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Parabole civili, parabole ecclesiali
Ridiscutere la secolarizzazione
❏
Paul Valadier
L
a secolarizzazione non è forse
diventata uno stato di cose di cui sappiamo tutto? E per questo è indiscutibile? Da diversi secoli trasforma le nostre società in ogni settore della vita
sociale e culturale, seguendo una sua traiettoria come se si trattasse di un
fenomeno che non solo non trova una fine, ma anzi riguarda un numero
sempre maggiore di settori o coinvolge sempre più animi. Malgrado ciò
che si dice, tocca direttamente la stessa Chiesa cattolica nel suo modo di
pensare, nelle relazioni al suo interno, anche e soprattutto nelle reazioni
negative che il magistero, e non esso soltanto, manifesta verso la modernità o alcuni dei suoi aspetti in ambito etico, morale e anche politico.
Un fatto sociale e storico di una tale portata può essere messo in discussione? Per quali motivi, su quali basi? Metterlo in discussione porta a
considerare la secolarizzazione un momento storico transitorio?
Ammettendo invece che sia un fenomeno incontestabile, cosa ci dice del
destino e del ruolo della religione nelle società moderne come le nostre?
Segna la fine di una tendenza storica apparentemente inarrestabile e quindi significa il ritorno del religioso, la fine del declino delle Chiese e il ritorno allo statu quo ante? Questi sono alcuni degli interrogativi che vorrei sollevare, se non risolvere, in questa sede.
TESTIMONIANZE STORICHE E SOCIOLOGICHE
Non sono necessari studi dotti, che confermerebbero sicuramente l’opinione comune, per ammettere che le nostre società occidentali, dopo
essersi identificate con la cristianità (nome antico rivendicato da quella
che oggi chiamiamo Europa), hanno progressivamente preso le distanze
da una società, detta «solistica», in cui il riferimento religioso o teologico cristiano controllava o pretendeva di controllare l’insieme della vita
sociale, economica, politica, culturale e naturalmente religiosa.
È inutile descrivere ora quel lungo processo iniziato senza dubbio in
PAUL VALADIER, gesuita, è docente emerito di Filosofia morale, Filosofia politica e Storia della
filosofia; dirige la rivista Archives de philosophie.
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pieno Medioevo, ma nel corso dei secoli si osserva che le scienze per
prime, seguite dalle arti e ovviamente dalla politica, si sono emancipate
a poco a poco dalla tutela teologica; tale movimento non è stato di negazione o di rifiuto, bensì ha coinciso con l’apparizione e il consolidamento di regole proprie a ciascun settore. Con l’«autonomia delle realtà
temporali» di cui parla il concilio Vaticano II è emersa a poco a poco la
consapevolezza che ogni ambito costitutivo delle relazioni con la natura, fra gli uomini, fra le nazioni poteva e doveva scoprire i principi che
lo regolano. Così gli scienziati potevano fare a meno dell’ipotesi Dio
secondo il precetto dell’etsi Deus non daretur, tant’è che un autentico
ragionamento scientifico doveva allontanarsi da un tale principio per
rispettare la natura propria delle realtà studiate ed evitare degli a priori
incompatibili con un’analisi rigorosa del reale.
Questa presa di distanza è stata certamente esemplare e tale resta
soprattutto nell’ambito delle scienze, ma la si osserva anche in quello
delle arti, dell’economia (la scomparsa del rifiuto del prestito a interesse può essere considerata una testimonianza significativa di questo
movimento) e della politica, dove la nascita dell’idea di sovranità dello
stato ha portato con sé il rifiuto di ogni tutela di un’autorità a esso superiore, che troviamo già in Machiavelli, ma molto chiaramente in Jean
Bodin e soprattutto in Thomas Hobbes. È un movimento di lunga durata che ha «prodotto» l’individuo moderno, il quale non si concepisce più
in un tutto da cui dipende, ma rivendica i suoi diritti a prescindere da, o
addirittura contro, il tutto (diritti dell’uomo); un individuo che si arroga
il diritto di controllare i poteri (democrazia) e quindi di giudicare le autorità qualunque esse siano.
Una conseguenza evidente di questo vasto movimento, senza dubbio
incompiuto (pensiamo alla bioetica, per esempio), è che viene allontanata la tentazione di proclamare una scienza delle scienze, posto e ruolo
rivendicati dalla teologia nel Medioevo. Da un punto di vista istituzionale significa la marginalizzazione delle Chiese, alle quali non spetta più
regolare l’insieme dei rapporti umani: devono mantenersi nel proprio
ambito.
E non dimentichiamo che il vasto movimento rapidamente descritto
non si è verificato senza lacerazioni e lutti: prova ne siano i conflitti tra
autorità della Chiesa e nuove autorità scientifiche o politiche. La lacerazione della cristianità in nome della religione nel periodo delle Riforme
ha contribuito non poco alla diffidenza della politica nei confronti delle
Chiese, fonti di violenza più che di pace. Di qui ha avuto origine una
filosofia politica diffidente verso le stesse Chiese, che ordinava agli stati
sovrani di porle sotto tutela. Una tutela che poteva significare protezione delle Chiese o diffidenza per principio.
Quello che ho descritto è ciò che viene chiamato generalmente il
fenomeno storico della secolarizzazione, un lungo processo che ha visto
la dissociazione della cristianità e l’emergere di ambiti specifici con
regole proprie e «indipendenti».
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Tuttavia, restare a livello delle constatazioni storiche c’impedirebbe
di giungere all’essenziale. Il vasto movimento di secolarizzazione che
ho cercato di descrivere in termini più neutrali possibile è stato interpretato da filosofi, storici e sociologi. Molti vi hanno visto un movimento ineluttabile della storia e l’hanno considerato un’emancipazione
dal religioso, una sorta d’uscita dalla dominazione delle Chiese, quindi
come un passaggio dall’oscurità alla luce, dalla fede alla ragione, dall’infanzia all’età adulta.
Passando dal piano della constatazione storica a quello di una tesi
propriamente metafisica, per molti la secolarizzazione è stata come
una filosofia della storia mediante la quale gli uomini s’impadronivano finalmente del proprio destino. In realtà questo vasto movimento
non è stato soltanto un fatto: è legato a una nuova concezione del
mondo, a una metafisica che cambia nell’uomo il modo di concepire
il suo rapporto con la natura, con gli altri, con se stesso in quanto individuo, con tutte le cose, quindi con l’Assoluto. Secondo l’analisi di
Max Weber, la secolarizzazione ha modificato l’oggetto stesso della
salvezza: l’uomo dei secoli secolari cerca di trovare la sua salvezza
non nell’aldilà, ma nel lavoro, nel progresso scientifico e tecnico, nell’attuazione di strutture di giustizia e di controllo dei poteri, nel
miglioramento della condizione umana attraverso la medicina o la ricchezza materiale.
Una tale filosofia della storia, che ha trovato diverse forme che non
spetta a me qui ricordare, e tanto meno studiare, ma che è necessario
citare, non poteva non pronunciarsi sul destino della religione. Lo faceva già, per esempio, quando identificava il passato religioso dell’umanità con uno stato d’infanzia o di minorità eteronoma e sosteneva che l’avvenire andava nella direzione di uno stadio adulto o dell’autonomia, per
cui la secolarizzazione diventava un’uscita dall’oscurantismo, dalla
paura, fonte di guerre, e dalla miseria verso una condizione di luce, di
prosperità e di pace. Non diciamo, affermava Voltaire dopo il terremoto
di Lisbona, che tutto va bene, ma pensiamo che «un giorno tutto andrà
bene» (Poème sur le désastre de Lisbonne ou examen de cet axiome: tout
est bien, 1756).
Questa filosofia valorizzava l’idea di progresso al punto da farne una
nuova religione, secondo i propositi e le aspettative di un Renan, e dall’uscita da un’infanzia di dipendenza si aspettava un profondo cambiamento del rapporto tra uomo e religione. Possiamo rilevare due tipi di
aspettative: o il movimento progressista della storia porterà alla scomparsa pura e semplice dell’illusione religiosa (Feuerbach e Marx, per
fare qualche nome), oppure farà delle religioni realtà marginali, indebolite, impotenti, dipendenti da un’adesione puramente individuale, prive
di reale fiducia presso gli animi, poiché un animo avvertito semplicemente non potrà più aderire alle credenze, per esempio in un Dio personale e provvidenziale (Nietzsche). Questo distanziamento sarà perciò in
qualche modo «di rigore», anche se non si può escludere «una revivi27
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scenza del divino», ma in maniera selvaggia, fuori da ogni dogmatica e
da ogni magistero che regoli le credenze.
RIMETTERE IN DISCUSSIONE
Questi postulati filosofici, apparentemente consolidati dalla constatazione di un movimento ineluttabile della storia occidentale, sono oggi
chiamati in causa; in particolare è messa in discussione la direzione data
a questo movimento che riguarda il futuro delle religioni. In questa stupefacente inversione di tendenza è certo che il crollo improvviso e totale
dei regimi che si professavano atei, come quelli fondati sul marxismo-leninismo, ha sferrato un duro colpo da una parte alla speranza di un «avvenire radioso», libero da ogni sorta di alienazione e nel quale, per parodiare Voltaire, «tutto andrà bene»; con questo crollo tutta una filosofia
della storia subisce un colpo durissimo e perde la sua credibilità.
Parallelamente, il ruolo delle religioni non è mai venuto meno: già
con la loro resistenza spesso eroica al comunismo esse hanno contribuito non poco al fallimento dei totalitarismi atei, e l’attualità mostra, nel
bene e nel male, che le religioni, che comunque non sono mai scomparse dall’orizzonte umano, ritrovano una forza che, per quanto possa preoccupare (pensiamo ai fondamentalismi islamici o protestanti negli Stati
Uniti), invalida la tesi della loro scomparsa. Da qui nasce la domanda: la
secolarizzazione è in difficoltà? O meglio: non sarà la secolarizzazione a
provocare e attizzare i radicalismi religiosi in quanto contro-movimento
identitario rispetto all’influenza della modernità?
La secolarizzazione viene così messa in discussione sotto un primo
aspetto da un sedicente «ritorno del religioso». Ovunque si osserva non
solo la reviviscenza delle religioni, spesso caratterizzata da una certa
aggressività, ma un’effervescenza che riguarda i bisogni o le aspirazioni
spirituali. Queste tendenze, che non sempre rafforzano le religioni «ufficiali», costituiscono un fenomeno sociale di un’importanza tale da non
poterlo passare sotto silenzio o trascurare. Di fronte a queste realtà, dalle
quali sono affascinati, certi sociologi arrivano a concludere che in realtà
«l’idea secondo la quale viviamo in un mondo secolare è falsa. Il mondo
d’oggi, con qualche eccezione, (…) è furiosamente religioso come non lo
è mai stato. In alcuni luoghi addirittura di più». Queste parole ci sorprendono maggiormente se pensiamo che sono state scritte da Peter
Berger, negli anni sessanta cantore entusiasta della secolarizzazione, che
aggiunge: «Il mondo attuale è religioso in maniera massiccia; è tutto
tranne il mondo secolarizzato che era stato annunciato (…) da tanti analisti della modernità».1 Questo rinnegare sé stessi è abbastanza significa1
P.L. BERGER, «La désécularisation du monde» in ID. (a cura di), Le Réenchantement du
monde, Bayard 2001, 15 e 24; vers. or.: P.L. BERGER (a cura di), The Desecularization of the
World: Resurgent Religion and World Politics, W.B. Eerdmans Publishing, Grand Rapids
(USA) 1999.
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tivo, poiché si può dedurre che la secolarizzazione non c’è mai stata: il
mondo è sempre stato religioso e lo è ancora, contrariamente alle analisi
illusorie e sbagliate di certi sociologi fra cui Berger.
Per non cadere a nostra volta nelle illusioni alimentate da questi falsi
profeti, bisognerebbe approfondire ciò che negli anni sessanta i sociologi
intendevano con secolarizzazione. Ma senza addentrarci in un’analisi di
questo genere, possiamo stupirci: dove vediamo un «reincantamento del
mondo», se almeno ci atteniamo a un sociologo serio come Weber, che
definisce «disincantamento» (che per lui non s’identifica con la secolarizzazione, ma è la sua condizione di possibilità) «l’eliminazione della
magia in quanto tecnica di salvezza»? Dove, se non in cerchie del tutto
marginali e senza una reale importanza sociale, i nostri contemporanei si
affidano alla magia per la loro salvezza? Essi continuano imperterriti,
anche al di là di ogni ebbrezza idolatrica, ad aspettare dai diversi progressi un miglioramento delle loro condizioni. E anche se non si aspettano la
salvezza dalla medicina o dall’economia, anche se ritrovano interesse o
gusto per la religione (e anche qui non bisogna farsi troppe illusioni), la
differenziazione degli ambiti che esclude la piena influenza della religione
prevale e difficilmente può essere messa in discussione (a eccezione di
alcuni fondamentalisti, la cui attesa è d’altronde del tutto vana). In questo
senso è inutile negare l’importanza della secolarizzazione.
Un’altra obiezione nasce dal rapporto tacito delle teorie della secolarizzazione con la religione: quasi tutte postulavano un rapporto conflittuale soprattutto con il cristianesimo. Da qui il tema dell’emancipazione, della
liberazione, della presa di distanza e di conseguenza della scomparsa a
lungo termine della religione o della fine del cristianesimo. Ora l’emancipazione dal religioso, che è stata forse indebitamente legata all’autonomia
delle realtà terrene, all’indipendenza dei diversi ambiti dell’esistenza dal
controllo della religione, aveva il senso radicale che le è stato attribuito?
Non potremmo ipotizzare che la secolarizzazione, invece di essere il nemico del cristianesimo, chiamato a sconfiggerlo e interamente mobilitato
contro di esso a partire da forze estranee (la ragione, la libertà, la sperimentazione ecc.), sia il prodotto del cristianesimo stesso?
Senza la matrice simbolica dell’universo biblico, in particolare l’antiidolatria nei confronti della natura e dei poteri politici, la trascendenza
radicale di Dio, l’invito al dominio della natura, il sostegno a una libertà
strutturata da una legge di libertà, la differenziazione tra religione (Dio)
e politica (Cesare), la valorizzazione della persona umana nella sua
dignità, addirittura il senso del peccato che invita a una redenzione, quindi a un senso positivo della storia, la secolarizzazione sarebbe stata possibile? Sorge così spontanea la domanda: la secolarizzazione è nemica o
frutto del cristianesimo? O forse il cristianesimo è vittima oppure origine, seppure involontaria (da cui le resistenze della Chiesa) di questo vasto
movimento storico? Domande che sono state oggetto di ampi dibattiti o
di studi dotti, domande che dividono gli animi senza che in tali ambiti si
possa prendere una decisione categorica.
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Ma, qualunque sia l’ipotesi, la filosofia della storia precedentemente
evocata viene quanto meno messa in dubbio, come d’altronde le sue conclusioni. E così è necessario situare altrove il posto e il ruolo del cristianesimo in questa lunga avventura: esso non ha forse generato la modernità (Gauchet, Vattimo, ma prima ancora Weber e molti altri)? E quest’ultima sarebbe comprensibile senza il cristianesimo, anche se gli spostamenti sono stati considerevoli, scomodi per le Chiese e senza dubbio
fatali per un certo tipo di cristianità?
Questa obiezione può suscitarne una ancora più radicale. Quanto affermato prima porta a chiedersi se la secolarizzazione moderna sia erede
o nemica del cristianesimo, e correlativamente se quest’ultimo sia matrice o vittima, condizione di possibilità oppure ostacolo a questo movimento storico. Ma possiamo anche dubitare di tali alternative e giudicarle totalmente arbitrarie. Così Hans Blumenberg, in Die Legitimität der
Neuzeit (1966),2 ha messo in dubbio i postulati della precedente obiezione, e quindi la filosofia della storia così presupposta. Essa implica infatti un’azione di travaso, di traslazione, di collegamento da una situazione
storica a un’altra; postula senza dubbio una rottura, ma a un esame più
profondo la continuità di un’eredità.
L’ideologia del progresso sarebbe dunque una «secolarizzazione»
dell’attesa escatologica; la sovranità dello stato secolarizzerebbe la sovranità di Dio; i diritti dell’uomo trascriverebbero in termini giuridici e
universali la credenza nell’uomo come immagine di Dio, a questo titolo
infinitamente rispettabile. In ogni caso si fa dipendere la modernità dal
cristianesimo, sia positivamente (erede) sia negativamente (emancipatrice), e così non si rispetta «la legittimità dei tempi moderni», cioè la loro
specificità propria.
In queste interpretazioni si presuppone sempre una «sostanza» prima
da cui la modernità dipenderebbe e che in un certo senso la «spiegherebbe». Per questo motivo, invece di supporre un transfert di sostanza
(Ubersetzung), è più opportuno parlare di Umbesetzung, che si potrebbe
tradurre con «reinvestimento». Non c’è continuità, ma ogni periodo trova
davanti a sé nuove sfide che deve affrontare con gli strumenti che certamente eredita, ma che devono dare prova della loro efficacia in una situazione del tutto nuova. Le sfide provocate dalla nascita delle scienze nel
Rinascimento non possono trovare soluzione nelle risorse intellettuali o
spirituali del Medioevo. Bisogna dunque, rischiando una grave crisi,
mobilitarsi di nuovo per superare le sfide, e la religione rivestirà senza
dubbio un suo ruolo, anche se molto diverso da quello assunto in precedenza.
Non mi dilungherò sulle posizioni di Blumenberg, più complesse di
quelle che ho esposto. Messe a confronto, queste obiezioni mostrano
innanzitutto che l’idea di secolarizzazione, per il suo legame con la
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Trad. it. La legittimità dell’età moderna, Marietti, Genova 1992.
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modernità, continua a essere messa in dubbio, se non addirittura contestata, sia in quanto tale, sia nel suo rapporto con il cristianesimo o nel
quadro di una filosofia della storia che postula ciò che Blumenberg definisce «il teorema della secolarizzazione». Non mi resta che prendere
posizione avviandomi a una rapida conclusione.
PRESA DI POSIZIONE
Non bisogna, innanzitutto, lasciarsi incantare dai famosi «ritorni del
religioso». Che ai giorni nostri si assista a «un’effervescenza» intorno al
religioso, come io preferisco definirla, non si può negare. Sentimenti e
aspirazioni religiosi sono sempre esistiti, ed è ridicolo fingere che siano
scomparsi in un mondo secolarizzato. Ciò equivarrebbe a ignorare fino a
che punto quelle che sono state senza dubbio indebitamente chiamate le
«religioni secolari» (ideologie naziste o marxiste-leniniste) hanno sostituito queste aspirazioni religiose prive di eredi e hanno rivestito il ruolo di
surrogato delle religioni tradizionali, in particolar modo nei non credenti.
Di tali aspirazioni religiose approfittano ai giorni nostri, in modi diversi,
altri guru interessati, che alimentano altre forme di «servitù volontaria»
(secondo le parole di Étienne de la Boétie).
Fatto più inquietante, assistiamo a una reviviscenza dei fondamentalismi e degli estremismi religiosi, che è senza dubbio uno dei fenomeni più
caratteristici e preoccupanti di questo inizio di XXI secolo. Un fenomeno
carico di settarismi (come i neo-con che circondano o circondavano il presidente Bush) e di violenza (il terrorismo giustificato nel nome dell’islam),
che certo non va nella direzione delle «teorie della secolarizzazione» o di
una progressiva e ineluttabile uscita dall’oscurantismo.
Tuttavia tale fenomeno può essere analizzato non come una necessità
di riaffermazione della secolarizzazione, ma piuttosto come uno dei suoi
effetti perversi: nessuno dei protagonisti citati rinnega le tecniche moderne, come vediamo nell’entourage di Bush o nella raffinatezza degli attentati terroristici d’ispirazione islamica, ma sono tutti vittime di una paura
viscerale di fronte a chi mette in dubbio la loro identità di protestanti o di
musulmani. Il loro fondamentalismo è senza dubbio innanzitutto una reazione antimoderna, dominata dalla paura della modernità e della secolarizzazione nei confronti della loro ideologia e/o della loro religione; è inintelligibile se si prescinde dal vasto movimento accennato prima e tuttavia
rimette in dubbio l’affermazione di un’ineluttabile scomparsa delle religioni, contestando radicalmente uno dei postulati più impressionanti del
«teorema della secolarizzazione» o delle filosofie (o ideologie) della storia
di cui ho parlato.
La resistenza del religioso a scomparire impone una domanda antropologica: può esso scomparire da un’esistenza umana sia a livello individuale, sia collettivo? Ovvero: può la secolarizzazione nel suo insieme portare
a compimento la sua logica e il suo progetto, ammettendo che questo con31
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sista nella piena vittoria dei Lumi sull’oscurantismo, nel trionfo di una
ragione pacifica sulla violenza o sull’irrazionale e che quindi la secolarizzazione miri non soltanto all’indebolimento o alla marginalizzazione delle
religioni, ma addirittura alla loro scomparsa dall’orizzonte umano (come
credevano Marx o Freud, almeno in certa misura)? Prima ancora che auspicabile, la scomparsa del religioso è anche soltanto possibile senza una disumanizzazione dell’uomo?
Ora possiamo legittimamente sollevare la questione, senza voler pretendere, come Berger, che la secolarizzazione non sia mai esistita. Vediamo
bene che il riconoscimento dell’autonomia dei vari ambiti (scienze, arti,
economia, politica ecc.) è un fatto ineluttabile, e altresì che tale autonomia
ha avuto conseguenze fauste sul destino dell’umanità.
Quest’affermazione non è sprovveduta, né ingenua, poiché, allo stesso
tempo, vediamo anche che una rigida separazione degli ambiti, lungi dall’essere sempre e comunque positiva, pone numerose questioni etiche e
morali. Ma proprio per questo la religione, la cui massima ambizione è
indubbiamente riunire, può e deve rivestire un ruolo per ricordare che, malgrado le legittime differenze, tutto ruota intorno a un centro e che ignorarlo da parte dell’umanità sarebbe non vedere la realtà.
Concludendo, questi dibattiti dimostrano che il posto della religione
nelle nostre società non è più quello che era, che non bisogna indulgere alla
nostalgia, ma piuttosto trovare un altro posto in un universo largamente
secolarizzato, dove le questioni delle frontiere e il problema del legame
vengono sollevati con sempre maggiori vivacità e complessità.
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