Dispensa del corso di Economia del Settore Agroalimentare 2011-2012. Prof. Anna Carbone Commercio internazionale di prodotti agroalimentari. 1. Cenni di teoria. 2. Indicatori per l’analisi del CI. 3. Bilancia agroalimentare italiana. Brevi cenni di teoria del commercio internazionale. Nelle pagine seguenti verranno forniti alcuni elementi stilizzati per la comprensione del fenomeno del commercio tra paesi, ovvero delle sue cause e delle sue conseguenze in termini di efficienza economica e benessere aggregato e di diverse categorie di agenti economici. I principali contributi della letteratura economica al riguardo verranno richiamati in estrema sintesi a partire dalle teorie cosiddette classiche fino alle “nuove teorie del commercio internazionale”. Analisi grafica Come avremo modo di constatare, nonostante i primi schemi interpretativi fossero estremamente semplificati e si basassero su assunzioni decisamente forti e poco realistiche, specialmente nel contesto attuale di un mondo estremamente più complesso da tanti punti di vista rispetto a quello che osservavano i padri dell’economia internazionale, questi schemi mantengono una loro, seppur parziale validità e contribuiscono a spiegare, assieme alle teorie più moderne e complesse, il fenomeno attuale del commercio tra paesi. Prima di addentrarci in questa veloce carrellata, sarà però utile partire dalla semplice analisi grafica degli scambi tra un paese ed il resto del mondo. Questa analisi si basa sui modelli di mercato quali sono stati già introdotti nel corso di base. Nella sua semplicità, questo strumento, ha il pregio di mettere bene in evidenza il ruolo giocato da alcuni elementi chiave. Analisi grafica degli scambi internazionali Innanzitutto, appare chiaro il ruolo fondamentale giocato, anche in questo caso, dal prezzo, o, per meglio dire, dai differenziali di prezzo, ovvero dal livello relativo del prezzo interno rispetto a quello internazionale, per il bene in questione. L’analisi qui presentata si ferma al livello massimo di stilizzazione dove un paese scambia un bene con il resto del mondo e le sue dimensioni sono tanto piccole rispetto a quelle del mercato mondiale da non influenzarne l’equilibrio. Modelli più sofisticati consentono di rimuovere questa ipotesi, sebbene non alterino il senso generale delle conclusioni che se ne traggono. Come nel caso degli altri semplici modelli di mercato studiati nel corso di base, anche questo si fonda su di un set di ipotesi semplificatrici della realtà: il mercato è di concorrenza perfetta, i rendimenti di scala sono costanti, i costi di trasporto nulli, l’informazione degli agenti completa, non vi è rischio, le risorse produttive sono perfettamente mobili all’interno del paese ed immobili tra paesi, il bene scambiato è di qualità omogenea ed i gusti dei consumatori sono dati. Il doppio grafico, o grafico a spalla, rappresentato in figura 1 mostra al contempo e specularmente il mercato interno e quello internazionale per un certo bene. I prezzi sono misurati nella stessa unità di misura su entrambi i mercati e quindi sono direttamente confrontabili (dunque non ci si preoccupa, in questo contesto, del tasso di cambio né degli effetti delle sue variazioni sugli scambi internazionali). Figura n. 1mercato interno e mercato internazionale a confronto con Prezzo interno maggiore del Prezzo internazionale Come si evince dalle funzioni disegnate nelle due parti del grafico, le condizioni della domanda e dell’offerta sono diverse sui due mercati (per ragioni che per ora non indaghiamo) e ciò determina un diverso equilibrio, con diverse quantità scambiate ed un diverso livello del prezzo nei due casi. In particolare, in questo primo caso analizzato, il prezzo interno è maggiore del prezzo internazionale. Questa situazione può permanere indefinitamente a condizione che gli agenti presenti sui due mercati non possano effettuare scambi. Ad esempio, ciò può accadere per effetto per una barriera commerciale di qualsiasi natura (cfr. più oltre). E’ evidente che, se tale barriera non esistesse o venisse a cadere, gli acquirenti del paese avrebbero tutto l’interesse ad acquistare al minor prezzo internazionale. Il grafico riportato nella figura 2 mostra quali sarebbero gli effetti della apertura di questo paese al commercio internazionale. Vi sarebbe un afflusso di merci dal mercato mondiale al mercato interno, per effetto di questa maggiore offerta il prezzo interno scenderebbe fino ad allinearsi a Pw. A questo prezzo Pw, i produttori interni ridurrebbero la propria produzione a Qi’ mentre un quantitativo, pari a Qimp, del bene, verrebbe importato. L’ipotesi fatta che la domanda del paese sia tanto piccola da essere ininfluente rispetto alla domanda mondiale aggregata, ci assicura che Pw resti invariato. In conseguenza di questo nuovo assetto si verificano delle variazioni di benessere (surplus) tra i soggetti. In particolare, i consumatori interni stanno sicuramente meglio in quanto consumano di più e pagano di meno: la loro variazione di benessere è misurata dall’area del trapezio ottenuto per differenza tra il triangolo del benessere della situazione ex ante -compreso tra la curva di domanda e la linea del prezzo Pi, vigente nel paese prima dell’apertura agli scambi internazionali- ed il triangolo del benessere della situazione successiva all’instaurarsi degli scambi –compreso tra la curca di domanda e la linea del prezzo Pw. Viceversa, i produttori interni ora stanno peggio di prima in quanto vendono una minore quantità ad un prezzo minore per effetto della concorrenza dei produttori esteri che li hanno spiazzati parzialmente dal mercato. La loro variazione di surplus è misurata dall’area del trapezio risultante dalla differenza tra il triangolo del surplus nella situazione ex-ante –compreso tra la curva di offerta e la linea del prezzo Pi- ed il triangolo del surplus corrispondente all’apertura al commercio –compreso tra la curva di offerta e la linea del prezzo Pw. Si noti bene che le due variazioni di surplus NON SONO UGUALI, bensì la prima (di segno positivo) è maggiore della seconda (di segno negativo). Graficamente, la differenza tra le due aree è misurata dal triangolo indicato con il segno “+”. Questo risultato indica che l’effetto netto del commercio è positivo, ovvero, consiste in un aumento del benessere complessivamente generato dal mercato. Si noti bene che ciò è vero anche se una categoria di agenti economici (in questo caso i produttori) resta penalizzata mentre è l’altra a realizzare tutto il vantaggio (in questo caso i consumatori). Rappresentazione grafica degli effetti sul mercato interno dell’apertura al commercio internazionale –p.importatore Paese imp mondo O O Pi + Pw D D imp Fingura n.2 – Conseguenze dell’apertura degli scambi per un paese potenzialmente importatore Vale la pena verificare anche cosa accade nella situazione opposta a quella appena esaminata, ovvero di un paese nel quale, in assenza di commercio, vige un prezzo inferiore a quello internazionale. La figura n.3 aiuta a visualizzare questo caso. Le condizioni della domanda e dell’offerta sono diverse (per ragioni che anche questa volta esulano dagli scopi dell’analisi) e ciò determina un diverso equilibrio di mercato, con diverse quantità scambiate ed un diverso livello del prezzo. In questo caso, in particolare, il prezzo interno è inferiore al prezzo internazionale. Anche in questo caso, come nel precedente, questa situazione può permanere indefinitamente a condizione che gli scambi tra i due mercati siano impossibili. Viceversa, se tale barriera non esistesse o venisse a cadere, gli acquirenti internazionali avrebbero tutto l’interesse ad acquistare al minor prezzo vigente nel paese. Il grafico riportato nella figura 4 mostra quali sarebbero gli effetti della apertura di questo paese al commercio internazionale. Vi sarebbero esportazioni di merci dal mercato interno (più convenienti) verso al mercato mondiale (dove il bene è più costoso). Per effetto di questa maggiore domanda, il prezzo interno crescerebbe fino ad allinearsi a Pw. A questo prezzo Pw, i produttori interni aumenterebbero la propria produzione a Qi’ mentre un quantitativo, pari a Qesp, del bene, verrebbe Figura n.3 – mercato interno e mercato internazionale a confronto con Prezzo interno minore del Prezzo internazionale esportato. Di nuovo, vale anche in questo caso, l’ipotesi fatta inizialmente, secondo cui la domanda del paese sia tanto piccola da essere ininfluente rispetto all’equilibrio sul mercato internazionale e questo ci assicura che Pw resta invariato. In conseguenza di questo nuovo assetto si verificano delle variazioni di benessere (surplus) tra i soggetti. In particolare, i consumatori interni stanno sicuramente peggio rispetto all’economia autarchica, in quanto consumano di meno e pagano di più: la loro variazione di benessere è misurata dall’area del trapezio ottenuto per differenza tra il triangolo del benessere della situazione ex ante compreso tra la curva di domanda e la linea del prezzo Pi, vigente nel paese prima dell’apertura agli scambi internazionali- ed il triangolo del benessere della situazione successiva all’instaurarsi degli scambi –compreso tra la curva di domanda e la linea del prezzo Pw. Viceversa, i produttori interni ora stanno meglio di prima in quanto vendono una maggiore quantità ad un prezzo maggiore per effetto della maggiore domanda dei consumatori esteri che si aggiunge a quella del mercato interno e più che compensa la sua riduzione. La variazione di surplus dei produttori è misurata dall’area del trapezio risultante dalla differenza tra il triangolo del surplus nella situazione ex-ante –compreso tra la curva di offerta e la linea del prezzo Pi- ed il triangolo del surplus corrispondente all’apertura al commercio –compreso tra la curva di offerta e la linea del prezzo Pw. Si noti bene che, anche in questo caso, le due variazioni di surplus NON SONO UGUALI, bensì la prima (di segno negativo) è minore della seconda (di segno positivo). Ciò vuol dire che l’effetto netto del commercio è positivo, ovvero, consiste in un aumento del benessere complessivamente generato dal mercato. Ciò è vero anche se una categoria di agenti economici (in questo caso i consumatori) resta penalizzata mentre è l’altra a realizzare tutto il vantaggio (in questo caso i produttori). Rappresentazione grafica degli effetti sul mercato interno dell’apertura al commercio internazionale –p.esportatore Paese esp mondo O Pw Pi O + D D esp Fingura n.4 – Conseguenze dell’apertura degli scambi per un paese potenzialmente esportatore Questo semplice modello grafico mostra che, sotto le ipotesi prima ricordate, l’apertura al commercio internazionale genera un aumento complessivo si benessere nel paese che si apre agli scambi, tanto che questo sia potenzialmente esportatore, tanto che sia potenzialmente importatore. Ciò che cambia nei due casi è la distribuzione dei benefici generati dal commercio tra le diverse categorie di agenti economici; in particolare se il paese si pone da esportatore sui mercati internazionali, saranno i produttori a beneficiare degli scambi, mentre se si pone come acquirente saranno i consumatori interni a trarre vantaggio dal flusso di beni in entrata. Nonostante la grande importanza di questa conclusione -pur nei limiti delle ipotesi sotto le quali essa è valida-, il modello utilizzato non ci dice nulla su cosa può determinare la diversità delle condizioni di domanda e offerta sui due mercati. In altre parole, benché possiamo ora affermare che il commercio generi benefici economici in diverse situazioni, nulla sappiamo ancora su quali siano i fattori determinanti dei flussi di commercio. Le prime teorie del commercio internazionale Secondo l’economista inglese Adam Smith -vissuto nel XVIII secolo, e padre fondatore della scuola di pensiero cosiddetta classica- sono le differenze nella produttività del lavoro da paese a paese a determinare la convenienza al commercio internazionale. Più in particolare se un paese (che chiamiamo A) è più efficiente/produttivo di un altro paese (che chiamiamo B) nel produrre un bene X si dice che A detiene un VANTAGGIO ASSOLUTO nella produzione di X rispetto a B, e allora B importerà X da A. Con questo flusso commerciale succede che A si specializza nel produrre un bene nella produzione del quale è efficiente mentre B, che non è efficiente nella produzione di questo bene X non lo produce più. E’ proprio da questa specializzazione che si genera maggiore efficienza e quindi maggiore benessere economico. L’argomentazione è in tutto analoga a quella a quella che spiega le origini dei vantaggi di una economia di scambio (mercato) rispetto a quella dove ogni agente deve produrre da sé ciò che intende consumare (produzione per autoconsumo). Successivamente, un altro economista inglese, David Ricardo –vissuto a cavallo tra ‘700 e ‘800, allievo di Smith e massimo esponente del pensiero classico- formulò un concetto più complesso, e meno intuitivo, in grado di spiegare flussi commerciali che il concetto di vantaggio assoluto non erano (e non sono in grado di spiegare). Si tratta della teoria del cosiddetto VANTAGGIO COMPARATO. Nella sua formulazione più semplice, il vantaggio comparato può essere applicato agli scambi di due beni tra due paesi. Definizione di vantaggio comparato: un paese A gode di un vantaggio comparato nella produzione di un bene (X) rispetto ad un altro bene (Y) se per produrre X impiega relativamente meno risorse che per produrre Y rispetto a quante ne occorrono nel paese B. Ciò può accadere anche se uno dei due paesi è più efficiente in termini assoluti nella produzione di entrambi i beni. Anche in questo caso, il fattore centrale nella determinazione del vantaggio commerciale è la diversa produttività del lavoro, ovvero la diversa efficienza produttiva dovuta alla capacità dei lavoratori di un paese di produrre maggiori quantità di bene con una stessa quantità di lavoro impiegata. Questa diversa produttività del lavoro, a sua volta è spiegata dal differente livello tecnologico esistente tra paesi. Un esempio numerico, aiuterà a capire le circostanze citate ed a capire in che modo entrambi i paesi hanno convenienza ad instaurare scambi commerciali reciproci. Il risultato vale anche per situazioni molto più complesse di N paesi (con N grande a piacere)e K beni(con K grande a piacere). Anche in questo caso consideriamo per semplicità la sola produttività del lavoro. Tabella n.1 - Coefficienti tecnici in A e B per le due produzioni Seguendo i dati riportati in tabella 1, vediamo quali sono i coefficienti tecnici (inverso della produttività) per le due produzioni considerate: grano e tessuto nei due paesi A e B. Nel paese A per produrre una unità di grano occorrono 12 ore di lavoro mentre per produrre del tessuto ne occorrono 3. La situazione è diversa nel paese B, dove per produrre una unità di grano servono 4 ore mentre per produrre tessuto ne servono 2. E’ subito evidente, da queste cifre che il paese B è più efficiente in entrambe le produzioni che può realizzare utilizzando una quantità inferiore di lavoro. Tuttavia, occorre anche notare quanto segue: i) in A per produrre una unità in più di grano occorre rinunciare a 4 unità di tessuto, ovvero, la ragione di scambio interna al paese A tra grano e tessuto è pari a 4 (4=12:3); ii) in B le cose stanno diversamente, per produrre una unità in più di grano occorre rinunciare a 2 unità di tessuto, ovvero, la ragione di scambio interna al paese B tra grano e tessuto è pari a 2 (2=4:2). In altre parole, B gode di un vantaggio comparato nella produzione di grano, mentre A gode di un vantaggio comparato nella produzione di tessuto, benchè sia meno efficiente nella produzione di entrambi. Vantaggi del commercio internazionale con Ragione di Scambio 3:1 ore lavoro paese exp imp tessuto grano risparmio A 3T 1G 3x3=9 12x1=12 12-9=3 B 1G 3T 2x3=6 4x1=4 6-4=2 Tabella n. 2 – effetti del commercio tra A e B Seguendo l’esempio riportato nella tabella 2 vediamo, ora, quale sarebbe l’effetto di uno scambio di grano e tessuto tra A e B secondo una ragione di scambio che è più favorevole (per il grano rispetto al tessuto) rispetto a quella interna in A e meno favorevole (sempre per il grano rispetto al tessuto) rispetto a quella interna a B, ad esempio, 3:1. Per poter produrre tre unità di tessuto da esportare (in cambio di 1 unità di grano) in A si deve rinunciare a produrre 1 unità di grano. Così facendo si impiegano 9 ore di lavoro in più (3x3) mentre se ne risparmiano 12, dunque, al netto di questi spostamenti di lavoro da un settore all’altro, in A si realizza un risparmio di 3 ore di lavoro. Questo promo risparmio realizzato come conseguenza dello scambio, forse, non ci stupisce, dal momento che sappiamo che il paese A è meno efficiente in termini assoluti in entrambe le produzioni. Ma guardiamo, ora, cosa accade in B: per poter produrre una unità di grano in più da esportare, in B si deve rinunciare a produrre 2 unità di tessuto. Questi spostamenti determinano un risparmio netto di lavoro di 2 ore, infatti 4 ore in più le usa per produrre il grano in più ma risparmia 6 ore che non deve più impiegare per produrre il tessuto in quanto ora 3 unità di tessuto le importa da A contro la sua unità di grano esportata. E’ a questo punto evidente che se A e B scambiano grano e tessuto secondo una ragione di scambio intermedia a quella dei due paesi in autarchia, ad esempio pari a 3 (3T:1G), entrambi ne traggono vantaggio. Va, nondimeno, sottolineato che è il paese A a trarre il maggior vantaggio da questo flusso commerciale in quanto risparmia 3 ore di lavoro contro le 2 risparmiate da B. Successivamente, due economisti del filone neoclassico –Heckscher e Ohlin– svilupparono un modello del mercato internazionale fondato sull’esistenza di una diversa dotazione di fattori produttivi all’interno dei paesi. Secondo questo modello i diversi livelli di produttività dipendono più che dalla tecnologia, dalla disponibilità di risorse che, a sua volta, determina il loro costo secondo una proporzionalità inversa: più abbondante è una risorsa, minore il suo prezzo. Secondo questo modello: Ciascun paese esporta il bene la cui produzione richiede un impiego relativamente più intenso del fattore di cui il paese ha una dotazione relativamente più abbondante. Dalla rimozione di alcune delle ipotesi su cui questi primi modelli si basano è possibile ottenere delle estensioni in grado di considerare gli effetti di alcuni fattori rilevanti, quali, ad esempio, l’esistenza di costi di trasporto non nulli, l’esistenza di alcuni fattori della produzione che sono specifici di un processo e non riconvertibili a qualsivoglia utilizzo, la mobilità internazionale di alcuni fattori della produzione (ad esempio il lavoro!), e l’esistenza di alcuni beni che non possono essere scambiati sui mercati internazionali. Le “nuove” teorie del commercio internazionale Nonostante la capacità di questi modelli “ortodossi” di accogliere numerose estensioni in diverse direzioni di rilascio delle ipotesi di base, la loro capacità molto parziale di spiegare i flussi di commercio esistenti nella realtà -assieme alla insoddisfazione determinata dall’eccessivo riduzionismo di alcune ipotesi non modificabili nell’ambito di questa famiglia di modelli- hanno spinto il pensiero economico alla formulazione di teorie differenti1. Tra le molte direzioni assunte dalla letteratura, ne ricordiamo qui alcune di particolare interesse nell’ambito del corso. Tra i principali elementi di insoddisfazione dei modelli standard vi è l’ipotesi di omogeneità del prodotto scambiato. In effetti, la differenziazione del prodotto è divenuta progressivamente più spinta anche a seguito dell’interesse crescente da parte dei consumatori per la varietà e per la segmentazione dell’offerta. A ciò si aggiunge l’evidenza empirica che una quota importante e 1 Paradosso di Leontief: questo economista verificò empiricamente che gli USA (paese ad alta intesità di capitale e con elevato costo del lavoro) sono un paese esportatore netto di beni ad alta intensità di lavoro mentre importano prodotti ad elevato contenuto di capitale. La necessità di spiegare questo “apparente” paradosso ha dato un forte impulso allo sviluppo di questa branca della scienza economica che studia il commercio internazionale. Molti lavori empirici sono stati condotti negli ultimi 50 anni circa, proprio al fine di verificare o confutare la validità del teorema di H-O: Risultato: Le dotazioni relative dei fattori sono in grado di spiegare le direzioni di commercio nel 50% dei casi, cioè solo nel 50% dei casi il teorema di H-O è verificato. Le “nuove teorie” spiegano il restante 50% integrandosi vicendevolmente in quanto ciascuna di esse mette in evidenza fattori che di volta in volta risultano essere più rilevanti. crescente del commercio internazionale di beni (e ciò è sicuramente vero anche per i prodotti agroalimentari) è di tipo intra-industriale , o orizzontale, come anche si dice; ovvero assume la modalità di scambi bilaterali nelle due direzioni di varietà differenti di uno stesso bene (alias di varianti di una stessa categoria merceologica). Di conseguenza è chiaro come rimuovere l’ipotesi di omogeneità del prodotto, e affermare che i flussi di commercio internazionale possono anche essere determinati da caratteristiche della domanda, quali una preferenza più o meno spiccata per la qualità/varietà, sia importante, non solo per comprendere una parte importante dei flussi osservati anche tra paesi che non mostrano rilevanti differenze tecnologiche e o di dotazione fattoriale, ma anche per comprendere i fattori che determinano la competitività dei prodotti. Questa famiglia di teorie, dette demand-driven in quanto è la domanda a determinare il commercio, ne include una secondo la quale si determina una interazione virtuosa tra domanda ed offerta. In particolare, l’esistenza di domanda interna per un certo bene, stimola le imprese a produrre quel bene ed a sviluppare un know how che successivamente, all’apertura degli scambi, le renderà competitive sul mercato internazionale. Un’altra famiglia di modelli interpretativi del commercio internazionale, si concentra sull’esistenza di gap tecnologici, tra paesi, di entità variabile nel tempo. Ciò determina un vantaggio per il paese più avanzato tecnologicamente e/o che ha introdotto la nuova tecnologia. In questa prima fase, il paese detiene un vantaggio competitivo che lo rende esportatore, tuttavia con il passare del tempo la tecnologia diviene “matura”, ovvero altri paesi (imitatori) se ne impossessano e diventano competitors del primo. A questo punto altri fattori, legati ai costi di produzione, come ad esempio la dotazione di lavoro o altri fattori, diventano più importanti nel determinare il vantaggio sul mercato internazionale. Costi di trasporto, localizzazione delle risorse, scomponibilità dei processi produttivi, differenze nei costi di transazione e nei contesti normativi tra paesi, sono tutti elementi che nelle nuove teorie del commercio internazionale, giocano un ruolo importante nello spiegare i flussi osservati, non solo, come visto fino ad ora, dei beni per il consumo finale, m anche delle materie prime e dei semilavorati. In particolare questi ultimi stanno acquisendo un ruolo sempre più importante nell’ambito dei flussi commerciali anche grazie alla riduzione dei costi di trasporto ed al miglioramento delle tecnologie del trasporto stesso (e della conservazione) ed alla più facile ed economica diffusione delle informazioni. Multinazionali e Investimenti diretti esteri La rilevanza di economie di scala, assieme agli altri vantaggi connessi alle grandi dimensioni delle imprese, sono un ulteriore categoria di fattori che aiuta a spiegare il flussi commerciali e la distribuzione di costi e vantaggi connessi al commercio internazionale. Un fenomeno sempre più importante e collegato al commercio internazionale è quello degli investimenti diretti esteri (IDE) delle imprese multinazionali2. Secondo la definizione ufficiale gli INVESTIMENTI DIRETTI 2 Una impresa multinazionale(IM) è una impresa, in forma di società, che organizza la produzione in più paesi, almeno due. L’impresa del paese di origine (impresa madre) controlla la/le filiale/i estera/e. Il fatturato delle imprese multinazionali può essere molto rilevante, talvolta molto più grande di Pil di alcuni paesi dove le stesse IM operano. Da ciò si comprende l’immensa influenza economica e politica che questi soggetti privati riescono ad avere ed anche il ESTERI (IDE), sono investimenti in imprese estere di cui l'investitore viene a possedere una quota significativa delle azioni. Questi investimenti hanno per obiettivo di stabilire un "interesse duraturo" nel paese estero, ovvero una relazione economica a lungo termine e una significativa influenza nella gestione dell'impresa. Dunque, le multinazionali effettuano IDE al fine di creare, acquisire o espandere un'azienda estera controllata. Lo stock di IDE rappresenta il capitale diretto totale posseduto dai non residenti di un determinato paese. Queste forme di investimento possono avere come obiettivo la penetrazione di nuovi mercati (market-seeking) nel caso in cui produrre in loco sia una soluzione migliore rispetto all’esportazione. Ciò può derivare da elevati costi di trasporto o anche dall’esistenza di barriere alle importazioni come conseguenza di politiche protezionistiche. In casi come questi nel paese estero vi è una sostanziale duplicazione dell’intero processo. Gli IDE, sempre rispondendo ad una strategia di riduzione dei costi di produzione e commercializzazione, possono anche assumere la forma di frammentazione del processo produttivo che non avviene, quindi, non in forma integrata nel paese d'origine ma per fasi de localizzate (come alternativa all’out-sourcing che può convenire, ad esempio, i caso di bassi costi di transazione e volatilità nelle condizioni dei mercati). Queste forme mirano a trarre vantaggio dal diverso costo dei fattori produttivi (capitale e lavoro) nei diversi paesi e dalla diversa intensità dei fattori nelle varie fasi produttive. Vale la pena ricapitolare, seppure in estrema sintesi, i possibili effetti degli IDE sia nel paese di origine che in quello di destinazione dell’investimento. Nel mercato di destinazione, tra i probabili effetti più rimarchevoli si ha lo spiazzamento dei prodotti/imprese di origine nazionale. Questa ricaduta può avere implicazioni positive nella misura in cui le imprese generate dagli Ide sono più efficienti/avanzate di quelle nazionali, inoltre può avere anche un effetto positivo in termini di occupazione, tuttavia questi nuovi posti di lavoro potrebbero essere solo transitori a causa del radicamento minore che ha un’impresa in un paese diverso da quello di origine, ad esempio in caso di congiuntura negativa. Questo effetto può essere tanto più breve e contenuto nella misura in cui più forti e immediati sono gli spill-over generati dalla presenza dell’IM. Questi trasferimenti tecnologici possono avere anche il merito di far avanzare il know-how diffuso nel paese e la qualificazione della manodopera. Nella misura in cui la presenza della IM aumenta la pressione competitiva nel paese di destinazione, si può avere un aumento di produttività ed una riduzione della quota di reddito inglobata da rendita da posizione dominante sul mercato. In complesso, il paese di destinazione beneficia degli investimenti diretti esteri tanto più quanto più ha un sistema economico abbastanza forte da poter interagire con le multinazionali, in modo da sfruttare gli effetti di spillover. Quando invece i divari tecnologici e di reddito sono troppo grandi, gli IDE stentano a creare effetti positivi sul mercato locale. Questo è stato il caso,ad esempio, degli investimenti petroliferi che hanno avuto una ricaduta pressoché nulla nei paesi produttori in quanto la maggior parte delle funzioni, altamente qualificate collegate all'estrazione non possono essere forniti dalle imprese locali. Per quanto riguarda i possibili effetti degli IDE sull'economia del paese d'origine, si possono schematicamente ed in estrema sintesi, ricordare i seguenti:i) a parità di altre condizioni, maggiori possibilità di guadagni per gli azionisti dell'impresa multinazionale; ii) viceversa, si possono avere peso nel processo di globalizzazione dell’economia mondiale. Tuttavia, data la definizione di IM assunta, è evidente che ricadono in questa categoria anche PMI con impianti all’estero (anche imprese dell’AA italiano lo sono!). effetti negativi sull'occupazione nel breve periodo, per effetto della delocalizzazione della produzione, o per lo meno delle fasi ad alta intensità di lavoro in paesi dove questo costa meno; iii) il possibile aumento della produzione complessiva e della produttività può portare, in un secondo momento ad un incremento dei livelli di occupazione. La sequenza di eventi potrebbe essere, più o meno la seguente: la delocalizzazione riduce il costo delle fasi produttive ad alta intensità di lavoro, consentendo di aumentare la produzione allo stesso costo: cresce pertanto la domanda per le fasi produttive complementari, ad alta intensità di capitale, rimaste nel paese, e quindi anche la domanda di lavoratori qualificati nel paese d'origine. Se questa sorta di circolo virtuoso si innesca, si ha pertanto una riduzione dei costi di produzione e una maggiore competitività delle imprese nazionali; ovvero, la delocalizzazione rafforza le attività rimaste nel paese d'origine. In Europa 1 persona su 5 impiegate nel settore manifatturiero lavora in una filiale di una MNE, negli USA il rapporto è di 1 su 7. Guardando al fatturato di questa branca dell’economia, si ha che 1 euro su 4 di beni manufatti venduti in Europa è prodotto da MNE, mentre negli USA 1 dollaro su (OCSE, 2002, Barba-Navaretti, 2004). I flussi di investimento delle multinazionali sono inferiori ai flussi commerciali, anche se si stima (UNCTAD, 2000) che circa un terzo del commercio mondiale avviene all'interno delle strutture delle multinazionali, tra filiali in paesi diversi o tra filiali e casa madre. Gli IDE sono aumentati fortemente tra 1985 e 2000, superando di molto il tasso di crescita del commercio internazionale e del reddito. Successivamente, nella prima parte degli anni 2000 si sono stabilizzati. Gli IDE provengono per il il 90% del valore complessivo dai paesi avanzati e sono diretti ad altri paesi per circa i due terzi; tuttavia, la quota diretta ai paesi in via di sviluppo è cresciuta nel tempo anche a causa della presenza in questi paesi di capitali nazionali insufficienti a finanziare i propri investimenti. Gli investimenti diretti esteri avvengono principalmente per con aziende locali già esistenti, soprattutto tra paesi sviluppati. Nei paesi in via di sviluppo al contrario le imprese multinazionali procedono più spesso con la creazione di impianti e imprese ex novo in loco poiché non esistono sul mercato locale aziende adatte all'acquisizione. Le imprese multinazionali hanno generalmente performance migliori delle imprese nazionali sia nel paese d'origine che in quello di destinazione. Le multinazionali sono mediamente più grandi, più produttive, fanno più ricerca e sviluppo, impiegano personale più qualificato. Negli ultimi, come già più volte ricordato, è aumentata la frammentazione geografica della produzione in reti internazionali: le diverse fasi di produzione di un bene vengono delocalizzate in paesi differenti ed i semilavorati vengono commerciati internazionalmente. Misurazione dei flussi commerciali e principali indici per la descrizione del CI Esportazioni ed importazioni essendo dei flussi di beni, vanno sempre riferiti ad un intervallo temporale che può essere più o meno lungo; comunemente si va da dati riferiti a interballi settimanali, a mensili, a trimestrali ed annuali. La lunghezza del periodo al quale riferire le rilevazioni dipende ovviamente dallo scopo specifico di ciascuna registrazione. Nel prosieguo della nostra trattazione ci occuperemo di dati annuali e seguiremo l’andamento dei flussi con una ottica di medio-lungo periodo e non con un interesse congiunturale (per rispondere a domande del tipo: cosa è successo quest’anno rispetto allo scorso anno? Oppure, cosa è cambiato nell’ultimo trimestre rispetto al trimestre precedente?, ecc.). Le principali fonti statistiche ufficiali di dati di questa natura per il commercio tra paesi ( commercio di beni agroalimentari ma non solo) sono le Nazioni Unite, l’Eurostat, L’Ocse e, per l’Italia l’ISTAT. Tutte queste banche dati riportano i flussi commerciali a diversi livelli di disaggregazione 3. Questi flussi possono essere misurati in quantità (unità, ettolitri, tonnellate, ecc.) oppure in valore ($, €, £, ecc.). Ovviamente, è possibile misurare in termini quantitativi solo flussi riferiti a beni omogenei, riferibili ad una unica unità di misura (per esempio: il flusso di esportazioni in quantità non può essere riferito a vino e pasta assieme, ma si deve misurare la pasta e, separatamente, il vino). Per avere una misura aggregata di un flusso dalla composizione eterogenea è necessario utilizzare il valore monetario che consente di misurare con una unità di misura comune anche beni fisicamente non sommabili come la pasta e il vino o qualsiasi altro bene, a condizione che abbia un suo valore unitario di riferimento. Questi valori possono essere a prezzi correnti -se il sistema dei prezzi utilizzato si riferisce allo stesso anno al quale si riferiscono le quantità- oppure costanti – quando i prezzi si riferiscono ad un anno base che resta invariato e quindi differisce dall’anno nel quale si sono verificate le quantità indicate. Qui di seguito vengono brevemente descritti i principali indicatori che descrivono la posizione commerciale di un paese e ne esprimono i risultati. SALDO COMMERCIALE: S=X–I Dove X sono le esportazioni e I le importazioni4, si misura nella stessa unità di misura di X e I. si tratta di un indicatore importante perché indica la posizione commerciale di avanzo/disavanzo di un 3 Ad esempio: due voci abbastanza aggregate potrebbero essere “beni agricoli” e “beni dell’industria tessile”; scendendo ad un maggior dettaglio si possono trovare voci quali: “bevande alcoliche” e “capi di abbigliamento in cotone”; ancora più in dettaglio si può avere “vini e mosti d’uva” e “pagliaccetti in cotone per neonati”; e via di seguito fino a: “vino bianco di qualità prodotto nel Lazio con gradazione alcolica inferiore a 12 gr. In bottiglie < 2 lt” e “pagliaccetti per neonati senza maniche, con gambe e piedino uniti, aperti lateralmente, bianche o in colori stampati”. 4 Nelle analisi di commercio che indagano fenomeni e tendenze di medio, lungo periodo, usare valori annuali “secchi” di X ed I può essere insidioso in quanto in un singolo anno possono verificarsi eventi anomali misurando i quali si ottiene una rappresentazione distorta del fenomeno e delle tendenze in atto. Queste anomalie possono riguardare tanto i prezzi (si pensi ad esempio a quanto accaduto nel 2008 sui principali mercati agricoli internazionali) che le quantità (si pensi, ad esempio, all’impatto sulla produzione e sul commercio di andamenti climatici anomali, ma anche alla fisiologica variazione ciclica di alcune produzioni, come ad esempio quella dell’olivo). Per ovviare a queste erraticità e distorsioni è buona norma, quando possibile, calcolare delle medie biennali o triennali e poi ricavare i trend temporali a partire da questi dati medi. paese/settore con il resto del mondo (mediante il segno assunto dall’indicatore che sarà positivo o negativo) e ne misura anche l’entità (attraverso il suo valore assoluto). VOLUME DI COMMERCIO: V = X+I O commercio totale. Si misura nella stessa unità di misura di X e I. Misura il valore complessivo degli scambi con l’estero di un paese/settore. E’ utile soprattutto in connessione con altri indicatori, come si vedrà tra poco e più avanti nel corso della trattazione. Sia per i flussi di esportazione che di importazione che per il saldo commerciale e per altri indicatori è utile calcolare i tassi di variazione nel tempo che forniscono una misura della dinamicità, capacità espansiva, di un aggregato. Considerando la variabile generica Z, il modo più comune per calcolare il tasso di variazione percentuale è il seguente: = ((Z2-Z1)/Z1))*100 SALDO NORMALIZZATO: SN = S/V *100 ovvero SN = ((X-I)/(X+I))*100 Varia tra -100 e +100, vale 0 quando S=0, è positivo quando X>I e negativo quando X<I. E’ una misura utile per fare confronti nella posizione commerciale netta di paesi/settori di ampiezza molto differente o nel caso che le unità di misura siano diverse, ovvero in tutti i casi dove occorre una misura adimensionale/percentuale. Il SN viene utilizzato ed interpretato con diverse finalità. In primo luogo viene usato come misura della performance commerciale di un paese/settore. In analisi di tipo disaggregato, dove più settore/prodotti appartenenti ad un paese vengono confrontati, il SN viene anche usato come misura della specializzazione commerciale in quanto valori positivi elevati del SN vengono registrati per quelle produzioni per le quali il paese è davvero competitivo sia sui mercati internazionali che su quello interno. Se quindi si guarda alla distribuzione dei valori dei SN per diverse produzioni di un paese e li si confrontano si ottiene una sorta della mappa dei vantaggi e degli svantaggi comparati del paese la quale definisce la natura della sua specializzazione commerciale. Dal momento che mette a confronto importazioni ed esportazioni, il SN, applicato ad un comparto/prodotto, può essere anche utilizzato per misurare l’intensità del commercio orizzontale o intra-industriale. Tanto più il suo valore è vicino allo 0 tanto più vuol dire che vi è commercio nelle due direzioni per quel prodotto/comparto. Un altro modo semplice, usato alternativamente al SN, per eliminare il problema della scala dei fenomeni e delle unità di misura è quello di calcolare, invece che la differenza tra esportazioni e importazioni, il loro rapporto: X/I Detto anche copertura delle importazioni con le esportazioni. VANTAGGIO COMPARATO RIVELATO RCAij=(Xij/Xtotj)/(Xiw/Xtotw) Dove i è l’i-esimo prodotto; j è il j-esimo paese e w è mondo e tot indica le esportazioni totali del paese/mondo. Questo indicatore misura la specializzazione di un paese nell’esportare un dato bene (numeratore), rispetto a quanto quel bene incide sulle esportazioni mondiali (denominatore). E’ un indice il cui valore varia nell’intervallo 0-∞. Quando RCAij>1 il paese j ha un vantaggio comparato rivelato nelle esportazioni di i, e questo vantaggio è tanto maggiore quanto maggiore è RCA. Per valori inferiori ad 1 è vero il contrario. Un altro gruppo di indicatori mette in relazione i flussi di commercio con le dimensioni dell’economia del paese. Tra questi, ricordiamo: PROPENSIONE AD IMPORTARE I/C dove C indica i consumi del paese. L’indice misura il grado di dipendenza del sistema economico nazionale dalle importazioni per quanto riguarda le possibilità di consumare beni. PROPENSIONE AD ESPORTARE X/P Dove P indica la produzione interna al paese. Questo indice dice quanto sono importanti i mercati esteri per la collocazione della produzione nazionale. GRADO DI AUTOAPPROVVIGIONAMENTO P/C L’informazione che si ricava da questo indice è, in un certo senso, speculare a quella fornita dall’indice di propensione all’importazione in quanto misura la proporzione dei consumi interni soddisfatta, potenzialmente, dalla produzione interna. I due indici, però, non si complimentano, come è ovvio in quanto la produzione interna viene anche in parte esportata mentre la domanda interna si rivolge anche a prodotti esteri. GRADO DI APERTURA COMMERCIALE (X+I)/(P+C). Questo indice misura l’importanza del settore estero per l’economia nazionale nel suo complesso, sia dal lato dell’offerta che della domanda. La bilancia agro-alimentare italiana In queste pagine verranno presentati e commentati i principali indicatori di commercio con riferimento alla bilancia agroalimentare italiana, unitamente alla loro evoluzione temporale. L’Italia occupa un ruolo nel complesso marginale nel commercio agroalimentare mondiale con una quota pari a circa il 4% dei flussi complessivi. Viceversa, gli scambi con l’estero sono di vitale importanza per il settore agroalimentare italiano sia dal lato della domanda che per il sistema delle imprese. Ciò emerge chiaramente dai dati riportati nella tabella qui sotto. La propensione alle esportazioni è aumentata costantemente nell’ultimo ventennio fino a raggiungere un terzo della produzione. Anche la propensione ad importare è alta ed è cresciutra nel periodo fino a sfiorare il 40%. La tabella mostra anche che in assenza di commercio il paese non sarebbe autosufficiente nel soddisfare la domanda di alimenti. In quanto il grado di autoapprovvigionamento è del 90%. Difatti, l’Italia è, complessivamente, un importatore netto di beni agroalimentari soprattutto a causa della sua strutturale insufficienza dei principali input produttivi, in primis, la terra coltivabile. Ciononostante, per alcune produzioni il paese presenta dei forti vantaggi competitivi che gli valgono il ruolo di esportatore netto (cfr prossimo paragrafo). Le due tabelle riportano il valore di esportazioni ed importazioni agroalimentari dell’Italia nel corso di un arco temporale di circa quindici anni, in particolare la prima segue il percorso dei flussi anno dopo anno mentre la secondo ne mostra una sintesi basata sull’osservazione dei valori di inizio e fine periodo5. Indicatori di commercio: andamenti decennali su medie media 96-98 importazioni 22.7 esportazioni saldo commerciale volume di commercio saldo normalizzato* 11.9 -10.8 34.6 -31.7 media variazio variazio ne 06-08 ne % assolut 32.7 10.0 44.2 24.6 -8.1 57.3 -14.3 12.7 -2.7 22.7 17.5 106.8 -24.7 65.7 17.5 *le variazioni sono entrambe in punti percentuali fonte:elaborazioni su dati Inea In entrambi i casi i dati mostrano inequivocabilmente una netta tendenza alla crescita del commercio sia in entrata che in uscvita, sebbene le esportazioni siano cresciute più intensamente delle importazioni, determinando un nettissimo miglioramento del saldo. Ad un maggiore livello di dettaglio, i dati di commercio aiutano a capire quali sono i comparti per i quali il paese è più fortemente dipendente dalle importazioni. La tabella riportata di seguito mostra i principali flussi di importazione. Come si nota ad un primo sguardo molti dei flussi riguardano le filiere zootecniche, dai mangimi, passando per gli animali vivi e le carni, fino ai prodotti semilavorati e variamente trasformati. Tutte queste voci oltre a rappresentare quote importanti del flusso di importazioni, mostrano un SN fortemente negativo. Pure negativo è il Sn del comparto cerealicolo che conta per un altro 55 circa del flusso. Meno importante come quota ma altrettanto 5 Dove questi valori sono stati stabilizzati attraverso il calcolo di medie biennali secondo un metodo semplice e diffuso proprio teso ad attutire scostamenti accidentali/congiunturali da tendenze/livelli di lungo periodo. negativa è la voce del caffè, cacao, tè e spezie greggi. Anche in questo caso come nel precedente si tratta di importazioni importanti sia per soddisfare la domanda interna di beni finali ma anche per alimentare le esportazioni di questa industria di trasformazione. Diverso è il caso della voce frutta fresca (si tratta di una voce residuale che esclude tutte le proncipali specie per cui l’Italia è esportatrice netta, tra cui: mele, pere, pesche, nettarine, uva da tavola, kiwi, ecc.) che, pur presentando un SN positivo, occupa un ruolo non trascurabile nei flussi in entrata. principali comparti di importazione AA- Italia 2009 valori in mio euro IMP % SN cereali 1713 5.5 cacao, caffè tè, spezie - grezzi 997 3.2 frutta fr. (n.e.s.) 1095 3.5 animali vivi 1205 3.9 prodotti della pesca 843 2.7 zucchero e dolciari 1317 4.2 carni fr. E cong. 4008 12.9 pesce lav. E cons. 2737 8.8 lattiero caseari 2853 9.2 oli e grassi 2373 7.6 panelli e mang. 1495 4.8 tot voci 20636 66.3 tot AA 31139 100.0 fonte: elab su dati INEA annuario-2009 -90.1 -92.2 26.5 -91.9 -63.9 -9.5 -65.4 -79.4 -23.9 -26.8 -57.7 -11.1 Per quanto riguarda la struttura delle esportazioni della BAA italiana, la prima notazione da fare riguarda la distinzione tra prodotti agricoli e prodotti trasformati. I primi infatti danno luogo perlopiù a flussi in entrata proprio a causa della già richiamata scarsità di risorse da destinare al settore. principali comparti di esportazione dell'agricoltura- Italia 2007-2009 valori in mio euro EXP % SN mele 545 2.3 90.3 uva d.t. 514 pesche 317 kiwi 284 pere 157 agrumi 135 frutta secca 219 pomodoro 176 altri ortaggi 724 tabacco greggio 202 p. florovivaismo 578 tot. Voci in tab. 3851 tot Agricoli non trasf. 4943 totAA 24167 fonte: elab su dati INEA annuario-2007 2.1 1.3 1.2 0.6 0.6 0.9 0.7 3.0 0.8 2.4 15.9 20.5 100.0 86.8 68.2 71 29.7 -22.3 -38.7 10.3 66.3 17.3 -36.5 -12.5 Sono dunque i prodotti trasformati a rappresentare il cuore della capacità esportativa dell’agroalimentare italiano. Si tratta di prodotti in non pochi casi realizzati anche grazie a materie prime importate. Ad essi è dedicato il paragrafo che segue, viceversa, la tabella riportata qui sopra mostra le principali voci di esportazione che si ritrovano anche tra i prodotti agricoli freschi. Nel complesso i prodotti dell’agricoltura partecipano per circa un quinto all’intero valore dell’export agroalimentare italiano. Tra questi le voci principali sono rappresentate da alcune specie di frutta e di ortaggi per la produzione dei quali l’Italia gode sicuramete di vantaggi legati alle condizioni ambientali rispetto a molti partner commerciali specialmente europei che rappresentano i primi clienti di questi prodotti. A questi si aggiungono i prodotti del flirovivaismo e il tabacco. Il ruolo e la performance dei prodotti agroalimentari made in Italy6 Questo approfondimento si propone di offrire un quadro dell’evoluzione recente della collocazione e della competitività del MiI agroalimentare in un’ottica di medio periodo. Nel corso del tempo, il paese ha sviluppato un notevole know-how nella trasformazione di materie prime agricole in prodotti alimentari. L’elevata qualità di questi prodotti e la loro marcata differenziazione hanno contribuito a far affermare la reputazione dell’agroalimentare italiano nel mondo. L’espressione Made in Italy (da qui in poi MiI) agroalimentare, oramai entrata largamente in uso, non solo tra gli addetti ai lavori, designa così l’insieme delle produzioni per le quali le esportazioni italiane sono importanti e grazie alla loro forte identità, sono riconosciute come tali sui mercati internazionali. Ne discende che queste esportazioni, oltre a rivestire una importanza economica di per sé non trascurabile, in quanto concorrono al contenimento del deficit della bilancia agroalimentare dell’Italia, contribuiscono al rafforzamento della reputazione dei prodotti italiani sui mercati internazionali. La performance delle esportazioni agroalimentari MiI - a partire dall’inizio degli anni Ottanta, quando questa definizione ha fatto la sua comparsa con riferimento al settore agroalimentare - ha conosciuto fasi alterne. Per tutti gli anni Ottanta e nella prima parte degli anni Novanta, la maggior parte dei prodotti esportati ha sofferto di una inadeguata specificazione della qualità che ne ha progressivamente ridotto la competitività e le quote di mercato. Negli anni successivi vi è stato un significativo recupero di posizioni, dovuto a diversi fattori. Da un lato, la mutata politica valutaria che si è concretizzata in una serie di svalutazioni competitive, ha rappresentato un potente fattore esogeno positivo. Accanto a ciò, va detto che l’intero settore agroalimentare italiano, e l’ export in particolare, ha compiuto uno notevole sforzo di riqualificazione delle produzioni che non ha tardato a dare i suoi frutti in termini di apprezzamento del prodotto sui mercati di sbocco e di riduzione del deficit. 6 Il testo di questo paragrafo è ampiamente tratto da: Anna Carbone e Roberto Henke “Le esportazioni agroalimentari “Made in Italy”. Posizionamento e competitività. In corso di stampa su QA-Rivista dell’Associazione Rossi-Doria. Tabella 1 - Il Made in Italy agroalimentare: indici descrittivi Quota % Saldo Quota % su valori medi biennio 2006-07 Italia Normalizzat MiI /Mondo o (%) formaggi freschi 2.4 13.7 -14.0 formaggi da grattugia 0.9 20.0 84.2 formaggi erborinati 0.7 22.4 77.2 altri formaggi 5.4 7.3 -3.9 caffè lavorato 4.0 22.0 81.1 riso lavorato 2.3 4.4 91.3 oli di oliva vergini 6.3 25.6 -17.7 oli di oliva non vergini 2.2 32.8 31.7 Miscele di oli di oliva 0.5 28.4 39.7 carni lavorate 2.2 10.9 60.9 prodotti di cioccolata 4.9 8.1 48.2 pasta fresca e/o fercita 3.4 24.8 92.8 pasta 7.4 62.2 95.4 prodotti della confetteria 2.9 3.0 -20.9 prodotti della panetteria 5.3 9.7 41.3 pomodori pelati 6.9 44.5 85.4 ortaggi lavorati 2.7 3.6 -6.4 frutta lavorata 2.4 4.4 29.2 succhi di frutta 2.9 4.8 32.3 salse, condimenti, ecc. 4.6 6.1 50.7 gelati 1.3 11.7 39.1 acque minerali 2.6 5.8 80.5 vini frizzanti 2.6 10.1 28.8 vino < 2 lt 19.9 20.1 96.2 vino > 2 lt 2.1 17.6 57.4 vermut 1.4 57.2 97.4 Totale Made in Italy 62.8 10.7 42.5 Totale Agroalimentare 100.0 4.0 -11.3 Fonte: elaborazioni su dati Banca Mondiale Prima di esplorare in dettaglio cosa è accaduto a questo importante segmento del nostro export, occorre innanzitutto brevemente richiamare la definizione di made in Italy agroalimentare ed il criterio adottato per la sua individuazione. Infatti, per quanto l’espressione sia ormai entrata a far parte del gergo degli studiosi e degli operatori del settore, l’aggregato che designa non è univocamente definito una volta per tutte. In questo studio il Made in Italy è definito come l’insieme delle produzioni dell’industria alimentare per le quali il paese ha sviluppato nel tempo forti vantaggi competitivi grazie all’elevata qualità ed alla marcata differenziazione dei beni che hanno contribuito a far affermare la reputazione dell’agroalimentare italiano nel mondo come un’offerta di assoluta eccellenza e peculiarità. Concretamente, sono state selezionate 26 delle quali 21 hanno saldo normalizzato positivo, mentre altre 5, pur generando flussi di importazione netta, rappresentano quote di export importanti e/o contengono al loro interno singoli prodotti che sono tradizionalmente associati all’immagine del mangiar bene italiano nel mondo. La tabella n.1 riporta l’elenco delle 26 voci che compongono il made in Italy, secondo la definzione appena data, e, per ciascuna di queste, la quota di esportazione ed il saldo normalizzato. Come è noto, alcuni prodotti freschi, non trasformati, come ad esempio, alcune frutta ed ortaggi, sono oggetto di flussi di esportazione non trascurabili in uscita dal nostro paese e vengono, talvolta inclusi nell’aggregato chiamato MiI. Ciononostante, questi non sono stati inclusi da questa analisi per ragioni che qui non interessa spiegare. Per quasi tutti i prodotti qui presi in considerazione, l’Italia occupa una posizione di primo piano sui mercati internazionali, con quote consistenti delle esportazioni mondiali. I dati riportati nella tabella 1 mostrano che quasi sempre queste voci di esportazione coprono un quinto e più dei flussi di commercio mondiale. Ciò testimonia la posizione leader occupata dall’Italia ed il potenziale di visibilità per l’affermazione di una forte reputazione nazionale. In effetti, questi prodotti sono usualmente considerati il nocciolo duro del cosidetto MiI agroalimentare. In alcuni casi, il dato di commercio disponibile è disaggregato in modo tale da rivelare un flusso in uscita dall’Italia la cui incidenza sul commercio mondiale è ridotta anche se singoli prodotti che vi sono contabilizzati rappresentano realtà commerciali di tutto rilievo negli scambi aggregati ed anche in termini di notorietà e reputazione7. Inoltre, queste 26 categorie merceologiche rappresentano quasi i due terzi (63%) del valore delle esportazioni agroalimentari italiane. Tra queste, il vino è di gran lunga la voce più importante tra queste, con una quota di circa il 25% 8. Seguono alla distanza prodotti fortemente identificati con l’Italia: pasta (con il 7,5%), pomodori pelati (6,9%), olio vergine di oliva (6,3%). Infine, la tabella 1 mostra il valore del saldo normalizzato (SN) per le 26 voci del MiI. I dati mettono in evidenza l’esistenza di tre situazioni ben distinte. Ad un primo gruppo di 10 voci commerciali corrisponde un saldo normalizzato pari a circa 100. Si tratta di pasta, fresca e secca; pomodori pelati; formaggi da grattugia ed erborinati; vino in bottiglie di piccole dimensioni, vermout e acque minerali; caffè; riso. Questi sono, in un certo senso, il cuore, il nocciolo duro, del MiI che incarna la tradizione gastronomica italiane nel mondo e ne ha costruito la reputazione, anche al di là, delle vicende commerciali propriamente intese. Altri 11 prodotti hanno valori del SN compresi tra +60 e +25%, si tratta dei gelati, dei succhi di frutta, dei prodotti della panetteria e di quelli a base di cioccolata, dei salumi, degli spumanti ed del vino in confezioni di maggiori dimensioni. Come è evidente, i prodotti inclusi in questi comparti hanno una “identità italiana” meno spiccata, non sono connotati come prodotti tipici della tradizione alimentare del nostro paese e, di conseguenza, risentono maggiormente della concorrenza di prodotti con provenienze differenti. Infine, vi è un piccolo gruppo di 5 comparti il cui SN è negativo: la confetteria, i formaggi freschi e la voce residuale dei formaggi, le preparazioni vegetali, ed, infine, gli oli vergini di oliva, il cui elevato livello dei consumi interni, tanto finali che intermedi, oltre che il fenomeno della riesportazione, spiegano il consistente flusso di importazioni, nonostante si tratti di una voce importante e sicuramente anche “tipica” della bilancia agroalimentare del nostro paese. Un buon punto di partenza per guardare alla dinamica della collocazione del MiI sui mercati mondiali è dato dalla semplice osservazione dei tassi di variazione delle esportazioni di queste voci. Nel corso del decennio 1996/97-2006/07, le esportazioni del MiI agroalimentare sono quasi 7 Questo è, ad esempio, il caso del prosciutto, incluso nell’aggregato salumi, e, ancora, di alcune marche di acqua minerale che sono ben note ed apprezzate in tutto il mondo anche se nella classificazione HS6 le esportazioni italiane per la voce acque minerali rappresenta nell’insieme il 5,8% del commercio mondiale. 8 Il commercio di vino è qui distinto in tre categorie: vino confezionato in contenitori di capacità inferiore ai 2 litri (questo rappresenta la voce di gran lunga più importante delle nostre esportazioni, con il 19,9%); vino confezionato in contenitori di capacità superiore ai 2 litri (questo rappresenta appena il 2,2% delle esportazioni); ed infine, vi è la voce dei vini spumanti (2,6% dell’export agroalimentare italiano). raddoppiate (+96,1%), mentre nello stesso arco temporale le altre voci che compongono la bilancia agroalimentare italiana sono cresciute ad un tasso, pur ragguardevole, ma molto inferiore (+59%). Anche un confronto con la dinamica delle esportazioni italiane globali, includendovi tutti i settore dell’economia, vede il MiI come particolarmente dinamico in quanto l’aggregato totale è cresciuto del 70% nel decennio. Ovviamente, vi è una estrema variabilità dei tassi di crescita delle esportazioni per le signole voci del MiI: si va dal +8% del vino in bottiglie di più di 2 litri, al +478% di incremento del valore delle vendite all’estero di formaggi freschi; con la maggioranza delle voci che ha conosciuto incrementi compresi tra +50% e +150%. Tanto la quota di commercio agroalimentare mondiale complessivamente coperta dall’Italia quanto quella riferita ai prodotti MiI, mostrano, nell’arco di tempo osservato una riduzione: dal 4,3% al 4% per il primo aggregato e dall’11,8% al 10,7%, per il MiI. Ciò deve essere interpretato nel senso che la maggiore crescita delle esportazioni MiI sarebbe trainata da una maggiore dinamicità del mercato internazionale per queste voci commerciali, dove peraltro, la quota che si contrae testimonia di una capacità di collocare il prodotto italiano che si va riducendo. Tuttavia, all’interno del MiI numerose voci hanno ottenuto maggiori spazi, con quote in significativa crescita. La figura 1 mostra, per ogni singola voce del MiI, la variazione della quota sulle esportazioni agroalimentari italiane (sulle ascisse) e su quelle mondiali (sulle ordinate). In essa si evidenziano i prodotti la cui importanza nel corso del decennio è declinata e quelli per cui è cresciuta, sia con riferimento all’Italia che con riferimento al mercato globale. Ad esempio, emerge con chiarezza che il flusso delle esportazioni di riso lavorato ha acquisito importanza sull’arena internazionale, mentre la sua quota sul MiI si è ridotta consistentemente. Un caso opposto è rappresentato dal comparto dei salumi, la cui quota si contrae rispetto al commercio mondiale mentre è in crescita rispetto alle esportazioni agroalimentari italiane. Infine, vale la pena di notare come le esportazioni di acque minerali risultino particolarmente dinamiche, tanto per il nostro paese che a livello aggregato. In particolare, la linea tratteggiata che divide in due il grafico individua due situazioni opposte. Da un lato, le voci commerciali al di sotto della linea sono quelle per le quali vi è una dinamica più accentuata delle esportazioni italiane rispetto a quella relativa agli altri paesi di origine. In altre parole, per questi comparti l’Italia accresce il proprio vantaggio rivelato comparato (RCA). Tra questi meritano di essere segnalati: acque minerali, caffè, salse e condimenti, olio vergine di oliva, gelati, vini in bottiglie da meno di 2 litri; in quanto, al contempo, si tratta di comparti la cui quota italiana cresce e la cui importanza sulla scena mondiale è pure in crescita. Figura 1- Made in Italy agroalimentare quote sull' export italiano e mondiale (variazioni % 1996/97-2006/07) Viceversa, al di sopra della linea tratteggiata l’espansione italiana è relativamente più debole nel confronto con i flussi originati da altri paesi, indicando una perdita di competitività del nostro paese, secondo la misura offerta dal RCA. Al riguardo vanno segnalati, il riso lavorato, i succhi ed altre preparazioni di frutta, la confetteria; per le quali l’Italia perde terreno, non riuscendo a colgire le opportunità offerte dall’espansione in atto. La figura 2 riporta i valori del saldo normalizzato ad inizio e fine decennio e mostra che in questo arco di tempo non si sono avuti rilevanti cambiamenti nella posizione commerciale netta dell’Italia per la maggior parte delle voci del MiI. Alcuni comparti, però, hanno migliorato in misura non trascurabile la propria posizione: gli oli vergini di oliva, le preparazioni di ortaggi, la voce residuale dei formaggi e il comparto delle salse e dei condimenti. All’opposto, per alcuni comparti l’Italia registra un peggioramento del SN. Tra questi - oltre a quello consistente già rilevato per la confetteria il cui SN ha cambiato, e non di poco, il segno -, si segnalano gli oli di oliva non vergini, le preparazioni di frutta e, soprattutto, i vini in grandi confezioni. Le cause di questi andamenti sono, naturalmente, specifiche e vanno ricercate nelle peculiari vicende cui è andato incontro ciascun comparto, come si può anche capire dalle enormi differenze già ricordate nei tassi di crescita delle esportazioni, indipendentemente dall’andamento del SN. Ciò è ben testimoniato, ad esempio, dal comparto delle acque minerali le cui esportazioni sono aumentate di circa cinque volte, mentre il SN è leggermente peggiorato. Un percorso simile è quello compiuto dai gelati e dai vini spumanti per i quali a fronte di una buona dinamica delle esportazioni, si ha una crescita intensa dei flussi in ingresso che fanno peggiorare sensibilmente il SN. Diversamente, il saldo normalizzato del riso lavorato va incontro ad un brusco peggioramento come risultato di esportazioni pressochè invariate a fronte di una crescita marcata delle importazioni. Queste vicende mettono, peraltro, in evidenza come il SN possa solo fornire una misura parziale ed in parte distorta dei vantaggi competitivi di un paese e di come questi evolvono nel tempo. Figura 2–Saldo Normalizzato delle esportazioni agroalimentari del Made in Italy (1996/97-2006/07