Angelica Mucchi Faina, Comunicazione Interculturale. Il punto di vista psicologico sociale, Editori Laterza, Roma- Bari 2006; pp 144 Recensione di Francesca Lazzari (luglio2007) Dottorato in Scienze della Cognizione e della Formazione, Cà Foscari Università, Venezia, Dipartimento di Filosofia e Teoria della Scienza – Centro di Eccellenza per la Ricerca l'Innovazione e la Formazione Avanzata ([email protected]) Review by Francesca Lazzari (July 2007) PhD in Cognitive and Educational Sciences, Cà Foscari University, Venice, Department of Philosophy and Theory of Science – Centre of Excellence for Pedagogical Research and Advanced Learning Abstract La comunicazione interculturale è un tema cruciale per le società contemporanee. La prospettiva psicosociale può contribuire, più di altre discipline, ad elaborare strumenti d’indagine e strategie efficaci per affrontare con esiti positivi un problema così complesso. La relazione interculturale, infatti, riguarda innanzitutto la traduzione e la trasmissione di senso e significati tra individui o tra gruppi. E perciò un rapporto tra universi culturali differenti. L’analisi dei diversi elementi che concorrono a determinare questa relazione è sviluppata in due parti distinte del libro. Nella prima Mucchi Faina esplora, sulla base dei contributi di alcuni tra i più noti psicologi sociali, i processi cognitivi e motivazionali che operano nelle relazioni interculturali, con particolare riguardo agli stereotipi e alle categorizzazioni sociali. Nella seconda, invece, approfondisce il problema del contesto e delle condizioni effettive in cui avvengono la relazione tra comunicanti, mettendo in luce soprattutto le variazioni e le differenze culturali. L’obiettivo è capire se e come la comunicazione possa essere depurata dagli effetti negativi di stereotipi e pregiudizi (p.72). La convinzione di Mucchi Faina è che si debba promuovere lo sviluppo di una competenza comunicativa interculturale, basata, da un lato, sulla consapevolezza dei limiti culturali del proprio modo di pensare, sentire e agire; e, dall’altro, sulla motivazione a comunicare con persone di altra cultura. Intercultural communication is a crucial theme for contemporary society. The psychosocial perspective can contribute, more than other disciplines, to elaborate research tools and effective strategies to confront successfully such a complex problem. The intercultural relation, in fact, regards above all the translation and the transmission of sense and significance among individuals or groups. It is therefore a relation between different cultural universes. The analysis of the diverse elements which contribute to determine this relationship is developed in two distinct parts of the book. In the first part Mucchi Faina explores, on the basis of the contributions of some of the most noted social psychologists, the cognitive and motivational processes which operate within intercultural relationships, with particular regard to stereotypes and to social categorizations. In the second part, on the other hand, she delves into the problem of the context and of the actual conditions in which the relations between communicants take place, highlighting above all the variations and cultural differences. The objective is to understand if and how the communication could be purified of the negative effects of stereotypes and prejudices (p.72). Mucchi Faina is convinced that the development of an intercultural communicative competence should be promoted, based, on one side, on the awareness of the cultural limits of one’s own way of thinking, feeling and acting; and, on the other side, on the motivation to communicate with people from other cultures. Recensione E' possibile aprire un dialogo con persone provenienti da un universo culturale diverso dal nostro senza provocare imbarazzi o fraintendimenti? Sulla scorta di questa domanda di fondo Mucchi Faina indaga il tema della comunicazione interculturale con la consapevolezza che si tratta di una questione cruciale per le società contemporanee e che proprio per questo gli scienziati sociali hanno una responsabilità primaria nell’apportare il proprio contributo affinché gli orientamenti generali siano sufficientemente adeguati (p. 100). Le ricerche sulla comunicazione e le relazioni interculturali costituiscono il campo di diverse discipline: antropologia, linguistica, sociologia, comunicazione e psicologia, ma è la psicologia sociale ad aver prodotto i risultati di maggior rilievo. Tuttavia anche nell’ambito della psicologia sociale il tema rimane ancora marginale e viene affrontato in maniera indifferenziata, sulla base del presupposto che gli stessi meccanismi regolino i comportamenti di tutti i diversi tipi di gruppi (etnici, culturali, di lavoro, ecc.). Ci si concentra perlopiù su alcuni processi generali come la formazione dei pregiudizi, le situazioni che li facilitano o li ostacolano, o il fatto che alcune persone ricorrano a stereotipi più di altre. Molto più raramente ci si interroga sulle variazioni culturali di questi processi, sulla loro dimensione culturale specifica. 1 Mucchi Faina ritiene invece che il problema particolare e pressante che pone la comunicazione interculturale sia soprattutto quello della traduzione, vale a dire la trasmissione di senso e significati che consenta alle persone di comprendere l’altro e di esserne a loro volta comprese (p.IX). Perciò l’universo culturale rappresenta un campo d’indagine privilegiato per la comprensione delle dinamiche della comunicazione interculturale. L’obiettivo, secondo Mucchi Faina, non è tanto quello di approfondire come il pregiudizio intergruppi possa essere ridotto per mezzo della comunicazione, quanto capire se, in che misura e come la comunicazione possa essere depurata dagli effetti negativi di pregiudizi e di stereotipi che i comunicanti hanno circa l’universo culturale del proprio interlocutore (p. 72). L’esplorazione di questa possibilità richiede un esame articolato su due temi fondamentali: da una parte i processi cognitivi, motivazionali e le differenze culturali che determinano le impressioni dell’altro, dell’altro gruppo e di se stessi, e che portano alla formazione di giudizi e pregiudizi; dall’altra, il contesto in cui avviene la relazione di comunicazione. Per affrontare questioni così complesse, Mucchi Faina si avvale di alcuni modelli generali, che utilizza come griglia teorica di riferimento. 1) La definizione di cultura, intesa nel suo aspetto oggettivo come sistema di significati condiviso da un gruppo sociale e trasmesso nel corso delle generazioni. In questo senso la cultura fornisce al singolo sia un insieme di conoscenze sia una guida di comportamento. 2) La definizione di comunicazione interculturale come la propone Watzlawick (1967): lo scambio di informazioni tra persone che appartengono a gruppi o categorie sociali che sono portatori di culture almeno in parte differenti (p. 4). 3) L’utilizzo di due sindromi culturali che permettono di cogliere alcune importanti differenze tra i comportamenti sociali delle varie culture del pianeta: collettivismo e individualismo (Hofstede, 1980). Il primo modello - tipico delle culture asiatiche e latino-americane - fa riferimento al sé collettivo, del gruppo di appartenenza, piuttosto che al sé individuale, dà priorità agli obiettivi del gruppo piuttosto che ai propri, regola il comportamento sulla base delle norme del proprio gruppo, concepisce i rapporti sociali come comunanza di modi di sentire e non come ricerca di un beneficio per i propri interessi. Di contro, il modello individualista - proprio dell’Europa occidentale e settentrionale, del Nord America, dell’Australia e della Nuova Zelanda – fa riferimento al sé individuale, inteso come indipendenza dal gruppo, dà priorità agli obiettivi individuali, utilizza gli atteggiamenti individuali e non le norme collettive come regole di comportamento, cerca relazioni sociali solo se utili a trarre benefici individuali. 4) Il riferimento ad alcune categorie generali della psicologia sociale, che valgono anche per la comprensione dei processi comunicativi interculturali: la percezione, la valutazione e il comportamento. In ognuno di questi tre elementi entrano in gioco due aspetti fondamentali: la costruzione della realtà, alla quale contribuiscono sia le esperienze individuali sia l’esperienza e il consenso sociale; la reciproca influenza tra individuo e contesto sociale. Questi processi si sviluppano nelle diverse situazioni tenendo conto del desiderio di avere un comprensione sufficientemente accurata di ciò che ci circonda, del desiderio di essere in relazione con gli altri, del desiderio di mantenere positiva o di migliorare l’immagine di sé. Sulle base di questo quadro generale, Mucchi Faina affronta il primo grande tema della comunicazione interculturale: i processi cognitivi, le motivazioni e le differenze culturali che agiscono nelle relazioni individuali e intergruppi. Grande rilevanza hanno innanzitutto le impressioni che abbiamo di un’altra persona e, di riflesso, di noi stessi. Sono diversi i fattori che concorrono a determinare queste impressioni, intervenendo in modo più o meno rilevante sulla diversità o la somiglianza percepita. Innanzitutto l’aspetto esteriore, i segnali non verbali come quelli attinenti la prossemica, la cronemica, la cinesica e quelli non linguistici del parlato (velocità di eloquio, qualità della voce e modulazioni del discorso, ecc.). In secondo luogo la tendenza a categorizzare, cioè a classificare singoli stimoli come membri di un raggruppamento più ampio. Questo processo cognitivo viene messo in atto anche nell’agire sociale, nel rapporto tra ingroup e outgroup. La categorizzazione sociale è uno degli strumenti più rapidi di cui disponiamo per assumere informazioni e per comprendere chi ci sta attorno, […] per identificare somiglianze e differenze tra le persone e i gruppi con cui entriamo in contatto (p.21). La categorizzazione sociale porta alla formazione degli stereotipi, rappresentazioni e generalizzazioni cognitive che derivano, secondo l’SCM (Stereotype Content Model) di Fiske: 1) dal bisogno fondamentale, per il prorio interesse o sopravvivenza, di decidere se gli altri saranno amichevoli o ostili e capaci o incapaci di mettere in atto le loro intenzioni; 2) dalla presenza in tutte le società complesse di competizione intergruppi o differenze di status tra 2 gruppi. Lo stereotipo e la categorizzazione sociale rappresenta il processo cognitivo che di norma usiamo per rappresentarci un’altra persona in quanto appartenente ad un outgroup, percepito come entità unica, benché ciò non escluda che da qui si inneschi un procedimento individuante. Rispetto alle caratteristiche dell’outgroup, sembra esserci una differenza tra culture individualiste e quelle collettiviste. Le prime considerano l’outgroup come omogeneo in senso negativo, senza differenze individualizzanti. Mentre le seconde tendono ad apprezzare l’omogeneità in quanto valore positivo dell’ingroup. Per le culture collettiviste, infatti, il gruppo di riferimento è percepito come una struttura stabile, armonica ed omogenea, alle cui regole si conformano i singoli individui. Perciò l’omogeneità dell’ingroup è vista positivamente, a differenza della disomogeneità dell’outgroup. I processi di categorizzazione sociale innescano giudizi e valutazioni rispetto alle persone di altre culture. Tuttavia questo procedimento generale può avere dei riflessi differenti a seconda delle culture in cui si forma. In genere il pregiudizio deriva da un meccanismo collegato ai giudizi che esprimiamo su noi stessi, tendenti ad una sopravvalutazione di sé rispetto agli altri. Tali meccanismi sono mossi da alcuni errori o bias. Una prima forma è l’errore di corrispondenza, che enfatizza i fattori disposizionali e sottovaluta quelli situazionali nei comportamenti degli altri. Si tratta di un errore che rientra nella vasta gamma dei giudizi tendenziosi di sé. Nelle culture individualiste tale giudizio si esprime come autoinnalzamneto di sé: i successi sono attribuiti a se stessi e alle proprie capacità, mentre gli insuccessi sono ascritti agli altri e alle situazioni. Nelle culture collettiviste invece i successi sono collegati alla fortuna e gli insuccessi alle proprie mancanze di talento. La critica alle proprie capacità, in quelle culture, non va considerata come autosvalutazione, perché anzi aiuta a migliorare il proprio contributo e l’appartenenza al gruppo. Svolge dunque la stessa funzione psicologica positiva dell’autoinnalzamento nelle culture individualiste. E’ chiaro che queste differenze di attribuzione causale, che riflettono una diversità di visioni del mondo, possano essere all’origine di numerosi fraintendimenti nel corso della comunicazione (p.35). La psicologia sociale individua alcune tipologie di pregiudizi che agiscono nella relazione intergruppi, e che sono legati ai processi di favoritismo e al giudizio tendenzioso di sé. 1) La sopravvalutazione dell’ingroup:”noi siamo bravi”. 2) La differenziazione intergruppi:”noi siamo più bravi di loro”. 3) La svalutazione dell’outgroup:”loro non sono bravi” (p.35-36). Sull’ingroup e sull’intergroup bias esiste un modello teorico di riferimento ormai classico: Social Identity Theory, SIT: Tajferl e Turne, 1986), che collega il favoritismo per l’ingroup e la svalutazione dell’outgroup all’identità sociale, all’identificazione e all’approvazione con il gruppo. Tuttavia numerose ricerche e studi di casi mostrano alcune differenze non solo tra culture individualiste e collettiviste, ma anche in relazione alle situazioni e agli status sociali, per cui non sempre è possibile individuare un processo universale ed univoco. Dal punto di vista della problematica della comunicazione interculturale risultano perciò più interessanti due tendenze della ricerca attuale: la centralità della componente affettiva rispetto a quella cognitiva, con particolare riferimento al ruolo rilevante svolto dall’ansia; l’interesse per le forme di pregiudizio nascosto o implicito. L’ansia favorirebbe il pregiudizio nei seguenti casi: minacce realistiche (si teme che l’outgroup metta in pericolo l’esistenza, il benessere, il potere politico ed economico dell’ingrouo); minacce simboliche (riguardanti differenze di valori, tradizioni, way of life); ansia intergruppi (il senso di minaccia provato durante l’interazione con i membri dell’outgroup, che porta le persone a provare la paura di essere rifiutate, ridicolizzate o umiliate. Una volta riconosciuti i processi fondamentali che si attivano in situazioni interindividuali e intergruppi, Mucchi Faina affronta, nella seconda parte del suo lavoro, la questione centrale rispetto al problema della comunicazione: il contesto e la relazione specifica tra i comunicanti. Da questo ambito di ricerca, in parte trascurato, possono venire le indicazioni di maggior interesse riguardo l’obiettivo di depurare la comunicazione interculturale dai pregiudizi nei confronti degli universi culturali dei propri interlocutori. La cultura va considerata come un insieme di strumenti che possono essere adoperati in modi diversi e con diversi scopi, e non come un’entità statica che influenza invariabilmente chi appartiene ad un determinato gruppo culturale (p. 49-50). In questo senso sono molto interessanti i risultati emersi da ricerche che coinvolgono individui biculturali e che mostrano come il priming culturale sia determinante nell’interpretazione delle situazioni e delle informazioni trasmesse. 3 La lingua stessa è portatrice di esperienze e di una percezione del sé legata alle teorie implicite alla cultura di riferimento. Questi risultati suggeriscono che, negli individui biculturali, due identità culturali possono essere conservate in strutture cognitive separate e che ciascuna struttura può essere resa accessibile e attivata [a seconda del contesto o] della lingua che le è associata (p. 54). I meccanismi operanti nelle relazioni individuali trovano una precisa contestualizzazione nelle relazioni esistenti tra gruppi, che possono differenziarsi in rapporto alla durata del contatto, allo status relativo e al grado di conflittualità. Per quanto riguarda la durata, i processi di acculturazione influiscono in misura decisiva sui diversi esiti della propria identità sociale e, a seconda del modo in cui ci si appropria o meno della cultura dell’outgroup maggioritario, si verificano i fenomeni dell’assimilazione, della separazione e della marginalizzazione. Naturalmente anche lo status di conflittualità nelle relazioni tra gruppi è essenziale per comprendere il contesto e, da questo punto di vista, il conflitto è maggiore quando i contatti tra i gruppi sono scarsi. Infine, nella comprensione del contesto è importante tenere conto della differenza tra culture e misurare la loro distanza. I fattori che contribuiscono a determinare la distanza socioculturale sono diversi. Hofstede (1980) individua quattro dimensioni: controllo dell’incertezza (cioè la capacità o meno di affrontare rischi); la distanza gerarchica; l’asse mascolinità-femminilità; l’asse individualismocollettivismo. Per Triandis (1995) la distanza è di carattere strutturale e coinvolge aspetti quali il linguaggio, la struttura sociale ed economica, la religione, il sistema politico, il livello d’istruzione, l’idea di verità, i criteri estetici e così via. Più di recente, Schwartz (1999, 2004) ha messo a punto un modello basato su sette tipi di valori culturali strutturati lungo tre dimensioni: la relazione tra l’individuo e il gruppo (inquadramento o autonomia e, in particolare, autonomia intellettuale o affettiva); il modo di distribuzione del potere, dell’autorità e delle risorse (gerarchia o egualitarismo); il rapporto tra gli esseri umani e il mondo naturale e sociale (dominio o armonia). Qualunque siano i criteri che adottiamo, è importante capire che nel confronto tra universi culturali la distanza effettiva - calcolata su parametri oggettivi – e la distanza percepita non sempre coincidono. Dal punto di vista di Mucchi Faina, e rispetto all’obbiettivo di favorire la comunicazione interculturale, la percezione della distanza è particolarmente importante. Più l’interlocutore è percepito come lontano, più cresce la tendenza a utilizzare rappresentazioni stereotipiche (p. 65). Agendo su questo versante, si può operare concretamente per superare distanze, barriere e incomprensioni. Il bilinguismo, ad esempio, può facilitare le relazioni interculturali. Ma ancora più determinante è intervenire rispetto alle condizioni effettive in cui i comunicanti interloquiscono. Sostanzialmente, queste condizioni riguardano il ruolo svolto dalle aspettative, cioè la motivazione e la volontà di comprendere e di essere compresi […], di condividere lo stesso intento relazionale […], ma sono necessari anche la volontà di prestare attenzione, la fiducia nella possibilità di instaurare un buon rapporto, il desiderio di impegnarsi e di cercare di accettare le diversità dell’altro (p.68-69). Mucchi Faina elenca diverse tipologie di atteggiamenti che frenano la volontà di comprendere l’altro, creando barriere e incomprensioni, e, viceversa, i comportamenti utili per superarle. La mancanza di apertura nei confronti dell’interlocutore nasce spesso, come si è visto, dagli stereotipi più o meno impliciti. Il contatto tra gruppi differenti può mitigare questa influenza categoriale, purché i due gruppi abbiano uno status simile e un obiettivo condiviso, siano interdipendenti tra loro e debbano cooperare per raggiungere un obiettivo e, infine, purché le istituzioni favoriscano il loro rapporto. Ci sono altre strategie che possono aiutare a cambiare atteggiamenti e stereotipi rispetto all’outgroup. Si può agire a livello cognitivo e di consapevolezza, oppure attivando processi empatici. In entrambi i casi l’obiettivo è riconoscere la qualità dei propri pregiudizi e, nello stesso tempo, comprendere meglio la realtà culturale e/o affettiva dell’altro. Altrettanto importante è conoscere quali possono essere le cause di incomprensioni e fraintendimenti. Sapere di essere oggetto di pregiudizi può influire sulle prestazioni e sugli esiti affettivi e comportamentali di un’interazione interetnica in vari modi e per entrambi i comunicanti. Anche le differenze culturali pesano in misura rilevante. Mucchi Faina ne esplora alcune: il falso consenso, le attribuzioni causali, la funzione e il ruolo della discussione pubblica, 4 del tacere e del parlare nelle diverse culture, l’espressione e il riconoscimento delle emozioni, lo stile comunicativo. Di fronte a questa realtà così complessa e differenziata, soggetta a diverse variabili, Mucchi Faina ritiene indispensabile spingere sempre più verso l’acquisizione di una competenza comunicativa interculturale. Due sono i presupposti più importanti per attivare tale competenza: 1) la consapevolezza dei limiti culturali del proprio modo di pensare, sentire e agire; 2) la motivazione a comunicare con persone di altra cultura. In senso generale la competenza comunicativa interculturale implica possedere la sensibilità, le conoscenze e la capacità per poter interagire efficacemente e in modo appropriato con persone di culture differenti (Chen e Starosta, 2003). Indice Prefazione: Un’interdisciplina 1. Definizioni preliminari e riferimenti teorici generali Parte Prima : Processi cognitivi, motivazioni, e differenze culturali 2. Le impressioni dell’altro, dell’altro gruppo e di se stessi 3. La formazione dei giudizi e dei pregiudizi Parte Seconda: Il contesto, la relzione e il comportamento di comunicazione 4. Il contesto della comunicazione e la relazione tra i comunicanti 5. Il comportamento di comunicazione interculturale: barriere , incomprensioni, e strategie per smontarle 6. Possibili conseguenze della comunicazione interculturale Conclusioni: Per una competenza comunicativa interculturale Riferimenti bibliografici Indice dei nomi Note sull’autrice: Angelica Mucchi Farina E’ Professore ordinario di Psicologia sociale e Presidente del Consiglio Intercorso di Scienze Sociali e del Servizio Sociale. Dipartimento Istituzioni e Società. Università degli studi di Perugia . I suoi principali interessi di ricerca concernono i processi di influenza sociale e le relazioni intergruppi. Collabora a numerose riviste internazionali. Bibliografia essenziale - L' abbraccio della folla : cento anni di psicologia collettiva, Bologna, Il Mulino,1983 - (a cura di, con F. Crespi) Le strategie delle minoranze attive: una ricerca empirica sul movimento delle donne, Napoli, Liguori, 1988 - L’influenza sociale, Bologna , Il Mulino, 1996 - Il conformismo, Bologna , Il Mulino, 1998 - Psicologia collettiva: storia e problemi, Roma, Carocci, 2002 5