Attore e dei movimenti sociali

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La rilevanza dell'attore nello studio dei movi m e nti sociali.
Recenti sviluppi teorici ed empirici
di Andrea Pirni
1.
Introduzione
Il tessuto sociale dell'epoca che stiamo attraversando presenta una costante e
fluida rielaborazione delle proprie coordinate: tale dinamica ha necessitato e
necessita, nelle discipline socio-politologiche, un lavoro di rivisitazione degli
strumenti innanzitutto concettuali delle consolidate tradizioni di ricerca.
Nell'ambito degli studi sul mutamento sociale, l'azione collettiva, nelle sue
molteplici declinazioni, rappresenta l'espressione più diretta delle
trasformazioni strutturali e valoriali della società. La recente letteratura
concede particolare attenzione ai movimenti sociali attribuendo a tale
espressione dell'azione collettiva i segnali più vitali dell'effervescenza sociale in
atto.
L'interesse per tali forme di comportamento collettivo risale alle riflessioni dei
classici che, benché concordassero nell'associare i movimenti collettivi all'idea
di mutamento e di tensione sociale, ne proponevano due differenti immagini
(Pasquino 1990): da un lato vi era chi considerava il fenomeno come una
manifestazione di irrazionalità e come una pericolosa rottura con l'ordine
esistente (Le Bon, Tarde e Ortega y Gasset), dall'altro chi li riteneva un
importante tipo di azione sociale e li inseriva con differenti ruoli e finalità nel
proprio costrutto teorico (Marx, Durkheim e Weber).
La proliferazione delle elaborazioni teoriche e delle ricerche empiriche sul tema
offre tuttavia un mare magnum a tal punto gremito di correnti da rendere per
nulla agevole la traccia di una rotta di navigazione. Ciò nonostante, in
letteratura, sono rintracciabili almeno tre finalità analitiche differenti in base
alle quali è possibile orientarsi (Pizzorno 1993). In primo luogo vi sono le
ricerche animate da un interesse empirico specifico: tali studi considerano i
movimenti come fenomeni a sé e ne osservano le forme, le risorse, gli incentivi
e l'evoluzione. In secondo luogo vi sono le analisi macrosociologiche, che, con
finalità storico-comparative, tentano di stabilire le forme di azione collettiva
che caratterizzano determinati periodi storici. Da ultimo vi sono le indagini di
matrice microsociologica che, con obiettivi teorici generali, si propongono di
studiare i movimenti sociali per interpretare con maggior accuratezza l'azione
sociale dell'individuo. Tali distinzioni sono rilevabili solo su un piano analitico,
ed è evidente che i tre intenti possano intrecciarsi, in misura differente, in una
stessa teoria: in questa sede si tenterà di utilizzare una bussola orientata
all'attore cercando di isolare l'interesse analitico rivolto alla mobilitazione
dell'individuo.
Verrà, dunque, proposta una breve – e pertanto incompleta e solo orientativa –
rassegna dei paradigmi teorici tradizionali: la classificazione qui utilizzata
presenta un accettabile grado di accordo nella comunità scientifica ma fa
necessariamente i conti con una certa disomogeneità interna1 (della Porta,
Diani 1997).
Dopo la suddivisione degli approcci verranno presentate le coordinate principali
di due studi tra i più recenti e significativi sui movimenti sociali: da un lato
l'analisi teorica di Paolo Ceri (2002) sulla natura e l'evoluzione del movimento
globale, dall'altro l'indagine empirica del team di ricerca coordinato da
Massimiliano Andretta e Donatella della Porta (2002) su valori, identità e
strategie d'azione del movimento italiano contro la globalizzazione neoliberista.
Al fine di problematizzare la mobilitazione delle nuove generazioni che, come si
vedrà, risulteranno essere una componente significativa delle recenti forme di
protesta, verrà proposta l'analisi di Enrico Caniglia (2002) sui processi di
costruzione dell'identità.
Conclusivamente verranno ricondotti i risultati dei tre studi in un più ampio
percorso di centralizzazione del ruolo della soggettività accennando alcune
riflessioni sulle implicazioni della partecipazione politica non convenzionale in
riferimento al dibattito sul deficit politico della democrazia e sulla costruzione
di nuove forme di spazio pubblico.
2. Lo studio dei movimenti sociali: coordinate per una rassegna
Fino agli anni Sessanta il modello marxista e il modello struttural-funzionalista
fornirono le chiavi di lettura per interpretare i conflitti sociali. Da un lato,
l'impostazione marxista, facendo risalire l'identità politica ai soli
condizionamenti socio-economici connessi alla stratificazione sociale, riduceva
le tensioni sociali al conflitto di classe tra borghesi e proletari; dall'altro,
l'approccio parsonsiano si apriva a spiegazioni di tipo culturalista sostenendo
l'importanza di ulteriori appartenenze ascrittive quali, ad esempio, il genere,
l'etnia e differenti tradizioni culturali. A mettere in discussione la capacità
esplicativa dei due consolidati approcci fu il ciclo di protesta sviluppatosi tra gli
anni Sessanta e Settanta: dal 1968 "magistrati, medici e insegnanti assunsero
iniziative al di fuori delle tradizionali associazioni di categoria, mettendo in
discussione i criteri, i valori e le pratiche professionali tradizionali. Furono
investiti settori di opinione ben più ampi dei soggetti direttamente mobilitati,
sollecitando una politicizzazione diffusa e un ripensamento dei rapporti tra
sfera privata e pubblica" (Biorcio 2003, 81). Naturalmente il riemergere
sensibile del movimentismo non si verificò solamente in Italia ma si inserì in un
più ampio contesto di mobilitazione e protesta che pervase le società avanzate
tra gli anni Sessanta e Settanta. Negli Stati Uniti le mobilitazioni si
strutturarono in pragmatici gruppi di interesse o in organizzazioni
spiccatamente antisistema, spesso con caratteri di fanatismo religioso. In
Europa i movimenti, benché presentassero caratteristiche nuove rispetto al
passato, conservarono gli elevati livelli di ideologizzazione e i tratti
marcatamente antisistema dei maggiori movimenti operai (della Porta – Diani
1997).
La reazione all'eccessivo determinismo condusse i membri della comunità
scientifica a dar vita a due nuovi paradigmi (Klandermans, Tarrow 1988) che
trovarono terreno fertile rispettivamente in ambito americano ed europeo.
Negli Stati Uniti, tuttavia, le radici della teoria del collective behavior, che
considerava i movimenti collettivi come risposte irrazionali di settori della
società particolarmente deprivati, diedero un ultimo colpo di coda con lo
schema elaborato da Smelser: in tale schema il movimento collettivo viene
posto al primo stadio di mutamento sociale "prima che i mezzi sociali siano
stati mobilitati per un attacco specifico e possibilmente efficace alle fonti di
tensione" (Smelser 1962, trad. it. 1968). L'insorgenza e la diffusione di una
credenza generalizzata assumono particolare rilevanza nella teoria di Smelser
– e tra i suoi successori (Turner, Killian 1987) – ma, in sostanza, tale teoria
non prevede un'analisi dei contenuti del conflitto tra movimento e sistema. A
questo proposito Melucci (1982, 16-17) nota come questo approccio trasferisca
la contiguità nello spazio e nel tempo di comportamenti individuali dal piano
fenomenologico a quello concettuale facendo assumere alla realtà collettiva
un'esistenza ontologica: viene dunque ascritta alla dimensione collettiva una
datità e un'evidenza ovvia che non trova ulteriore problematizzazione.
Pizzorno (1993) individua due tentativi che si propongono di uscire dall'assunto
dell'agire collettivo come dato empirico: la teoria della privazione relativa
(Crawford e Naditch 1970; Gurr 1970) e la teoria della mobilitazione delle
risorse (McCarthy e Zald 1977; Oberschall 1973).
La prima pone a fondamento dei movimenti sociali la presenza di malcontento
e, quindi, di rivendicazioni diffuse in una parte della popolazione. "Assume,
inoltre, che tale stato di disturbo dell'ordine sociale si trasforma in movimento
se credenze o ideologie gli danno espressione e termini condivisibili" (Pizzorno
1993, 135). Questa teoria è orientata a cogliere la formazione della base
potenziale dei movimenti – ovvero la domanda latente – ma non riesce a
superare il paradosso di Olson (1965, trad. it. 1983) circa il free rider e
pertanto non spiega l'impegno degli attori individuali.
La resource mobilization theory, invece, si fonda sulla teoria della scelta
razionale e si concentra sull'offerta di possibilità di azione collettiva (le
organizzazioni e i leader potenziali): dando per scontato che situazioni di
scontento sociale siano sempre presenti, focalizza l'analisi sull'infrastruttura
organizzativa dei movimenti e sui processi attraverso i quali le tensioni
strutturali (grievances) conducono verso azioni collettive manifeste.
In questa ottica, pertanto, la formazione di movimenti sociali sarebbe
strettamente legata alle risorse disponibili nel sistema: se migliorano le risorse,
i costi della mobilitazione diminuiscono e il conseguente incremento della
partecipazione aumenta la probabilità di successo del movimento. Benché la
teoria della mobilitazione delle risorse abbia favorito la produzione di ambiziose
costruzioni teoriche, mancano sistematiche verifiche sul terreno empirico2
(Neveu 1996, trad. it. 2001); inoltre – forse la lacuna più grave – tale
approccio non propone un'analisi dei contenuti della mobilitazione (Melucci
1982).
Da ultimo, nella sociologia americana, si è sviluppata una ulteriore corrente – a
partire da quella precedente – che accentua l'attenzione rivolta verso
l'ambiente politico in cui i movimenti operano3 (Tilly 1978; Tarrow 1990; Kriesi
et al. 1995): tale approccio ponendo in considerazione le interazioni tra attori e
forme d'azione tradizionali e non convenzionali ha aperto un fecondo ambiente
di ricerca anche se riduce esclusivamente al politico l'azione dei recenti
movimenti omettendone l'innovazione culturale (Melucci 1987)4.
In Europa dopo che venne messa in discussione la centralità del rapporto tra
capitale e lavoro nell'ambito del conflitto sociale (Touraine 1978) si sviluppa un
approccio che individua nei movimenti ambientalisti, pacifisti e femministi degli
anni Sessanta e Settanta caratteri "nuovi" rispetto ai precedenti circa la sfera
valoriale, le forme di partecipazione e l'organizzazione interna e orienta
l'indagine sulle trasformazioni strutturali delle società industriali occidentali5.
Per quanto riguarda le forme di organizzazione e i repertori d'azione, i nuovi
movimenti sociali sono espressamente ostili alla centralizzazione e alla delega
dell'autorità a stati maggiori lontani; la loro struttura organizzativa è esile e
conferisce vasta autonomia alle componenti di base. Si schierano per un'unica
questione per volta, da qui il nome single-issue organization. Rispetto ai
convincimenti per i quali si attiva la mobilitazione, deve essere notato che i
nuovi movimenti sono portatori di rivendicazioni impostate sui valori postmaterialisti quali, ad esempio, la salvaguardia dell'ambiente e la garanzia dei
diritti delle minoranze. Nel tentativo di costruire forme di sociabilità
completamente indipendenti dallo Stato i nuovi movimenti sociali si
differenziano dai loro predecessori anche in merito alla relazione con la sfera
politica. Mentre i "vecchi" movimenti agivano spesso in stretto rapporto con i
partiti le nuove conformazioni se ne allontanano perentoriamente. Da ultimo,
un ulteriore carattere distintivo di questi movimenti è legato all'identità degli
attori che li costituiscono: le nuove forme di mobilitazione non si
autodefiniscono più come espressione di classi o di categorie socioprofessionali in quanto non si costituiscono più in relazione a conformità di
status socio-economici ma a seguito di condivisione di specifici ideali.
La teoria dei nuovi movimenti sociali è stata oggetto della critica speculare a
quella rivolta alla teoria della mobilitazione delle risorse: se questa ultima si
occupa esclusivamente del "come" dell'azione collettiva la prima pone
attenzione solo al "perché" di tale azione cioè del passaggio dal conflitto
all'azione sociale6. Una ulteriore critica all'approccio dei nuovi movimenti sociali
riguarda la generalizzazione alla globalità dei fenomeni di azione collettiva degli
elementi innovativi riscontrati in alcuni movimenti (Tarrow 1994; della Porta
1996)7.
3. La sociologia italiana e i recenti contributi sul movimento no-global
In Italia la ricerca più recente sulle forme di partecipazione politica, ha
prodotto due studi di matrice differente ma senz'altro significativi sulle
manifestazioni durante i controvertici: in questa sede ci si propone di
presentare brevemente le riflessioni degli Autori circa i protagonisti di tali
forme di partecipazione.
Il primo contributo – "Movimenti globali" di Paolo Ceri – propone un'analisi
teorica che si sviluppa attorno a tre temi principali: la natura del movimento
ovvero da chi è formato e quali sono le richieste; le cause dell'intensificazione
della protesta attuale; l'evoluzione e il possibile sviluppo futuro del movimento.
La prima tematica, qui di particolare interesse, si articola a partire da una
domanda di fondo: cosa può accomunare un così variegato insieme di
associazioni e di interessi quali quelli ambientalisti e sindacalisti, gruppi
religiosi e difensori dei diritti dei consumatori, anarchici e pacifisti? (Ceri 2002,
13). Una prima somiglianza tra le diverse componenti del movimento è
l'utilizzo di internet per l'organizzazione della protesta. Benché certamente la
pianificazione attraverso la rete risulti di particolare evidenza e indubbiamente
significativa, si nota un comune denominatore decisamente più rilevante che
avvicina la vasta gamma di rivendicazioni: la considerazione della
globalizzazione alla luce delle sue implicazioni sulla relazione tra l'economia e
gli altri sistemi (l'ambiente, la società, la cultura).
Per mettere ordine nella complessa relazione tra i movimenti e i fenomeni
connessi alla globalizzazione Ceri adotta una distinzione analitica che individua
due processi differenti, anche se continuamente correlati, presenti all'interno
della globalizzazione.
Nel primo – definito globalizzazione verticale – "i rapporti di scambio e di
autorità tra i diversi sottosistemi, iscritti in uno dei sistemi funzionali
(economia, politica, cultura) di una società nazionale, diventano
tendenzialmente meno forti di quelli che intercorrono tra ciascuno di essi e
sottosistemi, sistemi o sovrasistemi esterni, con l'effetto di provocare un
processo di denazionalizzazione e di perdita dell'autonomia dello Stato" (Ivi,
18). Un esempio di tale processo è l'aumento dell'influenza dei soggetti
internazionali corporati (multinazionali, banche centrali, Fondo monetario
internazionale) rispetto al passato sulla presa di decisioni all'interno di un
settore (ad esempio la televisione o il cinema, il fisco, la difesa o il settore
tessile).
Nel secondo processo – chiamato globalizzazione orizzontale – "diventano
sempre vieppiù generalizzate le interdipendenze tra i molteplici sistemi e sfere
di attività: la produzione, il consumo, la salute, l'ambiente, la finanza, lo
sviluppo tecnologico, i diritti umani ..." (Ibid.). Ad esempio le conseguenze
sulla salute e sull'ambiente di determinate scelte tecnologiche.
Tale intreccio tra le due "anime della globalizzazione comporterebbe una
sostanziale trasformazione sia dello status dei soggetti politici tradizionali
(Stati, governi, partiti), sempre più deboli, sia dei modi di vita dei cittadini,
sempre più flessibili e nomadi (Ivi, 19)". Ceri, avvertendo della compresenza di
entrambe le tendenze, considera l'attuale processo di globalizzazione come
maggiormente connotato dalla dimensione orizzontale in quanto oltre a
presentarsi effetti locali di decisioni globali (dimensione verticale) –
caratteristica di quella che alcuni economisti definiscono prima globalizzazione8
– da qualche tempo a questa parte iniziano ad essere rilevati effetti globali di
decisioni locali – come ad esempio in campo ambientale.
La distinzione proposta tra globalizzazione verticale e globalizzazione
orizzontale è strumentale per presentare una tipologia di partecipanti al
movimento – dall'Autore definito globale – costruita in base agli schemi
interpretativi della globalizzazione. Vengono così individuati quattro gruppi di
attori di cui i primi due sono tipi "puri" mentre i secondi hanno caratteristiche
ibride.
Il primo è formato dalle associazioni che sostengono istanze relative
esclusivamente o prevalentemente agli effetti attuali o potenziali della
globalizzazione verticale opponendosi, ad esempio, alla flessibilità del lavoro,
alla mobilità dei fattori di produzione e al consumo dei prodotti esteri; il
secondo, contrastando l'omologazione culturale in difesa delle identità etniche
o culturali e sostenendo la salvaguardia dell'ambiente contro le implicazioni
esiziali delle logiche di mercato sulla natura, considera gli effetti della
globalizzazione orizzontale. Il terzo raccoglie le associazioni che avanzano
rivendicazioni relative alle conseguenze della globalizzazione orizzontale, ma
che lo fanno interpretandole e subordinandole ideologicamente alla lotta alla
globalizzazione verticale: questo gruppo riconduce gli effetti della
globalizzazione a meccanismi di dominio e sfruttamento opponendo i diritti
umani e gli equilibri naturali allo sfruttamento. Il quarto è costituito da attori
collettivi che, pur sostenendo istanze relative agli effetti della globalizzazione
verticale, le riferiscono a un orizzonte di lotta definito rispetto alla
globalizzazione orizzontale: tali associazioni fanno risalire gli effetti della
globalizzazione a meccanismi di manipolazione e misconoscimento delle
identità e della varietà opponendo la difesa dei consumatori alla manipolazione
dei bisogni, i diritti umani all'oppressione, alla privazione della dignità e al
controllo della privacy, la difesa della varietà all'omologazione di mercato.
Lo schema verticale percepisce la globalizzazione come un insieme di effetti
diretti e voluti di decisioni prese a un livello superiore da poteri considerati al
centro dell'economia mondiale: chi vi reagisce propone un potere dal basso
integrato o meno da organismi sovranazionali.
Lo schema orizzontale favorisce invece una visione dell'azione come dissenso,
basata sull'appello alla trasparenza e alla responsabilità. In questo caso la
globalizzazione è intesa come insieme di effetti indiretti, a volte non voluti,
delle azioni compiute da poteri considerati come esterni: chi vi si oppone
propone di contenere la tendenza del capitalismo a espandere la sua influenza
al di fuori dell'ambito economico.
In sostanza ad aggregare è la comune reazione alla globalizzazione
neoliberista, a unire sono la produzione e la condivisione di nuovi valori quali
l'autonomia, l'autorealizzazione, la creatività e la spontaneità che nei termini di
Touraine esprimono l'istanza di ricomporre la frattura tra razionalità e
sentimento e tra ruolo e soggetto.
Spostandosi su un piano più marcatamente empirico pare di sicuro interesse la
ricerca condotta dal team coordinato da Massimiliano Andretta e Donatella
della Porta (2002): attraverso la somministrazione di circa 800 questionari ai
manifestanti in occasione del G8 di Genova (19-21 luglio 2001)9, un'analisi
sistematica del contenuto dei siti web delle associazioni partecipanti alla
protesta, la ricerca delle strategie di risposta istituzionale alla manifestazione
attraverso gli atti parlamentari relativi alla commissione d'indagine sugli eventi
del G8 e sulla rassegna stampa di alcuni quotidiani nazionali.
Il volume si articola su quattro filoni tematici che ricordano i diversi approcci
allo studio dei movimenti sociali quali: l'organizzazione del movimento, gli
attori, le strategie d'azione con le forze dell'ordine, le interazioni degli "sfidanti"
con l'establishment ovvero il sistema delle opportunità politiche10.
Il gruppo di ricerca mette ordine nella galassia della protesta individuando tre
anime principali all'interno del Genoa Social Forum11. La prima, cui corrisponde
ad Attac, si propone di modificare le dinamiche del sistema economico vigente,
ad esempio attraverso l'attivazione della Tobin tax: attorno ad Attac tende ad
aggregarsi un'area ampia di associazionismo tradizionalmente vicino alla
sinistra. La seconda, la Rete Lilliput, si oppone agli squilibri prodotti dalla 12 ed
è costituita da decine di nodi locali tra cui si possono individuare almeno due
componenti piuttosto omogenee: quella ambientalista (sezione italiana del
WWF) e quella cattolica (Mani Tese Pax Christi e Radiè Resch). La terza area,
infine, è quella dei centri sociali: caratterizzata da notevoli differenze per
riferimenti culturali, obiettivi e forme d'azione si presenta come la più
eterogenea, con un coordinamento interno estremamente basso. Tra le reti
esterne al Gsf vengono individuati gli anarchici, gli insurrezionalisti, gli
antimperialisti e i Black bloc.
Benché le associazioni e le anime della protesta italiana siano notevolmente
diversificate, pare sia possibile individuare uno schema interpretativo
comune13 "che ha permesso di creare una coalizione su una serie di
considerazioni condivise, senza costruire però un'identità o una ideologia
unificante che avrebbe allontanato dal movimento molti soggetti, desiderosi di
mantenere la propria identità" (Andretta et al. 2002, 93). Le discriminanti di
tale aggregazione sono state individuate in un documento diffuso dal Genoa
Social Forum che sinteticamente invitava, tra le altre cose, ad attivarsi per la
sensibilizzazione dell'opinione pubblica attorno alle rivendicazioni di ciascuna
delle organizzazioni, rispettando anche modalità e percorsi autonomi, e ad
utilizzare tutte le forme di espressione pacifiche e nonviolente14.
Lo schema interpretativo dominante (40,8% degli intervistati) rimanda a una
concezione della politica più aperta alle istanze che vengono dal basso infatti
converge sull'esigenza di partecipazione democratica e consapevole alle
decisioni che riguardano tutti. Gli altri schemi rilevati sono in ordine di
importanza: l'opposizione alla distribuzione diseguale della ricchezza e la
promozione dei diritti sociali, civili, umani (37,2%); l'ecopacifismo e il sostegno
dei valori etici (29,8%); la reazione contro il neoliberismo (16,2%); forme di
anticapitalismo e di antimperialismo (11,1%) e, da ultimo, un generico spirito
antiglobalizzazione (4,1%).
Benché sia individuabile uno schema interpretativo dominante gli Autori
avvertono che "non ci troviamo di fronte a una vera e propria identità collettiva
pronta a trasformarsi in identità organizzativa, con uno statuto e delle regole
precise: sembra piuttosto affermarsi la pratica di negoziare la mobilitazione su
singole campagne" (Ivi, 102). Resta inoltre significativo che il 54,5% degli
attivisti intervistati abbia partecipato alle manifestazioni genovesi in modo
individuale, non come membro di un'organizzazione anche se il 75%
concepisce il movimento come "un insieme di organizzazioni che condividono
alcuni obiettivi".
Tuttavia viene avanzata l'ipotesi secondo la quale la mancanza di un'identità
collettiva omogenea, da cui deriva una continua negoziazione dei fini, degli
schemi e dei punti di vista tra identità differenti, agisca come un fattore di
forza del movimento incrementando la sua presa sulla società.
3. Individualizzazione e soggettività: due chiavi di lettura per la
partecipazione politica giovanile
Pare ora opportuno presentare brevemente i risultati del recente contributo di
Enrico Caniglia (2002)15 sui processi di costruzione dell'identità politica dei
giovani: benché tale ricerca non riguardi precisamente i movimenti sociali,
risulta appropriato farvi riferimento in questa sede per tre ordini di motivi: in
primo luogo contribuisce a problematizzare ulteriormente la relazione tra
identità politiche individuali e collettive; in secondo luogo propone un'analisi
che, nell'ambito della reazione al determinismo sopra accennato, supera i
dogmi interpretativi del marxismo e dello struttural-funzionalismo; in terzo
luogo da sempre i giovani costituiscono un oggetto di osservazione privilegiato
dell'evoluzione dei rapporti tra politica e società e a sottolineare l'importanza
della componente giovanile stanno proprio i dati raccolti da Andretta e della
Porta che attribuiscono un ruolo di primo piano agli studenti (49,9%) e
comunque agli attivisti con meno di 25 anni (51,3%).
Lo studio propone un'approfondita e accorta riflessione sul processo di
ridefinizione della politica rispetto alla sfera economica e a quella societaria a
seguito dei sensibili mutamenti occorsi alla politica italiana dagli anni Novanta
a oggi. Caniglia individua, nell'ambito di tale ricontestualizzazione della politica,
due dinamiche apparentemente contrastanti.
Da un lato, nota che il clamoroso indebolimento della componente ideologica
dei partiti politici, il progressivo affievolirsi del legame delle associazioni
politiche con il territorio, la professionalizzazione della carriera politica siano il
sintomo della perdita da parte della sfera della politica della sua tradizionale
impostazione espansiva: la politica, pertanto, da logica onnipresente del
sistema sociale, prende le forme piuttosto di un "ben circoscritto sottosistema
procedurale" (Caniglia 2002, 22). Dall'altro lato, rileva una "migrazione" in
corso della politica dagli ambiti istituzionali verso altri spazi fino ad oggi in
nessun modo connessi con la politica: l'"apertura dei confini della politica"
(Beck 1992, trad. it. 2000) comporta un'ascrizione di valenza politica ad
argomenti, problematiche o avvenimenti a prescindere dalla presa di posizione
degli attori politici ufficiali. Ecco dunque che in base a questo fenomeno di
"subpoliticizzazione della politica" molte istanze che precedentemente
restavano nei confini della sfera privata, quali ad esempio gli effetti delle
innovazioni tecnologiche sull'ambiente e sul cittadino, le problematiche
connesse con le differenze culturali, le implicazioni dello sviluppo economico
sull'individuo, si trovano oggi ad avere espressione nella dimensione pubblica
poiché la loro incidenza sul mutamento sociale le rendono politicamente
rilevanti.
Sulla scorta di queste due correnti per nulla contrapposte ma, anzi,
strettamente connesse, Caniglia ripercorre le tappe del mutamento politico
giovanile in Italia dagli anni Sessanta a oggi16 isolandone alcuni caratteri
distintivi. Gli anni Sessanta e in particolare il Sessantotto segnano l'avvio di
quel processo di sganciamento dalla concezione verticistica tipica della politica
di massa: benché all'interno della protesta permanga un senso di
appartenenza ideologica comune e di matrice tradizionale risulta evidente
come tale identificazione si allontani dai referenti partitici consueti assumendo
le forme del movimento sociale e della contestazione spontanea17. Gli anni
Settanta esprimono la cesura tra i giovani e i costrutti ideologici classici –
fenomeno che richiama il declino delle grandi "metanarrazioni" secondo
Lyotard (1979, trad. it. 1981) – spostando il caratteristico antagonismo
giovanile dall'ambito della politica a quello culturale. La proliferazione, in
questo decennio, di movimenti, gruppi controculturali e autogestioni di questi
anni non consente di rintracciare forme di consenso collettivo circa definiti
sistemi di valori e ideali sancendo la collocazione a livello subsistemico dei
processi di interazione tra le dinamiche connesse alla costruzione dell'identità e
le azioni collettive. Gli anni Ottanta vedono consolidarsi la rilevanza della
soggettività nella formazione dell'identità politica individuale. Le forme
tradizionali di coinvolgimento collettivo vengono abbandonate per abdicare in
favore di nuove espressioni di partecipazione che, in virtù della loro
caratteristica trasversalità, consentono la convivenza di gruppi e individui con
identità e motivazioni differenti: tali inediti modelli di solidarietà collettiva si
costituiscono attorno a temi e questioni necessariamente generali – quali la
pace, l'ambiente e la qualità della vita –, le uniche attorno alle quali possano
confluire opinioni comuni. A partire dagli anni Novanta riemerge, infine, un
rinnovato antagonismo su di un piano prettamente politico che si esprime nella
tendenza a prediligere momenti puntuali e circoscritti di mobilitazione
collettiva, come dimostrano le recenti manifestazioni contro la globalizzazione
neoliberista.
La sostanza della dinamica qui riportata è superare le concezioni dominanti sul
rapporto odierno tra giovani e politica che lamentano, da un lato, una sorta di
"ritiro generazionale" dalla sfera politica18, dall'altro un coinvolgimento
declinato in chiave sociale piuttosto che sui tradizionali canali della
partecipazione conducendo alcuni a definire i giovani come una "generazione
invisibile" (Diamanti 1999).
Sulla scorta dei contributi di Ulrich Beck, Peter Berger, Anthony Giddens e
Alberto Melucci, che focalizzano nel concetto di "individualizzazione" – con la
duplice accezione di processo sociale e di condizione esistenziale fondamentale
– una feconda chiave interpretativa del mutamento sociale contemporaneo,
Caniglia osserva, da una parte, come l'impegno politico si presenti spesso
slegato dall'appartenenza a una qualche organizzazione politica, dall'altra,
come l'attenzione giovanile si sposti dal contenuto ideologico alle pratiche
quotidiane.
La formazione dell'identità politica procede, pertanto, "attraverso un percorso
di sviluppo di convinzioni personali piuttosto che di interiorizzazione di
appartenenze collettive ereditate" (Caniglia 2002, 226) mentre l'impegno
politico – nei gruppi, nelle associazioni e nei partiti – viene a fondarsi su
relazioni sociali primarie – come l'amicizia – piuttosto che su progetti
strutturati.
Tra i risultati delle interviste svolte da Caniglia, pare particolarmente rilevante
l'emergere di una sorta di incertezza e transitorietà nella scelta dell'identità
politica: tra i possibili esiti individuati vi sono la reversibilità delle adesioni
politiche, la preferenza per un impegno politico parziale o puntuale, la
formazione di multiappartenenze. Tale tendenza sembra orientare verso la
separazione tra identità e identificazione: "l'identità non è più il frutto di un
processo di identificazione in un'appartenenza collettiva di natura politica,
sociale, etnica o religiosa, bensì acquista una netta autonomia rispetto alle
categorie collettive e assume una base essenzialmente individuale" (Ivi, 220).
4. Osservazioni conclusive
Conclusivamente pare proficuo ricondurre i risultati delle tre impostazioni sopra
presentate – quella teorica di Ceri, quella empirica di Andretta e colleghi,
quella teorico-empirica di Caniglia – all'interno di un percorso costituito da
tematiche che stanno sviluppando floridissimi dibattiti nella comunità
scientifica.
Tale percorso prende le mosse dal significativo passaggio, sul piano teoretico,
da un atteggiamento di certezza della visione del mondo che attribuisce alla
realtà un'unica definizione – struttural-funzionalismo, marxismo –, a uno di
incertezza che individua molteplici definizioni della realtà – la così detta "svolta
linguistica" (Goffman, Habermas, Bauman). Tale rovesciamento di direzione
conduce, sul piano teorico, ad attribuire un ruolo centrale alla dimensione della
soggettività come conseguenza della crisi delle istituzionali forme di sociazione
ovvero del tradizionale rapporto gerarchico e cogente tra identità collettiva e
identità individuale19. L'individualizzazione dei percorsi di vita, la costruzione
dell'identità individuale nell'ottica di ricerca di autenticità (Taylor 1994, trad. it.
1999) e l'affermarsi delle appartenenze identitarie multiple sembrano ridefinire
la relazione tra identità collettiva e identità individuale in termini di maggiore
preponderanza della seconda: a dimostrazione di ciò, per esempio, si pongono
le riflessioni convergenti dei tre studi sopra citati circa la creazione di un
consenso di massima attorno a istanze generali e non a nuovi e determinati
sistemi di valore condivisi. Ancora: si rilevano sostanzialmente "identitàresistenza" (Castells 1997) in ragione di un rinnovato antagonismo che si
manifesta, in questo caso, contro la globalizzazione neoliberista e,
implicitamente, contro le forme tradizionali di coinvolgimento politico.
Da queste "identità-resistenza" a ipotetiche "identità-progetto" che
ricostituiscano l'originario e, da un punto di vista logico-strutturale, più stabile
rapporto tra identità collettiva e individuale il passo sembra, finora, solamente
supposto. Tale passaggio potrebbe, tuttavia, rappresentare l'esito dialettico
della contrapposizione tra lo sganciamento del soggetto dalle consuete
categorie di riferimento – che implica, da parte dell'individuo, un ripiegamento
su se stesso piuttosto che un'apertura all'esterno – e una ipotizzabile, anche se
per ora non matura, fondazione di nuovi sistemi valoriali intersoggettivi.
Porre a conclusione di tale percorso la formazione di una nuova società civile e
di una nuova cultura politica che comportino una svolta risolutiva al deficit
politico attribuito allo Stato-nazione20 (Held 1995, trad. it. 1999) pare, oggi,
decisamente troppo ottimistico, per un verso, e troppo semplicistico, per
l'altro. Tuttavia è quanto mai essenziale, da questo punto di vista, l'attenzione
di alcuni sociologi alla costruzione di nuove forme di spazio pubblico21.
Note
1.
La disomogeneità cui si è fatto cenno è rilevabile sia tra le teorie ricondotte a un
unico filone sia tra gli orientamenti, mutevoli nel tempo, di singoli ricercatori.
2.
A parziale eccezione si veda la ricerca, di matrice storiografica, condotta da Tilly
(1978) sui repertori e registri d'azione dei movimenti sociali.
3.
Su questo tema Giugni (2002) propone un'efficace sintesi delle dimensioni della
struttura delle opportunità politiche in letteratura.
4.
Agli occhi di Alberto Melucci, uno dei maggiori studiosi dei movimenti sociali, le
chiavi interpretative finora esposte propongono o un'azione senza attore o un attore senza
azione (Melucci 1987).
5.
Come nota Neveu (1996, trad. it. 2001, 89) “il concetto di "nuovi movimenti sociali"
trae spunto da due fenomeni intrecciati. È una designazione utilizzata per identificare forme
e tipi originali di mobilitazione degli anni sessanta e settanta, ma diventa anche teoria e
sollecita tutta una serie di contributi che guardano alle singolarità di queste mobilitazioni per
cercare di rinnovare l'analisi dei movimenti sociali, la riflessione sull'avvento della società
postindustriale”. Il lavoro sociologico sui nuovi movimenti sociali si sviluppa in Europa
attraverso le molteplici inchieste del gruppo di Touraine, le analisi di Melucci in Italia, di
Offe in Germania, delle ricerche coordinate da Kriesi in Svizzera, di Klandermans e
Koopmans in Olanda.
6.
Vi sono tuttavia dei tentativi in letteratura di integrare i due approcci avviati da
Kitschelt (1985) e da Klandermans e Tarrow (1988).
7.
Uno degli interrogativi ricorrenti del dibattito circa questa impostazione riguarda
proprio la novità dei movimenti: che cosa è “nuovo” dei “nuovi movimenti sociali”? Alberto
Melucci, tra gli autori che hanno introdotto per primi tale accezione nella letteratura
sociologica, lamenta la progressiva ontologizzazione di questa espressione (Melucci 1987,
56-60). Tuttavia, ricordando la funzione temporanea e relativa del concetto di “novità” –
strumentale per mettere l'accento su classi differenti di fenomeni – Melucci sottolinea l'esito
positivo e inconsapevole del dibattito: tale discussione, animata da chi sostiene che molti
degli aspetti che caratterizzano le forme contemporanee di azione possono essere ritrovati in
epoche storiche precedenti, finisce per interrogarsi su cosa è nuovo e su cosa non lo è
aprendo la strada al “riconoscimento della pluralità di significati e di forme d'azione presenti
in un fenomeno collettivo concreto” (Ivi, 39).
8.
Per orientarsi efficacemente nel variegato panorama delle teorie sulla globalizzazione
si veda Clark (1997, trad. it. 2001, 9-62).
9.
Per la cronaca e la rassegna stampa puntuali e documentate degli avvenimenti e dei
dibattiti durante il G8 di Genova si veda G.B. Cassulo, La gabbia, Genova, DPS Edizioni,
2001.
10. La ricerca è molto ampia e raccoglie una grande quantità di dati: in questa sede
verranno riproposte alcune delle informazioni raccolte sulle associazioni italiane e, in
particolare, sugli attori individuali che hanno partecipato alla protesta.
11. Per un inquadramento delle componenti non italiane del movimento di protesta no
global si veda Aguiton (2001, 65-150).
12. Una delle campagne di maggiore evidenza organizzate dalla rete Lilliput è stata quella
per la cancellazione del debito estero dei paesi poveri.
13. Per approfondire la problematica della connessione fra schemi interpretativi (frame
bridging) si vedano Snow e Benford (1988) e Gamson e Modigliani (1989).
14. Sul tema delle relazioni (networks) che legano le differenti organizzazioni e gli
attivisti non solo in occasione delle mobilitazioni si rimanda a Diani e McAdam (2003).
15. Benché Caniglia abbia interessi teorici differenti rispetto ai contributi di Ceri e di
Andretta-della Porta, la sua ricerca pone in analisi il tradizionale ambito di proliferazione dei
movimenti sociali: l'università – si vedano in proposito le ricerche classiche di Habermas
(1968) e di Touraine (1969). Utilizzando una metodologia qualitativa incentrata sul modello
dell'intervista-racconto – sulla scorta di uno stimolo metodologico proposto da Donatella
della Porta (1987) – vengono proposti i percorsi biografici e di formazione dell'identità
politica individuale di un gruppo di giovani impegnati in forme partecipative diverse.
L'ipotesi guida della ricerca è la supposta centralità del concetto di identità – con le
accezioni e trasformazioni messe in luce da Caniglia – nella relazione tra giovani e politica.
16. Per orientarsi fra gli studi sulla partecipazione politica giovanile si veda, a pagina 25
del volume di Caniglia, la nota 2.
17. È la prima manifestazione dell'affermarsi di quella che Anthony Giddens (1994, trad.
it. 1997) chiama emancipatory politics.
18. Si vedano in proposito le ricerche IARD sui giovani degli ultimi anni.
19. Pionieristici e anticipatori di molte delle teorizzazioni sul tema le ricerche coordinate
da Zoll (1989) sull'orientamento nei confronti del lavoro.
20. Sul tema della relazione tra movimenti sociali e democrazia cosmopolitica – tanto
stimolante quanto poco sviluppato – si vedano le interessanti riflessioni conclusive di un
recente contributo di Fabio de Nardis (2003).
21. Si vedano, a questo proposito, gli studi pionieristici di Anna Carola Freschi (2003)
sulla partecipazione individuale e collettiva all'interno delle “comunità virtuali”.
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