IL CRITERIO DI SIMILITUDINE NELLA TERAPIA DEL

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IL CRITERIO DI SIMILITUDINE NELLA TERAPIA DEL DOLORE INFIAMMATORIO
Elementi di epistemologia generale. La terapia, intesa nei suoi molteplici interventi, fisico, medico
e chirurgico, rappresenta il punto di arrivo di un programma articolato e complesso, che il medico
elabora, attraverso l'insieme delle sue conoscenze scientifiche, al fine di ottenere il benessere del
malato. Sotto questo aspetto, bisogna riconoscere che la conoscenza (episthème) non può essere
considerata soltanto la somma di tutte le informazioni, disponibili al momento e applicabili su entità
separate (segni, sistemi, oggetti degli esperimenti), ma anche l'insieme delle modalità con le quali
tali informazioni vengono utilizzate. Nella pratica clinica, in particolare, lo studio del malato e dei
suoi sintomi comporta una serie di variabili individuali che tendono a complicare la gestione delle
informazioni scientifiche, a tal punto che una medesima condizione patologica può essere affrontata
mediante strategie diverse. Il ragionamento diagnostico, di contro, riproduce nel singolo caso
clinico quanto la medicina sperimentale ha costruito collettivamente, arrivando a determinarne la
tipologia e, molte volte, il referente teorico-causale1. Non sempre, tuttavia, questo passaggio è
lineare. In alcuni casi la sintomatologia di un gruppo omogeneo di malati risente di molteplici
fattori, spesso divergenti tra loro, che rendono dissonanti le singole espressioni cliniche. Tra questi
fattori possiamo includere gli aspetti costituzionali, i disturbi concomitanti e le varie interazioni con
l'ambiente (biologico-infettive, fisiche, chimiche e anche psichiche). Ne consegue che il
ragionamento diagnostico offre, certamente, la possibilità di comprendere la natura di molti stati
patologici (etio-patogenesi), cui non sempre, tuttavia, corrisponde una strategia terapeutica
omogenea. In aggiunta, il paradigma scientifico applicato alla medicina mostra una discreta
tendenza alla variabilità, che dipende, essenzialmente, dall'aumento e dall'approfondimento delle
informazioni di base. Uno dei problemi fondamentali della tradizione epistemologica, infatti, è
rappresentato dalla distinzione tra "contesto della scoperta" e "contesto della giustificazione",
quest'ultimo inteso come verificazione e conferma delle ipotesi elaborate. Il percorso logico di
questa tradizione si è sempre soffermato sull'aspetto temporale dei due momenti: dapprima l'idea,
espressa come fenomeno intuitivo, o anche osservazionale, e conseguentemente la prova scientifica
di quanto proposto. Si può ben comprendere come tutte le considerazioni logiche si collochino,
comunemente, nel secondo momento (quello della verifica), sbilanciando l'interesse del ricercatore
verso un atteggiamento empirico ben più ampio di quanto l'ipotesi iniziale sia in grado di
sopportare2. La questione si acuisce con il cambiamento dei modelli di riferimento. La fase di
passaggio tra paradigmi rivali (definiti incommensurabili) è ripresa da Kuhn come l'introduzione di
un nuovo insieme di problemi, che adombra il dualismo tra contesto della scoperta e contesto della
giustificazione3. La produttività innovativa del cambiamento di paradigma (che avverrebbe per
"salti e rotture", e non per una scontata evoluzione del pensiero scientifico) sposterebbe l'analisi del
processo costruttivo di una scoperta su un piano di riformulazione e di rielaborazione dei dati, anche
precedentemente acquisiti, talvolta drammatico. Basti pensare, per fare un esempio, alle strategie
diagnostico-terapeutiche conseguenti alla scoperta dell'helicobacter pylori nella etiologia delle
gastriti croniche attive: l'uso di antibiotici mirati ha notevolmente cambiato le prospettive di
guarigione, spesso in maniera definitiva, con una netta diminuzione nella incidenza di
trasformazioni neoplastiche della mucosa gastrica. Il processo costruttivo della scoperta, dunque, è
strettamente associato a quello del cambiamento di paradigma. Ciò avverrebbe sulla base della
funzione cognitiva di schemi e modelli, prevalentemente del tipo analogie/metafore, che offrono,
soprattutto alle discipline scientifiche, una contemporanea possibilità di controllo sul momento
logico della verifica (basti pensare al test V, ampiamente analizzato e divulgato in questo
Congresso). La somiglianza dei dati (analogia delle osservazioni) è protetta da un modello
verificabile (metodologia analitica del test V), che riproduce condizioni simili nei diversi operatori.
La centralità dello studio, inoltre, pone l'accento sull'analisi e la funzione degli operatori linguistici
(metafore), capaci di attivare e rendere "visibili" nuove organizzazioni degli oggetti studiati4. Si
tratta, in sostanza, non solo del "vedere" di un soggetto scientifico, ma soprattutto del "come
vedere" di questo. Con l'avvento della filosofia analitica, il linguaggio produttivo (metafora)
1
introduce una irriducibile novità all'interno dei modelli di riferimento, assumendo il ruolo di asse
portante sull'intera struttura, anche rispetto al carattere euristico e predittivo delle nuove teorie5. La
prossimità del linguaggio con l'epistemologia e la semiotica semplifica notevolmente le questioni
interne alla scienza, in quanto permette di operare sul terreno della comune comprensione e di
"dissolvere" molti dilemmi apparentemente irrisolvibili (come i paradigmi incommensurabili).
Elementi di epistemologia pratica. Una delle più importanti applicazioni della "dissoluzione" di
problemi scientifici, partendo dalle considerazioni sopra esposte, può essere verificata nel difficile
scambio tra gli imponenti lavori della ricerca di base e la elaborazione di teorie, che devono essere
validate, successivamente, nella realtà clinica. Spesso si assiste a un dualismo, non facilmente
ricomponibile, di questi indispensabili momenti della scienza medica, la cui conseguenza più
lacerante può riassumersi nell'empirismo individuale con il quale si è costretti ad adottare le scelte
terapeutiche. Può succedere, pertanto, che il clinico non riesca a utilizzare le informazioni, spesso
esuberanti come quantità e a volte contraddittorie come risultati, solo perché non possiede gli
strumenti metodologici idonei a operare una sintesi. Questo è un classico problema di
epistemologia, che potrebbe essere "dissolto" individuando gli operatori linguistici appropriati nei
modelli di riferimento. Ciò significa che il lavoro sperimentale, accreditato da una procedura
scientifica uniforme, pur acquisendo valore dimostrativo di uno studio, deve necessariamente
aderire a un progetto più complessivo da un punto di vista clinico. La scienza assume, come linea di
condotta generale, un ragionamento che tende a "riordinare" le condizioni coerenti e unificate di un
fenomeno. Paradossalmente, però, il processo di riduzione delle singole componenti, ossia lo studio
della loro scomposizione, conduce solo di rado al ripristino della situazione originaria. Il risultato
potrebbe essere (cosa che avviene di frequente) una mole notevole di dati dispersi, che non aiutano
il clinico a raggiungere una ricostruzione diagnostico-terapeutica adeguata. La soluzione, o meglio
la "dissoluzione" del problema, potrebbe essere individuata in una procedura analogica, che
permetta all'operatore di utilizzare le informazioni, non solo in quanto tali, ma soprattutto per la loro
conformità. Si può ben notare come, in questo ragionamento, l'aspetto formale gioca un ruolo
fondamentale. Nel test V, ad esempio, non sono negate le informazioni che provengono dai lavori
sperimentali, ma queste sono inquadrate in un contesto conforme, ossia in un modello di riferimento
più complessivo. Uscendo da questo contesto, alcune malattie autoimmuni si caratterizzano, nella
loro diversità nosologica, per un impianto comune, che tiene conto di una netta base costituzionale
(HLA-associata) e di uno o più fattori innescanti di tipo infettivo. Nella spondilite anchilosante, la
predisposizione immunogenetica (HLA/B27) è una condizione necessaria, ma non sufficiente, per il
determinismo della malattia. Solo la risposta immunitaria ad alcuni agenti patogeni (klebsiella,
salmonella, chlamydia, etc.) è in grado di attivare una risposta analoga sul B27, a causa della
somiglianza strutturale tra questo e gli agenti infettivi6. La conformità di questo modello è ribadita
dalla etiopatogenesi del diabete giovanile, associata ad HLA/DR3-4 e attivata, con una procedura
analoga a quella della spondilite, da infezioni intestinali (rotavirus, coxsackievirus, etc.). Lo stesso
dicasi per l'artrite reumatoide, nella quale troviamo una predisposizione HLA/DR1-4, attivata solo a
seguito di una risposta a diversi agenti (EBV, streptococchi, borrelia, etc.). Un modello di questo
genere permette di unificare i dati, apparentemente disomogenei, in un contesto formale coerente7.
Lo schema delle analogie è pure evidente, sia nella componente molecolare, sia in quella
procedurale del paradigma, offrendo una metodologia di studio utile anche nelle patologie
cosiddette "orfane", ossia prive di un nesso causale identificabile. L'analogia molecolare,
denominata "mimetismo" dalla medicina moderna, è una chiave di lettura interessante per la
comprensione di molti fenomeni patologici. L'esempio più conosciuto di questo schema è
documentato dal lavoro di Jenner sul "vaccino, ossia sulla utilizzazione del virus bovino per la
immunizzazione del vaiolo umano. In questo caso si riconosce un vero e proprio criterio di
similitudine, con il quale si previene una malattia, inducendone una simile ma non identica. E
ancora: nelle manifestazioni allergiche, le sostanze stimolanti (definite allergeni) si legano ad
anticorpi specifici, prodotti dall'organismo sensibilizzato, ossia alle IgE8. La caratteristica
2
funzionale di questi anticorpi è quella di provocare, attraverso una serie di meccanismo ormai
conosciuti, la sintomatologia allergica, definita come una reazione infiammatoria immediata.
Purificandole dal siero di un soggetto allergico, le IgE specifiche (quelle che si legano ad allergeni
altrettanto specifici) possono essere inoculate su topi o conigli, i quali, a loro volta, risponderanno
con anticorpi anti-IgE. L'aspetto affascinante della questione sta nella capacità, che hanno gli antiIgE, nel caso in cui siano somministrati a scopo di esperimento, di stimolare una reazione allergica
del tutto sovrapponibile a quella degli allergeni da cui provengono (per intensità e durata)9. Tale
somiglianza strutturale, ben conosciuta dalla immunologia moderna, è chiamata "immagine interna
dell'antigene", ed è riscontrabile in numerose circostanze, sia fisiologiche, sia patologiche10.
L'approccio al dolore infiammatorio, secondo una procedura analogica. L'infiammazione è
definita come l'insieme delle risposte, indotte da una noxa patogena e messe in atto da un organismo
vivente, al fine di ripristinare una condizione di equilibrio. Tali risposte si manifestano con quadri
clinici diversi, che dipendono dal tessuto interessato, dalla reattività individuale e dalla virulenza
dell'agente flogistico. La penetrazione e la diffusione di un agente patogeno costituiscono gli stimoli
a un graduale impegno, dapprima locale e poi sempre più sistemico, di un individuo, nel tentativo di
discriminare se stesso dall'ambiente che lo circonda. Tale risposta si sviluppa con una sequenza ben
precisa, che solitamente è distinta in tre periodi:
1. Fase infiammatoria umorale, con la quale l'organismo cerca di circoscrivere l'agente patogeno
nel punto di entrata;
2. Fase di ricognizione cellulare, attraverso cui l'agente estraneo è riconosciuto dai recettori
specifici presenti sui linfociti B e T;
3. Fase effettrice umorale e cellulare, con la quale, i linfociti B e T, attivati da una ricognizione
positiva, cooperano alla distruzione e alla eliminazione dell'agente patogeno.
La fase infiammatoria comprende tutti gli eventi che intercorrono tra l'azione della noxa patogena e
la risposta immunitaria specifica. Un ruolo chiave è svolto dai neutrofili, aiutati dal sistema del
complemento, per inglobare, degradare ed eliminare l'agente patogeno. Questa funzione è svolta
anche dai monociti/macrofagi ed è chiamata fagocitosi. La migrazione delle cellule nel sito
infiammatorio è regolata dalla presenza di particolari molecole di adesione, che si esprimono sulla
superficie dell'endotelio danneggiato11. L'arrivo dei neutrofili è facilitato anche dall'aumento del
flusso sanguigno e dalla permeabilità capillare, soprattutto in presenza dei frammenti minori del
complemento (C3a e C5a). L'infiammazione acuta è in grado, molto spesso, di arginare ed
estinguere lo stimolo, attraverso il rilascio di citochine specifiche, quali interleuchina-1 (IL-1) e
tumour necrosis factor α (TNFα), cui è dovuta anche la sintomatologia. Queste citochine sono
rilasciate, inizialmente, dalle cellule dei tessuti danneggiati e dalle cellule endoteliali, favorendo
l'espressione delle molecole di adesione12. In alcuni casi, tuttavia, la carica patogena e la
disposizione dell'individuo permettono la diffusione dell'agente patogeno, il quale obbliga
l'organismo a una risposta specifica. Quando lo stimolo persiste nel sito di entrata, invece, consegue
una risposta non sempre efficiente, chiamata infiammazione cronica. Un esempio è dato dalla
formazione di granulomi o di noduli reumatoidi. In questi casi sono due i tipi di cellule coinvolte:
macrofagi e linfociti. I macrofagi assumono un aspetto particolare, per il quale sono denominati
cellule giganti, o anche epitelioidi, mentre i linfociti si distinguono in plasmacellule, cellule T
attivate e NK13. La migrazione di queste cellule nel sito infiammatorio è dovuta alla espressione di
molecole di adesione diverse da quelle dell'infiammazione acuta e, quindi, anche al rilascio di
citochine diverse, quali interleuchina-2 (IL-2) e interferone γ (IFNγ), prodotte essenzialmente dai
linfociti. Le molecole di adesione, coinvolte nella risposta infiammatoria, possono essere così
riassunte:
3
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Integrine β2, le più importanti delle quali sono le LFA-1 (leukocyte function associated
molecule-1), situate sulle membrane dei leucociti. Mediante queste molecole i neutrofili si
legano all'endotelio e lo oltrepassano, per raggiungere il sito di infiammazione. La loro
espressione è indotta dalle citochine della risposta acuta, ossia IL-1 e TNFα14;
Integrine β1, tracui VLA-1 (very late antigen) e VLA-2, espresse sui linfociti T attivati, ma non
sui neutrofili. Ciò significa che tali molecole intervengono solo nella genesi della
infiammazione cronica, indotte sotto la stimolazione di IL-2 e IFNγ;
Superfamiglia delle immunoglobuline, tra cui ICAM-1 (intercellular adhesion molecule) e
ICAM-2, maggiormente espresse sulle cellule endoteliali, sotto lo stimolo delle citochine di fase
acuta, ossia IL-1 e TNFα. Anche VCAM-1 (vascular cell adhesion molecule) fa parte della
stessa famiglia, ma con una funzione diversa, in quanto si esprime, sull'endotelio, per l'azione
infiammatoria cronica di IL-2 e IFNγ15;
Selectine, soprattutto il tipo E, espressa sulla superficie dell'endotelio, durante la fase acuta,
sotto lo stimolo di IL-1 e TNFα. Questa molecole di adesione permette ai neutrofili di ancorarsi
all'endotelio16.
Da quanto esposto, si desume che il meccanismo patogenetico di una risposta infiammatoria è
mediato da varie informazioni molecolari, le quali funzionano in maniera integrata nell'obiettivo di
estinguere lo stimolo. Le manifestazioni cliniche, pertanto, non dipendono dall'azione diretta della
noxa patogena, bensì dall'insieme delle risposte conseguenti. Questo punto è di fondamentale
importanza, in quanto si inserisce perfettamente nel modello immunopatologico, ossia nella
conformità con la quale le diverse condizioni cliniche mostrano coerenza. Il punto di partenza di
questo modello è rappresentato dal fatto che una qualsiasi sintomatologia è legata alla capacità di
rispondere a uno stimolo. In mancanza di questa capacità l'espressione clinica associata non può
esistere. Va da sé, quindi, che la fase iniziale di un processo infiammatorio, che si deve compiere in
tempi molto ristretti, vista l'assenza di immunità specifica, impone all'individuo una sintomatologia
acuta che ha l'obiettivo di impedire la diffusione del processo stesso. La conseguenza è l'esordio di
una sintomatologia costituzionale aspecifica, ove dominano i disturbi generali (malessere, brividi,
febbre, dolore, etc.). I sintomi specifici insorgono, invece, dopo l'attivazione di una risposta
altrettanto specifica, con la possibilità che insorgano disturbi di stato, legati al tropismo dell'agente
patogeno. Anche in questo caso, comunque, è la presentazione dell'antigene su cellule specializzate
a indurre una risposta specifica da parte dei linfociti. In sintesi:
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La risposta si esprime con la produzione di molecole (citochine, molecole di adesione,
complemento, anticorpi) e cellule (fagociti e linfociti);
La persistenza dello stimolo implica la persistenza della risposta e, quindi, della sintomatologia;
La sintomatologia dipende non già dall'agente patogeno che la innesca, bensì dalla risposta nei
suoi confronti;
Esiste un passaggio graduale da una risposta aspecifica (infiammatoria) a quella specifica
(linfocitaria);
La persistenza di una risposta specifica può essere responsabile di uno stato patologico cronico,
dovuto alle analogie strutturali tra l'agente patogeno e i costituenti dell'organismo;
Queste somiglianze sono studiate con le omologie di sequenza tra catene polipeptidiche e
rappresentano il fulcro del mimetismo molecolare;
Il mimetismo può essere definito come il criterio di similitudine applicato alla biologia
molecolare.
Molte azioni delle citochine infiammatorie sono state chiarite solo quando la tecnologia
ricombinante ha permesso di produrle in quantità tali da essere somministrate su volontari sani. La
sperimentazione pura di queste sostanze, a dosaggi molto bassi, ha messo in evidenza effetti
4
importanti, sia per l'eventuale uso terapeutico, sia per la conoscenza delle loro azioni in vivo. Le
citochine ricombinanti possono essere considerate un simile molecolare delle forme endogene e
offrono nuove possibilità interpretative di molti fenomeni patologici. Sono peptidi glicosilati ad
attività non enzimatica, in grado di svolgere una funzione mediatrice, sia sulle risposte
infiammatorie aspecifiche, sia su quelle linfocitarie specifiche. Oltre a ciò, permettono l'attivazione,
la proliferazione e la differenziazione di molte linee cellulari. Le citochine hanno una emivita
piuttosto breve e sono presenti nei liquidi biologici a concentrazioni estremamente basse
(nanomolare o, addirittura, fentomolare). Le forme ricombinanti differiscono da quelle endogene
per la diversa localizzazione della componente glucidica. Vediamo, in dettaglio, gli effetti derivanti
dalla loro somministrazione sui volontari sani, insieme ad alcuni della sperimentazione in vitro17.
IL-1α:
• ipozinchemia, iposideremia e ipercupremia;
• inibizione delle lipasi e acidosi lattica;
• ipoglicemia;
• aumento della funzione coagulativa, attraverso aumento del platele activating factor (PAF);
• produzione di proteine infiammatorie acute (c-reattiva, fibrinogeno, etc.);
• ipoalbuminemia;
• anemia;
• febbre, attraverso la liberazione di prostaglandine nell'area pre-ottica e nell'ipotalamo;
• infiammazione acuta;
• sonno, per azione diretta sul sistema nervoso centrale;
• anoressia, con azione mediata dalle prostaglandine sull'ipotalamo;
• aderenza dei leucociti all'endotelio vascolare;
• chemiotassi, neutrofilia, linfopenia e trombocitopenia;
• induzione di molecole di adesione della fase acuta;
• riduzione marcata della pressione arteriosa e venosa.
TNFα:
• attività protrombotica;
• infiammazione acuta, con aumento della fagocitosi e della citotossicità;
• febbre, per aumento di PGE2;
• acidosi metabolica;
• ipoglicemia e ipoalbuminemia;
• aumento di ACTH e catecolamine;
• ipozinchemia;
• induzione delle proteine di fase acuta da parte del fegato;
• inibizione delle lipasi;
• produzione di ossido nitrico, anione superossido e perossido di idrogeno;
• osteolisi, con ridotta produzione di osteocalcina;
• espressione di molecole di adesione della fase acuta;
• ipertrigliceridemia;
• anoressia, perdita di peso, disturbi comportamentali e insufficienza d'organo mista
(somministrazione negli animali da esperimento).
IL-6:
• induzione di proteine della fase acuta;
• azione pirogenica.
5
IL-2:
• febbre con brividi;
• artromialgia;
• dispnea e aritmia;
• oliguria e ritenzione di liquidi;
• anoressia, nausea, vomito e diarrea;
• stomatite;
• iperbilirubinemia, aumento delle transaminasi, ipercolesterolemia e iperprolattinemia;
• letargia e allucinazioni, molto simili a condizioni schizofreniche;
• anemia, linfopenia e piastrinopenia;
• eritema maculare diffuso e pruriginoso, con desquamazione.
L'approccio terapeutico alle infiammazioni acute e croniche, pertanto, potrebbe giovarsi del criterio
di similitudine, utilizzando dosi ultradiluite di citochine ricombinanti, tenendo presente che: IL-1 e
TNFα sono utili nelle forme acute, mentre IL-2 e IFNγ nelle forme croniche. IL-6 rappresenta una
citochina "intermedia", in quanto è responsabile del quadro di riacutizzazione di stimoli
infiammatori persistenti (ad esempio granulomi o anche artrite reumatoide).
Il ruolo della sostanza P nel dolore infiammatorio. Un nervo periferico è costituito da tre diversi
tipi di fibre nervose: i motoneuroni, gli assoni del sistema simpatico e gli afferenti sensitivi. Questi
ultimi sono situati nella radice dei gangli dorsali, a livello dei foramina vertebrali, e sono classificati
in base al loro diametro, alla presenza o meno di mielina e alla loro velocità di conduzione. Quelle
di maggior diametro, denominate Aβ, conducono stimoli dolorifici massimali dalla cute (il dolore è
provocato dal minimo contatto con la parte interessata e la conduzione è molto veloce). Nella gran
parte dei casi, comunque, il dolore è convogliato al midollo spinale da fibre afferenti di piccolo
diametro, denominate Aδ (mielinizzate e a velocità di conduzione media) e fibre C (sprovviste di
mielina e deputate a una conduzione lenta. Ambedue innervano la cute e le strutture viscerali
profonde e sono completamente insensibili in assenza di stimoli algogeni (per questo sono anche
chiamate nocicettori silenti). Diventano, invece, rapidamente sensibili agli stimoli meccanici e in
presenza di citochine infiammatorie. In questi casi l'impulso dolorifico è trasmesso da particolari
sostanze peptidiche, denominate tachichinine18. Tra queste la più importante e conosciuta è la
sostanza P. Questo neurotrasmettitore, costituito da una piccola catena di 11 aminoacidi, venne
scoperto da Gaddum e von Euler nel 1931 e la sua sequenza chiarita solo dopo 40 anni, ad opera di
due ricercatori nordamericani, Carraway e Leeman19. Oltre ai punti di unione con gli altri tipi di
neurotrasmissione (accumulo intravescicolare, rilascio Ca-dipendente, azione pre- e post-sinaptica),
i mediatori peptidici presentano peculiarità distintive, che li avvicinano alle comunicazioni
intercellulari di tipo endocrino. Inoltre, come nel caso delle citochine, i neuropeptidi possono
attivare i rispettivi recettori ad alta densità per concentrazioni molto basse, dell'ordine pico e
fentomolare. Tali recettori, una volta attivati, entrano in uno stato di bassa affinità, rilasciano il
peptide e recuperano, successivamente, l'alta affinità. La degradazione della sostanza P è attuata da
una specifica peptidasi, chiamata NEP (neutral endo peptidase) in due framment: SP 1-7 e SP 7-11.
Il primo ha un effetto ipotensivo e bradicardizzante, ma il secondo determina un aumento della
pressione arteriosa e della frequenza cardiaca. Mentre il glutammato sembra essere il più probabile
mediatore dell'impulso nelle fibre mileinizzate a conduzione veloce Aδ (il tempo di conduzione è
dell'ordine di millisecondi, come si realizza nei dolori traumatici), la sostanza P trasmette
l'impulsodelle fibre amieliniche di tipo C, le quali veicolano una stimolazione algica lenta (con
tempo di conduzione dell'ordine di secondi, o anche minuti). In questo ultimo caso, la sensazione
che ne deriva è descritta come un dolore sordo, bruciante e non localizzato, come tipicamente si
riscontra nelle infiammazioni. La sostanza P ha un ruolo fondamentale anche nella amplificazione
6
dei dolori acuti (avvertiti come sensazione lancinante e localizzata), soprattutto quando al trauma si
sovrappone un dolore di tipo infiammatorio20.
Tali considerazioni permettono di ipotizzare l'utilizzazione del criterio di similitudine, mediante la
forma ricombinante di sostanza P, a dolsi ultradiluite, analogamente a quanto accennato a proposito
delle citochine.
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