,
dal punto di vista sistematico, si può dire che le garanzie non contestuali se sono a titolo gratuito rientrano
nella previsione dell'art. 64, nel mentre se sono a titolo oneroso, rientrano nella previsione dell'art. 67 comma
1°, nn. 3 o 4, e che le garanzie contestuali, invece, sono sempre a titolo oneroso, in forza della equiparazione
fatta dal secondo comma dell'art. 67 (con una disposizione che ricalca sostanzialmente il precetto contenuto
nel secondo comma dell'art. 2901 c.c.) agli atti a titolo oneroso di quelli costitutivi di un diritto di prelazione
per debiti contestualmente creati (Cass., 7-6-1999, n. 5562; contra Cass.28-5-1998, n. 5264).
E’ pacifico che nel “periodo sospetto”, annuale o biennale, deve intervenire la costituzione della garanzia,
indipendentemente dalla data, eventualmente diversa, della sua concessione posto che l'ipoteca volontaria si
ha per costituita con l'iscrizione nei registri immobiliari, e non invece con l'atto di concessione, il quale ha
efficacia solo inter partes e non fa sorgere la prelazione, e che al momento dell'iscrizione ipotecaria deve
pure farsi riferimento per l'accertamento della scientia decotionis nonchè dalla preesistenza e scadenza
del credito.
La revocatoria della garanzia, che può essere esercitata anche per ottenere la declaratoria di inefficacia dei
titoli di prelazione costituiti dal debitore per garantire debiti altrui, non comporta le revoca del credito a
tutela del quale la garanzia stessa è stata erogata, che sarà degradato a rango chirografario.
b.1-La contestualità
Centrale, quindi, è sempre la questione della contestualità della costituzione della garanzia con il credito
garantito e si può dare per pacifico che la contestualità va intesa non come contemporaneità o simultaneità
cronologica, bensì come simultaneità logico-volitiva, nel senso che l'obbligazione principale e quella
garantita devono risultare essere state contemporaneamente volute dalle parti nel contesto della
regolamentazione di un determinato rapporto patrimoniale, pur se poste in essere con atti separati (cfr. da ult.
Cass. 24-2-2004, n. 3615).
-Ciò che rileva, per poter stabilire se la prestazione della garanzia fu contestuale all'erogazione del credito, è
la riferibilità della fideiussione a un rischio già assunto (cass. 24-2-2004, n. 3615; Cass., 5-12-1992, n.
12948). Vero è che, secondo una risalente tradizione giurisprudenziale, "in tema di azione revocatoria
fallimentare, qualora la garanzia sia stata costituita in parte con incidenza su di un debito preesistente ed in
altra parte in funzione di un debito contestualmente venuto in essere, il regime presuntivo di cui al primo
comma dall'art. 67 legge fall. opera in ordine all'intero rapporto" (Cass., 30-1-1998, n. 969); sicché, "agli
effetti della revocatoria fallimentare non può ritenersi contestuale al debito l'ipoteca concessa alla banca in
occasione dell'aumento del fido, se tale operazione si inserisca in un rapporto di conto corrente già
preesistente" (Cass., 17-10-1973, n. 2622). Tuttavia la giurisprudenza più recente esclude certamente che
possa considerare contestuale al debito la garanzia concessa alla banca in occasione dell'aumento del fido,
ma "quando esista già una situazione debitoria della banca corrispondente al fido poi aumentato, giacché il
concetto di contestualità deve essere inteso non in senso formale o semplicemente cronologico, bensì in
senso preminentemente sostanziale e causale" (cass. 24-2-2004, n. 3615; Cass., 9-5-2000, n. 5845; Cass. 298-1995, n. 9075). Sicché la riferibilità della garanzia (anche) al rischio già assunto, vale a dire al credito
preesistente, va accertata in concreto, avendo riguardo alla specifica genesi del singolo contratto. E la
conseguente indivisibilità della garanzia non va affermata come astratta necessità, bensì come mera
eventualità da verificare in concreto: può essere affermata solo come risultato di una ricostruzione
dell'effettiva destinazione dal contratto nella complessiva economia dei rapporti correnti tra la parti.
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-La giurisprudenza ha, altresì, affermato che la sostituzione convenzionale della garanzia effettuata in
applicazione del c.d. patto di rotatività (o pegno rotativo, cfr. art. 34, comma 2, d.lgs. n. 213/98), in virtù del
quale si prevede sin dall’origine la sostituzione, in tutto od in parte, dei beni che costituiscono oggetto di
pegno nella continuità dell’originario rapporto di garanzia, non determina il perfezionamento di un’autonoma
prestazione di garanzia, purché la sostituzione dell’oggetto garantito avvenga entro i limiti di valore dei beni
originariamente dati in pegno (Cass. 27-9-1999, n. 10685; Cass., 28-5-1998, n. 5264). Anche in tale ipotesi,
pertanto, ai fini dell’esperibilità dell’azione revocatoria, la genesi del diritto reale di garanzia deve essere
individuato nell’originaria stipulazione contrattuale della garanzia e non nella successiva sostituzione dei
beni che compongono la stessa (Cass., 27-5-1999, n. 10685).
-Per i casi di mutui ipotecari stipulati a copertura di precedente anticipazione bancaria, senza che il
mutuatario acquisisca la "disponibilità" dell'importo erogato, è stata affermata la revocabilità della garanzia
reale (Cass., 9-5-2000, n. 5845; Cass., 21-12-1998, n. 12740), ma questa tesi è stata criticata fortemente in
dottrina e rivista dalla Cassazione, come in precedenza ricordato parlando delle ipotesi di pagamento con
mezzi anormali.
3.2.2-Il secondo comma dell’art. 67 l.fall.
Il secondo comma dell’art. 67 prevede, con formula onnicomprensiva, l’assoggettabilità a revocatoria dei
pagamenti di debiti liquidi ed esigibili, degli atti a titolo oneroso e di quelli costitutivi di diritti di prelazione
per debiti contestualmente creati, se compiuti entro l’anno anteriore alla dichiarazione di fallimento. Gli atti
giuridici revocandi, come si vede, non sono atti anomali ma sono quelli rientranti nel normale esercizio
dell’impresa e di per sè non significativi dello stato di insolvenza dell’imprenditore che li compie, che sono
soggetti a revocatoria in quanto, come già accennato, producono comunque un depauperamento per i
creditori o alterano la par condicio; questo spiega perchè il regime della prova circa la conoscenza dello stato
di insolvenza sia quello normale che rimette a carico dell’attore la prova dei fatti costitutivi della domanda.
In questo caso, pertanto, Il curatore fallimentare che agisce in revocatoria dovrà, oltre che fornire la prova
del fatto storico del compimento nel “periodo sospetto” dell’atto revocando, dimostrare che il convenuto in
revocatoria fosse a conoscenza dello stato di insolvenza in cui versava il debitore successivamente fallito
all’epoca dell’atto, senza poter beneficiare del regime delle presunzioni di scientia decotionis previste dal 1°
comma della norma.
a-Gli atti a titolo oneroso
La norma in commento assoggetta a revocatoria tutti gli atti a titolo oneroso compiuti nell’anno anteriore alla
declaratoria di fallimento, in presenza del requisito della scientia decotionis, con esclusione soltanto degli atti
compiuti per il mantenimento proprio e della propria famiglia. Di conseguenza la casistica giurisprudenziale
è molto variegata e qui è opportuno richiamare quelle decisioni che, per la peculiarità della fattispecie,
presentano un qualche interesse.
a.1-Sono stati ritenuti revocabili:
-la risoluzione consensuale del contratto (Cass., 21-7-1962, n. 2030)
-la risoluzione di diritto conseguente a diffida ad adempiere o attuata in forza di clausola risolutiva espressa
(Trib. Milano 18-4-1994 in Fallimento 94, 879; Trib. Milano 8-6-1989, ivi, 90, 291, e lì richiami)
-il contratto definitivo concluso nell’anno anteriore alla declaratoria di fallimento in adempimento di un
contratto preliminare stipulato antecedentemente (Cass., 18-5-1982, n. 3072);
-la cessione del preliminare di compravendita (Cass., 12-4-1979, n. 2160);
-la cessione di credito quando non abbia natura solutoria (nel qual caso rientra nella previsone del pagamento
con mezzi anormali) (Cass. 3-7-1987 n. 5889); opinioni differenziate sussitono nel caso di cessioni attuate
nell’ambito di un contratto di factoring;
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-il contratto di locazione in caso di fallimento del locatore, sia esso ultra o infra-novennale, che, senza alcuna
distinzione o differenziazione coinvolge tutti gli atti a titolo oneroso (Cass.17-3-1995, n. 3089). Se il
contratto è ultranovennale, esso configura addirittura un atto di straordinaria amministrazione, idoneo di per
sè ad alterare in senso peggiorativo la garanzia patrimoniale offerta dal locatore ai creditori e, pertanto
soggetto all'azione revocatoria, anche se il curatore sia subentrato nel rapporto (Cass.4-5-1996, n. 4143).
Ovviamente, il vittorioso esperimento dell'azione revocatoria da parte del curatore fallimentare rispetto ad un
contratto di locazione stipulato in epoca antecedente al fallimento non incide sulle prestazioni effettuate
anteriormente alla data della domanda di revoca, ma legittima soltanto il curatore stesso a pretendere la libera
disponibilità del bene locato ed il risarcimento dei danni per l'occupazione del bene in epoca successiva alla
predetta data, danni da determinarsi avendo riguardo ai valori correnti del mercato delle locazioni,
indipendentemente dall'ammontare del canone originariamente pattuito (Cass. 11-11-2003, n. 16905).
Eguali principi sono stati estesi alla revocatoria del contratto di affitto di azienda, che, come la locazione,
non ha la funzione di ricostruire il patrimonio fallimentare al fine di sottoporre all'esecuzione fallimentare
beni che ne erano usciti (non avendo l’affitto prodotto questo effetto), ma di far cessare l'affitto, onde
riprendere la libera disponibilità dei beni per alienarli più tempestivamente ed a condizioni più vantaggiose,
essendo indubbio che la presenza di un diritto personale di godimento su determinati beni può comprimere il
valore di realizzo. Per questo motivo la S.C. riconosce che i contratti di affitto di azienda, anche
intranovennali, stipulati prima del fallimento, incidendo negativamente sul valore del bene a cui si
riferiscono, appartengono al novero di quegli atti che sono per se stessi idonei ad alterare in pejus la garanzia
patrimoniale di cui fruiscono i creditori, e pertanto, sono soggetti all'azione revocatoria qualora sussistano le
altre condizioni previste dall'art. 67 della l. fall. (Cass. 17-1-2001, n. 571). La S.C. ha anche chiarito in
queste occasioni la compatibilità di questa soluzione con il subingresso del curatore del fallimento del
locatore nel contratto di affitto da questi stipulato, precisando che l’art. 80 l. fall. rimane applicabile quando
la locazione non sia revocabile in difetto dei requisiti fissati dall’art. 67. Principio pacifico in tema di
locazione di immobili; tra le tante, cfr. Cass. 11-11- 2003, n. 16905; Cass. 4-5-1996, n. 4143; Cass. 17-11996 n. 366).
-la ricognizione di debito ex art. 1988 c.c.
a.2-Sono stati ritenuti non revocabili:
-la risoluzione giudiziale proposta prima della dichiarazione di fallimento del convenuto, a meno che l’attore
in risoluzione fosse a conoscenza dello stato di insolvenza dell’imprenditore poi fallito (Cass., 13-6-1983, n.
4045);
-i provvedimenti del giudice dell'esecuzione determinativi della vendita, della distribuzione e delle
proporzionali assegnazioni delle somme di denaro, nel mentre sono soggetti a revocatoria i successivi e
distinti atti di pagamento (su cui infra, 2.2.2.
-il contratto d’opera intellettuale in forza del quale un professionista abbia prestato la propria attività in
favore del soggetto poi fallito.
b-Le garanzie per debiti contestualmente creati
Con formula altrettanto ampia sono assoggettati a revocatoria gli atti costitutivi di un diritto di prelazione per
debiti contestualmente creati e della contestualità della costituzione della garanzia rispetto al sorgere del
credito, si è già parlato in commento ai num 3.2.1.b, cui si rinvia. Va solo ricordato che l'espressione
adoperata dall'art. 67, comma 2, l. fall. secondo cui sono revocabili, fra l'altro, gli atti "costitutivi di un diritto
di prelazione per debiti contestualmente creati", si riferisce al caso in cui il diritto di prelazione sorga come
effetto giuridico di un atto negoziale diretto a crearlo e, quindi, esclusivamente come effetto di una
dichiarazione di volontà delle parti e non per diretta volontà della legge, come avviene per le ipoteche ed i
privilegi legali, per i quali il creditore ha diritto alla prelazione sin dal momento in cui sorge il suo credito ed
in virtù di una valutazione legale relativa alla causa, mentre l'attività del creditore diretta alla trascrizione del
titolo ha il solo scopo di rendere opponibile il privilegio agli altri creditori. (Cass. 28-5-2003, n. 5844).
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c-Il pagamento di crediti liquidi ed esigibili
Secondo criteri interpretativi consolidati, ai fini della revocatoria prevista nell'art. 67, comma secondo, l.
fall., i pagamenti sono considerati come atti giuridici distinti dal rapporto che ne costituisce la causa e,
pertanto, sono suscettibili di revoca indipendentemente dalla revocabilità dei negozi in adempimento dei
quali essi sono stati effettuati. La legge, ritenuta conforme a costituzione anche di recente (Corte Cost. 27-72000, n. 379), cioè, prevede genericamente, tra gli atti revocabili, i pagamenti di debiti liquidi ed esigibili,
senza distinguere tra pagamenti contestuali e pagamenti anteriori o successivi alla controprestazione,
considerandoli negozi autonomi, svincolati dal rapporto che ne costituisce la causa, in quanto colpisce
l'obiettivo verificarsi di essi come atti perturbatori della par condicio creditorum. Questo orientamento trova
fondamento e giustificazione nel sistema della legge fallimentare, nel quale i pagamenti rilevano nella loro
obiettiva ed intrinseca natura di atti estintivi delle obbligazioni dell'imprenditore fallito, come eventi
pregiudizievoli per la massa dei creditori, perché idonei a ledere la regola che tende ad assicurare il
soddisfacimento paritario dei creditori, anche mediante il recupero delle somme versate ai creditori nel
periodo immediatamente anteriore alla apertura della procedura concorsuale, indipendentemente dal rapporto
obbligatorio che integra la causa solvendi
Ed in questo si coglie la differenza tra il trattamento che al pagamento riserva la legislazione fallimentare
rispetto a quella ordinaria sotto il profilo dell'inefficacia; quest'ultima, infatti, non assoggetta a revocatoria il
pagamento del debito proprio scaduto (art. 2901, comma 3° c.c.) per la ragione che l'adempimento del debito
scaduto, quando sia normale, e cioè sia realizzato secondo i termini temporali e di prestazione d'oggetto
prestabiliti, si presenta quale atto dovuto, cosicché lo stesso carattere obbligato assumono anche gli atti
dispositivi del patrimonio del debitore legati da un rapporto di stretta ed indispensabile inerenza strumentale
con quello di soddisfacimento del debito. Ossia, per il legislatore ordinario, il pagamento del debito scaduto
non è soggetto a revocatoria in quanto si presenta quale atto dovuto, che non produce pregiudizio ai creditori,
dato che alla eliminazione della posta passiva costituita dal rapporto debitorio scaduto corrisponde un
depauperamento di eguale valore della massa dei beni (Cass. 21 dicembre 1990 n. 12123).
Una volta dichiarato il fallimento del debitore adempiente, lo stesso pagamento diventa revocabile ai sensi
del secondo comma dell'art. 67 l.fall.., per il semplice fatto che l'atto sia stato compiuto in periodo sospetto di
insolvenza, durante il quale ogni atto di modifica della situazione patrimoniale del debitore è idoneo ad
arrecare pregiudizio ai creditori. Ciò perchè il legislatore fallimentare prende in considerazione, come causa
giustificativa dell'inefficacia del pagamento, anche quando esso sia estintivo di debiti scaduti, la sola
posizione del solvens, mirando l'istituto della revocatoria (in senso lato) alla tutela del patrimonio del
solvens, nella prospettiva della tutela dei creditori concorrenti nel successivo fallimento.
Ciò che viene in considerazione è, quindi, il pagamento in sé considerato, di modo che il periodo sospetto
deve essere calcolato con riferimento alla data in cui il creditore ha ottenuto il soddisfacimento.
Anche in questo caso la casistica è vastissima e si richiamano alcuni degli interventi più interessanti.
c.1-Pagamenti coattivi.
Sono costantemente ritenuti revocabili i pagamenti percepiti dal creditore in esito all’esperimento di
procedimenti di espropriazione individuale mobiliari, immobiliari o presso terzi (Cass., 29-1-1999, n. 785;
Cass., 25-6-1998, n. 6291; Cass., 22-4-1998, n. 4078), ove oggetto della revoca non è il provvedimento
giurisdizionale con il quale viene assegnato al creditore l’importo, ma l’atto estintivo realizzato con il
successivo e distinto pagamento effettuato mediante la riscossione del mandato (Cass. 25-6-1998, n. 6291;
Cass., Cass., 22-4-1998, n. 4978; Cass., 26-2-1994, n. 1969), mentre non è revocabile la vendita forzata dei
beni del debitore successivamente fallito (Cass., 5-5-1992, n. 5299);
c.2-Pagamenti in favore di legalmonopolista.
La revocabilità del pagamento del debito liquido ed esigibile, ricevuto dal monopolista nell'anno che precede
la dichiarazione di fallimento del somministrato o dell'utente, con la consapevolezza del suo stato
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d'insolvenza, è stato oggetto di numerosi interventi, anche delle S.U. tra loro contrastanti. Era stato, infatti,
esclusa dalle S.U. della Cassazione la revocabilità del pagamento effettuato in favore del legalmonopolista, il
quale, in considerazione del proprio obbligo di contrarre con chiunque ex art. 2597 c.c., obbligo che attiene
non solo alla fase genetica del rapporto contrattuale, ma anche a quella funzionale, non può rifiutarsi di
eseguire la prestazione ai sensi dell’art. 1461 c.c., indipendentemente dalle condizioni patrimoniali
dell’utente (Cass. S.u., 11-11-1998, n. 11350; cui si erano uniformate, Cass., 29-11-2000, n. 15293; Cass.,
16-11-1999, n. 12669); possibilità che invece avrebbe il venditore con patto di riservato dominio ove il
sorgere del rapporto di vendita con riserva di proprietà è frutto di una libera scelta del venditore e non
costituisce adempimento di un obbligo legale a contrarre (Cass., 6-11-1999, n. 12358).
Di recente ancora le S.U. (Cass. S.u. 23-1-2004, n. 1232) hanno, però, stabilito che “in favore
dell'imprenditore che somministri beni o presti servizi in regime di monopolio legale, trovano applicazione,
in assenza di espressa deroga, non solo l'art. 1460 c.c., sull'eccezione di inadempimento, ma anche l'art. 1461
c.c., sulla facoltà di sospendere l'esecuzione della prestazione dovuta quando sussista un evidente pericolo di
non ricevere il corrispettivo in ragione delle condizioni patrimoniali dell'altro contraente, trattandosi di
previsioni compatibili con l'obbligo, posto dall'art. 2597 c.c., di contrattare e di osservare parità di
trattamento. L'applicabilità di detto art. 1461 c.c., come delle altre disposizioni dettate a presidio del nesso di
sinallagmaticità nella fase di esecuzione dei contratti a prestazioni corrispettive, comporta che il pagamento
del debito liquido ed esigibile, ricevuto dal monopolista nell'anno che precede la dichiarazione di fallimento
del somministrato o dell'utente, con la consapevolezza del suo stato d'insolvenza, resta soggetto alla
revocatoria di cui all'art. 67, comma 2, della l. fall., non trovandosi il monopolista in una situazione
differenziata rispetto agli altri creditori, e difettando di conseguenza i presupposti per cogliere nell'art. 2597
c.c. una implicita previsione di esenzione dalla revocatoria stessa”.
c.3-Pagamenti di crediti assistiti da garanzia reale consolidata
In passato la giurisprudenza aveva escluso la revocabilità dei pagamenti di crediti assistiti da ipoteca non più
revocabile in base alla considerazione che, estinguendosi la garanzia con l'estinzione dell'obbligazione in
conseguenza del pagamento ai sensi dell'art. 2878 n. 3 c.c. e non potendo più rivivere se non nella diversa
ipotesi, non ravvisabile in tema di revocatoria, in cui la causa di estinzione sia dichiarata nulla o altrimenti
non sussistente, il credito risorgerebbe come chirografario, con la conseguenza che la revoca del pagamento
comporterebbe la revoca della garanzia, vale a dire una sanzione non compresa fra gli effetti della specifica
revocatoria in esame (Cass. 19-10-1976 n. 3608; Cass. 20-6-1969, n. 2180; in seguito un ritorno sporadico a
questo orientamento si è avuto con Cass. 22-4-1998, n. 4078).
Questo indirizzo è stato sottoposto a revisione; si è detto, infatti, che la presenza di una garanzia non più
revocabile che assiste il credito non può essere di ostacolo in linea di principio all'esercizio dell'azione
revocatoria in quanto diversamente non solo verrebbe implicitamente riconosciuta la permanenza degli
effetti della garanzia anche dopo la sua estinzione conseguente al pagamento, ma, per evitare un effetto non
voluto dalla legge fallimentare (revoca della garanzia), si finirebbe con il negare un effetto voluto e cioè il
ripristino della par condicio creditorum che costituisce il fondamento della revocatoria. Per questo motivo si
è spostata l'indagine sotto il diverso profilo dell'interesse alla relativa azione, con la conseguenza, già
accennata, che la revocatoria deve ritenersi ammissibile se il curatore, cui incombe l'onere, provi che, ad onta
della garanzia, sussista ugualmente il pregiudizio per la massa e cioè che il credito soddisfatto non
troverebbe comunque capienza totale o parziale per la concorrenza di crediti privilegiati poziori (Cass. 19-72000, n. 9479; Cass. 15-9-1997, n. 9146; Cass. 8-3-1993, n. 2751).
La Corte ha anche affermato che non è necessario che il curatore provi il pregiudizio per la massa quando il
pagamento da revocare e che ha comportato l’estinzione della garanzia ipotecaria sia frutto di una più
complessa operazione (nella specie, erogazione di un mutuo in favore dell’acquirente dell’immobile già
gravato da ipoteca non più revocabile concessa in favore dell’istituto di credito dal debitore fallito) voluta
dallo stesso creditore, nella quale il pagamento costituisce solo l’ultimo necessario atto non valutabile
autonomamente (Cass., 19-7-2000, n. 9479).
20
c.4-Pagamento effettuato da terzo.
Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza la revocabilità del pagamento effettuato dal terzo
in favore del creditore del fallito è subordinato al fatto che il terzo abbia utilizzato denaro del fallito, ovvero,
avendo utilizzato denaro proprio, si sia positivamente rivalso sul fallito stesso prima del fallimento (Cass.,
22-1-1999, n. 570; Cass., 16-11-1998, n. 11520; Cass., 2-5-1996, n. 4040). In difetto dei menzionati
presupposti di soddisfacimento del terzo sul patrimonio del fallito, non vi sarebbe quel depauperamento del
patrimonio in pregiudizio della massa concorsuale che l’azione revocatoria fallimentare è tipicamente
destinata a riparare, e, per tale motivo, è stata negata la revocabilità del pagamento effettuato dal terzo che si
sia successivamente soddisfatto in moneta fallimentare (Cass., 13-3-1997, n. 2556; Cass., 29-11-1985, n.
5956; in senso contrario si è peraltro espressa parte della giurisprudenza di merito).
L’onere di provare la titolarità in capo al fallito dei beni impiegati per l’adempimento, ovvero per il
successivo soddisfacimento in rivalsa del terzo, grava sul curatore fallimentare (Cass., 21-10-1982, n. 5488).
c.5-Pagamento effettuato dal terzo su conto corrente bancario del fallito
La giurisprudenza, pur riconoscendo l’esattezza del principio della revocabilità dei pagamenti del terzo solo
in dipendenza della loro avvenuta effettuazione con denaro dell'imprenditore (poi fallito) ovvero a seguito di
esercizio della rivalsa da parte del terzo prima della dichiarazione di fallimento, ha con estrema chiarezza
precisato che tale principio "non trova applicazione nella diversa ipotesi di versamento effettuato dal terzo
sul conto corrente del debitore. In tal caso, nell'operazione, si inserisce infatti il diaframma del rapporto di
conto corrente, nel quale il versamento del terzo viene attratto, venendo- per effetto di quello- a costituire
non altro che una variazione quantitativa del conto, una posta attiva, cioè del correntista, nella cui titolarità
l'importo accreditato viene quindi a confluire. Ciò appunto comporta (salvo patto contrario) che le rimesse
del terzo sul conto corrente dell'imprenditore siano equiparate alle rimesse od ai versamenti del correntista
medesimo ai fini della revocabilità ex art. 67 legge fall.. Revocabilità che, in tal caso, soggiace alla diversa
regola per cui tali versamenti (ove ovviamente eseguiti nel periodo sospetto e nella ricorrenza della scientia
decoctionis dell'Istituto) sono revocabili o meno a secondo che la correlativa funzione possa configurarsi
come solutoria ovvero meramente ripristinatoria della provvista” (Così, Cass. 16-11-1998, n. 11520; conf.,
Cass. 8-4-2004, n. 6943; Cass. 21-9-2000, n. 12489; Cass. 23-4-1987, n. 3919; Cass. 4.7.1985, n. 4020; Cass.
12-4-1984, n. 2353; Cass. 9-6-983, n. 3951; App. Milano, 19-12-2000, in Foro pad. 2001, I, 107; App.
Genova, 26-3-2000 in Fallimento 2001, 428).
c.6-Pagamento effettuato dal terzo fideiussore.
La revocabilità è stata esclusa anche quando il pagamento si stato effettuato dal terzo in adempimento di un
obbligo fideiussorio in quanto il pagamento stesso non è riferibile al debitore fallito, con conseguente
mancanza di danno alla massa e di lesione della par condicio creditorum. Il problema si è posto con
riferimento alla rimessa sul conto corrente del debitore poi fallito (o già fallito in uno dei due casi) da parte
di un terzo obbligato quale fideiussore verso la banca creditrice dello scoperto di conto. In questi casi,
afferma la Cassazione, opera la presunzione che allorché un terzo versi sul conto corrente del debitore e dopo
il fallimento di costui una somma corrispondente allo scoperto (del conto stesso) per il quale esso terzo aveva
prestato fideiussione, e risulti l'inesistenza di alcun debito verso il fallito da parte del terzo, dove ritenersi che
costui abbia adempiuto il debito proprio, per cui il dato formale- e cioè il versamento sul conto del fallitodeve considerarsi superato dal dato sostanziale- e cioè la volontà di adempiere il debito proprio fideiussorioil quale prevale. E’ chiaro, quindi che dal fatto che il fideiussorie abbia effettuato il versamento sul conto del
debitore garantito non si può desumere, per ciò solo, che sia stata quest'ultima ad operarlo (Cass.19-11-2003,
n. 17532; Cass. 22-1-1999, n. 570; Cass., 11-9-1998, n. 9018; Cass. 6-8-1998, n. 7695; Cass., 13-3-1997, n.
2256; Cass., 29-11-1985, n. 5956) .
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c.7-Fattispecie varie.
E’ stata inoltre affermata la revocabilità dei pagamenti del mandatario, successivamente fallito, in favore del
mandante (Cass., 7-12-1999, n. 13660) e dei rimborsi effettuati dal mandante in favore dello spedizioniere
(Cass., 10-12-1999, n. 13839). In ipotesi di disinvestimento di valori mobiliari, secondo la giurisprudenza di
merito, la corresponsione di denaro effettuato da una società di intermediazione mobiliare in esecuzione di
un ordine di disinvestimento di titoli è revocabile se viene dimostrato il venir meno della separazione dei
beni del cliente rispetto al patrimonio dell’intermediario (cfr. anche Cass., 14-10-1997, n. 10031).
E’ stata, invece, esclusa la revocabilità del pagamento del corrispettivo della cessione di credito stipulata
nell’anno anteriore alla dichiarazione di fallimento tra il creditore dell’insolvente ed un terzo, a sua volta
debitore dell’insolvente, che abbia opposto al fallimento il credito cedutogli, non potendosi qualificare il
pagamento in questione come “atto estintivo” del debito dell’insolvente (Cass., 2-7-1998, n. 6474).
Non possono essere revocati i pagamenti dei canoni di locazione effettuati nel periodo sospetto se il curatore
è subentrato nel contratto (Cass. 27-2-2004, n. 3983, contra, in tema di leasing, Cass. 12-11-1996, n. 9908).
d-Il pagamento di crediti liquidi ed esigibili. La revocatoria delle rimesse in conto corrente bancario.
d.1-Rimesse solutorie e ripristinatorie
E’ indirizzo consolidato in giurisprudenza, a partire dalla nota sentenza 18.10.82, n. 5413, quello che
ammette la revocabilità delle rimesse in conto corrente bancario aventi natura solutoria e non quelle aventi
invece mera natura ripristinatoria della provvista. Le prime (di carattere solutorio) sono quelle affluite su un
“conto scoperto”, ossia su un conto non assistito da apertura di credito che presenti un saldo a debito del
cliente, oppure assistito da apertura di credito con saldo debitore oltre i limiti del fido convenzionalmente
accordato al correntista, revocabili in quanto immediatamente destinate ad estinguere (anche solo
parzialmente) il credito della banca; le seconde (di carattere ripristinatorio) sono quelle affluite su un “conto
passivo”, ossia su un conto con saldo debitore assistito da apertura di credito di cui non è stato superato il
limite, non revocabili in quanto i versamenti entro il limite del fido costituiscono una mera ricostituzione
della provvista nella disponibilità del correntista.
In materia di revocatoria fallimentare delle rimesse sul conto corrente bancario dell'imprenditore, qualora la
banca creditrice realizzi il pegno costituito a garanzia dell'apertura di credito in conto corrente, l'eventuale
accreditamento sul medesimo della somma ricavata dal pegno non entra nella disponibilità del debitore e non
ha natura solutoria, in quanto costituisce effetto del diritto di prelazione legittimamente esercitato dal
creditore e, pertanto, non è revocabile (Cass. 11.11.2003, n. 16914).
d.2-Saldo disponibile
Al fine di verificare se la rimessa abbia funzione solutoria, e la misura nella quale tale funzione sussiste, la
copertura o meno del conto va accertata con riferimento al saldo disponibile, che non coincide
necessariamente né con il saldo per valuta, né con quello contabile delle operazioni risultanti dall'estratto
conto, dovendosi distinguere la tipologia delle operazioni bancarie.
In linea di massima, dalla variegata giurisprudenza in materia, si può desumere che il saldo disponibile è
quello risultante dalla combinazione del saldo contabile (per le operazioni a debito, per i versamenti in
contanti e per i bonifici) e del saldo per valuta (per gli accrediti di titoli di terzi), con facoltà per la banca di
provare che l'importo in questo secondo caso è stato definitivamente accreditato prima della valuta, di modo
che, per procedere alla quantificazioni delle rimesse revocabili, occorrerà provvedere a riordinare le
operazioni riportate negli estratti conto secondo i seguenti criteri: per data contabile le operazioni attive che
sono consistite in versamenti di contanti, di assegni circolari emessi dalla stessa banca e in versamenti di
assegni tratti sulla stessa succursale, gli accrediti a mezzo giroconti o bonifici e tutte le operazioni passive;
per valuta quelle riguardanti il versamento di assegni di altre banche, lo sconto di effetti e le anticipazioni
salvo buon fine.
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Sul piano probatorio, tuttavia, non risultando dall'estratto conto l'effettivo saldo disponibile, elementi
presuntivi di prova possono desumersi sia dalla data di registrazione in conto delle operazioni- limitatamente
a quelle "in avere" del correntista, costituite da versamenti e bonifici in contanti, nonchè ai prelevamenti in
contanti o a mezzo assegni-, sia dai dati ordinati "per valuta"- limitatamente ai versamenti in conto di titoli di
credito, dovendosi presumere che l'incasso sia avvenuto, quanto meno, alla data della valuta, salva la
possibilita', per la banca, di provare che sia avvenuto anteriormente (Cass. 22-3-1994, n. 2744). E’, pertanto,
revocabile non il saldo giornaliero tra gli accrediti e gli addebiti (che appartengono ad una mera prassi
bancaria), bensì la sommatoria delle singole rimesse effettuate nell’ultimo anno sul conto scoperto
dell’imprenditore poi fallito, individuate ed ordinate secondo il sopra esposto criterio del “saldo disponibile”.
d.3-Operazioni bilanciate
Anche in presenza di un conto "scoperto", non sono revocabili, perché prive di natura solutoria, le rimesse
aventi specifica funzione di fornire la provvista per l'esecuzione di determinati ordini di pagamento (cd.
"operazioni bilanciate"). Secondo l’orientamento della Suprema Corte, affinché due o più operazioni di
segno opposto possano definirsi “bilanciate”, occorre che vi sia perfetta coincidenza degli importi e che le
operazioni siano contestuali (Cass., 26-1-1999 n. 686), nel mentre per parte della giurisprudenza di merito è
sufficiente che tra le operazioni di segno opposto sussista un certo nesso teleologico, in guisa che il prelievo,
per quanto non contestuale al versamento, debba farsi necessariamente risalire a quest'ultimo (Trib. Milano,
9-3-1999, in Foro it. 1999, I,2682). In ogni caso è necessario che l'ammontare del dare sia esattamente
corrispondente a quello in avere come importo, e che la banca abbia immediata certezza della disponibilità
della somma in capo al cliente che intende disporne immediatamente, il che è possibile solo in caso di
versamento di somme in contanti ovvero a mezzo assegni circolari oppure a mezzo bonifici, ma non quando
la rimessa abbia ad oggetto assegni bancari che richiedono una verifica sulla copertura (Trib. Milano, 27-12003, in Fallimento 2003, 799 s.m.).
In ogni caso, nell’ipotesi di plurime operazioni di segno opposto nella stessa giornata il fallimento può
adempiere all'onere probatorio anche con prova logica, avvalendosi della ipotesi più favorevole alla banca e
computando i versamenti prima dei prelievi.
d.4-Pegno rotativo.
Il nostro ordinamento ammette il cosiddetto pegno rotativo (cfr. disposizioni di cui agli art. 87 d.lg. n. 58 del
1998, 34 d.lg. n. 213 del 1998 e 5 del regolamento Cee n. 1346 del 2000), ossia il patto in virtù del quale le
parti si obbligano a costituire un vincolo pignoratizio su un determinato bene, individuato per il suo valore
economico, con l'intesa che, alla scadenza del titolo, il vincolo reale si sarebbe "ipso iure" trasferito sul
nuovo titolo emesso in sostituzione di quello scaduto
La S.C., già con una sentenza 1998 (Cass. 28.5.98, n. 52649 ed una del 1999 (Cass. 17.9.99, n. 10685) aveva
stabilito che le parti, con il c.d. "patto di rotatività" del pegno convengono sin dall'origine la sostituzione
totale o parziale dei beni oggetto della garanzia, considerati non nella loro individualità ma per il loro valore
economico, e, quindi, tale patto dà luogo ad una fattispecie a formazione progressiva che trae origine
dall'accordo delle parti e si perfeziona con la sostituzione dell'oggetto del pegno, senza necessità di ulteriori
stipulazioni, nella continuità del rapporto originario, i cui effetti risalgono alla consegna dei beni
originariamente dati in pegno principi ribaditi di recente da Cass. 11.11.2003, n. 16914 e Cass. 5.3.2004, n.
4520). Più precisamente, la consegna del bene sostitutivo, con il conseguente effetto traslativo del diritto
reale su di esso, costituisce elemento di una fattispecie a formazione progressiva, che trae origine
dall'accordo stipulato con il patto di rotatività, nella quale (come nel pegno di cosa futura) la volontà delle
parti è perfetta già al momento dell'accordo (se sussiste certezza della data e sono determinati il credito da
garantire e la cosa da offrire in garanzia) e l'eventuale sostituzione dei beni oggetto della garanzia si pone
come un elemento meramente materiale.
Ne consegue, ai fini dell'esperibilità dell'azione revocatoria fallimentare, che la genesi del diritto reale di
garanzia deve stabilirsi al momento della stipulazione originaria e non a quello successivo della sostituzione.
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d.5-Pluralità di conti e compensazione
Quando tra la banca e l’imprenditore poi fallito intercorrono più rapporti di conto corrente, i relativi saldi
attivi e passivi si compensano reciprocamente, secondo quanto disposto dall’art. 1853 c.c., purché i distinti
rapporti di conto corrente siano effettivamente, e non solo formalmente, autonomi. (Cass. 21-1-2000, n. 656;
Cass. 17-7-1997 n. 6558; Cass., 23-5-1986 n. 3447). Invero, la banca non può operare la compensazione in
relazione a rapporti di debito credito nascenti da unico contratto di conto corrente in quanto in questo modo
viene meno il rapporto sinallagmatico tra le due prestazione poiché si attribuisce ad un solo contraente la
possibilità di decidere, unilateralmente, se esista o meno un proprio debito; di conseguenza la prassi bancaria
ricorre di frequente alla creazione di una pluralità di rapporti collegati che consentano di rendere operativa la
compensazione legale pur in mancanza di una pluralità di conti “operativi”. In questi casi la suddivisione in
più conti correnti dell’unico rapporto tra banca e cliente non introduce alcuna modificazione giuridicamente
rilevante nella struttura del rapporto stesso, per cui deve essere attribuita natura solutoria alle rimesse, anche
ove eseguite sul conto recante un saldo attivo, che vadano automaticamente a ridurre, mediante
compensazione, l’esposizione sul conto passivo e, pertanto, esse sono soggette a revocatoria.
In conclusione, salvo l’esame specifico delle singole fattispecie, nella maggior parte dei casi il giroconto
rappresenta un’operazione revocabile.
d.6-Pluralità di linee di credito
Posto che determinante ai fini della natura solutoria del pagamento è che questo riduca l’esposizione
ultrafido del conto scoperto, si è posto il problema della cumulabilità delle diverse linee di affidamento, al
fine di stabilire quale sia il limite dello sconfinamento.
La giurisprudenza ha escluso la cumulabilità tra diverse linee di credito, tracciando una netta distinzione tra
il rapporto di apertura di credito e il c.d. "castelletto di sconto", o il fido per smobilizzo crediti (oppure altri
strumenti bancari ai primi non propriamente equiparabili nella loro configurazione giuridica, ma assimilati
nella pratica bancaria in quanto rispondenti alla medesima finalità, e riflettenti rapporti di analoga natura).
Questi ultimi- afferma costantemente la Corte (Cass. 7-3-2003, n. 3396; Cass. 5-5-2000, n. 5634; Cass., 211-2000, n. 656; Cass., 20-3-1999, n. 2589; Cass., 2-6-1998, n. 5389)- non attribuiscono al cliente della banca,
a differenza di quanto avviene con il contratto di apertura di credito, la facoltà di disporre immediatamente di
una determinata somma di danaro, ma sono esclusivamente fonte per l'istituto di credito dell'obbligo di
accettazione per lo sconto entro un predeterminato ammontare dei titoli che l'affidatario presenterà, sicché in
tale ipotesi - e quand'anche il castelletto sia regolato in conto corrente- il fido non rappresenta l'ammontare
delle somme di cui il cliente può disporre dovendo queste essere determinate dall'entità degli accreditamenti
effettuati a seguito delle singole operazioni di sconto, ma soltanto il limite entro il quale la banca è tenuta ad
accettare i titoli presentati dal cliente stesso; ne consegue che l'esistenza di un fido per lo sconto di cambiali
non può far ritenere coperto un conto corrente bancario nè può escludere ai fini dell'esercizio dell'azione
revocatoria, il carattere solutorio delle rimesse effettuate su tale conto dal cliente, poi fallito, se nel corso del
rapporto il correntista abbia sconfinato dal limite di affidamento concessogli con il (diverso) contratto di
apertura di credito.
Tale fondamentale differenziazione- aggiunge ancora la Corte- mantiene il suo significato anche nel caso in
cui tra le due linee di credito sia stabilito un collegamento di fatto, nel senso che i ricavi conseguiti attraverso
sconti e anticipazioni siano destinati a confluire nel conto corrente di corrispondenza che riflette l'apertura di
credito, siffatta correlazione si risolve in un meccanismo interno di alimentazione di quel conto attraverso le
rimesse provenienti appunto dalle singole operazioni di smobilizzo crediti, alla stessa stregua di qualunque
altra rimessa di diversa provenienza.
Il sostanziale accordo sulla differenza di finalità e natura tra le varie forme di finanziamento indicate, non
esclude una non condivisione con le conseguenze tratte dalla Corte, in quanto l’accredito del netto ricavato
dall’operazione di sconto non fa altro che aumentare la disponibilità del fido che la banca mette a
disposizione del correntista e, di conseguenza, l’importo da tenere in considerazione ai fini della valutazione
della revocabilità delle rimesse; ma l’indirizzo consolidato, sopra richiamato, non fa presagire un
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ripensamento. La stessa giurisprudenza, tuttavia, chiarisce che i versamenti che si riferiscono allo sconto di
effetti salvo buon fine non sono revocabili quando i relativi effetti tornano poi insoluti giacchè, in tali casi,
infatti, nessuna somma viene in concreto incassata dalla Banca, nessun pagamento viene effettuato e nessuna
lesione della par condicio creditorum viene in essere.
d.7-Distribuzione dell’onere probatorio
In questo quadro si spiega come l’onere probatorio sia distribuito in base al generale disposto di cui all’art.
2697 c.c., nel senso che alla curatela fallimentare spetta la dimostrazione della sussistenza della rimessa,
della sua effettuazione nel periodo "sospetto" e della "scientia decotionis" da parte della banca, mentre
quest'ultima ha l'onere di provare la natura "solutoria" del versamento (Cass. 8-1-2003, n. 58; Cass. 1-102002, n. 14087; Cass., 26-2-1999, n. 1672; Cass., 26-1-1999 n. 686; Cass., 23-6- 1994, n. 6031), con la
conseguenza che, in difetto di tale prova, i saldi passivi del conto corrente "devono ritenersi frutto di mera
tolleranza da parte dell'istituto di credito e non anche dimostrativi, di per sè solo, dell'esistenza di un tale
contratto, da desumersi per "facta concludentia" (Cass. 8-1-2003, n. 58;; Cass. 11-9-1998, n. 9018, m.
518811). In particolare la banca ha "l'onere di provare, per escludere la natura "solutoria" del versamento, sia
l'esistenza, alla data di questo, di un contratto di apertura di credito, sia l'esatto ammontare dell'affidamento
accordato al correntista alla medesima data, non essendo sufficiente, a tali ultimi fini, la produzione della
"scheda degli affidamenti" e dell'estratto notarile del "libro fidi" della banca, qualora il contenuto di detti
documenti sia contestato dalla curatela e, comunque, gli stessi non abbiano un significato congruo rispetto al
fatto da dimostrare" (cfr. giur. sopra citata).
Del resto, in base all’art.117 t.u. n.385/1993 i rapporti contrattuali con gli istituti di credito devono essere
redatti per iscritto a pena di nullità, per cui l’istituto di credito deve fornire la prova del contratto stipulato
per iscritto e, poiché il contratto è rappresentato da un documento e la curatela assume la posizione di terzo,
deve anche fornire la prova della sua opponibilità al fallimento.
3.3-L’elemento soggettivo
Fondamentale per l’accoglimento della revocatoria è che il terzo fosse a conoscenza dello stato di insolvenza
in cui versava l’imprenditore poi fallito all’epoca del compimento dell’atto revocando.
a-concetto di insolvenza
Lo stato di insolvenza, di cui deve essere a conoscenza il convenuto in revocatoria, corrisponde alla nozione
accolta nell’art. 5 l.fall. come presupposto per la dichiarazione di fallimento e quindi come incapacità
dell’imprenditore ad assolvere regolarmente, e con normali mezzi solutori, alle obbligazioni assunte per il
venir meno della liquidità e della disponibilità di credito occorrenti per il normale svolgimento dell’attività
d’impresa (Cass., 27-4-1998, n. 4277).
b-La scientia decotionis nell’ipotesi di fallimento del socio illimitatamente responsabile
È principio consolidato, nella giurisprudenza della S.C., che nel caso di fallimento di un socio
illimitatamente responsabile di una società di persone, dichiarato per effetto del fallimento della società, la
scientia decoctionis va riscontrata con riferimento all'insolvenza della società, considerato che è quest'ultima
insolvenza a determinare il fallimento del socio e che il socio è soggetto al fallimento solo come automatica
conseguenza della sua illimitata responsabilità per i debiti sociali, indipendentemente dalla sussistenza, o
meno, di un suo stato di insolvenza personale, di modo che, ai fini dell'esperibilità della revocatoria
fallimentare degli atti di disposizione posti in essere dal socio in questione dichiarato fallito, assume rilievo
la conoscenza, da parte dell'acquirente, non già dello stato di insolvenza del socio suddetto, bensì di quello
della società (da ult. Cass. 14-11-2003,n. 17180; conf. Cass. 14-1-1998 n. 255; Cass. 27-11-1997 n. 11978;
Cass., 13-9-1997 n. 9075; Cass. 6 febbraio 1997 n. 1122), alla quale l'autore dell'atto di disposizione
partecipi in regime di responsabilità illimitata.
25
L'elemento della "scientia decoctionis", tuttavia, deve avere a contenuto la qualità di socio illimitatamente
responsabile della società in stato di insolvenza rivestita dall'autore dell'atto revocando, con la conseguenza
che la prova di tale complessiva conoscenza (desumibile, altresì da presunzioni) incombe, ai sensi dell'art.
67, comma 2, l. fall., sulla curatela fallimentare, non essendo, invece, necessaria la conoscenza della qualità
di imprenditore commerciale (Cass., 7-2-2000, n. 1317; Cass., 12-1-1999, n. 242; Cass., 25-3-1994, n. 2911).
c-La scientia decotionis nelle fattispecie regolate dal 1° comma dell’art. 67
Come si è già accennato, nelle ipotesi di revocatoria regolate dal 1° comma della norma vige una
presunzione iuris tantum di conoscenza da parte del convenuto in revocatoria dello stato di insolvenza
dell’imprenditore fallito, per cui compete al convenuto fornire la prova della propria inscientia decotionis.
Tale prova non può consistere nella dimostrazione di uno stato d’animo o di un mero convincimento sulla
normalità della situazione economica dell’imprenditore, occorrendo invece la ricorrenza di circostanze
esterne, oggettivamente riscontrabili, tali da indurre ragionevolmente detto convincimento in un soggetto di
ordinaria prudenza ed avvedutezza (Cass., 26-1-1999, n. 683; Cass., 18.11.1988, n. 6240). Trattandosi di
argomento speculare a quello della conoscenza dello stato di insolvenza, si rinvia a questa trattazione di cui
infra.
d- La scientia decotionis nelle fattispecie regolate dal 2° comma dell’art. 67
La revocatoria fallimentare gli atti giuridici posti in essere dall'imprenditore, entro l'anno anteriore alla
dichiarazione di fallimento, nel normale esercizio della propria impresa, e fra essi il pagamento di debiti
liquidi ed esigibili, è assoggettata al regime probatorio ordinario, incombendo al curatore l'onere della prova
della conoscenza dello stato d'insolvenza del debitore da parte del creditore soddisfatto.
d.1-La prova per presunzioni
La prova della c.d. scientia decoctionis può essere fornita dal curatore anche mediante una serie di elementi
indiziari gravi, precisi e concordanti, tali da dimostrare che il terzo, adoperando la normale diligenza, non
avrebbe potuto non avvedersi dello stato di dissesto economico del debitore.
Per costante giurisprudenza, la prova della conoscenza dello stato d'insolvenza può essere raggiunta anche
attraverso presunzioni, purchè, come richiede l’art. 2729 c.c., esse siano gravi, precise e concordanti; e, in
tema di prova per presunzioni ex art. 2729 c.c., non occorrendo che i fatti su cui si fonda la presunzione
siano tali da far apparire l'esistenza del fatto ignoto come l'unica conseguenza possibile dei fatti accertati in
giudizio, è sufficiente che il fatto ignoto sia desunto alla stregua di un canone di probabilità, con riferimento
a una connessione di avvenimenti possibile verosimile, secondo un criterio di normalità, attraverso
l'apprezzamento del giudice di merito insindacabile in sede di legittimità, salvo che risulti viziato da
illogicità o da errori nei criteri giuridici.
E’ altrettanto consolidato il principio che per il raggiungimento della prova della scientia decoctionis con il
mezzo delle presunzioni, per un verso, non è necessaria la conoscenza effettiva, da parte di quello specifico
creditore, dello stato di decozione dell'impresa (prova inesigibile perchè diretta a provare uno stato
soggettivo interiore) e, per altro verso, non basta un’astratta conoscibilità oggettiva accompagnata da un
presunto dovere di conoscere (prova inutilizzabile perchè correlata ad un parametro, del tutto teorico, di
creditore avveduto); è necessario e sufficiente, invece, che le presunzioni consentano di ritenere che la
conoscenza di certi fatti non poteva non consentire la percezione dell'insolvenza, e, quindi, la prova a mezzo
presunzioni della conoscenza dello stato di insolvenza può dirsi raggiunta solo in presenza di concreti
collegamenti del terzo con i sintomi conoscibili dello stato di insolvenza. In questo ambito si può dare rilievo
ai presupposti ed alle condizioni in cui si è trovato ad operare, nella specifica situazione, l'accipiens, per cui,
più precisamente, la prova in questione può dirsi raggiunta, quando la probabilità della scientia decoctionis
trovi il suo fondamento nei presupposti e nelle condizioni- economiche, sociali, organizzative, topografiche,
culturale- nelle quali si sia concretamente trovato ad operare il creditore del fallito, ossia, quando la presenza
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di queste condizioni possano far ritenere che il terzo non avrebbe non potuto avere conoscenza dello stato di
decozione se avesse usato la ordinaria diligenza.
d.2-La qualifica di banchiere dell’accipiens
In questo contesto rientra il fatto, con riferimento alle revocatorie delle rimesse su conto corrente, che il
creditore sia una banca; questa ha sicuramente una particolare capacità di percepire ogni elemento idoneo a
desumere gli elementi indiziari dello stato di decozione dei clienti, ma per il raggiungimento della prova
della scientia decoctionis con il mezzo delle presunzioni non basta, come detto, un'astratta conoscibilità
oggettiva, ma occorre una conoscibilità relativamente soggettiva dell'insolvenza sintomatica, unitamente a
elementi indiziari del comportamento cognitivo del terzo. Di conseguenza “la qualità di banca di colui che
entra in contatto con l'insolvente rileva, non di per sè, neppure se correlata al parametro, del tutto teorico, del
creditore avveduto, ma solo in presenza di concreti collegamenti di quel creditore con i sintomi conoscibili
dello stato di insolvenza, in tal senso dovendosi dare rilievo ai presupposti ed alle condizioni in cui si è
trovato ad operare, nella specifica situazione, l'accipiens, ed in quest'ambito anche all'attività professionale
da esso esercitata ed alle regole di prudenza ed avvedutezza che caratterizzano concretamente,
indipendentemente da ogni doverosità, l'operare della categoria di appartenenza” (Cass. 7 febbraio 2001, n.
1719). In definitiva, la qualità soggettiva di colui che entra in contatto con l'insolvente, e in particolare la
qualità di banchiere, non rileva di per sè e neppure in relazione alle doverose regole di prudenza ed
avvedutezza che dovrebbero caratterizzarne la condotta, ma in quanto consente di fondare una presunzione
sulla base di un sillogismo la cui premessa generale consista nell'affermazione che i modelli di
comportamento di una categoria professionale fanno acquisire la conoscenza dei sintomi dello stato di
insolvenza che nel caso concreto si sono manifestati.
d.3-Casistica
In questa ottica vanno valutate le innumerevoli fattispecie prese in considerazione dalla giurisprudenza quale
indice presuntivo della conoscenza da parte del convenuto in revocatoria dello stato di insolvenza in cui
versava il soggetto fallito. Tra queste sono di interesse quelle che valutano gli indici di rilevanza della
conoscenza c.d. indiretta, ossia quei dati negativi sulle condizioni del debitore che, pur non fornendo una
prova diretta, possono essere significativi, per la loro pubblicità, dell’avvenuta conoscenza; è chiaro, infatti,
che lì dove il debitore abbia ammesso nella propria corrispondenza col creditore di versare in stato di
insolvenza (come spesso avviene con le lettere circolari di invito ai creditori a soprassedere in vista di
qualche soluzione stragiudiziale della crisi, o similari), ovvero il creditore abbia già svolto atti di recupero
del credito (pignoramenti, richiesta di decreto ingiuntivo, levata di protesto di titoli di cui era beneficiario,
ecc.), vi è la prova diretta e non presuntiva dello conoscenza dello stato di insolvenza.
-Protesti, procedure esecutive e decreti ingiuntivi. Essi assumono rilevanza indiziaria, ai fini della prova della
scientia decotionis, in virtù del loro carattere di anormalità rispetto al normale adempimento dei debiti
d’impresa, pur dovendosi avere riguardo al numero dei protesti elevati, all’entità delle somme, al loro
susseguirsi nel tempo ed alla data di loro pubblicazione nel bollettino dei protesti (Cass., 24-3-2000, n. 3524;
Cass., 24-11-1999, n. 13048; Cass., 7-7-1999, n. 7064).
E’ necessaria comunque la ricorrenza di una pluralità di indici presuntivi, aventi i caratteri di gravità,
precisione e concordanza, tali da consentire il raggiungimento di una prova piena ed efficace secondo il
combinato disposto di cui agli artt. 2727 e 2729 c.c. e, in quest’ambito, questi elementi assumono tanto più
rilevanza quando il creditore abbia una organizzazione aziendale di non limitate dimensioni, con particolare
riferimento alla posizione assunta dagli istituti di credito, stante le maggiori capacità informative e di
indagine di cui le Banche dispongono, rispetto agli altri operatori commerciali.
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-Le risultanze del bilancio della società fallita. I dati di bilancio delle società fallite sono utilizzabili per
valutare la conoscenza da parte del convenuto dello stato di insolvenza in cui versava il fallito all’epoca delle
operazioni oggetto di azione revocatoria, che quanto più sono negativi più sono indici di decozione.
Anche in questo caso, le banche sono soggetti privilegiati dato che esse, per prassi consolidata, richiedono
sempre copia del bilancio in concomitanza con il periodo di deposito e, del resto, tale adempimento è
obbligatoriamente richiesto in ottemperanza alle istruzioni di vigilanza della Banca d’Italia, che prevedono in
capo alla Banca l’obbligo, prima di erogare qualsiasi somma di denaro alle imprese, di una preventiva analisi
economica e patrimoniale della società da effettuarsi principalmente con l’analisi dei bilanci aziendali
disponibili.
-La concessione di ulteriore credito. La prosecuzione del rapporto bancario con continui sconfinamenti e,
quindi, la concessione di ulteriore credito è considerato elemento ambiguo, idoneo, in astratto, a dimostrare
tanto la percettibilità della crisi quanto la fiducia della banca circa la solvibilità dell’imprenditore. In questi
casi è decisiva per la valutazione di tale elemento in un senso o nell’altro la ricostruzione del rapporto nel
suo svolgimento temporale e, in particolare, la possibilità di intravedervi la realizzazione di un disegno della
banca di graduale rientro dell’esposizione debitoria (Cass. 28-11-2003, n.18201; Cass. 3-4-2002, n.4759;
ecc.). In particolare, la concessione di ulteriore credito all'esportazione sulla base di un castelletto di sconto
non è incompatibile- ha affermato la S.C. (Cass. 20-11-2003, n.17596)- con la conoscenza dello stato di
insolvenza, atteso che con il c.d. castelletto di sconto la banca non attribuisce al cliente la facoltà di disporre
immediatamente di una somma di denaro, ma si impegna ad accettare per lo sconto, entro un ammontare
predeterminato, i titoli che il cliente presenta, sicché il "fido" non corrisponde ad una concessione
incondizionata di credito, ma testimonia soltanto che la banca continua a ritenere affidabili i titoli presentati
dal cliente; il che, in una situazione nella quale prosegue l'attività d'impresa, non è incompatibile con
l'eventuale conoscenza dallo stato di insolvenza.
Poco significativa è anche la mancata richiesta di ulteriori garanzie che suppone una indimostrata possibilità
che il cliente possa offrirle.
E’ orientamento consolidato, più in generale, quello secondo cui per escludere la conoscenza dello stato
d'insolvenza non può darsi valore decisivo alla circostanza che alcune forniture siano state eseguite dal
creditore, in favore del soggetto poi fallito, dopo il susseguirsi di alcuni "insoluti", posto che la concessione
di ulteriore credito o la prosecuzione di rapporti commerciali sono di per sè elementi equivoci, potendo
trovare fondamento nella speranza del creditore che il nuovo credito aiuti il convenuto a superare la crisi
economica (cfr. da ult. Cass. 3-4-2002, n. 4759; conf. Cass.5-1-1995,n. 189; Cass., 14-2-1990, n. 1094;
Cass., 14-12-1989, n. 5603; Cass. 8-1-1987, n. 18).
-Le notizie di stampa: anche le notizie di stampa possono costituire utile indice rilevatore della conoscenza
dello stato di insolvenza quando, riguardo al luogo di pubblicazione ed alla diffusione territoriale delle
notizie di stampa, si può ragionevolmente ritenere che il creditore ne sia venuto a conoscenza (Cass. 7-22001, n.1719; Cass. 23-1-1997, n.699).
-Varie. La giurisprudenza ha riconosciuto la portata indiziaria della scientia decotionis alle peculiari
caratteristiche della fattispecie contrattuale, considerata teleologicamente in ordine al risultato concretamente
conseguito dalle parti (Cass., 21-12-1998, n. 12736), all’ipotesi del legale della società fallita che ha assistito
il debitore nel corso della procedura prefallimentare (Cass., 6-11-1999, n. 12366); alla presentazione da parte
del creditore convenuto in revocatoria di un’istanza di fallimento nei confronti del debitore, all’esperimento
da parte del creditore di procedure monitorie, alla sospensione delle forniture, all’incarico professionale
conferito al creditore di tenuta e compilazione delle scritture contabili dell’imprenditore fallito,
all’accettazione da parte del creditore di pagamenti in esecuzione di un concordato stragiudiziale o di un
piano di salvataggio (Cass., 22-4-2000, n. 5279).
28
3.4-Aspetti processuali
a-Competenza e giurisdizione
Competente a conoscere dell'azione revocatoria è il tribunale fallimentare, ossia il tribunale che ha dichiarato
il fallimento, giusto il disposto dell'art. 24 l.f., essendo la revocatoria fallimentare la più tipica delle azioni
derivanti dal fallimento. Tale tribunale fallimentare, identificandosi con il tribunale che ha dichiarato il
fallimento, non costituisce, quindi, un organo speciale dell'ufficio giudiziario, per cui, anche quando questo
sia un tribunale diviso in più sezioni con apposita sezione per la materia fallimentare, l’assegnazione della
controversia a tale sezione sarà un problema tabellare di distribuzione interna e non può dar luogo ad un
problema di competenza.
L’attribuzione della competenza come sopra indicata ha natura esclusiva e non ammette eccezioni, sicchè
anche nel caso che il convenuto in revocatoria sia altro fallimento, la competenza è sempre attribuita al
tribunale che ha dichiarato il fallimento il cui curatore agisce in giudizio; ciò quanto meno per ottenere la
declaratoria di inefficacia, dovendo il conseguente eventuale credito essere insinuato nel passivo del
fallimento soccombente secondo regole dell’accertamento del passivo.
In ipotesi di azione revocatoria promossa nei confronti di convenuto straniero, le Sezioni Unite della Corte di
Cassazione hanno affermato la giurisdizione del giudice italiano, atteso che, in base all’art. 3, 2° comma,
della l. n. 218/1995, nelle materie escluse dall’ambito di applicazione della Convenzione di Bruxelles
27/9/1968, tra le quali è compresa la materia fallimentare, la giurisdizione del giudice italiano sussiste in
base ai criteri di collegamento stabiliti per la competenza per territorio e, in “si determina tanto ai sensi
dell’art. 20 c.p.c., in relazione al domicilio del creditore al tempo della scadenza dell’obbligazione di
restituzione della somma corrispondente alla solutio revocanda (nella specie si trattava di revocatoria di datio
in solutum), e cioè presso la curatela fallimentare in Italia, quanto ai sensi dell’art. 24 legge fall., essendo il
tribunale italiano che ha dichiarato il fallimento competente a conoscere di tutte le azioni che ne derivano,
inclusa l’azione revocatoria ex art. 67 legge fallimentare”. (Cass. S.u. 13-12-2002, n. 17912; conf. Cass. S.u.
26-6-2001, n. 8745; Cass. S.u., 10-8-1999, n. 584).
Questa soluzione potrebbe essere messa in crisi dal regolamento del Consiglio della Comunità Europea n.
1346 del 29 maggio 2000, entrato in vigore il 31maggio 2002, che ha introdotto importanti novità in materia
di giurisdizione relativamente alle procedure di insolvenza; in particolare l’art. 18 indica che il curatore della
procedura di insolvenza cd. principale “può anche esercitare ogni azione revocatoria che sia nell’interesse dei
creditori”.
La genericità di questa disposizione rende possibile sia l’interpretazione secondo cui la giurisdizione di uno
stato membro stabilita per l’apertura della procedura di insolvenza vale anche per tutte le azioni che ne
derivano, sia l’interpretazione per la quale la giurisdizione del giudice in materia di azioni revocatorie si
determina caso per caso sulla base delle norme dello Stato membro in cui la procedura sia aperta. E’ chiaro
che se prevale la prima interpretazione con l’applicazione della lex fori concursus, continuerà a trovare
seguito l’orientamento giurisprudenziale in precedenza richiamato, nel mentre se prevarrà il secondo, la
possibilità di estensione degli effetti di azioni revocatorie che presentino elementi di estraneità dal punto di
vista dell’uno o dell’altro Stato membro è delimitata- prima ancora che dalla idoneità della decisione a venire
riconosciuta nell’ambito degli Stati membri in virtù delle disposizioni del regolamento- dalle norme che in
ciascuno Stato membro circoscrivono l’ambito della giurisdizione in materia di azioni revocatorie.
b-Composizione del tribunale
Ai sensi dell'art. 50 bis c.p.c. nei giudizi relativi all'azione revocatoria fallimentare il tribunale giudica in
composizione monocratica, non essendo detti giudizi menzionati tra quelli che detta norma riserva in via
eccezionale al tribunale in composizione collegiale; in particolare, essi non rientrano tra i giudizi di
revocazione, menzionati al n. 2, identificabili in quelli disciplinati dall'art. 102 l. fall., nè tra i giudizi devoluti
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alle sezioni specializzate, menzionati al n. 3, non costituendo, come appena detto, la sezione fallimentare un
organo giurisdizionale specializzato, bensì una semplice ripartizione interna del tribunale (nello stesso senso,
nel vigore del corrispondente art. 48 comma 2 dell'ordinamento giudiziario approvato con r.d. 30 gennaio
1941 n. 12, nel testo modificato dall'art. 88 l. 26 novembre 1990 n. 353, Cass. 27-9-2002, n. 14012).
c-Legittimazione attiva
La legittimazione attiva compete in via esclusiva al curatore fallimentare.
c.1-La legittimazione nell’ipotesi di fallimento di società di persone
In ipotesi di fallimento di una società di persone e dei soci illimitatamente responsabili, la legittimazione
all'esercizio dell'azione revocatoria contro atti di disposizione compiuti dal socio va riconosciuta, oltre che al
curatore del fallimento personale, anche al curatore del fallimento sociale, in considerazione dell'interesse
correlato agli effetti positivi che, ai fini del soddisfacimento dei creditori sociali, è destinato a produrre
l'incremento del patrimonio personale del socio (Cass., 30-1-1998, n. 969).
Nel quadro della giuridica coesistenza del fallimento della società e dei conseguenziali fallimenti dei soci
illimitatamente responsabili, la giurisprudenza ha anche distinto le azioni revocatorie da altre controversie
coinvolgenti la massa attiva personale del fallimento del socio che abbiano ad oggetto diritti che già
spettavano al fallito, chiarendo come, in queste ultime, il curatore del fallimento sociale sia privo di
legittimazione, nel mentre, quando agisce in revocatoria contro atti del socio, in cui la distinzione tra i due
fallimenti è unicamente finalizzata a limitare il concorso dei creditori particolari del socio al solo fallimento
del proprio debitore, la legittimazione del curatore ad esercitare le azioni che incrementino le masse attive è
"in re ipsa" e deve riconoscersi (Cass. 25-5-2001, n. 7105).
c.2-La pozione di terzo del curatore
In relazione ai fatti dedotti in giudizio, il curatore assume la posizione di terzo. La giurisprudenza, infatti, pur
continuando a parlare di fenomeni sostitutivi, ha da tempo diversificato la posizione del curatore in relazione
al ruolo che egli assume nei rapporti giuridici che confluiscono nel fallimento, rispetto ai quali può far valere
le ragioni del fallimento, quelle dei creditori o quelle del fallito; e, di conseguenza, nel primo caso la
posizione legittimante il curatore è determinata dall'ufficio stesso di cui è investito in quanto esercita poteridoveri che gli derivano direttamente da quell'ufficio pubblico autonomamente, senza alcun elemento di
connessione con le posizioni di altri soggetti entrati nel rapporto processuale fallimentare (egli, cioè, agisce
jure proprio), mentre, negli altri casi, la posizione legittimante i poteri del curatore, pur nella sua veste
pubblica di organo del fallimento, è quella propria di quel soggetto i cui interessi egli fa valere (agisce, cioè,
utendo juribus dei creditori o utendo juribus del fallito).
Di conseguenza, quando, come nella revocatoria fallimentare, il curatore esercita poteri-doveri
autonomamente inerenti al suo ufficio pubblico a tutela dell’interesse collettivo della ricostruzione del
patrimonio fallimentare esercitando una azione che deriva direttamnente dal fallimento, egli si pone nella
posizione di terzo, così come quando tutela posizioni soggettive spettanti ai creditori (ad es. quando fa valere
la simulazione di un contratto, o la revocatoria ordinaria o la responsabilità degli amministratori, azioni che
competono anche ai creditori); non è terzo, invece, quando si comporta come avente causa del fallito o
quando esercita un diritto trovato nel fallimento e nel quale è succeduto (quando subentra in un rapporto
contrattuale in corso a norma degli artt. 72 e segg., o quando, per i rapporti definiti, agisce per
l'adempimento o impiegando gli ordinari strumenti riparatori che l'ordinamento appresta in favore della parte
contrattuale quali la risoluzione, rescissione, annullamento ecc.).
La posizione di terzo comporta, da un lato, che il curatore non è tenuto (pur potendolo fare) a disconoscere le
scritture private del fallito (Cass., 20-11-1969, n. 3774), e, dall’altro, che può contestare l’anteriorità- rispetto
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alla dichiarazione di fallimento- del titolo documentale eventualmente prodotto dal convenuto per dimostrare
una situazione differente da quella rappresentata dal curatore quale presupposto dell’azione esercitata (ad es.
un documento che provi la simulazione del prezzo dell’atto oggetto di revocatoria o, di contro, la fittizietà di
un pagamento revocando, o l’esistenza di linee di credito non considerate dalla curatela per l’individuazione
delle operazioni revocabili, ecc.), eccependo la mancanza della data certa a norma dell'art. 2704 c.c., di modo
che la produzione da parte del convenuto di documentazione contrattuale è opponibile solo nei limiti di cui al
combinato disposto degli artt. 2704 cod. civ. e 45 l.fall..
d-Autorizzazione all’esercizio dell’azione
Prima dell’esercizio giudiziale dell’azione revocatoria il curatore deve chiedere al Giudice delegato
l’autorizzazione a promuovere l’azione revocatoria ed il Giudice, qualora ritenga fondata l’istanza, deve
provvedere con decreto autorizzando l’azione e designando il legale della procedura, al quale il curatore
rilascia la procura. Il mandato al procuratore legale del fallimento costituisce, pertanto, una fattispecie
complessa di procura alle liti, che si perfeziona con il concorso di tre distinti atti, due dei quali sono
demandati alla competenza del giudice delegato (autorizzazione a stare in giudizio, da concedersi al curatore
per ogni grado, e nomina dell'avvocato o del procuratore del fallimento), e l'altro alla competenza del
curatore (rilascio della procura al difensore designato dal giudice).
L'autorizzazione, per giurisprudenza unanime, vale solo per il grado di giudizio conferita e non è sufficiente
per l'esperimento delle azioni cautelari che si rendono necessarie in concorrenza con il diritto fatto valere. La
mancanza di autorizzazione da parte del giudice delegato, al curatore, essendo attinente all'efficacia di
attività processuale nell'esclusivo interesse del fallimento procedente, è suscettibile di sanatoria, con effetto
ex tunc, anche mediante l'autorizzazione per il giudizio di appello, sempre- però- che l'inefficacia degli atti
non sia stata, nel frattempo, già accertata e sanzionata dal giudice (giur. pacifica, tra le tante. cfr. Cass., 28-3
2003, n. 4704; Cass. 20-9-2002, n. 13764 e, con riferimento specifico all’azione revocatoria, Cass. 15-51997, n. 4310).
e-rapporti tra le varie fattispecie normative e modifica della domanda
Le fattispecie di revocatoria fallimentare disciplinate al 1° ed al 2° comma dell’art. 67 sono distinte ed
autonome tra loro, dando luogo a differenti domande che, pur potendo essere caratterizzate dal medesimo
petitum, si fondano su diverse causae petendi. Ne consegue, per un verso, che, sebbene l’autorizzazione sia
valida solo per l'azione indicata dal curatore, sia il procuratore della curatela, sia il giudice nel corso della
controversia possono cambiare denominazione all'azione (il nomen jiuris), sempre che non muti la
rappresentazione del fatto e, per altro verso, che il passaggio dall’una all’altra della fattispecie di revocatoria,
con mutamento dei fatti, costituisce una domanda nuova e non una mera emendatio, impedendo la modifica
della domanda in corso di causa ai sensi dell’art. 183 c.p.c. (Cass., 20-6-2000, n. 8375; Cass., 20-3-1999, n.
2589; Cass., 4-4-1997, n. 2936).
Invero, il principio dell'autonomia e reciproca distinzione delle singole ipotesi di revocatoria di cui,
rispettivamente, ai commi 1 e 2 dell'art. 67 l. fall. va coordinato ed adeguato con quello della
"riqualificazione officiosa della domanda da parte del giudice", secondo il quale, dedotto in causa, nei suoi
estremi materiali, l'atto di cui si chiede la revocazione, pur se erroneamente sussunto dalla parte in una delle
ipotesi previste dall'art. 67, anziché in un'altra, diversa da quella che nella specie gli è propria, non incorre
nel vizio di ultrapetizione il giudice che, d'ufficio, ne rilevi l'esatta qualificazione e decida la causa secondo
la "regula iuris" a questa corrispondente, atteso che, una volta chiaramente ed univocamente indicato, da
parte della curatela, l'atto giuridico i cui effetti si intendano neutralizzare, il problema dell'esatta
individuazione sub specie iuris della domanda a tal fine proposta diviene una questione di mera
qualificazione giuridica del "petitum" attoreo, correlata a quella dell'esatta denominazione dell'atto,
31
dall'attore pur sempre puntualmente indicato nella sua materialità e nei suoi effetti (In termini, Cass. 21-32003, n. 4126).
E’ consigliabile, pertanto, in caso di dubbio tra le diverse fattispecie revocatorie in cui un atto o pagamento
può essere inquadrato, richiedere un’autorizzazione ampia che copra tutte le fattispecie legali nelle quali può
essere sussunto il fatto materiale ritenuto pregiudizievole, eventualmente in via subordinata tra loro, e
controllare che il legale nominato rappresenti il fatto nella sua esattezza.
f-Improseguibilità della revocatoria e concordato fallimentare
Proprio perchè azione tipica fallimentare, la revocatoria diviene improseguibile in caso di chiusura del
fallimento per una delle ipotesi previste dall’art. 118 l.fall.. L’unica possibilità di sopravvivenza è prevista
dall’art. 124, comma 2°, l.fall., per il quale possono essere cedute all’assuntore del concordato fallimentare
che si accolla l’obbligo di adempiere al concordato le azioni revocatorie già proposte dal curatore
fallimentare alla data di deposito della proposta di concordato, purchè la cessione sia espressamente inserita
nella proposta di concordato e recepita nella sentenza di omologazione (giur. costante e pacifica)
La ragione della cessione in questo caso è individuata nel fatto che, ammessa la soluzione concordataria, la
par condicio verrebbe lesa se non vi fosse la possibilità dell'esperimento delle azioni revocatorie. Altrettanto
pacifica è la limitazione soggettiva della cessione solo in favore dell'assuntore e non anche del fallito e del
fideiussore, stante l'espressa disposizione dell'art. 124, nonchè la limitazione oggettiva della cessione delle
sole azioni già proposte dal curatore e, cioè, quelle già fatte valere in via di azione (con notifica della
citazione) o in via di eccezione in sede di verifica del passivo, dato che in tal senso si esprime l'art. 124, con
esclusione, quindi, delle azioni soltanto prospettate anche se è stata fatta espressa riserva di azione, o soltanto
autorizzate dal giudice delegato. E' chiaro l'intento del legislatore di impedire che possano essere esercitate
revocatorie indiscriminatamente da parte dell'assuntore senza un preventivo controllo del giudice delegato.
g-L’interesse ad agire
L’interesse ad agire del curatore è individuabile nel pregiudizio che l’atto da revocare arreca alla massa
fallimentare e del significato di pregiudizio e delle relative presunzioni si è già parlato nel par. 1, cui si
rinvia.
h-Legittimazione passiva
Passivamente legittimato è l’accipiens del pagamento, ovvero il terzo contraente dell’atto revocando, senza
che sussista litisconsorzio necessario con il debitore fallito (Cass., 30-1-1985, n. 579), che non è parte in
causa e, quindi, non è deferibile nei suoi confronti il giuramento decisorio, né egli può prestare interrogatorio
formale (Cass., 13-6-1975, n. 2370).
Per il principio della esclusività dell’accertamento del passivo, il convenuto in revocatoria non può proporre
domanda riconvenzionale di pagamento, ancorché fondata sullo stesso rapporto dedotto in revocatoria,
giacchè eventuali pretese creditorie nei confronti del fallimento potranno, nel rispetto del disposto di cui
all’art. 52 l.fall., essere azionate nelle forme dell’insinuazione allo stato passivo fallimentare ai sensi degli
artt. 93 e 101 l.fall..
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3.5-Effetti della pronuncia revocatoria
a-Effetti tra le parti e nei confronti della massa
La revocatoria fallimentare determina esclusivamente la declaratoria di inefficacia dell’atto revocato nei
confronti della massa dei creditori, mentre non incide sulla validità dell’atto stesso tra le parti originarie.
(Cass., 2-4-1984, n. 2154; Cass., 13-6-1978, n. 2936). Ossia, la revocatoria fallimentare non comporta una
reale restituzione alle attività fallimentari del bene oggetto del negozio giuridico revocato, ma, senza
determinare variazioni nella titolarità dei diritti, afferma il potere del curatore fallimentare di disporre dei
diritti stessi, appartengano essi al fallito, che ne sia rimasto titolare, o ad altri che ne abbiano assunto la
titolarità; ciò perché tale istituto, al pari della revocatoria ordinaria, costituisce un mezzo straordinario di
reintegrazione della responsabilità patrimoniale di un imprenditore commerciale fallito a favore dei creditori
concorrenti, basato sulla dichiarazione di inefficacia che investe l'oggetto dell'atto nei confronti di tutti i
creditori anteriori o posteriori. Ossia, la pronuncia di revoca produce una inefficacia puramente relativa
all’atto nei confronti della massa dei creditori, ma tra le parti il contratto è valido e produce i suoi effetti, o
meglio riprenderà a produrli quando il fallito sarà tornato in bonis, sicchè il proprietario del bene acquistato
rimane colui che ha fatto l’acquisto (il fallito nel caso che oggetto della revoca sia un contratto di acquisto oil
terzo, nel caso che oggetto sia il contratto di vendita) e la disponibilità dello stesso è passato alla curatela.
b-Effetti del’azione revocatoria nei confronti dei terzi subacquirenti
b.1-esperibilità dell’azione
L’esperibilità dell’azione revocatoria fallimentare nei confronti del subacquirente è stata positivamente
risolta dalla giurisprudenza (Cass. 16-3-1977, n. 1041; Cass. 25-9-1978, n. 4279; Cass. 14-1-1980, n. 322;
Cass. 25-6-1980, n. 3983; Cass. 21-3-1996, n. 2423), con una logica sequenza argomentativa, di cui dà
ampiamente conto l’ultima decisone richiamata.
Spiega, infatti, la Corte che se, da un lato, l'art. 67 l.fall. delinea, come oggetto della revocatoria fallimentare,
esclusivamente negozi o atti giuridici intervenuti tra il debitore, poi fallito, ed un terzo soggetto, dall’altro
l'art. 2901 comma 4 c.c., per la revocatoria ordinaria prevede che l'inefficacia dell'atto non pregiudica i diritti
acquistati a titolo oneroso dai terzi di buona fede, consentendo di ritenere, con argomento a contrariis, che i
terzi acquirenti di mala fede subiscono invece l'effetto pregiudizievole dell'inefficacia dell'atto intervenuto tra
il debitore ed il suo avente causa diretto. Questa norma, stante l'identità sostanziale e funzionale tra la
revocatoria ordinaria e quella fallimentare e la norma di collegamento contenuta nell'art. 2904 c.c., assume
caratteristica di disciplina generale applicabile anche alla revocatoria fallimentare, da cui la deriva la
necessaria conclusione non solo che la revocatoria fallimentare è ammissibile verso i terzi subacquirenti, ma
altresì che il fondamento dell'azione riposa non già nell'artt. 67 l.fall., bensì sull'ultimo comma dell'art. 2901
c.c..
Individuata la fonte normativa dell'esperibilità dell'azione revocatoria nei confronti dei subaquirenti
dall'avente causa dal fallito-aggiunge la Corte- conseguente è anche la deduzione che l'azione è esperibile,
non solo nei confronti del primo subacquirente ma è estensibile a tutti gli aventi causa in sequenza, dato che
nel quarto comma citato dell’art. 2901 c.c. il riferimento letterale è "ai terzi", o agli" aventi causa" che si
trovino in una situazione di conoscenza qualificabile come "mala fede, e ciò senza limitazione nella serie
sequenziata dei possibili "terzi", sia dalla sistematica in cui la disciplina si inserisce. Se, infatti, la ragione
dell'estensione di un'originaria efficacia ai terzi che dell'originario rapporto non furono parti, deve ricercarsi
nella mala fede di detti terzi i quali, avendo operato nella consapevolezza del vizio originario, non meritano
tutela giuridica, non vi è ragione di scindere, sul piano della legittimazione passiva, tra l'acquirente
immediato dall'avente causa dal fallito e gli aventi causa successivi, purché non si interrompa la serie delle
situazioni di consapevolezza.
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Si, può, quindi, dire che l'azione esperibile contro un subacquirente è sempre una revocatoria ordinaria, che
ha come condizione presupposta la revocatoria fallimentare verso il primo atto della serie, per cui
l'inefficacia dell'atto del fallito che è all'origine della catena dei trasferimenti deve preliminarmente essere
accertata (eventualmente in via incidentale), applicandosi ad essa la disciplina sua tipica e speciale dell'art.
67 l.fall., anche con riferimento alle condizioni dell'azione. E’, invece, irrilevante che le condizioni
dell'azione ex art. 67 l.fall. ricorrano anche in relazione dell'aquisto del subacquirente, in quanto l'inefficacia
di questo non dipende dalla sua autonoma revocabilità ma, a norma del quarto comma dell'art. 2901 c.c.,
dalla soggettiva situazione di mala fede del subacquirente riguardo all'atto d'acquisto del suo dante causa, di
modo che, per dichiararsi l'inefficacia dell'ultimo acquisto della serie, si dovrà preliminarmente accertare
quella di tutti gli atti che ne sono a monte, fermo restando che le condizioni di revocabilità previste dall'art.
67 l.fall.. rilevano soltanto in relazione all'atto originario compiuto dal fallito, mentre i successivi
trasferimenti fino all'ultimo saranno regolati dal quarto comma dell'art. 2901 c.c..
b.2-Significato della mala fede
Nell'istituto fondamentale disciplinato dell'art. 2901 c.c., la mala fede del terzo consiste nella sua
consapevolezza del fatto che il debitore aveva contratto nella consapevolezza dei vizi di revocabilità dell'atto
originario.; quando, però, l'atto originario sia un atto revocabile ex art. 67 l.fall., la mala fede del terzo deve
individuarsi nella consapevolezza delle circostanze che, ai sensi della legge fallimentare, rendevano
revocabile l'atto compiuto del fallito, ossia nella consapevolezza del vizio di revocabilità che inficiava l'atto
di trasferimento originario, sicchè diventa essenziale la dimostrazione della scientia decoctionis
dell'immediato acquirente dal fallito al momento del primo atto della serie, e della consapevolezza del vizio
originario dell'atto da parte del successivo acquirente al momento del proprio acquisto.
Nel caso peraltro che il soggetto convenuto non sia il primo subacquirente successivo, poiché, come rilevato,
l'inefficacia dell'ultimo atto della serie è la conseguenza dell'inefficacia di tutti i trasferimenti precedenti, la
mala fede dell'ultimo subacquirente dovrà essere attinente non solo alle condizioni di inefficacia del primo
atto compiuto dal fallito, ma anche di quelli di tutti gli atti interposti ed intermedi. Poiché la revocatoria
proposta contro l'ultimo subacquirente è un effetto riflesso dell'inefficacia del primo atto e di tutti quelli
successivi intermedi, consegue che, sia la regolarità del primo atto sia quella di un atto intermedio della serie,
è idoneo ad interrompere la serie dei riflessi successivi.
Qualora, invece, il terzo si sia reso acquirente a titolo gratuito, in base al disposto di cui all’art. 2901, 1°
comma n. 2 c.c., non rileva lo stato soggettivo di buona o di mala fede del terzo e l’inefficacia dell’originario
atto traslativo è immediatamente operante nei confronti del subacquirente a titolo gratuito.
b.3-distribuzione dell’onere probatorio della mala fede
Nell'ambito originario della disciplina dell'art. 2901 c.c., la buona fede del terzo, in applicazione del
principio generale relativo, deve essere presunta e la malafede del terzo grava sull'attore in revocatoria. Lo
stesso principio vale per la revocatoria fallimentare contro il terzo acquirente, poiché, come detto, anche
questa è in realtà una revocatoria ordinaria, in quanto disciplinata dall'ultimo comma dell'art. 2901 c.c., e
fondata sul presupposto di un'originaria revocatoria fallimentare, fermo sempre che nei confronti del
soggetto che sia entrato in rapporto diretto con il fallito valgono le presunzioni di cui all’art. 67 l.fall.. Questa
differenziazione deriva dalla netta distinzione tra il presupposto soggettivo della revocatoria fallimentare,
limitata al primo trasferimento ad opera del fallito, da quello dei trasferimenti successivi, che si riallaccia alla
considerazione che la presunzione della conoscenza dello stato di insolvenza del primo acquirente dal
debitore, poì fallito, si spiega col fatto che egli è partecipe unitamente al fallito di atti la cui anomalia
(vendita a prezzo vile, per quanto qui possa interessare) è indice della partecipazione ad un negozio in danno
dei creditori, salvo dimostrazione contraria; man mano che ci si allontana dall'atto compiuto dal fallito,
all'esigenza di tutela dei creditori si affianca, e diviene preminente, l'esigenza della certezza dei rapporti
34
giuridici nel tempo, certezza che verrebbe non lievemente vulnerata qualora tutta la serie delle vendite
successive fosse revocabile su una serie ininterrotta di presunzioni di conoscenza del presupposto soggettivo
della revocatoria sia del primo atto, sia degli atti successivi indiscriminatamente.
3.6-Le esenzioni dalla revocatoria
Il 3° comma dell’art. 67 esclude dall’applicabilità dell’azione revocatoria fallimentare l’istituto di emissione
(Banca d’Italia), gli istituti autorizzati a compiere operazioni di credito su pegno, limitatamente a tali
operazioni, nonché gli istituti di credito fondiario. Vengono inoltre fatte salve le disposizioni previste dalle
leggi speciali.
a-Istituti autorizzati
Per gli istituti autorizzati a compiere operazioni di credito su pegno l’esenzione dalla revocatoria viene
limitata, sulla base di una interpretazione restrittiva, ai soli istituti istituzionalmente organizzati ed
autorizzati a compiere operazioni di prestito su pegno in base alla disciplina di cui all’art. 32 della
l.n.745/1938 e dall’art. 60 del r.d. n. 1297/1939 (Cass., 18-11-1998, n. 11606; Cass., 25-1-1993, n. 851;
Cass., 16-10-1987, n. 7649), per cui sono quindi regolarmente assoggettati alla revocatoria gli altri istituti di
credito, cui il t.u. n. 385/1993 ha espressamente conferito la possibilità di erogare anticipazioni garantiti da
pegno (Cass., 18-11-1998, n. 11606).
b-Credito fondiario
Il quarto comma dell'art. 39 del T.U. bancario n. 385/1993 dispone che "le ipoteche a garanzia dei
finanziamenti non sono assoggettate a revocatoria fallimentare quando sono iscritte dieci giorni prima della
pubblicazione della sentenza dichiarativa di fallimento. L'art. 67 della legge fallimentare non si applica ai
pagamenti effettuati dal debitore a fronte dei crediti fondiari".
Come si vede la norma contiene due disposizioni:
-una, tipica delle operazioni di credito fondiario, prescrive il consolidamento abbreviato dell'ipoteca
fondiaria rendendo inesperibile l'azione revocatoria fallimentare quando l'ipoteca sia stata iscritta almeno
dieci giorni prima della sentenza dichiarativa del fallimento del debitore, secondo una tradizione già
codificata negli artt. 18 e 24 del T.U. del 1905 e ripresa dall'art. 4 del DPR n. 7/76 e dall'art. 6 legge n.
175/91, che ha sempre reso, di fatto, irrevocabile l’ipoteca fondiaria data la brevità del termine di
consolidamento.
-L'altra esenta espressamente dalla revocatoria fallimentare i pagamenti effettuati dal debitore a fronte dei
crediti fondiari, abrogando l'esenzione già contenuta nell'art. 67 l.fall., nella parte in cui esclude
l'applicabilità delle disposizioni dell'articolo medesimo agli istituti di credito fondiario.
Nonostante questa disposizione della legge fallimentare è stata molto opportuna la norma speciale che ha
eliminato i dubbi che la precedente norma determinava, adattando la nuova normativa ai criteri di
despecializzazione del credito attuati con la nuova legge bancaria che rendono inattuale una deroga di
carattere soggettivo. Venuta meno, invero, la categoria degli istituti di credito fondiario quali unici enti
demandati all'esercizio del credito fondiario, anche l'esenzione doveva essere convertita in funzione
oggettiva, con riferimento ai pagamenti effettuati a fronte dei crediti fondiari, che sono quelli nascenti dalle
operazioni di credito fondiario disciplinate del precedente articolo 38, che contiene la nozione di credito
fondiario; di conseguenza, oggi è pacifico che le esenzioni indicate riguardano soltanto le operazioni di
credito ipotecario fondiario, in cui non vanno comprese altre operazioni ipotecarie di carattere non fondiario
(anche se poste in essere da una banca che limiti la propria attività alle sole operazioni di credito fondiario),
nè le operazioni di natura non creditizia (quali, ad es. l'acquisto di un immobile da destinare ad uso ufficio,
ecc.).
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Pur così delimitata oggettivamente, la categoria delle operazioni esenti rimane vasta, ma sicuramente è più
circoscritta rispetto alla previsione di cui all'art. 67 l.fall.. In primo luogo, infatti, l'esenzione riguarda
esclusivamente i pagamenti, di modo che ne restano esclusi (nel senso che sono soggetti a revocatoria) tutti
gli atti di adempimento e le prestazioni del debitore a carattere non monetario (ivi compresa una eventuale
datio in solutum, una cessio solvendi causa, ecc.). Esenti dalla revocatoria sono, è bene precisare, i
pagamenti delle rate del finanziamento fondiario, sicchè rimangono assoggettati all'azione revocatoria i
pagamenti di debiti di diversa natura, anche se effettuati con le somme ottenute a seguito dell'erogazione del
finanziamento fondiario, alla stregua di qualsiasi altro pagamento; a meno che il finanziamento fondiario non
venga utilizzato per estinguere un precedente debito nato anch'esso da operazioni di credito fondiario. Ciò
che rileva, in sostanza, ai fini dell'esenzione dalla revocatoria, non è la provenienza della somma utilizzata,
ma la natura del debito estinto.
Sono, inoltre, sottratti alla revocatoria soltanto i pagamenti effettuati dal debitore. Il che comporta, seguendo
un'interpretazione restrittiva che la natura eccezionale e derogatoria della norma impone, da un lato, che
rientrano nell'esenzione anche i pagamenti effettuati dal debitore fallito a fronte di un credito fondiario da lui
contratto, sebbene assistito da ipoteca di un terzo, e, dall'altro, che sono esclusi dall'esenzione i pagamenti di
debiti fondiari altrui, quelli, cioè effettuati da un soggetto, non obbligato, poi assoggettato a fallimento; con
conseguente applicazione, ove l'adempimento del debito altrui sia qualificabile come atto a titolo gratuito,
dell'art. 64 l.fall.. Infatti, l'espresso richiamo contenuto nella norma derogatoria in esame all'art. 67 induce a
ritenere che i pagamenti di crediti fondiari siano sottratti soltanto alla revocatoria prevista dall'articolo
richiamato, con conseguente applicazione delle altre fattispecie revocatorie di cui agli artt. 64 e 65 l.fal., in
presenza dei relativi presupposti
Il pagamento delle rate scadute è, invece, esentato non solo dalla revocatoria fallimentare, in forza della
disposizione di cui all'art. 39 in esame, ma è sottratto anche alla revocatoria di cui all'art. 66 l.fall., perchè
questa norma è applicabile soltanto nei limiti in cui è operabile la revocatoria ordinaria, ed il terzo comma
dell'art. 2901 c.c. esclude la revocabilità dei pagamenti di crediti scaduti..
c-Factoring
La qualificazione giuridica del "factoring", stipulato in conformità alle disposizioni di cui alla l. 21 febbraio
1991 n. 52, nel suo momento genetico originario e nello sviluppo attuativo del rapporto che da esso trae
origine, ben lungi dal potersi inquadrare in un mandato, si traduce, invece, in una pluralità di negozi traslativi
della titolarità dei crediti in forza dei quali il "factor" assume la legittimazione ad esigerne e riceverne
l'adempimento "iure proprio" e non per conto di altri ed i versamenti da lui effettuati al cedente costituiscono
atti di pagamento parziale anticipato del corrispettivo delle cessioni, cosicché nel momento della riscossione
del credito ceduto, il "factor" non assume una duplice posizione di debitore della restituzione dell'ammontare
incassato e di creditore di quanto anticipatamente erogato, bensì di mero debitore verso il cedente del saldo
del corrispettivo tra il prezzo della cessione e l'anticipazione effettuata al netto dei costi gravanti sul cedente,
di guisa che non si configura neppure una compensazione in senso giuridico.
Pertanto, il curatore del fallimento del cedente non può esperire l'azione revocatoria fallimentare del
pagamento del creditore ceduto, secondo le norme comuni, nè la può esperire il curatore del fallimento del
ceduto per l’esenzione prevista dall’art. 6 della l. n. 52/1991 per i pagamenti compiuti dal debitore ceduto al
cessionario (Cass., 12-11-1999, n. 12539). Tuttavia, tale azione può essere proposta nei confronti del cedente
qualora il curatore provi che egli conosceva lo stato di insolvenza del debitore ceduto alla data del
pagamento al cessionario.
Ritornando al fallimento del cedente, il curatore può, invece, far valere le pretese di cui all'art. 7 l. n. 52/1991
e, quindi eccepire l'inopponibilità della cessione dei crediti al fallimento laddove ricorrano i presupposti della
conoscenza dello stato di insolvenza del cedente, dell'esecuzione del pagamento da parte del cessionario al
cedente suscettibile di revoca nell'anno anteriore al fallimento e della verificazione del detto pagamento
prima della scadenza del credito ceduto.
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d-Esenzioni da altre leggi speciali
Tra le ulteriori ipotesi di esenzione dalla revocatoria previste dalle leggi speciali, si possono ricordare
l’esenzione per le imprese di credito artigiano di cui all’art. 40, 1° comma, della l. n. 949/52 (Cass., 17-91992, n. 10652); l’esenzione per gli istituti di credito autorizzati, in base all’art. 20 della l. n. 623/1959,
all’erogazione di finanziamenti destinati ad incentivare la piccola e media industria, quando il finanziamento
interviene allo scopo di incentivare i settori produttivi considerati dalla legge stessa (Cass., 13-8-1999, n.
8634); l’esenzione di cui al d.lgs. n. 538/1992 dei pagamenti effettuati in favore di imprese fornitrici di
prodotti galenico-sanitari; l’esenzione particolare per operazioni di “cartolarizzazione” dei debiti (art.4
l.n.130/1999); i pagamenti disposti a favore di enti previdenziali (Cass., 6-5-1998, n. 4550; Cass., sez. I, 1407-1994, n. 6609) e dell’amministrazione finanziaria per debiti d’imposta dirette e indiritte (dopo il 1988)
(Cass., s.u., 30-3-1994, n. 3131).
3.7-La ricollocazione del credito di restituzione
A norma dell’art. 71 l.fall., colui che per effetto della revoca ha restituito quanto aveva ricevuto è ammesso
al passivo fallimentare per il suo eventuale credito. Si tratta di una disposizione importante in quanto
consente la partecipazione al passivo del credito di restituzione che, senza l'espressa disposizione di cui
all'art. 71, non avrebbe potuto partecipare al concorso, sorgendo dopo la dichiarazione di fallimento per
effetto dell'avvenuta restituzione.
Per la precisione, supponendo per semplicità espositiva che il curatore abbia promosso azione revocatoria di
pagamenti, per effetto dell'accoglimento della domanda con sentenza costitutiva, grava sul convenuto
soccombente l’obbligazione, direttamente verso la massa, di restituzione delle somme oggetto di revocatoria;
la concreta restituzione alla massa della somma ricevuta in pagamento determina la “nascita” di un credito
del terzo, ed è di questo credito, c.d. di restituzione, che tratta l’art. 71 l.fall. Il primo è un debito del terzo
verso la massa che discende dall’accoglimento della revocatoria (e, quindi non può essere compensato con
un suo credito verso il fallito, per mancanza di reciprocità (giur. costante, tra le ult., Cass. 26-7-2002, n.
11030; Cass. 14-10-1998, n. 10140), il secondo è un credito, che è una logica conseguenza del rapporto che
si crea tra la massa e il creditore con la restituzione della somma revocata, che il legislatore, con la norma di
cui all’art. 71 l.fall., ha trasformato in credito concorsuale che partecipa al concorso con gli altri creditori.
La parificazione del soccombente in revocatoria ai creditori concorsuali rende indispensabile una
manifestazione di volontà dell’interessato, così come di ogni altro creditore concorsuale, di azionare il suo
credito nel fallimento con l’unico strumento concesso, che è quello dell’insinuazione al passivo, posto che il
provvedimento di ammissione di un credito al passivo fallimentare costituisce per ogni creditore il titolo
necessario per trovare soddisfazione coattiva sul patrimonio del debitore fallito; è da escludere, pertanto, non
solo l’ammissione automatica, come la lettera della norma potrebbe far pensare, ma anche che la domanda
possa essere proposta in via riconvenzionale nello stesso procedimento di revoca, quando, peraltro, il credito
non è ancora sorto non essendo stata ancora effettuata la restituzione.
a-La reviviscenza delle garanzie e delle prelazioni
Il problema della reviviscenza delle garanzie riguarda ovviamente la revocatoria dei pagamenti, ove è
indubbio che il terzo soccombente debba restituire alla massa quanto ricevuto a soddisfazione del suo credito
e che, effettuata la restituzione, abbia diritto a partecipare per l’equivalente importo al concorso, giusto il
disposto dell’art. 71 l.fall.; il quesito che si pone è se, in questo caso, rivivono le garanzie, reali e personali, o
più in generale le cause di prelazione che assistevano il credito originario, estinto col pagamento poi
revocato.
Rifiutato i sillogismo secondo cui come l'estinzione del rapporto principale travolge quello accessorio, così il
rivivere del credito comporta la riviviscenza delle garanzie che lo assistevano per la chiara distorsione del
concetto di accessorietà su cui si fonda (questa implica soltanto la sussistenza dell’obbligazione garantita e
non che, dopo la estinzione del debito, la garanzia segua le vicende del credito garantito), è opportuno
esaminare distintamente le varie categorie di garanzie.
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a.1-Reviviscenza della fideiussione
Questo argomento è stato di recente oggetto di specifico esame da parte della S.C. (Cass. 20-12-2002, n.
18156, che ricorda come unico precedente Cass. 12-1- 1938, n. 88. La stessa questione era stata solo sfiorata
da Cass. 14-3-2000, n. 2912), che ha escluso che la fideiussione prestata a garanzia di un credito
originariamente estinto mediante pagamento, poi revocato a seguito della dichiarazione di fallimento del
ebitore, possa rivivere parallelamente alla reviviscenza del credito giacchè l’azione revocatoria è diretta a
ripristinare l'integrità della garanzia patrimoniale attraverso la dichiarazione di inefficacia, nei confronti dei
soli creditori, di un atto che resta perfettamente valido tra le parti, nonché produttivo degli eventuali effetti
eccedenti il pregiudizio. Tant’è, ricorda la Corte, che, in caso di revoca della procedura, il curatore non
potrebbe non restituire al creditore revocato la somma restituita se ancora nella sua disponibilità (Conf. Cass.
11 novembre 1978, n. 5176), il che si spiega, appunto, con l'assenza di un pieno effetto restitutorio di natura
sostanziale e la limitazione funzionale della restituzione allo scopo della reintegrazione della garanzia
patrimoniale, dato che la revocatoria fallimentare, al pari della revocatoria ordinaria, costituisce un mezzo
straordinario di reintegrazione della responsabilità patrimoniale di un imprenditore commerciale fallito a
favore dei creditori concorrenti, basato sulla dichiarazione di inefficacia che investe l'oggetto dell'atto nei
confronti di tutti i creditori anteriori o posteriori.
In questa ottica, la revoca del pagamento eseguito dal fallimento del debitore non può far rivivere le garanzie
accessorie proprio perché se l'atto colpito da revocatoria è valido e produttivo dei suoi normali effetti erga
omnes, salvo l'effetto secondario della sottrazione del suo oggetto alla responsabilità verso i creditori del
fallito, la revocatoria del pagamento non può essere invocata nei confronti del terzo fideiussore quale titolo
giuridico per far rinascere la garanzia a favore di un credito estinto e che risorge solo nei confronti della
massa, al precipuo fine di permettere, attraverso la restituzione della somma pagata- che, perciò, non ha
effetto sostanziale e definitivo- la soddisfazione delle ragioni creditorie, fermo restando che l’effetto
estintivo, definitivamente verificatosi con il pagamento, rimane in sè e per sé valido erga omnes ed efficace
tra le parti. L'esclusione della reviviscenza della garanzia fideiussoria del pagamento revocato risponde,
inoltre, ad un principio di giustizia equitativa, volto ad evitare, da un lato, il perpetuarsi di uno stato di
incertezza e, dall’altro, che il terzo rimanga indefinitivamente legato alle vicende del credito garantito la cui
estinzione è ricondotta a comportamenti pregiudizievoli del creditore e del debitore ai quali il fideiussore è
rimasto estraneo ed in relazione all'esito di un giudizio al quale il fideiussore non ha partecipato.
La reviviscenza della garanzia potrebbe egualmente essere recuperata ove esistesse nel nostro sistema una
regola generale dalla quale ricavare che, a seguito della estinzione della obbligazione e del successivo venir
meno dell’effetto estintivo, le garanzie prestate dallo stesso debitore o da terzi possano rivivere; ma una
regola del genere non esiste. La Corte, nella stessa sentenza sopra richiamata, elenca analiticamente tutte le
norme che disattendono tale principio, sanzionando espressamente la perdita della garanzia pur in presenza
di reviviscenza del credito (artt. 1197, 1213, 1276, 2926 e 2927 c.c.,) ed anche quell’unica norma che lo
ammette (l’art. 2881 c.c.), precisando che tale norma è comunque inapplicabile alla fattispecie fiideiussoria
perchè essa parla dell'annullamento e dell'insussistenza della causa estintiva dell’obbligazione, da cui fa
discendere il diritto ad una nuova iscrizione ipotecaria (che è l'ambito entro il quale è dettata la norma); di
modo che, anche ad ammettere che le nozioni di insussistenza e nullità espresse testualmente dalla norma
possano essere estese a quella di inefficacia e che nel campo operativo della norma rientri qualsiasi forma di
garanzia (anche non ipotecaria), tale norma è comunque inapplicabile alla fattispecie fiideiussoria perchè
essa non determina la riviviscenza della garanzia ipotecaria, ma consente la costituzione di una nuova
ipoteca che prende grado dalla sua data..
A maggior ragione l’accipiens non potrà mai ottenere la riviviscenza della fideiussione nel caso in cui abbia
definito in via transattiva col curatore la questione, insorta o insorgenza, della inefficacia dei pagamenti
ricevuti. In questi casi, si ritiene che il convenuto in revocatoria, che a seguito di intervenuta transazione con
il curatore fallimentare abbia versato allo stesso l'importo concordato, ha diritto di insinuarsi al passivo per
detto importo quando non abbia al contempo rinunciato al diritto di cui all'art. 71 l. fall. (Trib. Roma 2 luglio
1997 in Foro it. Rep. Voce Fallimento 1999, 632; Trib. Bologna, 27 novembre 1990 in Fallimento
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1991,505), ma è impensabile che, estinto il credito e la fideiussione, quest’ultima possa risorgere per effetto
di un accordo tra creditore e curatela, che non può estendere i suoi effetti in danno del terzo che a quella
transazione non ha partecipato.
a.2-Reviviscenza dell’ipoteca
Eguale conclusione di non reviviscenza della garanzia è da adottare nel caso che il credito originario fosse
garantito da ipoteca su un bene del debitore, giacchè, ai sensi dell'art. 2878 n. 3 c.c., l'ipoteca si estingue con
l'estinguersi dell'obbligazione garantita, e, pertanto, effettuato il pagamento, cessa ogni diritto di prelazione
del creditore ipotecario, ormai soddisfatto, mancando una norma che preveda il trasferimento della garanzia
ipotecaria, a seguito della revoca del pagamento, in altra forma di garanzia, con efficacia sulla somma
restituita dal creditore al curatore del fallimento (Cass. 22-4-1998, n. 4078, con riferimento all’ipoteca
automobilitstica; Cass. 19 ottobre 1976, n. 3608).
Questa norma non può essere quella di cui all’art. 2881 c.c.. Ques’ultima, infatti, si riferisce all'ipotesi in cui,
successivamente al verificarsi di una causa estintiva dell'ipoteca, risulti l'insistenza o l'invalidità di detta
causa (oppure è dichiarata nulla la rinuncia fatta dal creditore all'ipoteca), per cui essa prende in
considerazione soltanto le cause estintive dell’obbligazione affette da un vizio originario tale da
determinarne la dichiarazione di inesistenza o di invalidità, e non il venir meno della causa estintiva per fatti
sopravvenuti quale è una sentenza di revoca costitutiva della inefficacia del pagamento.
Né la conclusione cambia nella sostanza ove si ritenga che nella norma di cui all’art. 2881 c.c. siano
comprese anche le ipotesi di inefficacia della causa estintiva del credito per la identità della ratio legis in
tutte le fattispecie di estinzione, perché, pur così interpretato il dato normativo, la rinascita del credito a
seguito della dichiarazione di inefficacia del pagamento non determina automaticamente la reviviscenza
dell’ipoteca, dato che l’art. 2881 c.c. prevede soltanto che l'ipoteca conseguente al venir meno dell’effetto
estintivo del credito, può essere nuovamente iscritta con un nuovo grado, da cui discende che questa nuova
iscrizione non è opponibile al fallimento a norma dell’art. 45 l.fall., per cui il credito rivive agli effetti del
concorso come chirografo. Restando nell’ambito di questa interpretazione estensiva, deve, invece ritenersi
che se l'iscrizione originaria non è stata cancellata a seguito del pagamento, essa continua e con essa l'ipoteca
e si perde con efficacia retroattiva il diritto alla cancellazione a causa della carenza originaria del titolo
giustificativo. Ciò, ovviamente sempre che non sia mutata la situazione di fatto che permetta l’esercizio della
garanzia, quale la permanenza del bene ipotecato nel patrimonio del fallito o il mantenimento da parte del
creditore del possesso del bene oggetto di pegno.
a.3-Reviviscenza dei privilegi
Più complesso è il problema nel caso il credito originario fosse stato assistito da un privilegio giacchè questi
ultimi rappresentano una qualità del credito che, in ragione della sua causa, nasce come privilegiato, senza
creare un distinto e collaterale autonomo diritto.
Sembrerebbe, quindi, che, in caso di revoca dei pagamenti effettuati, i crediti riprendano le loro qualità
intrinseche, tra cui i privilegi che li assistevano (in tal senso, App. Napoli 31-1-1968 in Dir. giur. 1968, 641;
Trib. Genova 6-9-1985, in Fallimento 1986, 464 (s.m.), Trib. Firenze 6-3-1978 in Dir. fall. 1978, II, 314;
Trib. Milano 1-4- 1974, ivi, 1974, II, 1169; Trib. Firenze 20-4-1966 in Giur. it. 1966, I,2,618), sempre che si
tratti di privilegi generali, giacchè per i privilegi speciali e maggior ragione per quelli possessuali o quasi
possessuali (che richiedono, per la loro esistenza, la fisica disponibilità del bene nel patrimonio del creditore)
e per quelli c.d. convenzionali (che sono sottoposti a determinate formalità di costituzione, modificazione ed
estinzione), è pur sempre richiesta perchè possano rivivere l’esistenza del bene oggetto del vincolo o la
ricorrenza delle altre condizioni richieste per la nascita di queste ultime categorie di privilegi.
Qualche dubbio su questa soluzione è prospettabile in considerazione del fatto che il credito, che il creditore
revocato può insinuare al passivo in forza dell'art. 71 l.fall., non è lo stesso credito originario, che appunto
rivive con le su qualità, ma un credito nuovo, autonomo e distinto da quello per il quale era stato eseguito il
pagamento revocato, in quanto è fondato non sulla causa del credito anteriore che giustificava la prelazione,
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bensì sull'avvenuta restituzione di quanto ricevuto. Se così non fosse, si dovrebbe coerentemente riconoscere
la superfluità dell'art. 71, perchè già il sistema fallimentare consente la partecipazione al concorso di un
credito per il solo fatto di non essere stato integralmente e definitivamente soddisfatto prima del fallimento (e
tale, in definitiva, diventerebbe quello il cui titolare abbia subito la revoca del pagamento); perciò, per dare
un senso alla norma citata, occorre riconoscere che tale credito, poiché sorge da una fattispecie complessa
che si completa, dopo la dichiarazione di fallimento e la pronuncia di revoca costitutiva, con la restituzione
alla massa, ai fini del concorso, della somma ricevuta, è un credito autonomo che, senza l'espressa
disposizione di cui all'art. 71 (dettato per evitare un ingiustificato arricchimento della massa), non avrebbe
potuto partecipare al concorso.
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LA REVOCATORIA RIFORMATA
Sommario:
1-Ambito di applicazione della nuova normativa;
2-Le modifiche introdotte dalla riforma. Il periodo sospetto;
3-La revocatoria degli atti “anomali”;
4-La revocatoria degli atti normali;
-a)“i pagamenti di beni e servizi effettuati nell’esercizio dell’attività d’impresa nei termini d’uso”
-b) “le rimesse effettuate su un conto corrente bancario, purchè non abbiano ridotto in maniera
onsistente e durevole l’esposizione debitoria del fallito nei confronti della banca”.
-c)“le vendite a giusto presso d’immobili ad uso abitativo, destinati a costituire l’abitazione
principale dell’acquirente o di suoi parenti e affini entro il terzo grado”.
-d) “gli atti, i pagamenti e le garanzie concesse su beni del debitore purchè posti in essere in
esecuzione di un piano che appaia idoneo a consentire il risanamento dell’esposizione debitoria
dell’impresa e ad assicurare il riequilibrio della sua situazione finanziaria e la cui
ragionevolezza sia attestata ai sensi dell’art. 2501 bis, quarto comma, del codice civile”.
-e) “gli atti, i pagamenti e le garanzie posti in essere in esecuzione del concordato preventivo,
ell’amministrazione controllata, nonchè dell’accordo omologato ai sensi dell’art. 182 bis”.
-f) “i pagamenti dei corrispettivi per prestazioni di lavoro effettuate da dipendenti e altri
collaboratori, non subordinati, del fallito”.
-g) “i pagamenti dei debiti liquidi ed esigibili eseguiti alla scadenza per ottenere la prestazione di
servizi strumentali all’accesso alle procedure concorsuali di amministrazione controllata e di
concordato preventivo”.
5-Effetti della revocazione
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1-Ambito di applicazione della nuova normativa
Col decreto legge 14 marzo 2005, n. 35, recante disposizioni urgenti nell'ambito del piano di azione per lo
sviluppo economico, sociale e territoriale, è stata, tra l’altro, rivisitata la disciplina della revocatoria
fallimentare e del concordato preventivo, con la riscrittura di alcune norme che hanno integralmente
modificato questi istituti. Contestualmente il Governo aveva approvato un disegno di legge ordinaria che
conteneva le disposizioni del c.d. maxi emendamento al disegno di legge c.d. Caruso in discussione alla
Commissione Giustizia al Senato e approvato dal Consiglio dei Ministri il 23.12.2004. In sede di
conversione in legge del citato d.l. n. 35/2005, avvenuta con legge 12 maggio 2005, n. 80 è stato
abbandonato il disegno di legge ed introdotta una delega al Governo per la riforma delle procedure
concorsuali da attuare entro 180 giorni.
Con lo stesso decreto legge (art. 2 comma 2) è stato previsto che le nuove disposizioni in materia revocatoria
“si applicano alle azioni revocatorie proposte nell’ambito di procedure iniziate dopo l’entrata in vigore del
presente decreto”; è stata cioè sancita la irretroattività della nuova disciplina della revocatoria non soltanto
alle azioni già promosse alla data di entrata in vigore del decreto legge, ma anche alle azioni non ancora
promosse da procedure fallimentari già pendenti a tale data, che continuano ad essere regolate dalla
normativa precedentemente in vigore.
Al momento, quindi, sono in vigore due regimi: quello della vecchia legge fallimentare, che si applica a tutte
le azioni promosse dai fallimenti dichiarati anteriormente al 12.3.2005 e quello introdotto dalla riforma, che
si applica alle azioni promosse dai fallimenti dichiarati dopo tale data; come è presumibile da questo
meccanismo, la dualità di disciplina resterà sicuramente per alcuni anni, il che spiega la ragione per cui non
viene modificata la preesistente guida in materia ma si aggiunge questa nuova per le fattispecie alle quali,
secondo la richiamata norma transitoria, sarà applicabile.
Le modifiche alla disciplina della revocatoria fallimentare sono numerose, ma riguardano esclusivamente gli
art. 67 e 70 (quest’ultimo concernente gli effetti della revocatoria) che, ora, convivono con i vecchi articoli
64-65-66-68-69 e 71, rimasti immutati, con inevitabili difetti di coordinamento che creano non poche
difficoltà interpretative, acuite da una tecnica redazionale di non eccelso livello. Per la verità nel citato maxi
emendamento erano state introdotte modifiche più ampie (inserite nel testo del disegno di legge approvato in
contemporanea con il decreto di legge e perdutosi per strada) che intervenivano sulla disciplina degli atti a
titolo gratuito, la cui azione di revoca avrebbe assunto natura costitutiva anziché dichiarativa, al pari della
revoca dei pagamenti di debiti che scadono nel giorno della dichiarazione di fallimento o posteriormente e
della revocatoria ordinaria, se esperita dal curatore, sulla natura onerosa delle garanzie contestuali al credito
garantito; sulla revocabilità degli atti compiuti dai patrimoni destinati ad uno specifico affare (nell’ipotesi di
cui all’art. 2447 bis lett. a); sugli atti compiuti tra coniugi.
Il disegno di legge avrebbe, cioè, risolto, tra l’altro, la principale questione pratica derivante dal carattere
monistico o dualistico dell’azione revocatoria ordinaria e fallimentare, affermando l’applicabilità (come del
resto aveva già fattola Cassazione, cfr. da ultimo Cass., sez. I, 24.2.2004, n. 3615) del principio sancito
dall’art. 2901 della presunzione di onerosità delle garanzie contestualmente create alla revocatoria
fallimentare.
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2-Le modifiche introdotte dalla riforma. Il periodo sospetto
Per quanto concerne le modifiche previste dal decreto legge, il legislatore non ha mutato i principi
fondamentali della disciplina dell’azione revocatoria, così come sono oggi regolati dalla legge fallimentare
del 1942, né, del resto era possibile fare diversamente con un intervento frettoloso con lo strumento del
decreto legge. Peraltro, l’impianto della revocatoria fallimentare è stato sempre apprezzato, tanto che le
norme relative, tecnicamente ben redatte, hanno sopportato meglio di altre la prova del tempo e gli interventi
della Corte Costituzionale non sono stati significativi.
Si è sempre discusso se il legislatore del 1942 avesse optato per la tesi indennitaria, per la quale l’atto
impugnato è revocabile, come nella revocatoria ordinaria, se abbia causato pregiudizio al creditore,
incidendo sulla garanzia patrimoniale rappresentata dal patrimonio del debitore secondo la previsione
dell’art. 2740 c.c., oppure la teoria antindennitaria o redistributiva, per la quale il danno va individuato nella
lesione del principio di parità di trattamento dei creditori. Con riferimento al vecchio art. 67, il primo comma
relativo ai c.d. atti anomali, si fondava sulla teoria indennitaria, nel mentre il secondo comma sulla teoria
redistributiva, dato che il pagamento, svincolato dal rapporto cui atteneva, poteva anche non aver causato
pregiudizio o addirittura poteva aver portato ad un incremento del patrimonio del fallito rispetto alla
consistenza precedente al compimento dell’atto.
L’idea del pagamento come atto autonomamente revocabile indipendentemente dalla revoca dei contratti
sottostanti ha incontrato sempre forti critiche, accentuatesi per il rigore della giurisprudenza nella revocatoria
delle rimesse di pagamento, non accettandosi che il danno fosse rappresentato dalla violazione del principio
di parità di trattamento; e su questi aspetti ha inciso in modo rilevante la riforma, come si vedrà, sebbene
apparentemente non sembra aver toccato questi profili della disciplina.
Invero, il nuovo art. 67 ha previsto, nel primo comma, la revoca di alcuni atti e pagamenti “anomali” o di
pagamenti anticipati rispetto alla scadenza, di atti sproporzionati, di garanzie per debiti non ancora scaduti,
cioè di atti e pagamenti che - come quelli gratuiti di cui all’art. 64 - comportano sempre, in re ipsa, un danno
patrimoniale per il debitore e altresì un conseguente pregiudizio per i creditori (ma riferito non ad un violato
trattamento paritario, che qui non rileva, bensì proprio alla stessa diminuzione della garanzia patrimoniale).
Nel secondo comma, l’art. 67 ha rivisitato la revocatoria degli “atti normali” e dei pagamenti di debiti
liquidi ed esigibili, ponendo il principio della revocabilità come in passato, ma proponendo una serie di
esenzioni, che limitano enormemente il campo di operatività della revocatoria rispetto al passato.
La prima modifica, che si percepisce immediatamente è consistita nella riduzione del periodo sospetto, che, è
stato dimezzato sia per la revoca degli atti considerati dalle varie ipotesi elencate dal primo comma dell’art.
67 (i c.d. atti anormali) sia per gli atti ed i pagamenti considerati dal secondo comma della norma; infatti i
termini sono stati rispettivamente ridotti ad un anno ed a sei mesi, in considerazione del fatto che l’eccessiva
ampiezza del periodo sospetto incide sulla certezza dei rapporti giuridici perché gli effetti del contratto o gli
effetti estintivi del pagamento possono essere messi in discussione per troppo tempo. In questo modo il
legislatore italiano si è avvicinato a quelli europei che contemplano termini più corti, senza tenere conto che
nel nostro Paese l’istruttoria prefallimentare ha in genere tempi più lunghi di quelli correnti nella maggior
parte dei Paesi che prevedono un termine più breve, con la conseguenza che, riducendo la durata del periodo
sospetto, al momento della dichiarazione di fallimento è passato troppo tempo dal compimento della maggior
parte degli atti lesivi dell’interesse della massa.
3-La revocatoria degli atti “anomali”
La disciplina della nuova revocatoria degli atti “anormali” è ora contenuta nel primo comma dell’art. 67 che,
oltre a dimezzare il termine del periodo sospetto, ha inciso soltanto sulla disciplina degli atti con prestazioni
sproporzionate di cui all’art. 67, comma 1, n. 1.
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Invero, tale norma è stata riformulata nel senso che sono revocabili, salvo che l’altra parte provi che non
conosceva lo stato d ’insolvenza del debitore: “gli atti a titolo oneroso compiuti nell’anno anteriore alla
dichiarazione di fallimento, in cui le prestazioni eseguite o le obbligazioni assunte dal fallito sorpassano di
oltre un quarto ciò che a lui è stato dato o promesso”.
Il mutamento più significativo consiste nel passaggio da un parametro elastico (quello della notevole
sproporzione di cui all’art. 67 c.1 lett. a) ad un altro fisso (“di oltre un quarto”). Il concetto di notevole
sproporzione non era collegato a criteri fissi, sicchè la valutazione della sproporzione, che deve essere
fondata sull'approfittamento del contraente in bonis, veniva rimessa caso per caso alla valutazione del
giudice; la giurisprudenza aveva generalmente riconosciuto che il prezzo di mercato non costituiva
l'esclusivo criterio di riferimento, dovendosi anche tenere conto di altri criteri rilevanti nell'ordinaria prassi
commerciale, quali la variabilità del prezzo e la maggiore o minore appetibilità del bene, ecc..
Il nuovo sistema è in linea con la tendenza legislativa in atto a ridurre la sfera di discrezionalità del giudice e,
se da un lato, questo è un fatto positivo perchè facilita il compito degli organi del fallimento nel valutare se
proporre l’azione del giudice che deve giudicare essendo sufficiente il ricorso ad una consulenza, dall’altro
lato, favorisce anche condotte trasgressive, frutto delle facili furbizie tendenti all’elusione delle norme; ma,
principalmente la prefissazione di un criterio unico per ogni tipo di atto non potrà non risultare rozza essendo
evidente che lo scostamento del 25%, se tollerabile per un immobile, diventa enorme per beni che abbiano un
listino e per tutti i valori mobiliari, ove la sproporzione è data da variazioni di gran lunga minori.
Prescindendo da queste considerazioni, è evidente che gli atti a prestazioni corrispettive connotati da una
sproporzione inferiore alla misura sopra indicata continuano ad essere revocabili ai sensi dell’art. 2001 c.c. e
del comma 2° dell’art. 67; fermo restando ormai la secca presunzione di non sproporzione per quelli
contenenti una differenziazione di misura inferiore.
Il citato mutamento non inciderà, invece, sui principi generali ormai consolidati in giurisprudenza. E così: la
sproporzione deve essere accertata con riferimento alla data del compimento dell’atto, senza che siano
rilevanti eventuali modifiche delle vicende contrattuali suscettibili di aver ridotto, prima del fallimento, la
sproporzione medesima; in caso di contratto preliminare, essa va considerata con riferimento soltanto al
contratto definitivo successivo; egualmente, non sembra che la nuova disciplina possa cambiare l’attuale
assetto della giurisprudenza sul tradizionale tema della simulazione relativa (riferita al prezzo di una vendita
o, comunque, all’ammontare di una controprestazione).
Sul piano probatorio, il curatore attore non potrà più limitarsi alla mera asserzione dell’esistenza della
sproporzione stessa (magari chiedendo, come spesso avviene nel contesto di non accettabili prassi anomale,
una consulenza tecnica di ufficio ad explorandum), dovendo, invece, fornire precisi elementi probatori, con
qualsiasi mezzo, presunzioni comprese, della denunciata sproporzione superiore al quarto.
Le altre parti del primo comma dell’art. 67 non sono state modificate, a parte la riduzione del periodo
sospetto. Invero, sono ora revocabili, salvo sempre che l’altra parte provi che non conosceva lo stato d
’insolvenza del debitore:
“Gli atti estintivi di debiti pecuniari scaduti ed esigibili non effettuati con denaro o con altri mezzi, normali
di pagamento, se compiuti nell’anno anteriore alla dichiarazione di fallimento”.
“I pegni, le anticresi e le ipoteche volontarie costituiti nell’anno anteriore alla dichiarazione di fallimento per
debiti preesistenti non scaduti”.
“I pegni, le anticresi e le ipoteche giudiziali e volontarie costituiti entro sei mesi anteriori alla dichiarazione
di fallimento”.
Come si vede, non è intervenuta alcuna modifica.
4-La revocatoria degli atti normali
Il secondo comma dell’art. 67 novellato stabilisce che: “sono altresì revocati, se il curatore prova che l’altra
parte conosceva lo stato di insolvenza del debitore, i pagamenti di debiti liquidi ed esigibili, gli atti a titolo
oneroso e quelli costitutivi di un diritto di prelazione per debiti, anche di terzi, contestualmente creati, se
compiuti entro sei mesi anteriori alla dichiarazione di fallimento”.
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A parte l’aggiunta (rispetto al vecchio comma 2° dell’art. 67 della legge del 1942) dell’espressione “anche di
terzi”, riferita alla costituzione di prelazioni per debiti contestuali (che non mancherà di avere ampi riflessi
sulle problematiche connesse all’onerosità o meno delle garanzie contestuali al sorgere del credito
garantito), il testo attuale si diversifica da quello precedente solo per la riduzione, anche qui, alla metà (da 1
anno a 6 mesi) del c.d. periodo sospetto.
Fin qui, come si vede, il legislatore si è limitato in gran parte a riprodurre la vecchia disciplina, ma poi ha
aggiunto all’art. 67 un nuovo terzo comma, che prevede una serie di nuove ipotesi di esenzione dalla
revocatoria.
Già la legge fallimentare esentava da revocatoria alcune operazioni, e queste esenzioni sono rimaste giacché
l’ult. comma dell’art. 67 ha ribadito che: “le disposizioni di questo articolo non si applicano all’istituto di
emissione,alle operazioni di credito su pegno e di credito fondiario; sono salve le disposizioni delle leggi
speciali;
Come si vede, a parte il riferimento all'istituto di emissione (Banca d'Italia), il legislatore si è limitato ad un
aggiornamento, giacché non si fa più riferimento agli istituti autorizzati a compiere operazioni di credito su
pegno, limitatamente a tali operazioni, ma semplicemente alle operazioni di credito su pegno, così come non
vi è più il riferimento agli istituti di credito fondiario, ma alle operazioni di credito fondiario. E’ rimasta la
salvezza delle disposizioni di esenzione previste dalle leggi speciali, tra cui rientrano: quelle riguardanti
l'esenzione per le imprese di credito artigiano prevista dall'art. 40, 1° comma, della legge 949/1952 ( Cass.,
17-9-1992, n. 10652 ); l'esenzione per gli istituti di credito autorizzati, in base all'art. 20 della legge n.
623/1959, all'erogazione di finanziamenti destinati ad incentivare la piccola e media industria, quando il
finanziamento interviene allo scopo di incentivare i settori produttivi considerati dalla legge stessa ( Cass.,
13-8-1999, n. 8634); l'esenzione prevista dall'art. 6 della legge 52/1991 recante la disciplina della cessione
dei crediti di impresa, per i pagamenti compiuti dal debitore ceduto al cessionario ( Cass., 12-11-1999, n.
12539 ); l'esenzione di cui al d.lgs. n. 538/1992 dei pagamenti effettuati in favore di imprese fornitrici di
prodotti galenico-sanitari; l'esenzione particolare per operazioni di cartolarizzazione dei debiti (art. 4, l. n.
130/1999); i pagamenti disposti a favore di enti previdenziali ( Cass., 6-5-1998, n. 4550; Cass., 14-7-1994, n.
6609 ) e dell'amministrazione finanziaria per debiti d'imposta dirette e indirette (dopo il 1988) ( Cass., s.u.,
30-3-1994, n. 3131 ).
A queste esenzioni ne sono state aggiunte altre che ampliano enormemente la sfera degli atti non revocabili,
per cui è vero che il legislatore ha mantenuto nei suoi tratti fondamentali la disciplina previgente, ma è
altrettanto vero che tale disciplina è stata sostanzialmente svuotata nei suoi contenuti, attraverso, appunto, le
numerose ipotesi di esenzione, il cui contenuto è talmente ampio da incidere sulla concreta portata della
disciplina. Lo scopo di queste esenzioni è quello di attenuare le conseguenze del sistema revocatorio,
eccessivamente penalizzante per le imprese che sono potenziali destinatarie della revoca, tra cui in modo
particolare le banche, ma anche quello di agevolare il raggiungimento di accordi per la sistemazione della
crisi.
Su queste esenzioni, va, quindi concentrata l’attenzione, esaminandole una per una.
Dunque, sono esentati da revocatoria:
a-“i pagamenti di beni e servizi effettuati nell’esercizio dell’attività d’impresa nei termini d’uso”.
Si tratta della prima importante eccezione alla regola generale secondo la quale sono revocabili i pagamenti
effettuati nei sei mesi anteriori alla dichiarazione di fallimento quando il curatore provi
che il creditore era a conoscenza dello stato d’insolvenza. La norma, nella disciplina passata, attuava in
termini rigorosi il principio della par condicio, permettendo la revoca di tutti i pagamenti effettuati
dall’imprenditore nel periodo sospetto (che era di un anno). Con la nuova norma, viene sostanzialmente
azzerata ogni possibile altra ipotesi di revocatoria di atti normali (già ridotta dalla dimidiazione dei termini
del c.d. periodo sospetto), avendo inserito nell’esenzione tutti i pagamenti e tutte le operazioni gestionali
attinenti alla vita dell’impresa, con riferimento ai fornitori, ai lavoratori, ai collaboratori, alle banche ecc.,
non potendo significare altro il richiamo di beni e servizi.
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Sfuggono, quindi, all’esenzione (e sono, pertanto revocabili) soltanto i pagamenti effettuati dall’imprenditore
al di fuori dell’esercizio dell’“attività di impresa”, nonchè quelli effettuati dal debitore fuori dal “termine
d’uso” (oltre che, naturalmente, quelli di cui all’art. 67 c. 1 n. 2, non effettuati con denaro o con mezzi
normali).
Fuori dell’attività di impresa sono da considerare sicuramente i pagamenti di debiti personali del fallito, nel
mentre è dubbio se vi rientrino i pagamenti effettuati da un’impresa che sia in stato di liquidazione e, quindi,
che non sia operativa, oppure sia cessata di fatto; coerentemente con l’evidente ratio della norma,
riconducibile alla considerazione che la continuazione dell’attività d’impresa costituisce quasi sempre un
valore da tutelare perchè conservativo dell’unità aziendale e dei beni che la compongono (soprattutto quelli
immateriali, di più problematica conservazione nel contesto di un’impresa insolvente non più operativa), si
dovrebbe escludere l’esenzione per gli atti, pur se normali, eseguiti dall’impresa in liquidazione o comunque
con attività esaurita.
Per quanto riguarda i pagamenti eseguiti fuori dal “termine d’uso”, non è chiaro se questa nuova espressione
si riferisca alle singole prassi seguite dal fallito con i propri fornitori, soprattutto quelli “strategici”,
considerati singolarmente o per settore merceologico, ovvero se abbia una accezione più ampia, ragguagliata
agli usi contrattuali praticati in certi ambiti territoriali.
Sarà la giurisprudenza a fare chiarezza; personalmente propenderei per la prima alternativa. Se, infatti, lo
scopo della norma è quello di non colpire con l’inefficacia i pagamenti “normali”, rispetto ai quali il
fornitore non ha ragione di pensare ad una situazione di difficoltà del proprio cliente, ne discende che il
cambiamento delle modalità di pagamento in qual rapporto diventa significativo di una situazione quanto
meno di crisi del debitore, indipendentemente dall’andamento del settore o da valutazioni che riguardino gli
usi commerciali. Ossia se un acquirente di beni ha sempre pagato a trenta/sessanta giorni, questo diventa il
termine d’uso, per cui quando chiede una dilazione nei pagamenti a novanta/centoventi, questo nuovo
sistema, fin quando non si normalizza con una certa stabilità (tale da diventare la nuova regola) è sintomatico
del fatto che il debitore non è più in grado di rispettare i precedenti termini di pagamento.
In ogni caso, proprio il riferimento al termine d’uso conferma quando in precedenza detto circa la
revocabilità dei pagamenti effettuati nel momento in cui l’impresa non è più in attività sono revocabili,
perchè è evidente che se se l’impresa è in liquidazione o ha cessato l’attività, i debiti si riferiscono nella
massima parte al periodo in cui l’azienda era operativa, per cui il pagamento degli stessi non può essere
effettuato nei termini d’uso, sì da non potersi sottrarre alla revocatoria.
b-“le rimesse effettuate su un conto corrente bancario, purchè non abbiano ridotto in maniera consistente e
durevole l’esposizione debitoria del fallito nei confronti della banca”.
Questa ipotesi si riferisce alla vexata quaestio della revocatoria delle rimesse in conto corrente bancario. Su
questa la Corte di Cassazione aveva preso una tradizionale e univoca posizione, a partire dalla nota sentenza
18.10.82, n. 5413, nel senso che erano revocabili le rimesse in conto corrente bancario aventi natura solutoria
e non anche quelle aventi invece mera natura ripristinatoria della provvista. Le prime (di carattere solutorio)
sono quelle affluite su un “conto scoperto”, ossia su un conto non assistito da apertura di credito che presenti
un saldo a debito del cliente, oppure assistito da apertura di credito con saldo debitore oltre i limiti del fido
convenzionalmente accordato al correntista, revocabili in quanto immediatamente destinate ad estinguere
(anche solo parzialmente) il credito della banca; le seconde (di carattere ripristinatorio) sono quelle affluite
su un “conto passivo”, ossia su un conto con saldo debitore assistito da apertura di credito di cui non è stato
superato il limite, non revocabili in quanto i versamenti entro il limite del fido costituiscono una mera
ricostituzione della provvista nella disponibilità del correntista.
Questa interpretazione, via via raffinata nel tempo, era stata molto criticata dal sistema bancario perchè
consentiva alle curatele di ottenere la condanna alla restituzione di somme per importi superiori
all’ammontare del credito che la banca aveva concretamente erogato al correntista fallito, per cui era
avvertita l’esigenza di limitare il rischio per quei soggetti istituzionali che dovrebbero maggiormente
sostenere l’impresa in crisi, senza abbandonarla al suo ineludibile destino a causa del rischio di iniziative
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recuperatorie da parte dei creditori. Il nuovo legislatore è andato oltre le stesse aspettative delle banche
accordando ad esse una tutela che di fatto renderà irrevocabili le rimesse in conto corrente, e, quand’anche
ciò riesca è stato delimitato l’importo della restituzione.
In base alla disposizione in esame, infatti, le rimesse effettuate su un conto corrente sono revocabili (sempre
che il curatore dimostri la scientia decoctionis in capo al beneficiario di esse) solo nel caso in cui le rimesse
stesse abbiano ridotto l’esposizione debitoria in modo “consistente” e “durevole”, termini talmente generici
ed equivoci da prevedere sicuri aumenti di contenziosi.
In primo luogo va ricordato che questa, come tutte le altre esenzioni, si pongono come eccezioni alla regola
della revocabilità, per cui sono di stretta interpretazione; in ragione di tanto, deve ritenersi che la regola di
esenzione debba valere solo per la banca e non per altri soggetti che svolgono direttamente o indirettamente
funzione di finanziamento alle imprese, per cui è verosimile che altri operatori economici tenteranno di far
valere la clausola di esenzione, prospettando, se del caso, anche una questione di legittimità costituzionale.
Secondo la formula letterale, la rimessa può essere revocata non già se è consistente e durevole, ma se ha
ridotto in modo consistente e durevole l’esposizione debitoria; ossia, per l’esclusione dall’esenzione,
dovrebbero essere presenti tre elementi: che si tratti di una rimessa e che le situazioni sottese agli aggettivi
“durevole” e “consistente” concorrano entrambe, talché, ad esempio, un’esposizione ridotta in modo
consistente ma non durevole, o viceversa, non consentirebbe l’applicazione della specifica esenzione.
Il problema è cercare di capire il significato di questi termini, incominciando dalla rimessa. Al termine
rimessa, secondo il corrente uso bancario, si deve correlare il significato di “operazione che permette un
accreditamento in conto corrente”, espressione che, a sua volta, suona come “operazione con la quale un
soggetto mette a disposizione di un altro una determinata somma”. E’ dunque evidente che alla parola
“rimessa” non può essere associato il significato di pagamento, da intendersi questo come mezzo di
estinzione della obbligazione, per cui sorge il dubbio se siano revocabili solo le rimesse che abbiano carattere
solutorio, come aveva segnalato la tradizionale giurisprudenza, ovvero tutte le rimesse anche se effettuate su
un conto corrente passivo.
E’ probabile che prevarrà la prima alternativa in considerazione del fatto che la norma parla comunque di
rimessa che riduce l’esposizione debitoria e che la stessa è dettata in eccezione al principio generale della
revocabilità dei pagamenti. Non mancano, tuttavia, argomenti, altrettanto convincenti, per sostenere la
seconda opzione interpretativa prospettata, che fanno leva sulla presunzione che il legislatore, avendo
emanato una norma per le rimesse in conto corrente, abbia usato la terminologia bancaria, ove rimessa ha il
significato indicato ed esposizione debitoria rappresenta il saldo debitore onnicomprensivo del cliente nel
conto corrente. L’argomento più consistente a favore di tale tesi è costituito dal fatto che, come si dirà, a
norma dell’art. 70 riformato, la banca deve al massimo restituire “una somma pari alla differenza tra
l’ammontare massimo raggiunto dalle sue pretese, nel periodo per il quale è provata la conoscenza dello stato
d ’insolvenza, e l ’ammontare residuo delle stesse, alla data in cui si è aperto il concorso”; ove, come si vede,
la somma restituibile è pari alla differenza tra il massimo scoperto del periodo e il saldo finale, non il saldo
finale eccedente l’apertura di credito, di modo che, se la somma effettivamente restituibile, che segna in
concreto i limiti della revocatoria, non fa riferimento allo scoperto di conto, diventa difficile sostenere che
sono revocabili soltanto gli atti solutori estintivi dello scoperto.
Quanto al termine “consistente” questo è sinonimo di “ingente” o di “cospicuo”. Ovviamente non è possibile
fissare un valore assoluto oltre la cui soglia la riduzione è consistente giacchè potrebbe essere consistente la
riduzione dell’esposizione attuata con un versamento di euro mille rispetto alla esposizione di duemila, ma
potrebbe non esserlo se l’ammontare della esposizione è di ventimila.
Secondo la lettera della legge bisognerebbe fare riferimento alla singola rimessa e non all’insieme delle
rimesse che siano state idonee a ridurre l’esposizione in misura consistente, però la dimensione consistente
della riduzione dello scoperto è apprezzabile prevalentemente con una valutazione ex post, piuttosto che al
momento dell’effettuazione del singolo accredito (salvo dimostrare l’esistenza di un accordo fra banca e
cliente per il c.d. piano di rientro); se così non fosse, la banca potrebbe far fare, invece che un unico
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versamento idoneo a ridurre in modo consistente l’esposizione debitoria, più rimesse di importi inferiori,
ciascuno dei quali incapace di produrre quell’effetto di ridurre in modo consistente l’esposizione.
Del resto, il criterio della valutazione ex post, se nel caso della consistenza può essere uno dei criteri di
determinazione, diventa l’unico quando ci si confronta con la qualificazione durevole della riduzione del
debito, posto che nel momento in cui viene eseguito un versamento è impossibile pronosticare se a quella
operazione ne faranno seguito altre in addebito.
Anche il termine durevole esprime un valore relazionale e non assoluto; stabilire quando la riduzione sia
durevole non è semplice– e la discrezionalità del giudice rischia qui di essere ancor meno governabile - , ma
in via di prima approssimazione si può escludere, ora per diritto positivo, che siano revocabili le rimesse
infragiornaliere (cioè quelle che nel corso del giorno si alternano ad operazioni in addebito); così pure il
parametro relazionale del tempo potrebbe essere identificato nel confronto con il ritmo usuale delle
operazioni in un periodo dato. Di conseguenza, gli sconfinamenti oltre l’ammontare del fido concesso
(sempre che sia necessario l’effetto solutorio della rimessa), quando sono di modesto ammontare e per lo più
erogati in vista del prossimo e prevedibile accredito di somme destinate a ridurre l’esposizione nei limiti del
fido, non saranno più revocabili, giacché, in effetti in questi casi, la banca non eroga, dal punto di vista
sostanziale, ulteriore credito al cliente, che supera il fido accordato soltanto per un breve lasso di tempo, in
attesa che venga contabilizzata ulteriore provvista, già considerata dalla banca nel momento in cui consente
lo sconfinamento oltre il fido.
Problematico è anche individuare il meccanismo processuale con le ricadute sull’onere della prova,
potendosi ritenere che l’ipotesi di esenzione è costruita dal legislatore come una regola di carattere generale,
secondo la quale non sono soggette all’azione revocatoria le rimesse effettuate su un conto corrente bancario,
ovvero quale eccezione alla revocabilità dei pagamenti. Nel primo caso, il fatto che per effetto della rimessa
si sia determinata una riduzione consistente e durevole dell’esposizione debitoria, diventa un elemento
costitutivo della domanda, per cui incomberà al curatore offrire la prova che la rimessa abbia avuto le
indicate caratteristiche; nel secondo caso dovrà essere la banca a dimostrare che la rimessa non abbia
prodotto una riduzione consistente e durevole dell’esposizione.
Il decreto legge ha modificato, come già accennato, anche l’art. 70, il cui terzo comma stabilisce che
“qualora la revoca abbia ad oggetto atti estintivi di rapporti continuativi o reiterati, il terzo deve restituire una
somma pari alla differenza tra l’ammontare massimo raggiunto dalle sue pretese, nel periodo per il quale è
provata la conoscenza dello stato d’insolvenza, e l’ammontare residuo delle stesse, alla data in cui si è aperto
il concorso. E’ fatto salvo il diritto del terzo revocato di insinuarsi al passivo per quanto restituito”.
Si tratta di una norma dettata, come si vede, per tutti i rapporti continuativi, tra i quali la parte del leone è
fatta da quello di conto corrente, per il quale viene recepito il criterio del c.d. massimo scoperto, secondo il
quale la revoca può anche avere ad oggetto la sommatoria delle rimesse attive effettuate sul conto (sia pur
oltre i limiti dell’affidamento), ma è restituibile soltanto l’importo per il quale la banca è effettivamente
rientrata del suo credito, rappresentato dalla differenza tra il credito massimo erogato ed il credito residuo al
momento della dichiarazione di fallimento.
In sostanza l’effettivo rientro è stato individuato come un limite alla obbligazione restitutoria, e non come
causa di esonero in sé della inefficacia; la situazione presa in esame dal legislatore è evidentemente quella
della inefficacia delle rimesse per un importo superiore a quello della differenza tra il massimo scoperto e la
residua esposizione, nel senso che questo differenziale figura come tetto massimo della somma restituibile
rispetto a quella revocabile o, meglio, revocata, perchè, se così non fosse, la lettera della norma
autorizzerebbe a ritenere che comunque sia restituibile la somma costituita dalla citata differenza anche se la
inefficacia abbia colpito atti solutori per un importo inferiore; come a dire che qualunque sia l’importo dei
versamenti revocati quella restituibile è costituita dalla differenza del massimo scoperto. In questo modo la
norma dell’art. 70 perderebbe la sua funzione ancillare rispetto a quella dell’art. 67, ben evidenziata dal
chiaro riferimento agli effetti della revocazione, per diventare essa la norma principale che giustifica la
inefficacia dei pagamenti.
In sostanza, pare di capire che:
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1-se le rimesse revocabili (perchè hanno ridotto in modo consistente e durevole l’esposizone) sono di
importo inferiore alla differenza tra massimo scoperto ed esposizione finale, è restituibile l’importo massimo
dei versamenti dichiarati inefficaci;
2-se le rimesse revocabili sono di importo superiore alla differenza tra massimo scoperto ed esposizione
finale, è restituibile l’importo dato da questa differenza, sempre che il saldo finale sia superiore al picco
massimo del credito. Ossia, se il saldo passivo è mille e il cliente esegue un versamento di trecento cui non
seguono per un periodo dato altri prelievi, la rimessa dovrebbe essere reputata revocabile; ma se, a distanza
di tempo venissero compiute operazioni in addebito per seicento, il saldo finale di milletrecento, superiore a
quello iniziale, neutralizzerebbe l’operazione di accredito e nulla sarebbe restituibile.
Il rischio è la possibilità di manovre fittizie che il nuovo sistema offre alle banche che, quando il fallimento
sembra inevitabile e immediato fanno una operazione di addebito simulata per far aumentare l’esposizione
finale (finanziamento su fatture inesistenti con la cautela che il danaro posto a disposizione viene solo
formalmente prelevato e rigirato alla banca), eliminando o riducendo, così, la differenza con la massima
esposizione del periodo.
c-“le vendite a giusto presso d’immobili ad uso abitativo, destinati a costituire l’abitazione principale
dell’acquirente o di suoi parenti e affini entro il terzo grado”.
Questa eccezione si fonda sull’intento di favorire le esigenze degli acquirenti di case di abitazione che, con il
fallimento dei loro venditori, rischiano di perderle. Essa si riferisce a tutti gli immobili (edificati o meno) che
abbiano una destinazione abitativa così come sopra specificata e integra con la tutela attribuita dalla legge
delega 2 agosto 2004 n. 210 sia al promissario acquirente, sia all’acquirente a titolo definitivo di un
immobile da costruire, sia a colui che abbia stipulato ogni altro contratto compreso quello di leasing che
abbia o possa avere per effetto l’acquisto o comunque il trasferimento non immediato a sé o ad un proprio
parente in primo grado della proprietà o della titolarità di un diritto reale di godimento su un immobile da
costruire (inoltre, acquirente è definito dalla legge anche chi possa pretendere l’assegnazione in proprietà o
l’attribuzione di un diritto reale di godimento su un immobile da costruire da parte di una cooperativa
edilizia).
Questa legge ha, infatti, delegato il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi recanti norme per la
tutela patrimoniale degli acquirenti degli immobili; in questo più vasto contesto, riferito ai soli acquirenti di
immobili da costruire, l’art. 3 lett. b della legge n. 210/2004 prevede un’esenzione d’esperibilità delle azioni
revocatorie nei confronti dell’acquirente (ma, appunto, solo per gli immobili erigendi), ma solo in una
prospettiva di modifica dell’art. 72 della vecchia legge fallimentare, a proposito degli effetti giuridici
pendenti all’epoca dell’apertura del concorso.
Non sono stati ancora emanati i decreti legislativi delegati di attuazione della legge delega, ma è noto lo
schema di decreto legislativo, già approvato dal Consiglio dei Ministri, che prevede all’art. 9 che “Gli atti a
titolo oneroso che hanno come effetto il trasferimento della proprietà o di altro diritto reale di godimento di
immobili ad uso abitativo, nei quali l’acquirente si impegni a stabilire, entro dodici mesi dall’acquisto o
dall’ultimazione degli stessi, la residenza propria o di suoi parenti o affini entro il terzo grado, se posti in
essere al giusto prezzo da valutarsi alla data della stipula del preliminare, non sono soggetti all’azione
revocatoria prevista dall’articolo 67 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, e successive modificazioni”.
Il testo della norma non coincide esattamente con quello introdotto dall’art. 67, comma 3, lett. c), anche se è
scomparso il riferimento ai soli immobili da costruire. Non si parla di abitazione principale, ma di residenza;
si fa riferimento per la determinazione del giusto prezzo alla data di stipulazione del contratto preliminare,
ecc., ma, si tratta di differenze marginali che, comunque, il legislatore farebbe bene ad eliminare, nel caso
ritenga comunque necessaria una norma ulteriore dopo quella già emanata in sede fallimentare.
Si ricorda, inoltre che, a norma del secondo comma dell’art. 9 dello schema del citato decreto legislativo
“non sono, altresì, soggetti alla medesima azione revocatoria i pagamenti dei premi e commissioni relativi ai
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contratti di fideiussione e di assicurazione di cui agli articoli 2 e 3, qualora effettuati nell’esercizio
dell’attività d’impresa nei termini d’uso”.
d-“gli atti, i pagamenti e le garanzie concesse su beni del debitore purchè posti in essere in esecuzione di un
piano che appaia idoneo a consentire il risanamento dell’esposizione debitoria dell’impresa e ad assicurare il
riequilibrio della sua situazione finanziaria e la cui ragionevolezza sia attestata ai sensi dell’art. 2501 bis,
quarto comma, del codice civile”.
Questa previsione tende ad agevolare la risoluzione della crisi in via stragiudiziale, dando stabilità
all’esecuzione degli accordi, appunto stragiudiziali, purchè ricorrano determinati requisiti, e cioe:
1-ci sia stato un tentativo di salvataggio dell’impresa insolvente attraverso un “piano” predisposto,
all’infuori di una procedura concorsuale e della sfera di sorveglianza o di qualsiasi possibile intervento
dell’autorità giudiziaria, per il “risanamento della esposizione debitoria” e per “assicurare il riequilibrio della
sua situazione finanziaria”. Il piano qui considerato, dunque, in quanto esclusivamente stragiudiziale, non
produce alcun effetto sospensivo (delle azioni esecutive, degli interessi, ecc.) e deve essere diretto a produrre
non solo il risanamento dei debiti dell’impresa (e non anche di quelli dell’imprenditore), ma altresì il
riequilibrio della sua situazione finanziaria.
2-Il piano deve “apparire” idoneo “al risanamento della esposizione debitoria” e ad “assicurare il riequilibrio
della sua situazione finanziaria”. Appare chiaro che la valutazione circa l’idoneità del piano e la sua coerenza
rispetto agli scopi sopra indicati deve essere attribuita al giudice che, nel contesto del successivo fallimento,
è tenuto a decidere sulla causa revocatoria proposta dal curatore. Ovviamente il giudizio di idoneità deve
corrispondere ad una valutazione astratta anteriore, proprio perchè, ex post e nel concreto, la sua inidoneità si
è rivelata, per tale proprio dal suo esito negativo conclusosi nel fallimento e posto che l’art. 67 c.3 lett. d non
può riferirsi che a quel “piano” che non era riuscito, nei fatti, a portare l’impresa fuori dalle sacche
dell’insolvenza.
3-La ragionevolezza del piano deve essere attestata ai sensi dell’art. 2501 bis, quarto comma, c.c.. Il
richiamo all’art. 2501 bis, che disciplina la fusione a seguito di acquisizione con indebitamento (c.d.
leveraged buy out) comporta che vi debba essere una relazione redatta da un esperto (revisore contabile o
società di revisione, designati dal tribunale nel caso in cui il debitore sia una s.p.a. o una società in
accomandita per azioni) che attesta la ragionevolezza della previsione delle risorse finanziarie previste per il
soddisfacimento delle obbligazioni derivanti dal concordato stragiudiziale.
Il tenore letterale della nuova disposizione non autorizza a concludere nel senso che la sola attestazione di
ragionevolezza del piano da parte dell’esperto possa vincolare il giudizio di sua idoneità e, quindi,
comportare automaticamente l’esenzione della revocatoria delle operazioni di esecuzione. Al contrario gli
atti, i pagamenti e le garanzie revocabili sono pur sempre quelli posti in esecuzione di un piano
“ragionevole” ma, alla prova dei fatti, non idoneo, secondo la valutazione del giudice riferita all’epoca in cui
il piano fu posto in essere.
E’ chiaro, quindi, che il requisito della idoneità deve inizialmente formare oggetto di valutazione da parte
degli organi fallimentari al fine di stabilire se promuovere l’azione revocatoria, e, poi, una volta avviata la
revocatoria, la stessa questione diventa oggetto di dibattito nel merito.
4-L’esenzione dalla revocatoria, nel successivo fallimento, riguarda gli “atti”, i “pagamenti” e le “garanzie”,
(queste ultime se costituite sul solo patrimonio del debitore).
e-“gli atti, i pagamenti e le garanzie posti in essere in esecuzione del concordato preventivo,
dell’amministrazione controllata, nonché dell’accordo omologato ai sensi dell’art. 182 bis”.
Anche in questo caso il fallimento segue ad un tentativo di salvataggio, attuato attraverso l’amministrazione
controllata, il concordato preventivo o gli accordi omologati di ristrutturazione dei debiti ex art. 182 bis, e,
quindi il fallimento dichiarato in una situazione di consecuzione di procedure concorsuali minori, senza
soluzione di continuità.
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Per la verità, il riferimento all’amministrazione controllata è superfluo, perchè i pagamenti effettuati in corso
di procedura, se relativi a debiti sorti anteriormente all’apertura della stessa, sono inefficaci in quanto
contratti in violazione del divieto di effettuare pagamenti per debiti aventi causa anteriore alla procedura (in
tal caso non è questione di azione revocatoria, ma di inefficacia direttamente sancita dalla legge); se, invece,
il pagamento si riferisce ad un credito sorto successivamente all’apertura della procedura, questo nella
maggior parte dei casi beneficerà della prededuzione nel successivo fallimento.
Anche in questo caso l’ipotesi esonerativa riguarda atti, pagamenti e garanzie posti in essere nel corso di una
delle indicate procedure minori. Poiché nella specie, a differenza della lettera precedente riferita agli accordi
stragiudiziali, laddove le garanzie, per essere non revocabili, devono essere state concesse “su beni del
debitore”, non è riprodotta la stessa dizione, l’esenzione, riferita alle garanzie, dovrebbe comprendere anche
quelle costituite su beni di terzi o concesse da terzi. Comunque il riferimento testuale ad “atti”, “pagamenti”
e “garanzie” evidenzia l’intento del legislatore di ricomprendere nella nuova disposizione qualsiasi tipo di
operazione posta in essere dall’imprenditore, perché funzionale all’esecuzione di una delle procedure
indicate.
Non rileva se i pagamenti siano stati effettuati in favore dei creditori nel rispetto delle priorità di legge, per
cui può accadere che non siano revocabili pagamenti fatti ad alcuni creditori che siano stati soddisfatti in
misura maggiore di altri dello stesso rango o di rango inferiore, giacché la norma non consente di distinguere
queste situazioni e di ritenere inefficaci o revocabili questi pagamenti al fine di assicurare il soddisfacimento
paritario dei creditori nel successivo fallimento. Ciò dovrebbe indurre a ritenere che nelle procedure minori
non possano essere privilegiati, attraverso la formazione delle classi dei creditori in disprezzo dell’ordine di
priorità stabilito dalla legge, giacché l’esenzione da revocatoria, ragionevole quando i pagamenti rispettino il
principio di parità di trattamento tra i creditori, non si giustifica più se tale principio non é stato rispettato. La
deroga ha un senso fino a quando il concordato può trovare esecuzione, perché essa si fonda sull’accordo dei
creditori; non quando si sia registrato l’insuccesso e sia stato dichiarato il fallimento; in questo caso la
liquidazione concorsuale deve svolgersi rispettando il principio di parità, fatte salve le cause legittime di
prelazione.
In ogni caso, ove non si rispettino tali principi, vale il criterio indicato della insindacabilità in sede
fallimentare della priorità delle soddisfazioni.
f-i pagamenti dei corrispettivi per prestazioni di lavoro effettuate da dipendenti e altri collaboratori, anche
non subordinati, del fallito”.
Con questa disposizione il legislatore ha inteso tutelare i lavoratori subordinati o parasubordinati che
traggono solitamente proprio dal lavoro la loro fonte di reddito. Più incerta, ovviamente, è l’individuazione
dei soggetti rientranti nella categoria “altri collaboratori, anche non subordinati, del fallito”; presumibilmente
il legislatore ha inteso comprendere in questa categoria gli amministratori, i consulenti e ausiliari di qualsiasi
tipo del fallito, gli agenti di commercio ecc..
Proprio per queste ultime categorie la norma ha un qualche rilievo perchè per i dipendenti la revocatoria nei
loro confronti, pur astrattamente ammissibile era praticamente irrealizzabile in quanto presupponeva una
situazione caratterizzata da incapienza e da pregiudizio a creditori privilegiati di rango superiore, ipotesi che
ben difficilmente si verifica nel caso dei dipendenti, che possono vantare il privilegio di cui all’art. 2751 bis
n. 1 c.c. La nuova norma si riferisce a tutti i collaboratori del fallito ed ha quindi una portata più ampia, per
cui, ai fini della revocatoria, vengono posti sullo stesso piano dei dipendenti altri creditori di rango inferiore,
per i quali la revocatoria era più agevolmente prospettabile nella disciplina previgente.
Tuttavia la nuova norma, nell’intento di garantire la continuità dell’attività di impresa ha creato nuove
disparità nell’ambito delle categorie considerate perchè non è detto che tutti i dipendenti e collaboratori
abbiano ricevuto dei pagamenti; di modo che chi ha ricevuto qualcosa lo trattiene definitivamente perchè il
pagamento non è revocabile, con danno degli altri creditori dello stesso livello che nulla hanno ricevuto. Un
altro colpo alla natura redistributiva della revocatoria e al principio della parità di trattamento.
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g-“i pagamenti dei debiti liquidi ed esigibili eseguiti alla scadenza per ottenere la prestazione di servizi
strumentali all’accesso alle procedure concorsuali di amministrazione controllata e di concordato
preventivo”.
La norma è chiaramente finalizzata ad assicurare comunque un trattamento di favore per l’accesso alle
procedure indicate. Non si capisce perchè il legislatore non abbia preso in considerazione, come nelle lettere
precedenti, anche gli accordi di ristrutturazione dei debiti, ove, come accennato, è prevista la nomina di un
esperto che deve attestare l'attuabilità dell'accordo, con particolare riferimento alla sua idoneità ad assicurare
il regolare pagamento dei creditori estranei, né gli accordi stragiudiziali; probabilmente ha ritenuto che il
concordato e l’amministrazione controllata (destinata comunque a sparire essendone prevista l’abrogazione
della legge delega) abbiano una funzione conservativa del patrimonio dell’imprenditore e dunque le spese
sostenute per accedervi siano nell’interesse della massa dei creditori.
Tale considerazione non è sempre vera, perché in taluni casi la presentazione della proposta di concordato o
di amministrazione controllata non riesce di nessuna utilità per i creditori, comunque questa è la norma, che,
quindi, esenta dalla revocatoria soltanto i “pagamenti” dei debiti liquidi ed esigibili (e non anche gli “atti” o
le “garanzie”) sostenuti per accedere alle procedure di amministrazione controllata e di concordato
preventivo.
Secondo il lessico legislativo, tali pagamenti, per essere esonerati dalla revocatoria, devono, anzitutto, essere
eseguiti “alla scadenza”; precisazione superflua perchè, la loro “esigibilità” deriva proprio dall’essere scaduti
(diversamente, sarebbero anticipati).
L’esenzione è anche collegata al fatto che essi devono anche essere stati eseguiti “per ottenere la prestazione
di servizi strumentali all’accesso alle procedure concorsuali...”. A stretto rigore, questa espressione potrebbe
essere riferita alle sole prestazioni professionali dei tecnici (avvocati, dottori commercialisti ecc.) chiamati
dall’imprenditore a predisporre la documentazione necessaria per chiedere l’accesso alle procedure
concorsuali, giacché solo queste prestazioni sono in stretta correlazione con un “accesso” alle procedure
minori. Tuttavia la terminologia usata (“servizi strumentali all’accesso”) potrebbe far estendere la previsione
anche alla concessione di finanziamenti per la parte diretta a costituire il deposito indicato nel nuovo art. 163
c.2 n. 4 e c.3).
Non sembra, invece, giustificata l’esenzione per altri tipi di finanziamento diretti all’esercizio dell’attività di
impresa, anche se indirettamente questa attività potrebbe rilevarsi strumentale alla procedura e, quindi,
costituire una spesa per l’accesso. Eguale conclusione bisogna trarre per le forniture c.d. strategiche
(erogazione di energia elettrica, acqua, telefono, gas ecc.), che, ammesso che rientrino nella prestazione di
servizi, sono funzionali alla continuazione dell’esercizio dell’impresa, ma non anche, a stretto rigore, all’
“accesso alle procedure concorsuali”.
5-Effetti della revocazione
Il legislatore della riforma ha completamente riscritto l’art. 70. Questo disciplinava, nella precedente
normativa, il vecchio istituto della presunzione muciana, a proposito dei “beni acquistati dal coniuge del
fallito”; istituto già espunto dal sistema per interpretazione giudiziaria dopo la riforma del diritto di famiglia
attuata con la legge 19 maggio 1975 n. 151 ed ora definitivamente eliminato dall’ordinamento.
Lo spazio dell’art. 70 è stato utilizzato per regolamentare gli effetti della revocazione, di cui tratta l’art. 71; la
norma era stata emanata contestualmente al disegno di legge (che recepiva in gran parte il maxi
emendamento) che conteneva la modifica del vecchio art. 71 (a partire dalla rubrica, ivi così descritta:
“decadenza dell’azione”), sennonché, sparito il disegno di legge, oggi esistono nell’ordinamento due diversi
articoli (il 70 e il 71, appunto) recanti la stessa identica rubrica (“effetti della revocazione”), solo in parte
coincidenti in quanto il nuovo art. 70 ha un contenuto più ampio e soltanto nel secondo comma ribadisce il
disposto dell’art. 71, secondo il quale “Colui che, per effetto della revoca prevista dalle disposizioni
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precedenti, ha restituito quanto aveva ricevuto è ammesso al passivo fallimentare per il suo eventuale credito.
Si tratta di un evidente difetto di coordinamento, aggravato dal fatto che lo stesso principio è stato poi
ulteriormente ribadito nel terzo comma dell’art. 70 che, nell’introdurre il limite del massimo scoperto alla
revocatoria di atti estintivi di rapporti continuativi o reiterati, afferma che il creditore ha diritto d’insinuare al
passivo un credito d’importo corrispondente a quanto restituito.
Nulla, dunque, è mutato sul consolidato orientamento giurisprudenziale, secondo cui il diritto all’ammissione
al passivo del soccombente nell’azione revocatoria deriva non dalla sentenza di revoca, bensì dall’effettiva
restituzione, con la conseguenza che l’ammissione al passivo non è automatica, dovendo essere effettuata dal
soccombente stesso con il solo mezzo dell’insinuazione al passivo, in via tardiva se necessario. Per il resto,
permangono immutate le ben note problematiche formatesi nel vigore del vecchio (e persistente) art. 71.
La parte innovativa dell’art. 70 è contenuta nel primo e terzo comma del seguente tenore:
“La revocatoria dei pagamenti avvenuti tramite intermediari specializzati, procedura di compensazione
multilaterale e dalle società previste dall’art. 1 della legge 23 novembre 1939 n. 1966, si esercita e produce
effetti nei confronti del destinatario della prestazione.
Qualora la revoca abbia ad oggetto atti estintivi di rapporti continuativi o reiterati, il terzo deve restituire una
somma pari alla differenza fra l’ammontare massimo raggiunto dalle sue pretese, nel periodo per il quale è
provata la conoscenza dello stato di insolvenza, e l’ammontare residuo delle stesse, alla data in cui si è aperto
il concorso. Resta salvo il diritto del convenuto di insinuare al passivo un credito d’importo corrispondente a
quanto restituito”.
Il primo comma chiarisce che, nelle ipotesi di pagamenti avvenuti tramite i soggetti ivi indicati, l’eventuale
revocatoria produce effetti (e deve, quindi, esercitarsi) solo “nei confronti del destinatario della prestazione”
e non, quindi, di colui che – su incarico o nell’interesse di altri – ha eseguito il pagamento, sia esso
intermediario specializzato o società fiduciario o società di revisione che sia, con l’ovvia conseguenza che, in
tali ipotesi, il soggetto obbligato alla restituzione delle somme è solo colui che è stato il beneficiario effettivo
del pagamento medesimo e che, al tempo stesso, è l’unico destinatario diretto della revocatoria.
Si tratta di una disciplina di particolare favore per l’intermediario specializzato, per la società fiduciaria e per
gli altri soggetti che possono essere parti nella procedura di compensazione multilaterale, che mal si concilia
con i principi su cui si fonda l’operazione. Questa, infatti, trova la sua fonte in un rapporto di mandato, ove le
obbligazioni che fanno capo a tale rapporto sono del tutto autonome e distinte dal rapporto che giustifica il
pagamento nei confronti del destinatario finale della prestazione. Di conseguenza le somme che il mandante
rimette al mandatario prima di rappresentare l’adempimento dell’obbligazione pecuniaria nei confronti del
destinatario finale della prestazione, costituiscono adempimento dell’obbligazione del mandante di
corrispondere al mandatario i mezzi necessari per l’adempimento del mandato, ma non pagamento del
credito del terzo.
Questa scissione e pluralità di rapporti crea non poche difficoltà pratiche perchè se la revocatoria si esercita e
produce effetti nei confronti del destinatario finale della prestazione, la scientia decoctionis dovrà essere
dimostrata nei confronti di quest’ultimo, operazione indubbiamente difficile alla luce del fatto che i rapporti
tra solvens ed accipiens si svolgono per il tramite dell’intermediario.
La norma appare, inoltre, eccessivamente generica nell’individuare l’area dell’esenzione di cui solo
l’elaborazione giurisprudenziale potrà chiarire la portata.
Del terzo nuovo comma si è già detto.
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