La rilevanza dell'attore nello studio dei movi m e nti sociali. Recenti sviluppi teorici ed empirici di Andrea Pirni 1. Introduzione Il tessuto sociale dell'epoca che stiamo attraversando presenta una costante e fluida rielaborazione delle proprie coordinate: tale dinamica ha necessitato e necessita, nelle discipline socio-politologiche, un lavoro di rivisitazione degli strumenti innanzitutto concettuali delle consolidate tradizioni di ricerca. Nell'ambito degli studi sul mutamento sociale, l'azione collettiva, nelle sue molteplici declinazioni, rappresenta l'espressione più diretta delle trasformazioni strutturali e valoriali della società. La recente letteratura concede particolare attenzione ai movimenti sociali attribuendo a tale espressione dell'azione collettiva i segnali più vitali dell'effervescenza sociale in atto. L'interesse per tali forme di comportamento collettivo risale alle riflessioni dei classici che, benché concordassero nell'associare i movimenti collettivi all'idea di mutamento e di tensione sociale, ne proponevano due differenti immagini (Pasquino 1990): da un lato vi era chi considerava il fenomeno come una manifestazione di irrazionalità e come una pericolosa rottura con l'ordine esistente (Le Bon, Tarde e Ortega y Gasset), dall'altro chi li riteneva un importante tipo di azione sociale e li inseriva con differenti ruoli e finalità nel proprio costrutto teorico (Marx, Durkheim e Weber). La proliferazione delle elaborazioni teoriche e delle ricerche empiriche sul tema offre tuttavia un mare magnum a tal punto gremito di correnti da rendere per nulla agevole la traccia di una rotta di navigazione. Ciò nonostante, in letteratura, sono rintracciabili almeno tre finalità analitiche differenti in base alle quali è possibile orientarsi (Pizzorno 1993). In primo luogo vi sono le ricerche animate da un interesse empirico specifico: tali studi considerano i movimenti come fenomeni a sé e ne osservano le forme, le risorse, gli incentivi e l'evoluzione. In secondo luogo vi sono le analisi macrosociologiche, che, con finalità storico-comparative, tentano di stabilire le forme di azione collettiva che caratterizzano determinati periodi storici. Da ultimo vi sono le indagini di matrice microsociologica che, con obiettivi teorici generali, si propongono di studiare i movimenti sociali per interpretare con maggior accuratezza l'azione sociale dell'individuo. Tali distinzioni sono rilevabili solo su un piano analitico, ed è evidente che i tre intenti possano intrecciarsi, in misura differente, in una stessa teoria: in questa sede si tenterà di utilizzare una bussola orientata all'attore cercando di isolare l'interesse analitico rivolto alla mobilitazione dell'individuo. Verrà, dunque, proposta una breve – e pertanto incompleta e solo orientativa – rassegna dei paradigmi teorici tradizionali: la classificazione qui utilizzata presenta un accettabile grado di accordo nella comunità scientifica ma fa necessariamente i conti con una certa disomogeneità interna1 (della Porta, Diani 1997). Dopo la suddivisione degli approcci verranno presentate le coordinate principali di due studi tra i più recenti e significativi sui movimenti sociali: da un lato l'analisi teorica di Paolo Ceri (2002) sulla natura e l'evoluzione del movimento globale, dall'altro l'indagine empirica del team di ricerca coordinato da Massimiliano Andretta e Donatella della Porta (2002) su valori, identità e strategie d'azione del movimento italiano contro la globalizzazione neoliberista. Al fine di problematizzare la mobilitazione delle nuove generazioni che, come si vedrà, risulteranno essere una componente significativa delle recenti forme di protesta, verrà proposta l'analisi di Enrico Caniglia (2002) sui processi di costruzione dell'identità. Conclusivamente verranno ricondotti i risultati dei tre studi in un più ampio percorso di centralizzazione del ruolo della soggettività accennando alcune riflessioni sulle implicazioni della partecipazione politica non convenzionale in riferimento al dibattito sul deficit politico della democrazia e sulla costruzione di nuove forme di spazio pubblico. 2. Lo studio dei movimenti sociali: coordinate per una rassegna Fino agli anni Sessanta il modello marxista e il modello struttural-funzionalista fornirono le chiavi di lettura per interpretare i conflitti sociali. Da un lato, l'impostazione marxista, facendo risalire l'identità politica ai soli condizionamenti socio-economici connessi alla stratificazione sociale, riduceva le tensioni sociali al conflitto di classe tra borghesi e proletari; dall'altro, l'approccio parsonsiano si apriva a spiegazioni di tipo culturalista sostenendo l'importanza di ulteriori appartenenze ascrittive quali, ad esempio, il genere, l'etnia e differenti tradizioni culturali. A mettere in discussione la capacità esplicativa dei due consolidati approcci fu il ciclo di protesta sviluppatosi tra gli anni Sessanta e Settanta: dal 1968 "magistrati, medici e insegnanti assunsero iniziative al di fuori delle tradizionali associazioni di categoria, mettendo in discussione i criteri, i valori e le pratiche professionali tradizionali. Furono investiti settori di opinione ben più ampi dei soggetti direttamente mobilitati, sollecitando una politicizzazione diffusa e un ripensamento dei rapporti tra sfera privata e pubblica" (Biorcio 2003, 81). Naturalmente il riemergere sensibile del movimentismo non si verificò solamente in Italia ma si inserì in un più ampio contesto di mobilitazione e protesta che pervase le società avanzate tra gli anni Sessanta e Settanta. Negli Stati Uniti le mobilitazioni si strutturarono in pragmatici gruppi di interesse o in organizzazioni spiccatamente antisistema, spesso con caratteri di fanatismo religioso. In Europa i movimenti, benché presentassero caratteristiche nuove rispetto al passato, conservarono gli elevati livelli di ideologizzazione e i tratti marcatamente antisistema dei maggiori movimenti operai (della Porta – Diani 1997). La reazione all'eccessivo determinismo condusse i membri della comunità scientifica a dar vita a due nuovi paradigmi (Klandermans, Tarrow 1988) che trovarono terreno fertile rispettivamente in ambito americano ed europeo. Negli Stati Uniti, tuttavia, le radici della teoria del collective behavior, che considerava i movimenti collettivi come risposte irrazionali di settori della società particolarmente deprivati, diedero un ultimo colpo di coda con lo schema elaborato da Smelser: in tale schema il movimento collettivo viene posto al primo stadio di mutamento sociale "prima che i mezzi sociali siano stati mobilitati per un attacco specifico e possibilmente efficace alle fonti di tensione" (Smelser 1962, trad. it. 1968). L'insorgenza e la diffusione di una credenza generalizzata assumono particolare rilevanza nella teoria di Smelser – e tra i suoi successori (Turner, Killian 1987) – ma, in sostanza, tale teoria non prevede un'analisi dei contenuti del conflitto tra movimento e sistema. A questo proposito Melucci (1982, 16-17) nota come questo approccio trasferisca la contiguità nello spazio e nel tempo di comportamenti individuali dal piano fenomenologico a quello concettuale facendo assumere alla realtà collettiva un'esistenza ontologica: viene dunque ascritta alla dimensione collettiva una datità e un'evidenza ovvia che non trova ulteriore problematizzazione. Pizzorno (1993) individua due tentativi che si propongono di uscire dall'assunto dell'agire collettivo come dato empirico: la teoria della privazione relativa (Crawford e Naditch 1970; Gurr 1970) e la teoria della mobilitazione delle risorse (McCarthy e Zald 1977; Oberschall 1973). La prima pone a fondamento dei movimenti sociali la presenza di malcontento e, quindi, di rivendicazioni diffuse in una parte della popolazione. "Assume, inoltre, che tale stato di disturbo dell'ordine sociale si trasforma in movimento se credenze o ideologie gli danno espressione e termini condivisibili" (Pizzorno 1993, 135). Questa teoria è orientata a cogliere la formazione della base potenziale dei movimenti – ovvero la domanda latente – ma non riesce a superare il paradosso di Olson (1965, trad. it. 1983) circa il free rider e pertanto non spiega l'impegno degli attori individuali. La resource mobilization theory, invece, si fonda sulla teoria della scelta razionale e si concentra sull'offerta di possibilità di azione collettiva (le organizzazioni e i leader potenziali): dando per scontato che situazioni di scontento sociale siano sempre presenti, focalizza l'analisi sull'infrastruttura organizzativa dei movimenti e sui processi attraverso i quali le tensioni strutturali (grievances) conducono verso azioni collettive manifeste. In questa ottica, pertanto, la formazione di movimenti sociali sarebbe strettamente legata alle risorse disponibili nel sistema: se migliorano le risorse, i costi della mobilitazione diminuiscono e il conseguente incremento della partecipazione aumenta la probabilità di successo del movimento. Benché la teoria della mobilitazione delle risorse abbia favorito la produzione di ambiziose costruzioni teoriche, mancano sistematiche verifiche sul terreno empirico2 (Neveu 1996, trad. it. 2001); inoltre – forse la lacuna più grave – tale approccio non propone un'analisi dei contenuti della mobilitazione (Melucci 1982). Da ultimo, nella sociologia americana, si è sviluppata una ulteriore corrente – a partire da quella precedente – che accentua l'attenzione rivolta verso l'ambiente politico in cui i movimenti operano3 (Tilly 1978; Tarrow 1990; Kriesi et al. 1995): tale approccio ponendo in considerazione le interazioni tra attori e forme d'azione tradizionali e non convenzionali ha aperto un fecondo ambiente di ricerca anche se riduce esclusivamente al politico l'azione dei recenti movimenti omettendone l'innovazione culturale (Melucci 1987)4. In Europa dopo che venne messa in discussione la centralità del rapporto tra capitale e lavoro nell'ambito del conflitto sociale (Touraine 1978) si sviluppa un approccio che individua nei movimenti ambientalisti, pacifisti e femministi degli anni Sessanta e Settanta caratteri "nuovi" rispetto ai precedenti circa la sfera valoriale, le forme di partecipazione e l'organizzazione interna e orienta l'indagine sulle trasformazioni strutturali delle società industriali occidentali5. Per quanto riguarda le forme di organizzazione e i repertori d'azione, i nuovi movimenti sociali sono espressamente ostili alla centralizzazione e alla delega dell'autorità a stati maggiori lontani; la loro struttura organizzativa è esile e conferisce vasta autonomia alle componenti di base. Si schierano per un'unica questione per volta, da qui il nome single-issue organization. Rispetto ai convincimenti per i quali si attiva la mobilitazione, deve essere notato che i nuovi movimenti sono portatori di rivendicazioni impostate sui valori postmaterialisti quali, ad esempio, la salvaguardia dell'ambiente e la garanzia dei diritti delle minoranze. Nel tentativo di costruire forme di sociabilità completamente indipendenti dallo Stato i nuovi movimenti sociali si differenziano dai loro predecessori anche in merito alla relazione con la sfera politica. Mentre i "vecchi" movimenti agivano spesso in stretto rapporto con i partiti le nuove conformazioni se ne allontanano perentoriamente. Da ultimo, un ulteriore carattere distintivo di questi movimenti è legato all'identità degli attori che li costituiscono: le nuove forme di mobilitazione non si autodefiniscono più come espressione di classi o di categorie socioprofessionali in quanto non si costituiscono più in relazione a conformità di status socio-economici ma a seguito di condivisione di specifici ideali. La teoria dei nuovi movimenti sociali è stata oggetto della critica speculare a quella rivolta alla teoria della mobilitazione delle risorse: se questa ultima si occupa esclusivamente del "come" dell'azione collettiva la prima pone attenzione solo al "perché" di tale azione cioè del passaggio dal conflitto all'azione sociale6. Una ulteriore critica all'approccio dei nuovi movimenti sociali riguarda la generalizzazione alla globalità dei fenomeni di azione collettiva degli elementi innovativi riscontrati in alcuni movimenti (Tarrow 1994; della Porta 1996)7. 3. La sociologia italiana e i recenti contributi sul movimento no-global In Italia la ricerca più recente sulle forme di partecipazione politica, ha prodotto due studi di matrice differente ma senz'altro significativi sulle manifestazioni durante i controvertici: in questa sede ci si propone di presentare brevemente le riflessioni degli Autori circa i protagonisti di tali forme di partecipazione. Il primo contributo – "Movimenti globali" di Paolo Ceri – propone un'analisi teorica che si sviluppa attorno a tre temi principali: la natura del movimento ovvero da chi è formato e quali sono le richieste; le cause dell'intensificazione della protesta attuale; l'evoluzione e il possibile sviluppo futuro del movimento. La prima tematica, qui di particolare interesse, si articola a partire da una domanda di fondo: cosa può accomunare un così variegato insieme di associazioni e di interessi quali quelli ambientalisti e sindacalisti, gruppi religiosi e difensori dei diritti dei consumatori, anarchici e pacifisti? (Ceri 2002, 13). Una prima somiglianza tra le diverse componenti del movimento è l'utilizzo di internet per l'organizzazione della protesta. Benché certamente la pianificazione attraverso la rete risulti di particolare evidenza e indubbiamente significativa, si nota un comune denominatore decisamente più rilevante che avvicina la vasta gamma di rivendicazioni: la considerazione della globalizzazione alla luce delle sue implicazioni sulla relazione tra l'economia e gli altri sistemi (l'ambiente, la società, la cultura). Per mettere ordine nella complessa relazione tra i movimenti e i fenomeni connessi alla globalizzazione Ceri adotta una distinzione analitica che individua due processi differenti, anche se continuamente correlati, presenti all'interno della globalizzazione. Nel primo – definito globalizzazione verticale – "i rapporti di scambio e di autorità tra i diversi sottosistemi, iscritti in uno dei sistemi funzionali (economia, politica, cultura) di una società nazionale, diventano tendenzialmente meno forti di quelli che intercorrono tra ciascuno di essi e sottosistemi, sistemi o sovrasistemi esterni, con l'effetto di provocare un processo di denazionalizzazione e di perdita dell'autonomia dello Stato" (Ivi, 18). Un esempio di tale processo è l'aumento dell'influenza dei soggetti internazionali corporati (multinazionali, banche centrali, Fondo monetario internazionale) rispetto al passato sulla presa di decisioni all'interno di un settore (ad esempio la televisione o il cinema, il fisco, la difesa o il settore tessile). Nel secondo processo – chiamato globalizzazione orizzontale – "diventano sempre vieppiù generalizzate le interdipendenze tra i molteplici sistemi e sfere di attività: la produzione, il consumo, la salute, l'ambiente, la finanza, lo sviluppo tecnologico, i diritti umani ..." (Ibid.). Ad esempio le conseguenze sulla salute e sull'ambiente di determinate scelte tecnologiche. Tale intreccio tra le due "anime della globalizzazione comporterebbe una sostanziale trasformazione sia dello status dei soggetti politici tradizionali (Stati, governi, partiti), sempre più deboli, sia dei modi di vita dei cittadini, sempre più flessibili e nomadi (Ivi, 19)". Ceri, avvertendo della compresenza di entrambe le tendenze, considera l'attuale processo di globalizzazione come maggiormente connotato dalla dimensione orizzontale in quanto oltre a presentarsi effetti locali di decisioni globali (dimensione verticale) – caratteristica di quella che alcuni economisti definiscono prima globalizzazione8 – da qualche tempo a questa parte iniziano ad essere rilevati effetti globali di decisioni locali – come ad esempio in campo ambientale. La distinzione proposta tra globalizzazione verticale e globalizzazione orizzontale è strumentale per presentare una tipologia di partecipanti al movimento – dall'Autore definito globale – costruita in base agli schemi interpretativi della globalizzazione. Vengono così individuati quattro gruppi di attori di cui i primi due sono tipi "puri" mentre i secondi hanno caratteristiche ibride. Il primo è formato dalle associazioni che sostengono istanze relative esclusivamente o prevalentemente agli effetti attuali o potenziali della globalizzazione verticale opponendosi, ad esempio, alla flessibilità del lavoro, alla mobilità dei fattori di produzione e al consumo dei prodotti esteri; il secondo, contrastando l'omologazione culturale in difesa delle identità etniche o culturali e sostenendo la salvaguardia dell'ambiente contro le implicazioni esiziali delle logiche di mercato sulla natura, considera gli effetti della globalizzazione orizzontale. Il terzo raccoglie le associazioni che avanzano rivendicazioni relative alle conseguenze della globalizzazione orizzontale, ma che lo fanno interpretandole e subordinandole ideologicamente alla lotta alla globalizzazione verticale: questo gruppo riconduce gli effetti della globalizzazione a meccanismi di dominio e sfruttamento opponendo i diritti umani e gli equilibri naturali allo sfruttamento. Il quarto è costituito da attori collettivi che, pur sostenendo istanze relative agli effetti della globalizzazione verticale, le riferiscono a un orizzonte di lotta definito rispetto alla globalizzazione orizzontale: tali associazioni fanno risalire gli effetti della globalizzazione a meccanismi di manipolazione e misconoscimento delle identità e della varietà opponendo la difesa dei consumatori alla manipolazione dei bisogni, i diritti umani all'oppressione, alla privazione della dignità e al controllo della privacy, la difesa della varietà all'omologazione di mercato. Lo schema verticale percepisce la globalizzazione come un insieme di effetti diretti e voluti di decisioni prese a un livello superiore da poteri considerati al centro dell'economia mondiale: chi vi reagisce propone un potere dal basso integrato o meno da organismi sovranazionali. Lo schema orizzontale favorisce invece una visione dell'azione come dissenso, basata sull'appello alla trasparenza e alla responsabilità. In questo caso la globalizzazione è intesa come insieme di effetti indiretti, a volte non voluti, delle azioni compiute da poteri considerati come esterni: chi vi si oppone propone di contenere la tendenza del capitalismo a espandere la sua influenza al di fuori dell'ambito economico. In sostanza ad aggregare è la comune reazione alla globalizzazione neoliberista, a unire sono la produzione e la condivisione di nuovi valori quali l'autonomia, l'autorealizzazione, la creatività e la spontaneità che nei termini di Touraine esprimono l'istanza di ricomporre la frattura tra razionalità e sentimento e tra ruolo e soggetto. Spostandosi su un piano più marcatamente empirico pare di sicuro interesse la ricerca condotta dal team coordinato da Massimiliano Andretta e Donatella della Porta (2002): attraverso la somministrazione di circa 800 questionari ai manifestanti in occasione del G8 di Genova (19-21 luglio 2001)9, un'analisi sistematica del contenuto dei siti web delle associazioni partecipanti alla protesta, la ricerca delle strategie di risposta istituzionale alla manifestazione attraverso gli atti parlamentari relativi alla commissione d'indagine sugli eventi del G8 e sulla rassegna stampa di alcuni quotidiani nazionali. Il volume si articola su quattro filoni tematici che ricordano i diversi approcci allo studio dei movimenti sociali quali: l'organizzazione del movimento, gli attori, le strategie d'azione con le forze dell'ordine, le interazioni degli "sfidanti" con l'establishment ovvero il sistema delle opportunità politiche10. Il gruppo di ricerca mette ordine nella galassia della protesta individuando tre anime principali all'interno del Genoa Social Forum11. La prima, cui corrisponde ad Attac, si propone di modificare le dinamiche del sistema economico vigente, ad esempio attraverso l'attivazione della Tobin tax: attorno ad Attac tende ad aggregarsi un'area ampia di associazionismo tradizionalmente vicino alla sinistra. La seconda, la Rete Lilliput, si oppone agli squilibri prodotti dalla 12 ed è costituita da decine di nodi locali tra cui si possono individuare almeno due componenti piuttosto omogenee: quella ambientalista (sezione italiana del WWF) e quella cattolica (Mani Tese Pax Christi e Radiè Resch). La terza area, infine, è quella dei centri sociali: caratterizzata da notevoli differenze per riferimenti culturali, obiettivi e forme d'azione si presenta come la più eterogenea, con un coordinamento interno estremamente basso. Tra le reti esterne al Gsf vengono individuati gli anarchici, gli insurrezionalisti, gli antimperialisti e i Black bloc. Benché le associazioni e le anime della protesta italiana siano notevolmente diversificate, pare sia possibile individuare uno schema interpretativo comune13 "che ha permesso di creare una coalizione su una serie di considerazioni condivise, senza costruire però un'identità o una ideologia unificante che avrebbe allontanato dal movimento molti soggetti, desiderosi di mantenere la propria identità" (Andretta et al. 2002, 93). Le discriminanti di tale aggregazione sono state individuate in un documento diffuso dal Genoa Social Forum che sinteticamente invitava, tra le altre cose, ad attivarsi per la sensibilizzazione dell'opinione pubblica attorno alle rivendicazioni di ciascuna delle organizzazioni, rispettando anche modalità e percorsi autonomi, e ad utilizzare tutte le forme di espressione pacifiche e nonviolente14. Lo schema interpretativo dominante (40,8% degli intervistati) rimanda a una concezione della politica più aperta alle istanze che vengono dal basso infatti converge sull'esigenza di partecipazione democratica e consapevole alle decisioni che riguardano tutti. Gli altri schemi rilevati sono in ordine di importanza: l'opposizione alla distribuzione diseguale della ricchezza e la promozione dei diritti sociali, civili, umani (37,2%); l'ecopacifismo e il sostegno dei valori etici (29,8%); la reazione contro il neoliberismo (16,2%); forme di anticapitalismo e di antimperialismo (11,1%) e, da ultimo, un generico spirito antiglobalizzazione (4,1%). Benché sia individuabile uno schema interpretativo dominante gli Autori avvertono che "non ci troviamo di fronte a una vera e propria identità collettiva pronta a trasformarsi in identità organizzativa, con uno statuto e delle regole precise: sembra piuttosto affermarsi la pratica di negoziare la mobilitazione su singole campagne" (Ivi, 102). Resta inoltre significativo che il 54,5% degli attivisti intervistati abbia partecipato alle manifestazioni genovesi in modo individuale, non come membro di un'organizzazione anche se il 75% concepisce il movimento come "un insieme di organizzazioni che condividono alcuni obiettivi". Tuttavia viene avanzata l'ipotesi secondo la quale la mancanza di un'identità collettiva omogenea, da cui deriva una continua negoziazione dei fini, degli schemi e dei punti di vista tra identità differenti, agisca come un fattore di forza del movimento incrementando la sua presa sulla società. 3. Individualizzazione e soggettività: due chiavi di lettura per la partecipazione politica giovanile Pare ora opportuno presentare brevemente i risultati del recente contributo di Enrico Caniglia (2002)15 sui processi di costruzione dell'identità politica dei giovani: benché tale ricerca non riguardi precisamente i movimenti sociali, risulta appropriato farvi riferimento in questa sede per tre ordini di motivi: in primo luogo contribuisce a problematizzare ulteriormente la relazione tra identità politiche individuali e collettive; in secondo luogo propone un'analisi che, nell'ambito della reazione al determinismo sopra accennato, supera i dogmi interpretativi del marxismo e dello struttural-funzionalismo; in terzo luogo da sempre i giovani costituiscono un oggetto di osservazione privilegiato dell'evoluzione dei rapporti tra politica e società e a sottolineare l'importanza della componente giovanile stanno proprio i dati raccolti da Andretta e della Porta che attribuiscono un ruolo di primo piano agli studenti (49,9%) e comunque agli attivisti con meno di 25 anni (51,3%). Lo studio propone un'approfondita e accorta riflessione sul processo di ridefinizione della politica rispetto alla sfera economica e a quella societaria a seguito dei sensibili mutamenti occorsi alla politica italiana dagli anni Novanta a oggi. Caniglia individua, nell'ambito di tale ricontestualizzazione della politica, due dinamiche apparentemente contrastanti. Da un lato, nota che il clamoroso indebolimento della componente ideologica dei partiti politici, il progressivo affievolirsi del legame delle associazioni politiche con il territorio, la professionalizzazione della carriera politica siano il sintomo della perdita da parte della sfera della politica della sua tradizionale impostazione espansiva: la politica, pertanto, da logica onnipresente del sistema sociale, prende le forme piuttosto di un "ben circoscritto sottosistema procedurale" (Caniglia 2002, 22). Dall'altro lato, rileva una "migrazione" in corso della politica dagli ambiti istituzionali verso altri spazi fino ad oggi in nessun modo connessi con la politica: l'"apertura dei confini della politica" (Beck 1992, trad. it. 2000) comporta un'ascrizione di valenza politica ad argomenti, problematiche o avvenimenti a prescindere dalla presa di posizione degli attori politici ufficiali. Ecco dunque che in base a questo fenomeno di "subpoliticizzazione della politica" molte istanze che precedentemente restavano nei confini della sfera privata, quali ad esempio gli effetti delle innovazioni tecnologiche sull'ambiente e sul cittadino, le problematiche connesse con le differenze culturali, le implicazioni dello sviluppo economico sull'individuo, si trovano oggi ad avere espressione nella dimensione pubblica poiché la loro incidenza sul mutamento sociale le rendono politicamente rilevanti. Sulla scorta di queste due correnti per nulla contrapposte ma, anzi, strettamente connesse, Caniglia ripercorre le tappe del mutamento politico giovanile in Italia dagli anni Sessanta a oggi16 isolandone alcuni caratteri distintivi. Gli anni Sessanta e in particolare il Sessantotto segnano l'avvio di quel processo di sganciamento dalla concezione verticistica tipica della politica di massa: benché all'interno della protesta permanga un senso di appartenenza ideologica comune e di matrice tradizionale risulta evidente come tale identificazione si allontani dai referenti partitici consueti assumendo le forme del movimento sociale e della contestazione spontanea17. Gli anni Settanta esprimono la cesura tra i giovani e i costrutti ideologici classici – fenomeno che richiama il declino delle grandi "metanarrazioni" secondo Lyotard (1979, trad. it. 1981) – spostando il caratteristico antagonismo giovanile dall'ambito della politica a quello culturale. La proliferazione, in questo decennio, di movimenti, gruppi controculturali e autogestioni di questi anni non consente di rintracciare forme di consenso collettivo circa definiti sistemi di valori e ideali sancendo la collocazione a livello subsistemico dei processi di interazione tra le dinamiche connesse alla costruzione dell'identità e le azioni collettive. Gli anni Ottanta vedono consolidarsi la rilevanza della soggettività nella formazione dell'identità politica individuale. Le forme tradizionali di coinvolgimento collettivo vengono abbandonate per abdicare in favore di nuove espressioni di partecipazione che, in virtù della loro caratteristica trasversalità, consentono la convivenza di gruppi e individui con identità e motivazioni differenti: tali inediti modelli di solidarietà collettiva si costituiscono attorno a temi e questioni necessariamente generali – quali la pace, l'ambiente e la qualità della vita –, le uniche attorno alle quali possano confluire opinioni comuni. A partire dagli anni Novanta riemerge, infine, un rinnovato antagonismo su di un piano prettamente politico che si esprime nella tendenza a prediligere momenti puntuali e circoscritti di mobilitazione collettiva, come dimostrano le recenti manifestazioni contro la globalizzazione neoliberista. La sostanza della dinamica qui riportata è superare le concezioni dominanti sul rapporto odierno tra giovani e politica che lamentano, da un lato, una sorta di "ritiro generazionale" dalla sfera politica18, dall'altro un coinvolgimento declinato in chiave sociale piuttosto che sui tradizionali canali della partecipazione conducendo alcuni a definire i giovani come una "generazione invisibile" (Diamanti 1999). Sulla scorta dei contributi di Ulrich Beck, Peter Berger, Anthony Giddens e Alberto Melucci, che focalizzano nel concetto di "individualizzazione" – con la duplice accezione di processo sociale e di condizione esistenziale fondamentale – una feconda chiave interpretativa del mutamento sociale contemporaneo, Caniglia osserva, da una parte, come l'impegno politico si presenti spesso slegato dall'appartenenza a una qualche organizzazione politica, dall'altra, come l'attenzione giovanile si sposti dal contenuto ideologico alle pratiche quotidiane. La formazione dell'identità politica procede, pertanto, "attraverso un percorso di sviluppo di convinzioni personali piuttosto che di interiorizzazione di appartenenze collettive ereditate" (Caniglia 2002, 226) mentre l'impegno politico – nei gruppi, nelle associazioni e nei partiti – viene a fondarsi su relazioni sociali primarie – come l'amicizia – piuttosto che su progetti strutturati. Tra i risultati delle interviste svolte da Caniglia, pare particolarmente rilevante l'emergere di una sorta di incertezza e transitorietà nella scelta dell'identità politica: tra i possibili esiti individuati vi sono la reversibilità delle adesioni politiche, la preferenza per un impegno politico parziale o puntuale, la formazione di multiappartenenze. Tale tendenza sembra orientare verso la separazione tra identità e identificazione: "l'identità non è più il frutto di un processo di identificazione in un'appartenenza collettiva di natura politica, sociale, etnica o religiosa, bensì acquista una netta autonomia rispetto alle categorie collettive e assume una base essenzialmente individuale" (Ivi, 220). 4. Osservazioni conclusive Conclusivamente pare proficuo ricondurre i risultati delle tre impostazioni sopra presentate – quella teorica di Ceri, quella empirica di Andretta e colleghi, quella teorico-empirica di Caniglia – all'interno di un percorso costituito da tematiche che stanno sviluppando floridissimi dibattiti nella comunità scientifica. Tale percorso prende le mosse dal significativo passaggio, sul piano teoretico, da un atteggiamento di certezza della visione del mondo che attribuisce alla realtà un'unica definizione – struttural-funzionalismo, marxismo –, a uno di incertezza che individua molteplici definizioni della realtà – la così detta "svolta linguistica" (Goffman, Habermas, Bauman). Tale rovesciamento di direzione conduce, sul piano teorico, ad attribuire un ruolo centrale alla dimensione della soggettività come conseguenza della crisi delle istituzionali forme di sociazione ovvero del tradizionale rapporto gerarchico e cogente tra identità collettiva e identità individuale19. L'individualizzazione dei percorsi di vita, la costruzione dell'identità individuale nell'ottica di ricerca di autenticità (Taylor 1994, trad. it. 1999) e l'affermarsi delle appartenenze identitarie multiple sembrano ridefinire la relazione tra identità collettiva e identità individuale in termini di maggiore preponderanza della seconda: a dimostrazione di ciò, per esempio, si pongono le riflessioni convergenti dei tre studi sopra citati circa la creazione di un consenso di massima attorno a istanze generali e non a nuovi e determinati sistemi di valore condivisi. Ancora: si rilevano sostanzialmente "identitàresistenza" (Castells 1997) in ragione di un rinnovato antagonismo che si manifesta, in questo caso, contro la globalizzazione neoliberista e, implicitamente, contro le forme tradizionali di coinvolgimento politico. Da queste "identità-resistenza" a ipotetiche "identità-progetto" che ricostituiscano l'originario e, da un punto di vista logico-strutturale, più stabile rapporto tra identità collettiva e individuale il passo sembra, finora, solamente supposto. Tale passaggio potrebbe, tuttavia, rappresentare l'esito dialettico della contrapposizione tra lo sganciamento del soggetto dalle consuete categorie di riferimento – che implica, da parte dell'individuo, un ripiegamento su se stesso piuttosto che un'apertura all'esterno – e una ipotizzabile, anche se per ora non matura, fondazione di nuovi sistemi valoriali intersoggettivi. Porre a conclusione di tale percorso la formazione di una nuova società civile e di una nuova cultura politica che comportino una svolta risolutiva al deficit politico attribuito allo Stato-nazione20 (Held 1995, trad. it. 1999) pare, oggi, decisamente troppo ottimistico, per un verso, e troppo semplicistico, per l'altro. Tuttavia è quanto mai essenziale, da questo punto di vista, l'attenzione di alcuni sociologi alla costruzione di nuove forme di spazio pubblico21. Note 1. La disomogeneità cui si è fatto cenno è rilevabile sia tra le teorie ricondotte a un unico filone sia tra gli orientamenti, mutevoli nel tempo, di singoli ricercatori. 2. A parziale eccezione si veda la ricerca, di matrice storiografica, condotta da Tilly (1978) sui repertori e registri d'azione dei movimenti sociali. 3. Su questo tema Giugni (2002) propone un'efficace sintesi delle dimensioni della struttura delle opportunità politiche in letteratura. 4. Agli occhi di Alberto Melucci, uno dei maggiori studiosi dei movimenti sociali, le chiavi interpretative finora esposte propongono o un'azione senza attore o un attore senza azione (Melucci 1987). 5. Come nota Neveu (1996, trad. it. 2001, 89) “il concetto di "nuovi movimenti sociali" trae spunto da due fenomeni intrecciati. È una designazione utilizzata per identificare forme e tipi originali di mobilitazione degli anni sessanta e settanta, ma diventa anche teoria e sollecita tutta una serie di contributi che guardano alle singolarità di queste mobilitazioni per cercare di rinnovare l'analisi dei movimenti sociali, la riflessione sull'avvento della società postindustriale”. Il lavoro sociologico sui nuovi movimenti sociali si sviluppa in Europa attraverso le molteplici inchieste del gruppo di Touraine, le analisi di Melucci in Italia, di Offe in Germania, delle ricerche coordinate da Kriesi in Svizzera, di Klandermans e Koopmans in Olanda. 6. Vi sono tuttavia dei tentativi in letteratura di integrare i due approcci avviati da Kitschelt (1985) e da Klandermans e Tarrow (1988). 7. Uno degli interrogativi ricorrenti del dibattito circa questa impostazione riguarda proprio la novità dei movimenti: che cosa è “nuovo” dei “nuovi movimenti sociali”? Alberto Melucci, tra gli autori che hanno introdotto per primi tale accezione nella letteratura sociologica, lamenta la progressiva ontologizzazione di questa espressione (Melucci 1987, 56-60). Tuttavia, ricordando la funzione temporanea e relativa del concetto di “novità” – strumentale per mettere l'accento su classi differenti di fenomeni – Melucci sottolinea l'esito positivo e inconsapevole del dibattito: tale discussione, animata da chi sostiene che molti degli aspetti che caratterizzano le forme contemporanee di azione possono essere ritrovati in epoche storiche precedenti, finisce per interrogarsi su cosa è nuovo e su cosa non lo è aprendo la strada al “riconoscimento della pluralità di significati e di forme d'azione presenti in un fenomeno collettivo concreto” (Ivi, 39). 8. Per orientarsi efficacemente nel variegato panorama delle teorie sulla globalizzazione si veda Clark (1997, trad. it. 2001, 9-62). 9. Per la cronaca e la rassegna stampa puntuali e documentate degli avvenimenti e dei dibattiti durante il G8 di Genova si veda G.B. Cassulo, La gabbia, Genova, DPS Edizioni, 2001. 10. La ricerca è molto ampia e raccoglie una grande quantità di dati: in questa sede verranno riproposte alcune delle informazioni raccolte sulle associazioni italiane e, in particolare, sugli attori individuali che hanno partecipato alla protesta. 11. Per un inquadramento delle componenti non italiane del movimento di protesta no global si veda Aguiton (2001, 65-150). 12. Una delle campagne di maggiore evidenza organizzate dalla rete Lilliput è stata quella per la cancellazione del debito estero dei paesi poveri. 13. Per approfondire la problematica della connessione fra schemi interpretativi (frame bridging) si vedano Snow e Benford (1988) e Gamson e Modigliani (1989). 14. Sul tema delle relazioni (networks) che legano le differenti organizzazioni e gli attivisti non solo in occasione delle mobilitazioni si rimanda a Diani e McAdam (2003). 15. Benché Caniglia abbia interessi teorici differenti rispetto ai contributi di Ceri e di Andretta-della Porta, la sua ricerca pone in analisi il tradizionale ambito di proliferazione dei movimenti sociali: l'università – si vedano in proposito le ricerche classiche di Habermas (1968) e di Touraine (1969). Utilizzando una metodologia qualitativa incentrata sul modello dell'intervista-racconto – sulla scorta di uno stimolo metodologico proposto da Donatella della Porta (1987) – vengono proposti i percorsi biografici e di formazione dell'identità politica individuale di un gruppo di giovani impegnati in forme partecipative diverse. L'ipotesi guida della ricerca è la supposta centralità del concetto di identità – con le accezioni e trasformazioni messe in luce da Caniglia – nella relazione tra giovani e politica. 16. Per orientarsi fra gli studi sulla partecipazione politica giovanile si veda, a pagina 25 del volume di Caniglia, la nota 2. 17. È la prima manifestazione dell'affermarsi di quella che Anthony Giddens (1994, trad. it. 1997) chiama emancipatory politics. 18. Si vedano in proposito le ricerche IARD sui giovani degli ultimi anni. 19. Pionieristici e anticipatori di molte delle teorizzazioni sul tema le ricerche coordinate da Zoll (1989) sull'orientamento nei confronti del lavoro. 20. Sul tema della relazione tra movimenti sociali e democrazia cosmopolitica – tanto stimolante quanto poco sviluppato – si vedano le interessanti riflessioni conclusive di un recente contributo di Fabio de Nardis (2003). 21. Si vedano, a questo proposito, gli studi pionieristici di Anna Carola Freschi (2003) sulla partecipazione individuale e collettiva all'interno delle “comunità virtuali”. Bibliografia • Aguiton C., Il mondo ci appartiene. 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