Persinsala Teatro
Federico Mattioni
marzo 13, 2011
Al Teatro Abarico di Roma una miscela edulcorata di testi
trabocca disgusto per un’Italietta che non riesce a reagire al
proprio sfacelo.
Buio. Luci in sala. Scenografia spoglia ed essenziale.
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Un po’ di borotalco a incipriare la scena, il palco, i volti, le maschere, le
vesti, gli esigui arredi, la platea. Elemento disturbatore ma non
prevaricante.
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I personaggi si muovono come ingessati, la forma critica nuoce al
messaggio ma non alle parole gridate, arriva prima la provocazione e la
vergogna di essere italiano, e poi – forse tardi – il messaggio, che è
comunque forte e demistificante.
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Gli attori (su tutti spicca il volto ottocentesco di uno straordinario Ivan
Bellavista), si muovono con agio nel disagio della scena, e delle vesti.
L’attrice (una suggestiva Alessandra Sani) mormora parole smorzate dal
vento del cambiamento, imbellettata e stucchevole, e come una foglia
vaga da un andito all’altro alla ricerca della verità.
C’è confusione nella altrimenti interessante regia di Mario Biondino,
pregevole attore e cantante dagli afflati lirici e gorgheggiante in una
Stand By Me d’ironico preludio allo scempio dei rapporti, dei battibecchi
e del delitto. C’è confusione – ripetiamo – ma quelle luci, quei volti, quelle
movenze caparbie, non si dimenticano facilmente.
Da Cechov sono liberamente tratti i testi Il giardino dei ciliegi (che
vanta una memorabile rappresentazione italiana di Giorgio Strehler del
’73) e Il gabbiano. Del primo si ripropongono alcuni passi relativi al nodo
centrale della vendita del terreno: un luogo estraneo al pubblico, questo
giardino che non si vede mai ma di cui si parla tanto – vuoto nella
fantasmagorica messa in scena, così come l’armadio: elemento simbolico
molto forte dell’ultimo atto dell’opera cecoviana, che non entra in scena.
De Il gabbiano resta poco o niente: i triangoli amorosi così come
l’uccisione del gabbiano sono divorati da rapporti di potere mascherati dai
tempi (si mormora che un certo Berlugagenov ha dimostrato interesse per
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il grande giardino di ciliegi).
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La persecuzione e l’assassinio di Jean-Paul Marat, rappresentato
dalla compagnia filodrammatica dell’ospizio di Charenton sotto la
guida del marchese De Sade – testo di Peter Weiss – rappresentato in
teatro dall’inglese Peter Brook nel 1964 e adattato dallo stesso per il
cinema nel ’67, si svolge su più piani e riesce a turbare il pubblico, grazie
alla propria forza nichilista. Una mimesi assurda del teatro nel teatro,
chiaramente una doppia rappresentazione che è l’una l’allegoria dell’altra.
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Il tutto filtrato da una corrosiva ironia beniana (la regia di Biondino è una
scrittura di scena con elementi cabarettistici sul modello della visione del
teatro di Carmelo Bene, con la predominanza dell’insieme sul testo), e da
una crudeltà del linguaggio di ascendenza artaudiana, dove il gesto, il
movimento, il suono e la parola (usata, come nella teoria di Antonin
Artaud, in maniera incantatoria), sono fusi in maniera sperimentale e
coraggiosamente in bilico con il grottesco della condizione del nostro
Paese – in preoccupante involuzione socio-politica.
E l’atto di provocazione si compie pienamente con il corpo avvolto dalla
bandiera-esequia dello Stato. Una svendita totale del proprio corpobaraccone all’interno di un manicomio dell’osceno, di un vero e proprio
teatro della crudeltà, secondo l’accezione del manifesto di Artaud.
Si percepisce l’angoscia umana e, uscendo da teatro, ci si rende conto che
il risultato che si voleva è stato raggiunto, al di là dell’ardua combinazione
dei testi.
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Lo spettacolo continua:
Teatro Abarico
via dei Sabelli, 116 – Roma
fino a domenica 13 marzo, ore 21.00
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Phi presenta:
Cechov/Marat/Sade
(Della vacuità dell’Essere Italiano ovvero Il suicidio della Rivoluzione)
da Anton Cechov e Peter Weiss
regia di Mario Biondino
con Mario Biondino, Francesco Marinucci, Ivan Bellavista e Alessandra Sani
coregia e assistenza Giulia Corrado
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