Fisica Sanitaria - AppuntiMedicina

Modulo
di
Fisica Sanitaria
in
Diagnostica per Immagini
1. Produzione e rivelazione dei Raggi X
2. Tomografia Rx 3. NMR
4. Ultrasuoni 5. Imaging radioisotopico e Terapia radiante 6. Dosimetria e Radioprotezione ☤
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Radiazioni corpuscolate: l'energia trasportata è associata al trasporto di materia (particelle alfa, beta, protoni, neutroni…)
 Radiazioni non corpuscolate: trasporto di sola energia (radiazioni elettromagnetiche, ultrasuoni, campi magnetici)
 Radiazioni ionizzanti: trasportano energia sufficiente a produrre ionizzazione, ovvero espulsione di un elettrone orbitante.
Quelle direttamente ionizzanti sono le particelle dotate di massa, in grado quindi di produrre coppie di ioni interagendo con le molecole del mezzo, fino ad esaurirsi; quelle indirettamente ionizzanti invece, sono RX e neutroni, che cedono l'energia in una (o poche) interazioni producendo particelle cariche, che a loro volta ionizzano.

L'interazione della materia può avvenire per collisione con il nucleo (provocando produzione di calore) o per collisione con un elettrone orbitante: se la radiazione incidente è più energetica del legame dell'elettrone, si ha la sua espulsione (ionizzazione); se invece è meno energetica, c'è solo produzione di calore. Se, infine, la radiazione passa solo attraverso la nuvola di carica dell'atomo, quello che accade dipende dalla natura della radiazione:
 R. non corpuscolate: nessuna modifica
 R. corpuscolate: il campo elettromagnetico dell'atomo frena le particelle cariche che formano la radiazione, che cedono energia sotto forma di un quanto con lunghezza d'onda proporzionale all'energia cinetica della radiazione corpuscolata.
Interazione tra particella carica e materia: gli elettroni hanno la più alta capacità di penetrazione (in acqua, a parità di energia di 5 MeV, un eˉ percorre 2,5 cm, un protone 0,6 mm ed una particella α 50 micron). Passando nella nuvola di carica delle particelle subatomiche, gli elettroni vengono da esse frenati, e deviano, cedendo loro una parte di energia (componente predominate nelle interazioni elettrone­elettrone). La deviazione comporta l'emissione di radiazione elettromagnetica (componente predominante nelle interazioni elettrone­nucleo).
Convenzionalmente si chiama “collisione” l'urto con un altro elettrone, e “frenamento” quella con un nucleo.
• Collisione: più il bersaglio è vicino, maggiore è l'energia ceduta; è raro che l'elettrone proiettile ne colpisca effettivamente un altro. Tuttavia, quando l'energia ceduta è sufficiente, il bersaglio si stacca dal suo nucleo, e si ha così la ionizzazione dell'atomo coinvolto. Il numero di interazioni con la materia è proporzionale all'energia cinetica (quindi alla velocità) della particella. • Frenamento: c'è l'emissione di un fotone di energia uguale od inferiore all'energia dell'elettrone incidente, che verrà sottratta all'energia dell'elettrone. Anche qui il passaggio di energia dipende dalla distanza cui si trovano il nucleo e l'elettrone che lo “colpisce”: non si tratta di collisioni vere e proprie, quanto di interazioni. Si potranno produrre più fotoni a bassa energia, ma solo uno a pari energia dell'elettrone incidente: il numero e l'energia dei fotoni dipendono dal caso, dalla traiettoria dell'elettrone nel mezzo e da cosa esso incontra lungo il percorso.
Interazione tra fotone e materia: l'interazione con il mezzo attraversato è casuale, e dipende dallo spessore, dal numero atomico e dalla densità atomica del mezzo, che determinano dunque la capacità di penetrazione del fotone. Si può determinare lo spessore emivalente, ovvero lo spessore di un dato materiale in grado di dimezzare la quantità di fotoni che lo attraversano. I tipi di interazioni possibili sono:
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Effetto fotoelettrico: tra fotone ed un elettrone di un'orbita interna. Il fotone viene assorbito e l'elettrone espulso; nel riassestamento dell'atomo vengono emessi fotoni di fluorescenza o elettroni auger.
• Effetto Compton: tra fotone ed un elettrone esterno, più “libero”. L'elettrone rincula e si produce un fotone diffuso, con energia inferiore a quello incidente.
• Creazione di coppie: se il fotone ha E > 1022 KeV e si avvicina al nucleo, può capitare che si annulli, con la creazione di una coppia elettrone­positrone, con energia cinetica pari all'energia del fotone incidente meno 1022 (se aveva 1023, la coppia avrà EC=1). Quando il positrone termina la sua energia cinetica, si combina con un elettrone, con l'annichilazione di entrambi ed emissione di due fotoni in direzione opposta, ciascuno con energia di 511 KeV.
• Diffusione elastica: simile all'effetto Compton, ma non c'è elettrone di rinculo, e di fatto il fotone emesso ha la stessa energia dell'incidente, solo una direzione diversa.
• Fotodisintegrazione: tra fotone ad alta energia ed un nucleo di minore energia. Il fotone causa l'uscita di un neutrone. L'energia dev'essere molto alta, in generale >10 MeV.
In ambito clinico i più rilevanti sono gli effetti fotoelettrico, Compton e la creazione di coppie, che hanno predominanza diversa nei vari tessuti:
• Eff. fotoelettrico: l'energia assorbita nell'osso è 6 volte che nei tessuti molli
• Eff. Compton: l'energia assorbita nell'osso è pari che nei tessuti molli
• Creazione di coppie: l'energia assorbita nell'osso è 2 volte che nei tessuti molli
Poiché le tre interazioni prevalgono sequenzialmente a energia crescente, è chiaro come, a seconda dell'energia del fotone incidente, cambierà la proporzione di energia assorbita dai vari tessuti (sarà pari per intervalli energetici 200 KeV ­ 3 MeV, superiore per l'osso prima e dopo).
•
La capacità di penetrazione è inversamente proporzionale alla massa per le radiazioni corpuscolate; per quelle non corpuscolate, è massima per le radiazioni a grande e piccolissima λ, mentre è quasi nulla per quelle medie.
Diverso è il discorso riguardo alla capacità ionizzante, perché le radiazioni a grande lunghezza d'onda non sono ionizzanti (es. risonanza magnetica), mentre quelle a piccolissima lunghezza d'onda sì (es. Rx).
1. PRODUZIONE E RIVELAZIONE DEI RAGGI X
I raggi X sono onde elettromagnetiche prodotte quando gli elettroni colpiscono la materia. Scoperti alla fine dell'800, sono prodotti dal tubo radiogeno: un'ampolla di vetro sottovuoto, contenente agli estremi due elettrodi di polarità opposta a cui è applicata una differenza di potenziale. Il catodo è di tungsteno, e quando è attraversato da una corrente diviene incandescente rilasciando elettroni per effetto termoionico; la normale corrente alternata viene positivizzata da un diodo ed amplificata da un trasformatore prima di giungere al catodo. L'anodo è un disco di leghe di tungsteno, molibdeno o grafite, su cui collidono gli elettroni accelerati dalla d.d.p., attraversata l'ampolla vuota che permette loro di muoversi liberamente: collidendo contro questi 3
materiali ad alto numero atomico che costituiscono l'anodo, provocano la produzione di raggi X. Un apparato radiogeno è costituito dal tubo radiogeno, che contiene il catodo e l'anodo, e dal generatore, che contiene il sistema per produrre l'alta tensione e la corrente di riscaldamento del filamento. Il numero di elettroni prodotti dal catodo è proporzionale alla corrente (espressa in mA), mentre la loro velocità (ed energia cinetica) è proporzionale alla tensione applicata (kV), e sono queste le grandezze che si possono variare per regolare le caratteristiche dei raggi X che desideriamo ottenere.
La percentuale di Rx prodotti dipende dall'energia degli elettroni: per un fascio usato normalmente in radiodiagnostica, di 60 KeV, nell'impatto degli elettroni con il materiale anodico circa il 99% dell'energia degli elettroni è trasformata in calore, mentre il restante 1% è trasformata in radiazione elettromagnetica (fotoni X): pertanto l'anodo deve essere di materiale termoresistente. Per avere fluenze fotoniche molto elevate è necessario utilizzare correnti anodiche molto intense. Siccome più del 99% dell'energia degli elettroni è dissipata in calore, bisogna fare in modo che il materiale anodico non superi la temperatura di fusione. Questo si ottiene costruendo l'anodo a forma di piattello e facendolo ruotare ad alta velocità (9'000 giri/min) per esporre sempre al fascio elettronico il metallo “freddo”. È evidente comunque che il calore deve essere dismesso: questo avviene per irraggiamento, con temperature del piattello molto vicine alla temperatura di fusione. I tubi che vengono utilizzati in diagnostica angiografica hanno potenze dissipate che possono raggiungere i 100 kW (pari a 50 stufe elettriche). La risoluzione spaziale del sistema dipende dalla dimensione della superficie che emette i raggi X: la forma a piattello dell'anodo permette anche di avere una superficie d'impatto più grande di quella apparente. Gli Rx sono emessi in tutte le direzioni, perciò di solito si direzionano schermandoli e facendoli passare attraverso una finestra.
Gli elettroni che impattano sul materiale anodico (tungsteno) possono avere due tipi diversi di interazione: • Se si avvicinano ad un elettrone atomico possono produrne l'espulsione dall'orbitale, e produrre una lacuna che verrà prontamente colmata da un elettrone dei livelli più esterni, che, per raggiungere il livello più basso, deve emettere la differenza di energia sotto forma di fotone. Questi fotoni sono poco numerosi e poco importanti nell'impiego diagnostico; si chiamano “caratteristici” perché hanno una energia caratteristica dei livelli energetici del materiale anodico. • Gli elettroni che non interagiscono con quelli atomici risentono comunque dell'attrazione del nucleo, e vengono deviati (accelerati): ogni volta che una particella carica viene accelerata si genera una radiazione elettromagnetica, di energia proporzionale all'accelerazione. Gli elettroni che passano vicino al nucleo (pochi) generano fotoni molto energetici, quelli che 4
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passano lontano dal nucleo generano fotoni poco energetici. Il valore massimo di energia si ha quando l'elettrone viene fermato: l'energia del fotone prodotto corrisponde all'energia complessiva dell'elettrone (e quindi dai kV applicati al tubo). Questa radiazione elettromagnetica si dice “di frenamento”. Siccome l'anodo è contenuto all'interno del tubo di vetro spesso, i fotoni di più bassa energia verranno assorbiti, e la distribuzione dei fotoni (raggi X) che fuoriescono, chiamata spettro energetico, ha un tipico andamento continuo, con sovrapposti i picchi della radiazione caratteristica. Modificando i kV applicati tra catodo ed anodo si amplifica verticalmente la curva e la si sposta verso destra (cambiano sia l'energia media sia il numero di fotoni) mentre aumentando solo la corrente catodica si amplifica verticalmente la curva, senza spostarla lateralmente, e senza modificare l'energia media dei fotoni. In radiologia diagnostica si genera un fascio uniforme di raggi X con energia media, intensità e tempi di emissione adatti al paziente ed al dettaglio anatomico che si vuole visualizzare; i fotoni attraversano il corpo e vengono assorbiti in ragione dello spessore e delle caratteristiche dei tessuti. Circa il 5% dei fotoni proiettati con il raggio oltrepassa il corpo, per essere poi rilevato e dare origine all'immagine radiologica: l'attenuazione del Un tipico “spettro dei Raggi X” prodotti da un tubo
fascio di raggi X dipende dalla sua intensità, alimentato con una tensione continua di 95 kV. Si notano i
dalla densità molecolare del mezzo, dal picchi della radiazione caratteristica prodotta dal materiale
numero atomico e dal numero di elettroni per anodico (Tungsteno e Molibdeno). In rosso è rappresentato
l'andamento del coefficiente di assorbimento lineare dello
grammo del tessuto attraversato.
iodio, utilizzato come mezzo di contrasto in angiografia. Si
L'informazione diagnostica è generata dalla noti il picco di assorbimento dello iodio per fotoni di energia
interazione dei fotoni X con i tessuti biologici 33,2 keV e la corrispondenza del maggior numero di fotoni
attraversati, ed è rappresentata dalla emessi con l'intervallo di alto assorbimento dello iodio.
distribuzione non uniforme dei fotoni emergenti dal paziente (Immagine Radiologica Primaria). Trattandosi di una distribuzione di fotoni X, essa non è visibile e per essere analizzata l'Immagine Radiologica Primaria deve essere convertita in immagine ottica: questo può avvenire attraverso l'uso di lastre fotografiche sensibili ai raggi X (radiografie: l'annerimento locale sarà proporzionale alla fluenza fotonica) o mediante l'uso di schermi fluorescenti e convertitori elettronici (intensificatore di brillanza), che generano un'immagine che può essere ripresa da una telecamera; sulla telecamera è inserito un esposimetro che regola in retroazione i dati radiologici (kV, mA, mS) per ottenere il giusto flusso di fotoni ed evitare sovraesposizioni e sottoesposizioni. La pellicola, di spessore 200­300 micron, è composta da una base di poliestere su cui è applicata, da un lato o da entrambi, l'emulsione: si tratta di uno strato di gelatina in cui sono immersi piccoli grani di alogenuro di argento (iodo­bromuro, con iodio 1­10% e bromo 90­99%), che reagiscono con i fotoni o con gli Rx dando luogo all'immagine, che una volta sviluppata, così come accade con le foto, diventa reale e fissata.
Il capostipite dei convertitori d'immagine radiologica in immagine ottica è l'intensificatore di brillanza, inventato circa cinquanta anni fa: si tratta di un tubo a vuoto all'interno del quale vengono fatte alcune conversioni finalizzate a convertire l'immagine ed aumentarne l'intensità luminosa. Il flusso di fotoni dell'immagine radiologica primaria attraversa la parete di vetro e 5
colpisce uno schermo di Ioduro di Cesio. Qui i fotoni x sono trasformati in punti luminosi che producono l'emissione elettronica nello strato metallico sottostante (fotocatodo): si ha così il passaggio da un'immagine fotonica ad un'immagine elettronica. Gli elettroni sono particelle cariche ed è possibile, con un campo elettrico generato da elettrodi circolari, accelerarli ed indirizzarli verso uno schermo fluorescente (secondario) appoggiato ad una finestra di vetro sottile. Qui si forma l'immagine ottica di alta intensità che può essere visualizzata e ripresa. Per evitare che l'intensità luminosa guadagnata con tanta fatica sia persa dalle riflessioni, si utilizza un collegamento in fibra ottica tra la finestra d'uscita e gli elementi sensibili della telecamera, che genera il segnale da inviare al monitor televisivo. Il sistema può rilevare immagini statiche ed immagini dinamiche. I sistemi più recenti di rilievo conversione dell'immagine radiologica sono allo stato solido e sostituiscono alla telecamera una matrice estesa di fotorecettori che generano il segnale elettrico. I sistemi più utilizzati sono a conversione indiretta, dove uno strato di ioduro di Cesio converte il fotone in fascio luminoso ed un array di fotodiodi e fototransistor generano il segnale elettrico. L'ingombro è quello di un display di un moderno calcolatore e vengono indicati come Flat Pannels. Con i flat pannels l'immagine è originariamente suddivisa e presentata come areole di diversa luminosità e segnale elettrico. Un sistema elettronico di scansione analizza le successive areole e fornisce in uscita il segnale televisivo da presentare sul monitor o da inviare al calcolatore. L'esame radiografico può essere diretto (contrastografia naturale), sfruttando la naturale differenza di opacità dei tessuti: è particolarmente adatto per l'analisi del tessuto osseo e polmonare; è meno efficace per i parenchimi costituiti da molecole simili, seppur in diverse concentrazioni, che non presentano differenze intrinseche nel coefficiente di assorbimento per i raggi X. Per visualizzare tali altre componenti si sono sviluppati i mezzi di contrasto: materiali che hanno un coefficiente di assorbimento lineare diverso dai tessuti originali, che vengono introdotti nella cavità da visualizzare; questi possono essere negativi (trasparenti), ovvero gassosi e a bassa densità, che si introducono negli spazi anatomici reali o virtuali consentendone la visualizzazione (sono metodiche superate da TAC e RM, che oggi si usano solo nel “doppio contrasto” intestinale con introduzione di un mezzo negativo e uno positivo). In alternativa possono essere positivi (opachi), ad alto PM: mdc di Bario o di Iodio. Il concetto è che somministrando una sostanza che assorbe più elettroni rispetto a quelle dei tessuti circostanti, se ne ottiene l'opacizzazione ed il contrasto rispetto al restante tessuto omogeneo.
Il caso più esemplare è l'angiografia, che permette di visualizzare i vasi e le cavità del sistema vascolare; in questo caso viene iniettato un mezzo contenete iodio, che si mescola al sangue modificandone il coefficiente di assorbimento lineare e permettendone la visualizzazione. Il problema è molto complesso perché i vasi che si vogliono visualizzare sono molto piccoli e spesso gli organi si muovono; questo costringe a trovare soluzioni tecnologiche di altissima sofisticazione. Supponiamo di volere osservare la struttura anatomica delle coronarie: se si investe con un fascio uniforme di raggi X il paziente, si ottiene un assorbimento differenziato da parte delle ossa e dei tessuti spessi, che daranno delle ombre più o meno compatte; il piccolo calibro delle arterie, e le piccole differenze di assorbimento rispetto ai tessuti circostanti, non ne permetteranno la visualizzazione. Lo iodio è un atomo che ha un elettrone esterno con energia di 33,2 KeV: se si somministra un'energia superiore (solitamente 20 volte maggiore), esso riesce a catturare fotoni per effetto fotoelettrico; iniettato all'interno dei vasi, ne differenzia l'assorbimento anche di 20 volte rispetto alla condizione originale. In corrispondenza dei vasi contenenti il mezzo di contrasto si avrà un assorbimento accentuato e l'immagine radiologica presenterà il dettaglio voluto.
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Sembra una tecnica semplice, ma poiché le differenze di assorbimento sono comunque limitate, e spesso l'oggetto si muove, si devono utilizzare fluenze fotoniche molto intense e tempi di ripresa molto brevi. Grazie alla presenza fisica in loco del catetere, è anche possibile intervenire terapeuticamente nel corso dello stesso intervento diagnostico. L'angiografia digitale sfrutta l'intensificatore di luminosità e la televisione radiologica: lo schermo fluorescente dell'intensificatore è analizzato pixel a pixel da una telecamera collegata al pc e, con le metodiche specificate prima, si avrà la visualizzazione digitale.
Macchia focale e risoluzione La dimensione finita della macchia focale è un elemento che intrinsecamente limita l'accuratezza di misura del sistema angiografico, determinando una indeterminazione del bordo (“penombra periferica”) che dipende dalla dimensione della macchia focale stessa, dalla distanza oggetto­rivelatore, dalla distanza tubo­rivelatore. Per avere un'alta risoluzione è necessaria una macchia focale piccola e tenere il rivelatore vicino all'oggetto da rilevare: purtroppo una macchia focale piccola comporta un rischio di danneggiamento del tubo per surriscaldamento, e si devono accettare compromessi. L'estensione della penombra rappresenta una limitazione insormontabile alla risoluzione spaziale del sistema. Nei sistemi angiografici si hanno diverse macchie focali, che possono andare da 0,4 × 0,4 mm ad 1,2 × 1,2 mm a seconda delle condizioni di utilizzo. Nella pratica possiamo associare alla tecnica angiografica una risoluzione massima di 0,25 mm (dimensione del più piccolo dettaglio osservabile). ∆r : (r/2) = L : h
Ingrandimento (I) = 1 + (4L/h)
d : (D/2) = L : h
Risoluzione (d) = D/2 × L/h
Caratteristiche dell'immagine radiologica L'immagine è caratterizzata da alcune proprietà strettamente legate agli aspetti fisici e procedurali: 1. Intensità luminosa: è direttamente proporzionale alla fluenza fotonica; con molti fotoni l'immagine diventa molto nera, con pochi fotoni resta bianca. Esprime il livello medio di annerimento (o di luminosità) dell'immagine. Può essere modificata agendo sui dati radiologici (mA, kV, tempo di emissione). Aumenta in maniera esponenziale.
2. Nitidezza: indica quanto sono definiti i contorni.
3. Risoluzione: la possibilità di distinguere due linee vicine (è chiaramente legata alla nitidezza). Si esprime in paia di linee per centimetro, e si può misurare rilevando l'immagine di una griglia che presenta lamelle di piombo progressivamente ravvicinate. Si osserva il limite di discriminazione delle linee vicine, e si legge la risoluzione. Nei sistemi radiologici la risoluzione è intrinsecamente legata alla dimensione della macchia focale, ma dipende anche dai sistemi di conversione ottica. Rilevando l'intensità luminosa in corrispondenza delle linee appaiate del test di risoluzione, si 7
nota una riduzione progressiva con l'avvicinamento delle linee. Riportando l'andamento su di un grafico ed assumendo 100 l'attenuazione di intensità in corrispondenza della linea più spessa, si ha una curva tipica, decrescente verso le linee più fitte, che viene indicata come “Modulation Transfer Function”. I valori della MTF di diversi sistemi di prelievo e conversione permettono di confrontarne le caratteristiche e diagnosticare eventuali malfunzionamenti. 4. Contrasto: la differenza di intensità luminosa relativa tra due aree dell'immagine; si esprime in %. Un'immagine è molto contrastata quando presenta aree con elevata intensità vicino ad aree a bassa intensità. Questa caratteristica dipende sia dall'oggetto ripreso (contrasto dell'oggetto), sia dai dati radiologici e dalle prestazione dei rivelatori: i dati radiologici sono importanti perché i coefficienti di assorbimento lineare dei mezzi dipendono dall'energia dei fotoni, e quindi il contrasto risultante dipende dai kV utilizzati. Nel caso di utilizzo di mezzi di contrasto l'effetto è ancora più evidente; infatti la dipendenza energetica del coefficiente di assorbimento lineare, per alcuni mezzi (es.: lo iodio), presenta dei picchi e dei gradini in corrispondenza di particolari valori di energia, e basta modificare di poco la tensione applicata al tubo per avere immagini completamente diverse. 5. Rumore: tutto quanto si sovrappone all'immagine e ne rende difficile l'interpretazione. Il rumore può avere semplicemente cause statistiche (varia come radice quadrata dell'intensità) oppure essere introdotto dalla procedura (es.: diffusione Compton) o dai rivelatori. Quello che è importante notare è che il rumore riduce il contrasto e rende quindi più difficile rilevare dettagli ed effettuare misure. Un rumore caratteristico delle immagini radiologiche è la granulosità, un tempo dovuta alla struttura intrinseca del materiale sensibile delle lastre radiografiche, ed oggi alla digitalizzazione dell'immagine e la conseguente rappresentazione matriciale. L'occhio non ama le discontinuità ed una granulosità anche poco importante quantitativamente può essere molto fastidiosa nell'osservazione. Si definisce “analogica” una variabile che può assumere qualunque valore in un continuum di valori: ad esempio è analogica la scala di grigi di una radiografia. Viceversa, “digitale” è una variabile espressa in forma numerica, e quindi trattabile da un calcolatore.
La digitalizzazione consiste nello scomporre, tramite una griglia, l'immagine analogica in pixel la cui densità ottica viene misurata, e convertita in numeri; tali numeri vengono poi tradotti sullo schermo, in un'analoga griglia, in analoghi pixel colorati.
A prescindere dalla tipologia, si parla di
• risoluzione spaziale, ovvero capacità di discriminare due punti vicini
• risoluzione di contrasto: capacità di differenziare due punti vicini a diverso contrasto
Ad oggi è sempre più diffusa l'acquisizione direttamente in digitale, con la radiazione che viene convertita in segnale elettrico che può essere tradotto dal calcolatore in segnale luminoso: a tal scopo esistono vari sistemi, tra cui pannelli rivestiti di “fosforo a memoria” in grado di conservare in memoria parte delle radiazioni incidenti che possono essere poi rilevate dal laser.
Nei sistemi di prelievo e conversione dall'immagine radiologica all'immagine ottica si ha una serie di processi che possono modificare l'informazione ed introdurre del rumore. La Detection Quantum Efficiency esprime la probabilità che un punto in uscita sia prodotto da un fotone in ingresso (varia da 0 a 1), mettendo in relazione il segnale in uscita (segnale elettrico o intensità luminosa) con il segnale in ingresso (fluenza fotonica). Il segnale in ingresso ha il suo rumore associato ed anche quello in uscita ha la sua variabilità associata. Il parametro DQE esprime la probabilità che un punto luminoso in uscita sia effettivamente generato da un fotone in ingresso. I valori attualmente ottenibili variano dal 60 al 70%. 8
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DQE =
( S out / N out ) 2
( S i / N i) 2
Il confronto tra sistemi in termini globali di efficienza nel rilievo e conversione dell'immagine si può fare considerando il QDE. Un altro modo, essenzialmente riferibile al contrasto ed alla risoluzione spaziale è quello di rilevare la curva MTF. 2. TOMOGRAFIA A RAGGI X
La tomografia rende possibile risalire dall'immagine alla distribuzione spaziale degli oggetti visualizzati, osservando il sistema da diversi punti di vista, rilevando e componendo opportunamente le diverse immagini (proiezioni): si basa sulla rotazione sincrona ma contraria del tubo radiogeno rispetto alla cassetta porta pellicola, cosa che consente la visualizzazione via via delle strutture poste lungo l'asse che collega le due. Il movimento della TC può essere lineare, circolare, ellittico, epicicloidale e spiraliforme.
Messa a punto da Hounsfield e Cormack nel 1979, è una tecnica radiologica digitalizzata che traduce i valori di attenuazione radiografica dei singoli blocchetti di tessuto (o voxel) in una scala di grigi, costruendo quindi un'immagine tomografica sullo schermo del pc. I valori di attenuazione sono riferiti a quello dell'acqua (valore 0). La ricostruzione della distribuzione dei coefficienti di assorbimento viene fatta applicando la legge di Lambert­Beer e considerando tanti strati successivi di tessuto con coefficienti di assorbimento definiti. Considerando la legge di Lambert­Beer per strati successivi è facile dimostrare che il logaritmo naturale del rapporto tra intensità finale (misurata dal rivelatore) e intensità iniziale (nota) è dato dalla sommatoria dei prodotti dei coefficienti di assorbimento lineari per i rispettivi spessori. Se ad esempio consideriamo un'area di 3×3 celle e 6 rivelatori, applicando la regola per ciascun rivelatore si hanno 6 equazioni con 9 incognite (i 9 coefficienti di assorbimento). È evidente che un tale sistema non è risolvibile; se però ruotiamo di un certo angolo e ripetiamo il rilievo, abbiamo ulteriori 6 equazioni con le stesse 9 incognite: il sistema diventa risolvibile. Se avessimo ulteriori equazioni con le stesse incognite, la soluzione sarebbe ancora più facile. Il problema diventa più complesso quando aumenta il numero delle celle, perché aumenta il numero delle incognite ed il numero delle proiezioni necessarie. Gli strumenti di I generazione erano formati da una sorgente radiogena contrapposta ad un rilevatore: partendo da un punto, il complesso rilevava l'attenuazione media del tessuto interposto tra le due componenti (quindi una linea); dopodiché scorreva lateralmente, rilevando una seconda linea parallela alla prima, e via così fino ad aver analizzato tutta la sezione traversa del pz. A questo punto il sistema ruotava di 1° e ripeteva l'intera operazione, e di nuovo fino ad una rotazione di 180°. Data la complessità dell'operazione, erano necessari 5­6 minuti per scansionare ciascuna “fetta” di paziente. Gli strumenti di II generazione erano analoghi ma presentavano più rilevatori, in modo da ottenere più fette alla volta; quelli di III generazione presentavano poi un arco di cerchio di rilevatori, consentendo così di eliminare il movimento di traslazione, e mantenendo solo quello di rotazione: i tempi di scansione sono scesi così a frazioni di secondo per fetta. Sono stati sviluppati infine gli strumenti di IV generazione, in cui i rilevatori sono disposti in un cerchio e a ruotare è solo il tubo radiogeno. Il problema principale fino agli anni '90 in realtà è stato l'attorcigliamento dei fili nel movimento di rotazione del sistema: al termine di ogni rotazione, per evitare di avvolgere lo strumento nei cavi elettrici, era necessario eseguire una contro­rotazione per ricominciare la rotazione successiva da capo. Ad oggi, con la tecnologia slip ring, invece, non ci sono più cavi e le rotazioni sono effettuate in continuum.
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Nella TC volumetrica si ha l'avanzamento continuo del pz, cosicché il movimento di rotazione del sistema tubo­detettori disegna una spirale (da qui il nome TC spirale); in seguito vengono ricostruite immagini transassiali ed è possibile scegliere il punto esatto di cui si vuole avere la scansione, appunto perché la metodica di fatto analizza l'intero volume del pz: in più, si possono ricostruire scansioni lungo tutti i piani dello spazio, e non solo su quello trasversale. Con l'introduzione dei rilevatori solidi, più piccoli, inoltre, è ora possibile acquisire in un'unica rotazione da 4 strati fino ad 8 e 16, diminuendo così il tempo dell'esame.
L'esame Tc inizia con l'acquisizione di uno scanogramma che funge da guida per le scansioni vere e proprie. La somministrazione di mdc è quasi indispensabile soprattutto nello studio dei parenchimi addominali, cerebrale e delle strutture vascolari. Anche i tempi di arrivo del mdc e la sua dinamica forniscono informazioni sulla tipologia della lesione: il tempo necessario al mdc iniettato e.v. di arrivare all'organo e di distribuirvisi è specifico di ciascun organo, e dopo tale tempo avremo un aumento più o meno intenso ed omogeneo del valore di attenuazione, definito contrast enhancement.
Quando si visualizza una Tc è necessario definire a quale valore si vuole far corrispondere il grigio medio (livello o centro della finestra), e in quale ampiezza possano oscillare i valori dei grigi: questo è fondamentale per vedere dettagli di diversa natura.
Più alto è il dettaglio che si vuole ottenere, e più ampio è il volume che si vuole osservare, più alte sono la fluenza fotonica necessaria e la dose assorbita dal paziente. Vige la regola della radice quadrata: per raddoppiare la qualità bisogna quadruplicare la dose. 3. RISONANZA MAGNETICA NUCLEARE
Si definisce campo magnetico una zona dello spazio che risente dell'effetto di azioni magnetiche; esso può essere generato anche da una corrente elettrica.
Quando le cariche elettriche si muovono generano dei campi magnetici: anche nei nuclei, i protoni possono generare campi magnetici, muovendosi o ruotando su se stessi, e sono pertanto dotati di un momento magnetico. Prendiamo ad esempio l'atomo più semplice, quello di idrogeno: questo protone non è immobile, ma ruota; ogni nucleo di idrogeno si comporta come un minuscola trottola. Nella materia questi nuclei sono disposti casualmente, in tutte le direzioni, per effetti del moto termico browniano, perciò macroscopicamente non si nota alcun comportamento.
Quando si applica un campo magnetico B 0 dall'esterno (nelle procedure di diagnostica di solito di 1,5 ­ 2 Tesla), i magneti si orientano e possono farlo in due direzioni: nel verso del campo o nel verso opposto al campo. Soltanto alcuni tipi di atomi hanno un momento magnetico, a causa del movimento delle B0
particelle cariche che li compongono, e saranno quindi orientati nella direzione di un campo magnetico B 0 che viene applicato dall'esterno: 1H, 13C, 14N, 31P, 17O. Soltanto piccola parte dei nuclei si orienta nel verso opposto al campo applicato dall'esterno. Siccome le particelle nucleari hanno una massa, ogni nucleo ha anche un ben definito momento angolare, tipico per ogni atomo. Il fenomeno della risonanza magnetica nucleare si verifica nei nuclei degli atomi con spin diverso da zero. Se viene applicato brevemente un secondo campo esterno B 1 di direzione diversa da B0, i nuclei si orientano secondo esso; se B1 viene interrotto, i nuclei ritornano alla direzione originale, con un moto di precessione che ha una frequenza ben definita, tipica del nucleo e del campo magnetico B0 10
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applicato dall'esterno (frequenza di Larmor): ω = γ ∙ B0, dove γ è il coefficiente caratteristico per ogni nucleo. Questi nuclei non ritornano nella direzione di B0 direttamente, ma oscillando come tante piccole trottole, ruotando pian piano: durante il riorientamento, ai capi della bobina esterna si rileva un segnale, con frequenza uguale a quella di Larmor, di intensità proporzionale al numero di nuclei presenti, progressivamente decrescente (Free Induction Decay). Il sistema ha generato campi magnetici, che con la bobina non solo sono stati indotti ma anche rilevati.
Se il campo magnetico B0 non è uniforme, i vari nuclei avranno una frequenza di precessione diversa, ed il segnale FID si attenuerà rapidamente con componenti armoniche molto diverse. Se il campo fosse uniforme tutti i nuclei sarebbero allineati e si avrebbe una frequenza ben definita, con una banda di frequenza netta. Quando il campo non è omogeneo, di fatto alcuni nuclei si muovono più velocemente ed altri T2
meno: il segnale si riduce prima, ed all'analisi della curva si rileva una distribuzione allargata. L'area della curva dell'analisi f
f
armonica si modifica in base alla durata dell'impulso di orientamento dei nuclei: più il tempo di eccitazione è lungo, maggiore è il numero di nuclei eccitati, e maggiore l'area sottesa.
Riportando in un grafico l'area della curva in funzione della durata dell'impulso di eccitazione si ha un andamento esponenziale, con costante di tempo T1, indicata anche come spin­lactice relaxation, ed è un fattore che tiene conto di come il nucleo si orienta in funzione della struttura del reticolo cristallino in cui si trova, correlando quindi il singolo nucleo alla struttura del tessuto, facendo capire come questo materiale è organizzato.
0
0
Spin lattice relaxation
A (t ) = A 0 ⋅ ( 1 − e
T1⋅t
)
t
Trattandosi nella maggior parte dei casi di nuclei di atomi di Idrogeno, che costituiscono le molecole d'acqua, il parametro T1 indica come l'acqua è distribuita nel tessuto. Per “compensare” la non uniformità di campo, si applica la tecnica “Spin Echo”: dopo aver applicato un primo impulso alla frequenza di Larmor, per orientare i nuclei a 90°, ne viene applicato un secondo, di ampiezza sufficiente a provocare un riorientamento a 180°. In questo modo i nuclei che avevano una precessione anticipata vengono di fatto f
ritardati, e dopo un certo intervallo si ritroveranno in fase con gli altri, determinando un segnale FID più ampio e meno condizionato dalle disuniformità di campo.
Se la tecnica Spin Echo viene applicata in modo ripetitivo, i segnali successivi hanno una ampiezza progressivamente minore e l'analisi armonica evidenzia una curva sempre più selettiva. Si viene a formare una curva esponenziale con costante di tempo T2, diversa da T1: essa teneva conto del legame dei nuclei con il reticolo esterno, questa invece dei legami fra i nuclei, poiché è indice di come questi si allineano in fase tra loro.
0
11
A = A 0 ⋅e
− T2⋅t
Inoltre, quando il nucleo fa parte di una molecola, emette un segnale di risonanza con lunghezza d'onda lievemente diversa a seconda della molecola di cui fa parte. In altre parole, la lunghezza d'onda del segnale di risonanza varia in funzione del micro­ambiente chimico, e quindi magnetico, nel quale è immerso il nucleo. Tale fenomeno, definito "chemical shift", consente di individuare molecole diverse contenenti lo stesso nucleo. Strumentazione
Il magnete crea un campo che può andare da 0,02/0,3 Tesla a più di 2 T. Può essere permanente (costruito di bario ceramico o ferrite), in grado di mantenere il campo magnetico a lungo dopo la somministrazione di corrente elettrica che orienti i dipoli, ma che non supera i 0,5 T; quello resistivo è costituito da bobine con continuo passaggio di corrente: anche questo origina campi < 0,5 T che necessitano di corrente continua; quello superconduttivo è analogo ai precedenti, ma mantenuto a temperature prossime allo zero assoluto (grazie all'immersione in elio liquido), sicché la resistenza sia praticamente nulla: consente campi di 1,5 ­ 2 T ed ha però alti costi di gestione.
I gradienti sono gli elementi che creano i sottocampi magnetici.
Il sistema a radiofrequenza è diviso nelle parti trasmittente e ricevente: quella trasmittente crea il campo magnetico ortogonale a quello dei magneti, e quella di ricezione capta il segnale di RM.
Le indagini basate sul principio della risonanza magnetica nucleare eseguibili sull'uomo si dividono in due categorie che non devono essere confuse poiché per la comprensione dei risultati sono richieste competenze culturali completamente diverse: MRI e spettroscopia di RM.
MRI (Immagini di Risonanza Magnetica)
Disponendo di un campo magnetico uniforme B 0 e della possibilità di applicare ad un campione degli impulsi a radiofrequenza di frequenza, durata ed intensità opportuna, è possibile ottenere, tramite il segnale FID, una valutazione quantitativa dei nuclei presenti, ed informazioni interessanti sulla organizzazione molecolare (T1 e T2). Considerando un corpo esteso, come è possibile “localizzare” le misure? La soluzione consiste nel generare un campo B 0 diverso in ogni voxel (“cubetto” virtuale) del corpo, in modo che la frequenza di Larmor del nucleo interessato sia diversa per ognuno di essi: si accendono quindi sottocampi magnetici aggiuntivi, che creano lievi alterazioni nel campo principale. Cosicché si creano delle “linee” in cui i protoni precedono alla stessa frequenza, e possono venire eccitati selettivamente, per poi fare lo stesso sempre lungo la stessa linea ma nelle altre due direzioni spaziali, per attribuire così tutte e tre le coordinate spaziali a ciascun segnale di RM. In seguito, grazie alla trasformata di Fourier, l'analisi armonica permetterà di riferire ogni segnale FID di diversa frequenza ad ogni voxel, ricostruendo l'immagine.
Mentre è abbastanza facile generare un campo linearmente decrescente in una o due direzioni, è molto complesso ottenere la variazione lineare nella terza 12
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direzione; per questo si preferisce generare un campo trasversale linearmente variabile e farlo ruotare rispetto a quello longitudinale, pure variabile. In questo modo, ad ogni angolazione si ottiene l'informazione relativa a tutti i voxel attraversati dal vettore Campo (che corrisponde ad una “proiezione”nella direzione specifica). Incrementando l'angolo si ottiene una nuova “proiezione”, e così via, come nella tecnica TC: l'unica differenza è che invece delle intensità di segnale si ha l'intensità dello spettro delle diverse armoniche.
La qualità delle immagini ottenute dipende dall'intensità ed uniformità del campo B0, dalla linearità dei gradienti di campo, dalla regolazione della durata e frequenza degli impulsi a radiofrequenza, dalla potenza del calcolatore e degli algoritmi di ricostruzione, dalle bobine di rilievo del segnale FID. Il problema principale è la localizzazione di ciascun segnale RM captato: scegliendo i parametri Tempo di Ripetizione e Tempo di Esposizione l'operatore può far sì che l'immagine sia pesata in T1 (TE: 10ms e TR: 200ms), T2 (TE: 100ms e TR: 1000ms) o in Densità Protonica (TE 10ms e TR 1000ms).
L'intensità del segnale è basata sui tempi di rilassamento: in T1 è iperintenso l'elemento con tempo T1 più breve, ovvero l'adipe; mentre in T2 è iperintenso quello con T2 più lungo.
Mezzi di contrasto: non vengono visualizzati nell'immagine, ma modificano i tempi di rilassamento dei vari tessuti; devono avere particolari caratteristiche magnetiche:
◦ diamagnetismo: elementi a pari numero di elettroni negli orbitali esterni, pertanto non hanno attività magnetica.
◦ paramagnetismo: elementi con elettroni spaiati nell'ultimo orbitale. Se immersi in un campo magnetico, si orientano formando un dipolo molto intenso in grado di influenzare le sostanze vicine. Il più usato è il gadolinio.
◦ ferromagnetismo: analoghe alle precedenti, ma perché si verifichi l'effetto è necessario che vi siano più molecole aggregate in cristalli. Mantengono il magnetismo anche dopo l'esposizione al campo magnetico, e non vengono pertanto usate per non sottoporre l'organismo ad un continuo campo magnetico.
◦ superparamagnetismo: isolamento di un singolo dominio magnetico di un aggregato molecolare ferromagnetico: l'effetto pertanto è quello di un intenso momento magnetico che però non perdura fuori dal campo esterno. Sono prodotti a base di ossido di ferro.
In base alla cinetica, i mdc si dividono in:
◦ intravascolari­extracellulari: chelati del gadolinio; sono paramagnetici ( ↓T1) e analoghi come cinetica ai mdc iodati
◦ epatobiliari: composti di gadolinio o manganese, con tropismo per gli epatociti
◦ reticoloendoteliali: ossidi di ferro; abbattono il segnale soprattutto in fegato e milza
◦ intravascolari: sperimentali, macromolecole che permangono a lungo nei vasi
◦ gastrointestinali: paramagnetici o superparamagnetici.
Risonanza Magnetica Funzionale Con la risonanza magnetica funzionale (f­MRI), grazie ad una risoluzione temporale di pochi secondi ed una rilevante risoluzione spaziale, è possibile seguire le rapide variazioni metabolico/funzionali correlate a componenti specifiche dei processi tissutali. Ad esempio, si possono sfruttare le diverse capacità magnetiche dell'ossiemoglobina e della desossiemoglobina; la variazione del segnale dell'emoglobina è usata per studiare la correlazione tra azioni e attivazione di particolari aree del SNC (segnale BOLD, Blood Oxygen Level Dependent).
• quando l'O2 è legato all'Hb i 6 elettroni del Fe2+ sono appaiati e si trovano nello stato di minore energia (“low­spin state”): HbO2 diamagnetica
13
quando l'O2 si stacca dall'Hb gli elettroni del Fe2+ sono spaiati e si trovano in uno stato di energia maggiore (“high spin state”): Hb paramagnetica
Ci si attenderebbe una riduzione del segnale quando il cervello consuma l'ossigeno del sangue; tuttavia questo effetto non si verifica, ed anzi paradossalmente si verifica il contrario: ad un aumento del metabolismo viene associato un aumento del segnale NMR. L'aumento del metabolismo cerebrale infatti porta a vasodilatazione e quindi ad un aumento del flusso sanguigno, molto maggiore dell'aumento del consumo di O2.
•
Spettroscopia di Risonanza Magnetica (MRS)
Se nel campione analizzato sono presenti diversi nuclei con momento magnetico, questi, sottoposti allo stesso campo B 0, avranno frequenze di precessione diverse e l'analisi spettrale del segnale FID mostrerà le diverse armoniche. I principali nuclidi d'interesse clinico che presentano il fenomeno della risonanza magnetica sono: il fosforo (31P) e l'idrogeno (1H) legato a molecole organiche.
Considerando le aree delle singole armoniche sarà possibile calcolare la concentrazione dei singoli nuclei ed i relativi tempi di rilassamento T1 e T2. L'analisi è perciò funzionale, in quanto rileva indirettamente la concentrazione dei vari composti in diverse aree e le esprime in ppm (parti per milione), consentendo la diagnosi di particolari patologie.
Per effettuare indagini di spettrometria MR, bisogna inizialmente “sopprimere” il segnale generato dai nuclei idrogeno dell'acqua, che generano un segnale molto intenso, bisogna poi fare le misure con un elevato campo B 0 per avere un rapporto segnale disturbo adeguato. Poiché necessita di campi ad alta intensità (1,5 ­ 2 T) e molto omogenei è ancora poco diffusa.
L'elemento più studiato nella spettrometria MR è il fosforo, che è coinvolto nei processi metabolici in diverse strutture molecolari, che possono essere differenziate e quantificate. Associando la spettroscopia all'imaging si possono caratterizzare le proprietà biochimiche di ogni singolo voxel, si ha la “Spettroscopia NMR”, molto utile per differenziare le diverse caratteristiche tissutali. 4. ULTRASUONI
Gli ultrasuoni sono onde meccaniche elastiche sinusoidali di frequenza superiore al limite di udibilità (>15­20 kHz); nella interazione con i tessuti si attivano i fenomeni tipici delle onde ed è possibile ottenere informazioni sulle proprietà fisiche del mezzo attraversato. Produzione degli ultrasuoni Gli ultrasuoni sono stati introdotti in medicina negli anni '70, ed al giorno d'oggi si spendono più fondi per gli ecografi che non per le apparecchiature radiologiche. Essi vengono usati in quasi tutti i campi della medicina. Gli U.S. impiegati in campo medicale vengono prodotti sfruttando la piezoelettricità di alcuni materiali (ceramiche): essa è la capacità di materiali come il quarzo di vibrare se sottoposti ad una differenza di potenziale, emettendo quindi un'onda sonora. I materiali piezoelettrici sono in grado anche di generare una differenza di potenziale se deformati, quindi il processo è bidirezionale.
La materia ha una struttura molecolare negativa e positiva, mediamente neutra. Modificando 14
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strutturalmente il materiale, comprimendolo, le due parti non si bilanciano più, creando dipoli interni ad esso, e quindi un campo elettrico, che sarà tanto più intenso quanto più il materiale è modificato.
Applicando un impulso elettrico, l'oggetto si contrae, e poi torna com'era prima; ma il materiale che lo costituisce è elastico, ed oscilla: applicando un impulso, il materiale si comporta come un campanello colpito da un campo elettrico.
L'oscillazione iniziale a frequenza f0 del materiale piezoelettrico si d
T0 = k · d
smorza fino ad una ampiezza T0, che dipende dallo spessore del materiale, al cui interno si era instaurata l'onda stazionaria che si attenua; al contrario la f0 è inversamente proporzionale allo spessore (f0 = 1/kd): con un dischetto di spessore grande si avrà una T0
frequenza bassa (1 mm → 1 MHz), con uno spessore minore si avrà una frequenza alta (0,5 mm → 2 Mhz).
Per avere un fascio non divergente, da poter indirizzare nel punto voluto, è necessario scegliere una frequenza di oscillazione adeguata, e quindi uno spessore opportuno del cristallo: analogamente a quando un'onda piana incontra una fessura, divergendo in base al rapporto tra il diametro della fessura e la sua lunghezza d'onda, l'angolo di divergenza del fascio dipende dal diametro della superficie che origina l'onda rispetto alla sua λ. Se la superficie è grande rispetto a λ, l'angolo è piccolo; se ha la stessa dimensione o è più piccola di λ, il fascio diverge molto. Per poter indirizzare gli ultrasuoni dove desiderato è necessario quindi avere un diametro del dischetto molto più grande della lunghezza d'onda (almeno 10 volte): λ ≫ D.
Il fascio di ultrasuoni ha una velocità di circa 1'500 m/s nei tessuti; pertanto la frequenza del fascio (ricordando che v = λ ∙ ƒ) è:
(
3
)
1,5 ⋅10
λ
Essendo il diametro del dischetto nell'ordine dei centimetri (10ˉ2 m), la lunghezza d'onda del fascio dovrà essere almeno 10 volte inferiore, al massimo nell'ordine dei millimetri (< 10ˉ3 m). Pertanto la frequenza ƒ dovrà essere almeno pari a (1,5 ∙ 103) / 10ˉ3 = 1,5 ∙ 109 Hz, ovvero maggiore di 1,5 MHz; per questo motivo bisogna usare frequenze alte: con frequenze piccole il fascio divergerebbe molto.
ƒ=
L'ecografo è composto da:
• trasduttore o sonda: genera e riceve ultrasuoni mediante il cristallo piezoelettrico. È il dispositivo elettromeccanico che permette di convertire un segnale elettrico (d.d.p.) in un pacchetto di U.S. e viceversa. Questo consente sia l'emissione dell'onda sonora, tramite applicazione di una differenza di potenziale al cristallo (effetto piezoelettrico inverso), sia la sua ricezione e traduzione: l'onda riflessa provoca infatti una deformazione nel cristallo ricevente, che a sua volta reagisce generando una differenza di potenziale (effetto piezoelettrico diretto).
Si utilizza un cristallo più grande della lunghezza d'onda; per ridurre al minimo la 15
•
•
•
divergenza del fascio si interpone una lente di plastica che determina una sorta di focalizzazione; dietro al cristallo c'è un mattoncino di plastica appesantita da polvere di tungsteno chiamato backing: quando il cristallo è eccitato le pareti anteriore e posteriore oscillano, ma di fatto solo metà dell'energia verrebbe mandata al paziente se la parete posteriore fosse libera; mettendo questo mattone si sposta il baricentro e tutto il sistema oscilla, sfruttando anche questa parete. Il backing migliora quindi l'efficienza del trasduttore.
sistema elettronico: amplifica ed elabora il segnale
sistema di visualizzazione
sistema di registrazione e stampa
Interazione degli ultrasuoni con i tessuti biologici
L'onda attraversa i tessuti causando una vibrazione delle particelle del mezzo, che si avvicinano di qualche frazione di mm (fase di compressione) per poi tornare allo stato stazionario cedendo l'energia (fase di rarefazione).
Velocità di propagazione nel
Le onde usate in Medicina hanno frequenze dai 2 ai 20 MHz e mezzo
sono oscillazioni longitudinali, perché l'unica modalità di Aria: 331 m/s
vibrazione che può propagarsi nei tessuti molli è quella Grasso: 1'450 m/s
longitudinale.
Acqua e tessuti molli: 1'540 m/s
Muscolo: 1'585 m/s
La velocità di propagazione cambia a seconda del mezzo. Ciascun mezzo, inoltre, ha una diversa impedenza, ovvero oppone Osso: 4'080 m/s
una resistenza diversa al passaggio dell'onda: essa è il prodotto tra densità tissutale e velocità di propagazione.
Essendo onde meccaniche, gli ultrasuoni sono soggetti a:
• Attenuazione: riduzione dell'intensità dipendente da assorbimento, riflessione e diffusione. Come tutte le oscillazioni che si propagano nei mezzi reali, l'intensità in uscita è attenuata rispetto a quella in entrata. La costante di attenuazione k dipende dalla frequenza, in maniera differente rispetto alle onde elettromagnetiche: normalmente quelle a frequenza più alta penetrano più facilmente, mentre al contrario, per gli ultrasuoni aumentando la frequenza diminuisce la penetrazione. Quindi per esami toracici e ginecologici bisogna usare frequenze basse, per l'occhio alte: non si possono usare frequenze alte per grandi spessori. •
16
Riflessione: nel caso delle onde meccaniche l'oscillazione si trasmette per oscillazione delle particelle; due mezzi sono differenti se sono diverse le loro velocità di propagazione oppure le densità: l'impedenza acustica Z è il prodotto di densità e velocità (ρ∙v); c'è discontinuità quando c'è differenza nell'impedenza acustica: all'interfaccia tra mezzi di impedenza diversa l'onda viene riflessa, con un angolo identico a quello incidente, in quantità proporzionale alla differenza di impedenza. Tra tessuto e sangue si ha una differenza minore dell'1% e le eco sono molto deboli; tra tessuto ed aria, o tessuto ed osso, si ha una grande differenza di impedenza, che di fatto riflette quasi tutta l'energia ☤ Alessandro G. - 2011/2012
impedendo l'osservazione in profondità: per questo motivo si utilizza il gel tra trasduttore e cute, eliminando l'aria interposta.
Z = ρ⋅⃗v
•
Diffusione: se il fascio incontra superfici irregolari costituite da particelle nell'ordine della sua λ, non si ha più il fenomeno della riflessione, ma viene diffuso in tutte le direzioni, trasformato in onda sferica. Questo accorgimento è usato per calcolare la densità del sangue: colpendo con gli ultrasuoni un vaso si otterranno onde in tutte le direzioni.
Ecografia Nella tecnica ecografica gli U.S. vengono utilizzati per localizzare le superfici di discontinuità interne agli organi, attraverso la misura del tempo tra l'emissione di un pacchetto di U.S. e la ricezione delle eco riflesse dalle superfici interne. Con l'applicazione di un impulso elettrico al trasduttore si genera un pacchetto di ultrasuoni; ogni qualvolta il pacchetto incontra una superficie di discontinuità, una parte dell'energia viene riflessa e torna verso il trasduttore. Il tempo che intercorre tra l'eccitazione e la ricezione dell'eco è direttamente proporzionale alla distanza trasduttore­struttura. Siccome viene riflessa ogni volta una piccola parte dell'energia, le strutture successive producono echi che si susseguono a seconda della distanza. Strutture più riflettenti produrranno echi più intensi e l'ampiezza dell'eco potrà essere utilizzata come elemento diagnostico (es. calcificazioni). Queste eco vengono rilevate dal trasduttore, trasformate in segnale elettrico e codificate. L'eco serve quindi per localizzare le discontinuità, fornendo la distanza di quella discontinuità dal traduttore: è una tecnica di misura spaziale.
Se per visualizzare le eco si usa un tubo catodico, e si fa muovere orizzontalmente il pennello elettronico ad una velocità pari a metà di quella del suono nell'acqua (750 m/s), sullo schermo si avrà un picco in esatta corrispondenza spaziale della struttura che ha generato l'eco (potendo quindi effettuare misurazioni). Nel caso degli ultrasuoni esistono due tipi di errore che determinano la minima misura possibile (Risoluzione: minima distanza tra oggetti rilevabile): • Risoluzione laterale (oggetti equidistanti dal trasduttore): corrisponde alla dimensione del fascio, ed è la minima distanza per cui due oggetti posti alla stessa distanza dal trasduttore, trasversalmente all'asse, possono essere visti come distinti (due oggetti che cadono nello stesso fascio danno un'eco unica).
• Risoluzione assiale (oggetti posti a diversa distanza dal trasduttore): la minima distanza per cui le eco di due oggetti posti sull'asse del trasduttore possono essere discriminate. Il limite si ha quando la prima oscillazione della seconda eco si sovrappone alla seconda oscillazione della prima eco. Misura la distanza tra due onde, cioè la lunghezza d'onda: poiché la lunghezza d'onda dipende dalla frequenza, per avere una misura più precisa nel senso assiale bisogna aumentare la frequenza, con aumento di assorbimento e riduzione della penetrazione. Una frequenza di 5 MHz dà una 17
lunghezza d'onda di 0,25 mm.
Tecnica Ecografica • A­mode (Amplitude mode, o Modulazione d'Ampiezza): è la rappresentazione più semplice. La macchina ha un trasduttore che emana un fascio, che colpisce le discontinuità; sullo schermo si vedono le varie frequenze di riflessione: il segnale è rappresentato sottoforma di una deflessione, proporzionale all'intensità, rispetto ad una linea di base. Su un cuore che batte si vedranno i due picchi che si avvicinano; una valvola calcifica ha una impendenza acustica aumentata, e l'eco sarà aumentata; lo stesso per le vegetazioni di una endocardite. Usato soprattutto in oculistica.
• B­mode (Brightness mode): immagine bidimensionale, con punti a luminosità diversa a seconda dell'ampiezza dell'eco.
• TM­mode (Time Motion mode): vengono rilevati i movimenti delle strutture, cosicché un oggetto fermo sia rappresentato come una linea, ed un oggetto in movimento come punti che si spostano. Si sparano molti impulsi successivi e si rilevano le eco facendo scorrere la linea di rappresentazione: le singole strutture in movimento lasceranno delle scie che permetteranno la descrizione del movimento. Questa tecnica non mostra quindi solo l'anatomia ma anche la funzione, cioè come si muovono le varie strutture. Usato tipicamente in cardiologia.
Ecotomografia ad Ultrasuoni
La rappresentazione delle eco con punti luminosi e la possibilità d'avere delle linee di presentazione parallele all'asse del trasduttore ha permesso di realizzare i primi ecotomografi manuali: in questo caso l'operatore muoveva il trasduttore sulla superficie del corpo avendo cura di mantenere il fascio su di un piano, mentre il trasduttore emetteva impulsi ultrasonori e le eco erano presentate come punti luminosi; il risultato era un'immagine che evidenziava il contorno degli organi attraversati. Questa tecnica si poteva utilizzare solo per organi immobili. Per poter studiare organi in movimento si sono costruiti dei trasduttori compositi, costituiti da una serie di elementi appaiati, che venivano eccitati sequenzialmente in modo da creare una scansione per linee parallele (ecotomografo a cortina lineare): il vantaggio era di poter osservare il cuore; lo svantaggio era la scarsa risoluzione laterale dei piccoli trasduttori ed il notevole ingombro che non sempre permetteva un facile accesso all'organo. Per migliorare la risoluzione laterale e ridurre l'ingombro, si costruirono trasduttori a cristallo oscillante (ecotomografo settoriale meccanico), che davano immagini settoriali molto definite e complete. Il limite di questa soluzione era la vibrazione meccanica e la perdita di prestazione col tempo. Si è così passati ai sistemi a scansione elettronica (Phased Array): in questo caso il fascio viene costruito come sommazione dei fronti d'onda generati da tanti piccoli trasduttori eccitati con logica temporale opportuna; si ottiene sia la scansione sia la focalizzazione in punti diversi, senza parti in movimento. Serve però un potente calcolatore per il pilotaggio e la ricostruzione. Flussimetria Doppler Se un'onda ultrasonora investe un oggetto in movimento l'onda riflessa o diffusa ha una frequenza diversa dall'onda incidente (effetto Doppler). La variazione di frequenza è direttamente proporzionale alla velocità dell'oggetto rispetto alla sorgente dell'onda. La frequenza di un'onda meccanica 18
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riflessa da un corpo in movimento aumenta se la particella si sta avvicinando, e diminuisce se si sta allontanando. Il fenomeno è regolato dalla formula:
v
ƒD = ƒ − ƒ0 ≃ 2 ƒ0⋅ 1 +
⋅ cos θ
v0
(
)
in cui ƒD è la differenza di frequenza, ƒ la frequenza emessa, v la velocità dell'onda, θ l'angolo. La misura sarà tanto più precisa quanto l'angolo si avvicinerà a 180° (cos180 = 1); con angolo >60° la misurazione è inutile perché l'errore è del 30%.
Secondo questo fenomeno, ad esempio, il movimento dei globuli rossi è percepibile, ed il segnale dipende dalla velocità del sangue e dall'angolo tra fascio di US e l'asse del vaso. Utilizzando frequenze dell'ordine dei MHz e indirizzando il fascio sui vasi arteriosi (velocità da 30 a 50 m/s) si ha una differenza di frequenza di qualche centinaio di Hz, che dipende dall'orientamento della sonda rispetto al vaso. La frequenza doppler ha circa una frequenza di 1 KHz, quindi ricade nell'intervallo udibile.
I flussometri possono avere emissione continua (CW, continuous wave), con due cristalli di cui uno emette ed uno riceve, od emissione pulsata (PW, pulsed wave): il primo tipo non discrimina in profondità, mentre il secondo ha un limite nella velocità rilevabile. La flussimetria ad onda continua viene usata per vasi superficiali: se l'onda colpisce le emazie viene diffusa con una frequenza diversa dall'originaria, modificata dalla loro velocità; un secondo trasduttore riceve l'onda diffusa, la trasforma in segnale e ne dà la differenza (proporzionale alla velocità del sangue e quindi del flusso); se i globuli rossi sono fermi, la differenza di frequenza è nulla, se invece si muovono, sarà più bassa se vanno verso il trasduttore o sarà più ampia se si allontanano. Il segnale Doppler può essere direttamente applicato ad un altoparlante: si udrà un segnale acuto in corrispondenza delle fasi ad alta velocità del sangue, ed un segnale grave in corrispondenza delle fasi a più bassa velocità del sangue. Se sono presenti vortici ed il sangue non ha velocità omogenee, il suono perderà la sua monotonicità. Nel sistema ad onda continua non si riesce a localizzare ciò che avviene nell'arteria e ciò che avviene nella vena, ma si hanno due suoni che si sommano. Per riuscire a discriminare la localizzazione si ricorre alla flussimetria ad onda pulsata, in cui il trasduttore è eccitato in modo impulsivo: parte un pacchetto di ultrasuoni che genera dei segnali. Non si ha una misurazione continua, ma una per ogni impulso: le eco più precoci si riferiscono agli strati vicini, quelle più tardive agli stati più distanti. Per misurare la velocità relativa ad un punto preciso è sufficiente effettuare l'analisi in frequenza del segnale generato in quel punto, e confrontare la frequenza con quella del cristallo: lo shift di frequenza esprime la velocità nella direzione del trasduttore. Per ogni impulso si ottiene una misura di velocità e rappresentando i valori successivi si può anche descrivere il comportamento pulsatile.
Tipico del PW è l'aliasing, un artefatto che si ha quando la frequenza del doppler campionata è più alta di metà della frequenza di ripetizione degli impulsi emessi: nella pratica, fa sembrare le velocità elevate come dirette in senso opposto a quello reale.
A livello pratico la flussimetria si associa all'Eco in B­mode (Eco­Doppler), eventualmente con l'ausilio di colori (Eco­Color­Doppler) in cui la differenza di segnale è rappresentata in rosso per il flusso in avvicinamento e in blu per quello in allontanamento (“B.A.R.T.”: Blue Away, Red Toward), mentre la turbolenza è rappresentata con i colori giallo e verdolino: le variazioni di colore esprimono la variabilità locale di velocità (turbolenze) e l'immagine ecografica (in grigio) evidenzia la causa del restringimento e dei vortici. Anche il Color­
Doppler soffre del fenomeno di aliasing. Vi è infine l'Eco­Power­Doppler, che rileva 19
l'intensità del segnale e le sue variazioni nel tempo (significando quindi la concentrazione di globuli rossi).
Terminologia
• Anecogeno: struttura che non produce echi → liquida. Il fascio la attraversa consentendo di visualizzare quello che sta dietro.
• Transonico: struttura che si lascia attraversare dagli US → liquida (senza tuttavia escludere la presenza di una qualche componente solida).
• Iperecogeno con attenuazione posteriore: struttura che riflette del tutto il fascio, con la formazione, posteriormente, di un cono d'ombra → calcoli, osso. • Iperecogeno con riverberazione posteriore: strutture riflettenti che creano un “effetto rimbalzo” del fascio → gas. Posteriormente alla struttura si creano bande esogene via via più tenui.
• Iperecogeno con artefatto a coda di cometa: strutture piccole molto riflettenti con “effetto rimbalzo” tra le due pareti dell'oggetto → cristalli di colesterolo, clips metalliche.
5. IMAGING RADIOISOTOPICO E TERAPIA RADIANTE
Viene definita “imaging radioisotopico” la possibilità di ottenere immagini dalla emissione di fotoni da parte di isotopi radioattivi localizzati nell'organo di interesse. La radioattività consiste nella emissione di radiazioni (particelle o fotoni) da parte del nucleo di alcuni atomi. • Nuclei molto grandi, con un alto numero di protoni (precisamente con numero atomico Z > 82) possono perdere parti consistenti dando origine a particelle alfa (α ), costituite da due protoni e due neutroni, ovvero un nucleo di elio.
• Se invece un nucleo ha troppi neutroni rispetto ai protoni, o viceversa, può dare origine a particelle beta (β ): nel primo caso l'atomo espelle una particella βˉ, ed un neutrone si positivizza diventando protone (il numero atomico Z aumenta quindi di 1 unità); nel secondo caso l'atomo espelle una particella β+, ed un protone si negativizza diventando neutrone (il numero atomico Z diminuisce quindi di 1 unità).
• Quando un nucleo subisce un decadimento (beta od alfa) resta in uno stato eccitato, e torna in uno stato non eccitato con una emissione energetica costituita da un fotone gamma (γ ). Questa emissione ha un valore ben definito, ed è la differenza tra i livelli energetici nucleari tra cui il nucleo ha “saltato” nella sua trasformazione.
Legge del decadimento radioattivo: è un processo probabilistico non influenzabile con i normali mezzi fisici ed è descritto da una legge con andamento esponenziale; il numero ∆N di nuclei che decadono in un intervallo di tempo ∆t è proporzionale al numero N di atomi considerati, all'intervallo di tempo, e ad una costante di decadimento λ specifica:
∆N = ­λ ∙ N ∙ ∆t
Il coefficiente λ indica la probabilità del decadimento: alto λ significa rapido decadimento del materiale radioattivo. Con Tempo di dimezzamento (T1/2) si intende il tempo necessario ad avere la metà della quantità di atomi radioattivi rispetto al momento di partenza: esso è quindi un metodo per esprimere la rapidità del decadimento di una specie chimica. 1/λ
esprime invece la vita media di quella sostanza.
Gamma­camera e Scintigrafia con radioisotopi γ ­emettitori I radioisotopi sono impiegati a scopo sia diagnostico che terapeutico; il segnale radioattivo viene captato da speciali strumenti, ed esposto come dato numerico o come immagine (scintigrafia). Inoltre analisi quantitative possono essere effettuate in vitro su campioni biologici, ad esempio per verificare il tipo di escrezione di una particolare sostanza, o nel 20
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dosaggio radioimmunologico.
La gamma­camera è l'apparecchiatura utilizzata per l'acquisizione delle immagini scintigrafiche. Essa rileva l'emissione puntiforme di raggi γ
provenienti da un radioisotopo iniettato nel paziente, rappresentandola graficamente come piccoli spot, grazie alla conversione in segnali elettrici da parte di una lastra formata da cristalli di Ioduro di Sodio (di spessore abbastanza grosso, da 1 pollice fino a 2 pollici). Si rilevano i fotoni che provengono da ogni area elementare e si costruisce una mappa di attività: tramite la sommazione di riprese effettuate da vari punti di vista è possibile ricostruire un'immagine tridimensionale della superficie e del volume di emissione. Se la mappa è in una sola superficie, si dice “planare”; se invece si ricostruisce la distribuzione volumetrica dell'isotopo a partire da diverse osservazioni angolari si ottiene una Tomografia (tomoscintigrafia).
L'isotopo radioattivo (γ ­emettitore) viene somministrato legato ad un carrier che lo trasporta preferenzialmente nell'organo o nella sede che si vuole studiare.
Dato che il radioisotopo iniettato proietta fotoni in ogni direzione dello spazio, per ottenere un'immagine adeguata è necessario considerare soltanto i fotoni emessi perpendicolarmente al rilevatore: pertanto anteriormente al cristallo di NaI è posizionato un collimatore a fori paralleli, una lastra schermante con fori a canali paralleli che funge da filtro per i fasci di fotoni che vi giungono: esso con questo meccanismo annulla il 90% dell'emissione, per cui è necessaria un'amplificazione del segnale captato, che avviene tramite fotomoltiplicatori installati in fototubi posteriormente al rilevatore, i quali rilevano le scintillazioni prodotte dal NaI e restituiscono un flusso di elettroni proporzionale all'intensità luminosa generata (quindi informativo sulla quantità di energia del fotone incidente) che viene trattato come segnale elettrico.
La risoluzione spaziale dipende dal tipo di isotopo (energia dei fotoni), dallo spessore del cristallo rivelatore, dal collimatore, dal numero di fotomoltiplicatori: è dell'ordine di 0,5 cm.
Le immagini ottenute nella scintigrafia non sono nitide perché la risoluzione è scarsa, ma sono ugualmente utili perché a seconda della localizzazione, o dell'assenza, del segnale in una data zona, forniscono informazioni su funzionalità e caratteristiche del tessuto. Ad esempio, nel cuore, in una zona infartuata non si ha captazione del radionuclide, mentre in una zona ischemica si ha ipocaptazione; se si riesegue l'analisi dopo qualche ora, in quest'ultima il mezzo di contrasto sarà arrivato: è un ottimo modo per distinguere se le zone ipocaptanti sono infartuate o ischemiche.
Si costruiscono gamma camere a più testate per effettuare rilievi tomografici ( SPECT: Single Photon Emission Computer Tomography). I radionuclidi sono prodotti sottoponendo una massa di materiale stabile ad un flusso di neutroni tramite reattore nucleare (in questo caso il decadimento sarà di tipo beta), oppure ad un flusso di particelle alfa da ciclotrone, ed il decadimento avverrà con emissione di positroni o cattura di elettroni.
Visto che molti dei radionuclidi utili in Medicina decadono in fretta, si è ovviato producendo i cosiddetti generatori ad eluizione, apparecchi contenenti isotopi a lunga vita che decadono nel radionuclide che si necessita; per produrre il Tecnezio 99 si utilizza la reazione 98Mo (n,γ ) → 99
Mo: per decadimento del Molibdeno 99 si genera il 99mTc che può essere separato dalla 21
matrice. Il tempo di dimezzamento dei radioisotopi coinvolti, 66 ore per il 99Mo e 6 ore per il 99
Tc, obbliga infatti ad effettuarne la separazione con generatori in loco. In linea generale è ottimale avere radionuclidi con tempo di dimezzamento paragonabile alla lunghezza dell'esame da effettuare. Il più frequentemente usato è il 99Tc, adatto ad essere coniugato a molte sostanze, quali pirofosfato (s. miocardica), sostanze per analisi del tratto GI, colloidi (s. epatosplenica e linfoide), eccetera; sono poi spesso usati 131Iodio (s. tiroidea ed esami di captazione), 18F (glucosio marcato per s. metabolica): i radionuclidi coniugati vengono detti radiofarmaci.
Per la scintigrafia le radiazioni devono avere energia 50­300 KeV, con optimum a 150 KeV; bisogna poi far sì che il decadimento emetta il meno possibile di particelle alfa e beta, che sono inutili ai fini dell'esame per la bassa penetranza ma che sono dannosi per il pz: i decadimenti a transizione isomerica e la cattura elettronica diminuiscono il problema.
PET (Positron Emission Tomography)
Il problema della scintigrafia è il collimatore, che attenua parte delle radiazioni utili, per cui è necessario usare una quantità notevole di isotopo: è stata ideata una tecnica senza collimatore, che rileva i fotoni. La PET (Positron Emission Tomography) è uno strumento costituito da un circolo di rivelatori entro cui è posto il paziente. Si basa sull'emissione positronica, un decadimento beta+, che si ha negli isotopi ricchi in protoni che decadono ad energia maggiore di 1'022 KeV.
I positroni vanno ad annichilarsi con il primo elettrone che incontrano, γ
trasformandosi in energia elettromagnetica in due fotoni di 511 KeV emessi in eˉ
direzioni opposte: grazie a quest'ultima caratteristica la PET è in grado di localizzare esattamente il luogo di annichilazione, perché i due raggi opposti γ stimoleranno contemporaneamente i due detettori opposti situati nel cerchio della β+
PET. Considerando poi tutte le linee parallele, ricostruendo un sistema attorno al paziente, si riesce ad avere una tomografia dell'organo in cui si è fissato l'isotopo, con una tecnica ad alta efficienza poiché senza utilizzo del collimatore.
Gli istotopi β+­emettitori sono Ossigeno 15 (T1/2 = 2 min), Azoto 13, Carbonio 11, Fluoro 18 (che è l'isotopo ideale, dato il suo T1/2 = 120 min; esso è anche coinvolto in molti processi metabolici, e si può coniugare a zuccheri).
La PET è una tecnica d'elezione per due funzioni: visualizzare e diagnosticare un tumore (e le metastasi), e follow­up, per ricercare se dopo intervento si sono ricreate metastasi. L'assenza di collimatori permette di rilevare accumuli di isotopo molto limitati, quali si hanno nelle metastasi. Non aumenta la risoluzione spaziale, aumenta l'efficienza e la sensibilità. Più recentemente la PET viene associata alla TC per ottenere il massimo di sensibilità, sopperendo alla scarsa definizione anatomica della PET unitamente al suo alto aspetto funzionale.
I β+­emettitori in natura non esistono: si creano con il ciclotrone, un emettitore di particelle che crea un fascio di protoni accelerati che vengono sparati contro i materiali. Un ciclotrone costa una decina di milioni di euro, in più sono necessari tutti i controlli di qualità (quello di Bologna rifornisce gran parte della regione, fino alle Marche): accanto alla macchina che fa la diagnosi c'è tutta una struttura che produce gli isotopi.
Il ciclotrone è una macchina che accelera particelle cariche secondo un'orbita circolare, grazie a magneti e radiofrequenze: è formato da due elettrodi a forma di D opposte tra loro a formare 22
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un cerchio, separate da qualche centimetro di spazio. Una particella carica, inserita in mezzo a questo campo elettrico, tenderebbe a dirigersi verso l'elettrodo di carica opposta, con velocità proporzionale alla distanza ed alla differenza di potenziale applicata; se però si inverte la polarità periodicamente, la particella si troverà a fare “avanti­indietro” tra i due elettrodi a velocità sempre crescente e quindi percorrendo ogni volta, nello stesso tempo, un tragitto maggiore. Se a questo sistema si applica anche un campo magnetico ortogonale al tragitto della particella, ecco che essa non avrà più un tragitto lineare, ma spirale, percorrendo circonferenze di diametro sempre maggiore. Alla fine la particella troverà un orifizio che la porterà al materiale bersaglio, che viene così colpito producendo il radioisotopo di interesse.
Radioterapia
In base al dualismo onda­corpuscolo, possiamo descrivere i fenomeni che coinvolgono particelle elementari e le onde elettromagnetiche utilizzando l'una o l'altra rappresentazione: le chiameremo tutte “Radiazioni”. Tra le particelle avremo gli elettroni, i protoni, i neutroni, le particelle α e gli ioni pesanti; tra le onde elettromagnetiche avremo i Raggi x ed i Raggi γ . È importante definire il tipo di radiazione perché risulta diverso il tipo di interazione con il mezzo ed il conseguente effetto biologico. A seconda dell'energia, la radiazione può determinare la ionizzazione o meno: avremo quindi radiazioni ionizzanti e non ionizzanti, con effetti completamente diversi.
I processi di interazione fra le radiazioni ionizzanti ed il sistema biologico producono, attraverso una serie successiva di eventi, l'effetto clinico. Tali eventi possono schematicamente essere suddivisi in tre fasi successive: fisica, chimica e biologica.
1. Fase fisica: ionizzazione ed eccitazione, variabili e dipendenti dalla natura delle radiazioni (l'efficacia delle radiazioni ad alto Linear Energy Transfer è maggiore, a parità di dose: le radiazioni corpuscolate hanno un alto LET, mentre quelle non corpuscolate un LET più basso) e dalla loro energia, nonché dalla dose.
2. Fase chimica: il danno diretto è dato dalla ionizzazione ed eccitazione delle molecole cellulari con rottura di legami, quello indiretto (l'80%) dalla formazione di radicali dall'acqua. La presenza di ossigeno consente la produzione di idroperossido e superossido, altamente reattivi, che aumentano l'effetto della radiazione.
3. Fase biologica: gli effetti ionizzanti si hanno in particolare a livello del DNA; sono più radiosensibili le cellule in G2, M ed iniziale S, nonché i tessuti in elevato turnover. I tessuti in rapido turnover però sono anche generalmente in grado di riparare in breve tempo il danno. I prodotti biochimici determinano effetti a livello cellulare che si possono manifestare a breve termine (morte cellulare) oppure a lungo o lunghissimo termine (alterazioni cromosomiche): si possono avere danni acuti a carico di epiteli o midollo, con latenza di giorni o settimane, e danni tardivi dati dalla sclerosi dei tessuti a bassa proliferazione, con latenza di mesi o anni.
Sotto molti aspetti la radioterapia a livello locale ha un effetto biochimico simile a quello della chemioterapia, con il vantaggio di una migliore localizzazione del trattamento. I. PARTICELLE PESANTI CARICHE (PROTONI, IONI) Le particelle pesanti interagiscono elettricamente con gli elettroni del mezzo che attraversano, hanno un LET elevato e per effetto della loro grande massa hanno una traiettoria quasi rettilinea.
Quando la particella entra nella materia, si esercitano forze di attrazione o repulsione elettrica con gli elettroni degli atomi del mezzo: si ha un impulso ed un trasferimento di 23
energia ad ogni elettrone, con ionizzazione o eccitazione. Siccome la massa della particella incidente è molto grande rispetto alla massa dell'elettrone (circa 800 volte), per ogni interazione si perde solo una piccola parte di energia, e la traiettoria rimane quasi rettilinea: queste particelle sono dotate di una potenza enorme. La perdita di energia della particella incidente per unità di percorso (stopping power) è data dalla formula di Bethe­Block:
2 2 4
2 2
4π k0 z e N
dE
2mc β
−
=
⋅
ln
− β2
2
2
dx
mV
I ⋅( 1 − β )
(
)
I termini che condizionano il rilascio di energia della particella incidente sono: • Carica della particella incidente (z∙e) e densità elettronica del materiale (N), al numeratore, sono proporzionali alla perdita di energia.
• Velocità della particella incidente (V) ed energia media di eccitazione del materiale (I), al denominatore, sono inversamente proporzionali alla perdita di energia.
La conseguenza più importante del fatto che la perdita di energia sia inversamente proporzionale alla velocità è la presenza del “Picco di Bragg”: inizialmente la perdita di energia modifica poco la velocità della particella, e la cessione dE
Picco di Bragg
dx
di energia per unità di percorso rimane quasi costante; quando però la velocità si riduce, la perdita di energia per unità di percorso aumenta, e tutta l'energia residua della particella viene ceduta in uno spazio ristretto. profondità
Acceleratori di particelle cariche pesanti: sono necessari un campo elettrico per accelerare le particelle ed un campo magnetico per defletterne la traiettoria; più le particelle sono pesanti, più sono necessari campi elettromagnetici fortissimi, oppure grandi diametri, per mantenere le particelle in traiettoria. Il CNAO di Pavia è costato circa 120 milioni di Euro.
• Sincrotrone : diametro > 25 m (fino a 100 metri)
• Ciclotrone : diametro < 5 m. L'aumento di energia è ottenuto col campo elettrico, la deviazione col campo magnetico. Per deviare particelle cariche con grande massa è necessario disporre di campi magnetici molto intensi, ottenibili solo con materiali superconduttori. Terapia con particelle cariche pesanti (Adroterapia) Protoni con una energia di 250 MeV hanno una profondità di penetrazione di circa 24 cm; se si usassero particelle come i fotoni si avrebbe solo un rilascio massimo di energia all'inizio, e poi decrescente: grazie alle proprietà delle particelle pesanti si riesce invece a colpire tessuti profondi senza danneggiare eccessivamente quelli sani che devono essere attraversati.
Dose
Fotoni: 6 MeV
Picco di Bragg
Protoni: 250 MeV
Profondità (cm)
Rispetto ai protoni, gli ioni come il carbonio, molto più pesanti, hanno anche il vantaggio di un effetto “ meccanico” diretto sulle strutture anatomiche. Grazie all'utilizzo di varie particelle dotate di energie lievemente differenti si riesce 24
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inoltre a colpire tessuti posti a profondità diverse, sfruttando i differenti picchi di Bragg associati ad ogni carica energetica.
Un'applicazione dell'adroterapia si sta sperimentando a Catania presso il Centro CATANA per il trattamento dei tumori dell'occhio, un organo in cui si deve delimitare molto bene la zona della terapia, data la sua localizzazione a ridosso del nervo ottico e del SNC.
II. PARTICELLE CARICHE LEGGERE (ELETTRONI, POSITRONI) Nel caso di particelle leggere, queste sono più facili da accelerare, la cessione di energia per singolo urto può essere molto più consistente (può raggiungere l'energia totale della particella incidente), ma la loro traiettoria cambia ad ogni urto, pertanto l'area di irraggiamento è meno definita. Essendo la carica della particella incidente di valore unitario, la cessione di energia per unità di percorso, dovuta alle collisioni, dipende solo dalla densità elettronica del mezzo e dalla velocità della particella al quadrato. In questo caso non si ha un picco di Bragg, perché l'energia della particella diminuisce rapidamente con la Radiazione di frenamento (Bremsstrahlung)
penetrazione. Quando la particella ha ridotto la sua velocità a seguito delle collisioni, essa risente della attrazione dei nuclei degli atomi del mezzo, e diventa prevalente la perdita di energia per irraggiamento (Bremsstrahlung).
Quando si considerano le particelle leggere bisogna considerare sempre le loro energie medie e non quelle massime: ad esempio, per un fotone con energia massima 12 MeV, l'energia media è di 7 MeV.
Acceleratori di particelle cariche leggere:
• Ciclotrone
• Acceleratore lineare (LinAc): non potendosi generare delle d.d.p. nell'ordine dei MV, si utilizzano guide d'onda e cavità risonanti elettromagnetiche (dette Klystron). I sistemi LINAC che si usano in terapia sono cannoni, ovvero tubi con anelli di accelerazione, simili ad ampolle, entro cui l'elettrone si muove. L'onda elettromagnetica si muove nella guida, e la carica elettrica viene continuamente accelerata dal campo elettrico associato all'onda: poiché l'elettrone accelera ma anche l'onda sottostante avanza, mentre si allontana dal catodo l'elettrone progressivamente aumenta di energia. In questo modo la carica può raggiungere energie di decine di MeV (fino a 20 MeV) e velocità molto vicine alla velocità della luce. In terapia si usano solitamente 6 ­ 10 MeV.
All'uscita dell'apparecchio si può mettere un bersaglio di Tungsteno per gli elettroni, che genererà dei raggi X.
Fino ad alcuni anni fa i fotoni per irraggiamento non si producevano con tubi radiogeni o con acceleratori lineari, ma si usavano isotopi Gamma emittenti (Cobalto 60 e Cesio 137). Si aveva 25
il vantaggio di una energia ben definita dei fotoni, che permetteva un calcolo esatto delle dosi, ma bisognava tener conto del decadimento della sorgente e si avevano energie troppo basse per trattare adeguatamente organi profondi. a) Radioterapia con elettroni Nell'uso di elettroni si ha una forte attenuazione con la profondità, ed il massimo di dose (ionizzazione) si ha alla superficie di impatto. Questo è molto utile per trattamenti cutanei. Dose
1 MeV
5 MeV
Profondità
b) Radioterapia con fotoni X e γ
I raggi X ed i raggi γ sono radiazioni elettromagnetiche ad alta energia, che vengono prodotte nella parte esterna o nella parte nucleare degli atomi.
Molti nuclei, a seguito di un decadimento radioattivo si trovano in uno stato energetico eccitato e tornano allo stato fondamentale emettendo dei fotoni γ di energia (e quindi lunghezza d'onda) ben definita, corrispondenti ai salti tra i livelli energetici dello specifico nucleo. Pertanto lo “spettro energetico” dei Raggi γ è uno spettro a righe, tipico del nucleo che lo ha generato. Tra i diversi salti energetici, che hanno diversa probabilità e diverso T1/2, solo alcuni hanno energie utili per la terapia radiante (che comunque sono molto basse e permettono solo trattamenti superficiali), altri vengono utilizzati per l'imaging radioisotopico. La cessione dell'energia non comincia immediatamente: vi è una parte in cui non viene rilasciata dose, dopodiché l'energia che viene rilasciata dipende dalla profondità. Quando i fotoni x e γ penetrano nella materia, interagiscono con gli atomi e possono provocare eccitazione, ionizzazione e formazione di particelle: l'eccitazione non è molto importante, e determina solo una piccola cessione di energia; la ionizzazione è molto più interessante ed innesca processi biochimici importanti; la generazione di particelle (coppie o tripletti) avviene solo ad energie elevate e produce effetti molto simili a quelli della ionizzazione. La ionizzazione dell'atomo del mezzo avviene attraverso l'effetto fotoelettrico e l'effetto Compton: l'interazione fotoelettrica è più probabile per valori limitati di energia dei fotoni; la probabilità di interazione Compton aumenta aumentando l'energia del fotone.
L'energia rilasciata dai fotoni diminuisce con la profondità; si può aumentare la dose che colpisce il bersaglio attraverso l'irraggiamento da più punti di incidenza.
L'irraggiamento da diverse direzioni permette di concentrare l'effetto al volume bersaglio risparmiando i tessuti circostanti; è necessario fare un piano di trattamento utilizzando un calcolatore, sulla base dell'immagine TC, chiamato TPS (Treatment Planning System): la Intensity Modulated Radiotherapy (IMRT) permette inoltre di adattare, in base alla morfologia del tumore, la posizione di lamelle schermanti allo sbocco del LINAC per modulare la forma del fascio 26
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incidente.
La regolazione del fascio può essere anche guidata da in imaging in tempo reale: il principio della Image Guided Radiotherapy (IGRT) è quello di non basarsi esclusivamente sull'immagine iniziale, con i marker segnati inizialmente sulla pelle del paziente, su cui muoversi, in quanto il tumore stesso dopo 3­4 giorni di terapia, se questa è efficace, si sarà ridotto e modificato, correndo il rischio di proseguire una terapia sull'immagine del primo giorno che potrebbe non essere più quella attuale. Si è pensato di usare lo stesso fascio di fotoni del LINAC come strumento regolatore dell'immagine radiologica, e di regolare le lamelle TPS in base ad essa.
L'ultima soluzione è quella più sofisticata, la TC Guided Radiotherapy o Tomotherapy: si utilizzano insieme una TC ed un sistema per irraggiamento. Il paziente la sera si sottopone ad una TC di tutto il corpo, poi durante la notte il calcolatore individua la zona da trattare, il giorno dopo viene rimesso nella posizione iniziale e viene irradiato. Il sistema è efficiente e può intervenire irradiando ovunque nel corpo in un'unica passata. Il sistema di IMRT analizza soltanto singoli piani; con la tomoterapia si può fare una scansione totale e si possono avere risultati molto buoni: questo sistema permette una delimitazione molto più precisa della zona da trattare, ma si sono notate più recidive rispetto alla IMRT, poiché a volte nella TC si rileva solo la massa maggiore e non quelle piccole contigue, rischiando di non trattarle, mentre l'imprecisione della IMRT consente anche un irraggiamento nelle zone vicine.
Brachiterapia La tecnica radioterapica con fasci esterni determina sempre un irraggiamento dei tessuti sani, che il fascio deve attraversare per raggiungere la sede di terapia. In alcuni casi è possibile raggiungere la sede direttamente e posizionare in loco una sorgente radioattiva: questa tecnica viene indicata come brachiterapia. Essa era in passato una soluzione distruttiva, ma oggi si riescono a fare buoni calcoli di dose ottenendo l'irraggiamento in una zona ben definita, senza problemi con gli organi vicini.
In genere si usano isotopi βˉ­emettitori a bassa energia (qualche decina di KeV) per avere un effetto circoscritto alla zona di interesse. Gli isotopi più usati sono lo Iodio 125 (βˉ, 28 KeV, T1/2 = 60 giorni) ed il Palladio 103 (βˉ, 21 KeV, T1/2 = 17 giorni). Il cancro della prostata, ad esempio, si può trattare con l'irraggiamento esterno a raggi contrapposti o con l'impianto di grani radioattivi: attraverso una sonda ad ultrasuoni transrettale si localizza la prostata e vi si inseriscono dei piccoli aghetti che irradiano il tessuto prostatico per controllare il tumore.
Radioterapia Metabolica Un ulteriore modo per portare un elemento radioattivo nella sede di trattamento è quello di legare l'atomo radioattivo ad una molecola che viene catturata dall'organo bersaglio nel normale processo metabolico. È il caso dello Iodio per la tiroide, o degli zuccheri per i tessuti ad elevato rate metabolico (tumori, metastasi). Se l'elemento è un gamma­emettitore possiamo rilevarne la disposizione nell'organismo. Nel caso di tumori alla tiroide si usa Iodio 131.
Si sta cercando di sviluppare nuovi isotopi radioattivi che possano allo stesso tempo svolgere un'azione terapeutica e permettere la visualizzazione del sito d'azione, 27
magari associando due diversi isotopi (uno PET ed uno beta emettitore). 6. DOSIMETRIA E RADIOPROTEZIONE Quando si usano radiazioni a scopo diagnostico o terapeutico si hanno sempre effetti voluti ed effetti non desiderati: gli effetti voluti rappresentano il “beneficio”, gli effetti non desiderati rappresentano il “rischio”.
I fotoni X che giungono sulla lastra oltrepassando il corpo del paziente sono meno del 5%: il restante 95% è assorbito dai suoi tessuti. Per innescare un danno biologico sono necessari circa 10 KeV, mentre i fotoni utilizzati in radiologia hanno energie che raggiungono 50 o 100 KeV: ciò vuol dire che ciascuno di quei fotoni può produrre molte ionizzazioni nei tessuti che attraversa. In alcuni casi, quando la ionizzazione è usata a scopo terapeutico, questo è accettato e voluto, in altri casi è solo un prezzo da pagare per ottenere un'informazione diagnostica: ogni volta che un paziente si sottopone ad un esame, oltre al vantaggio clinico che ottiene, corre un rischio, che va quindi ottimizzato. È compito del medico definire il rapporto tra rischio e beneficio per il paziente, ed applicare la procedura solo se ne vale la pena. Per quanto riguarda il rapporto rischio­beneficio, la posizione del medico è molto diversa da quella di un paziente: il paziente accetta un rischio a fronte di un possibile beneficio; b isogna cercare di ridurre per quanto possibile il rischio del paziente, sebbene per ottenere informazioni di qualità sia necessario esporlo a dosi alte di fotoni: ad esempio per ottenere il doppio di informatività bisogna quadruplicare la dose somministrata (quindi per migliorare il risultato bisogna pagare altrettanti costi). Il medico invece non ha nessun beneficio, quindi per lui l'unica possibilità di intervento è ridurre il proprio rischio al minimo possibile. Durante un esame radiologico il paziente è investito dal fascio primario, da cui derivano le informazioni ottenute, mentre l'operatore è investito dalla radiazione diffusa, che si origina principalmente per effetto Compton; in questo rapporto tra radiazione diffusa e incidente, l'operatore dovrebbe essere sottoposto a poca radiazione diffusa, mentre il paziente a molta radiazione diretta: per questo è consigliabile mantenere basse dosi. In un eccesso di autoprotezione, alcuni medici, per non aumentare il proprio rischio, limitano troppo il vantaggio ottenibile del paziente.
Il paziente:
L'operatore:
☹ È investito dal fascio primario
☹ È investito dalla radiazione diffusa
☺ Accetta un rischio a fronte di un beneficio
☹ Non ha nessun beneficio
☹ Sono previste diverse “proiezioni”
☹ Deve rimanere vicino al paziente
☺ Si possono usare filtri e diaframmi
☺ Può usare mezzi di protezione
☹ La procedura può essere ripetuta: il rischio per la singola procedura non è isolato.
Grandezze dosimetriche
L'esposizione valuta la capacità di un fascio di ionizzare l'aria (più precisamente il numero di coppie di ioni prodotte in aria da una certa quantità di Rx); si misura in Roentgen o, nel S.I., in C/Kg (1 R = 2,58 × 10ˉ4 C/Kg).
Questa misura non considera però che il trasferimento di energia dalle radiazioni indirettamente ionizzanti necessita di una fase di “attivazione” degli elettroni del mezzo, e di una fase di ionizzazione del mezzo da parte delle particelle messe in moto; la prima fase è descritta dalla K.E.R.MA. (Kinetic Energy Released in the MAterial): K=dEtr/dm, ovvero dal rapporto tra le energie cinetiche iniziali delle particelle cariche prodotte dalla radiazione in un 28
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elemento di massa m; la seconda fase è espressa dalla grandezza dosimetrica fondamentale in radioprotezione, la Dose assorbita (D), ovvero l'energia assorbita per unità di massa:
D = dE/dm,
dove E è l'energia media ceduta dalle radiazioni ionizzanti alla materia in un elemento volumetrico di massa m.
L'unità di misura nel S.I. è il gray (Gy): 1 Gy = 1 joule assorbito da 1 kg di materia = 1 J/kg.
I fattori di conversione da utilizzare quando la dose assorbita è espressa nella vecchia unità di misura, il rad (1 rad = 1 grammo di materia che assorbe l'energia di 100 erg), sono: 1 rad = 10ˉ2 Gy = 0,01 Gy = 1 centigray; ovvero 1 Gy = 100 rad.
Per la misura degli effetti biologici dovuti alla dose assorbita D dagli esseri umani, è stato introdotto il concetto di Dose equivalente (H), che tiene conto del diverso danno biologico, a parità di D, prodotto dai vari tipi di radiazioni ionizzanti sull'uomo: a seconda che l'energia venga somministrata sottoforma di particelle alfa, protoni, ioni, fotoni, l'effetto non sarà lo stesso, poiché l'entità della ionizzazione è diversa.
Per evitare confusioni con D, l'unità di misura di H è stata chiamata Sievert (Sv). Di uso più comune sono i sottomultipli millisievert (mSv), pari a 1/1'000 Sv, e microsievert (μSv) pari a 1/1'000'000 Sv. H rappresenta una grandezza dosimetrica radioprotezionistica da valutare quando si considera l'essere umano, ed è ottenuta moltiplicando la dose assorbita D per un “fattore peso” della radiazione, adimensionale, dipendente dalla tipologia della radiazione, dalla sua energia, ecc:
H = D × WR Per elettroni e fotoni WR è uguale ad 1, cosicché D ed H sono numericamente uguali: 1Sv = 1Gy = 1 J/kg. Per particelle alfa, ioni o neutroni WR è maggiore, addirittura fino a 20. Se H è espresso nella vecchia unità di misura rem valgono le seguenti relazioni: 1 rem = 10ˉ2Sv; ovvero 1 Sv = 100 rem.
Somministrando 1 Gy, ovvero 1 joule ad 1 kg di tessuto si ha un aumento impercettibile della sua energia (termica): ce ne vogliono ben 4'186 per ottenere 1 caloria. Ma 5 gray a tutto il corpo sono invece già una dose letale: sebbene questa quantità di energia sia quindi piccola, ha un effetto grande, che non è un aumento di temperatura, ma un effetto chimico, di aumento di ionizzazione. Per la radioterapia localizzata nel volume bersaglio si arriva a somministrare dosi di 50 gray, praticamente 10 volte superiori alla dose necessaria a distruggere le cellule tumorali in questione.
Rapporto Dose ­ Danno L'esposizione alle radiazioni dei diversi organi e tessuti nel corpo dà origine a diverse probabilità e gravità di danni. Il termine “detrimento complessivo” indica il rischio potenziale che potrà o meno realizzarsi: situazioni apparentemente tranquille possono avere un altissimo rischio potenziale. Il detrimento totale si riduce eliminandone o riducendone le diverse componenti. Se si vuole valutare il detrimento complessivo dovuto alle dosi equivalenti (Hi) ricevute dai vari organi e tessuti del corpo, si calcola la Dose Efficace (E). Essa si ottiene dalla dose equivalente H assorbita dai diversi organi, assegnando ad essi un diverso peso in relazione alla probabilità di danno: E = ∑(w0H0). Come regola, un tessuto è tanto più radiosensibile quanto più le sue cellule si riproducono rapidamente; i tessuti di un bambino, ad esempio, sono più radiosensibili di quelli di un adulto.
Per calcolare la Dose Efficace bisogna sapere:
• quanta dose colpisce il paziente
29
che tipo di radiazioni sono coinvolte
quali organi vengono colpiti, considerando se sono colpiti direttamente o dalla dose diffusa.
La ESD (Entrance Skin Dose) esprime il potere ionizzante del fascio; per misurarla si usano dosimetri tra cui quello per eccellenza è la camera a ionizzazione: poiché la causa del danno ai tessuti è la ionizzazione, questa è la caratteristica da considerare. Questo tipo di dosimetro è costituito da un condensatore mantenuto carico da un alimentatore; la ionizzazione dell'aria all'interno, da parte delle radiazioni, determina coppie ione­elettrone che si spostano sulle armature determinando una corrente elettrica di intensità proporzionale al numero di ionizzazioni al secondo. Un modo più semplice ed utilizzato ampiamente consiste nel mettere una camera a ionizzazione in uscita del tubo, immediatamente dopo i diaframmi. Per valutare i possibili effetti dell'irraggiamento bisogna quindi tenere conto dell'ESD, dell'ampiezza dell'area investita e della tipologia degli organi investiti, direttamente e indirettamente.
Il primo passo per calcolare la dose efficace consiste nel misurare la DAP (Dose Area Product), considerando l'area irradiata e moltiplicandola per la ESD; poi si valutano le dosi assorbite nei diversi organi, considerando l'orientamento dei fasci, l'energia media dei fotoni, la struttura somatica del paziente. Sono disponibili diversi programmi che permettono di valutare la dose efficace nelle singole situazioni, con una indeterminazione di circa il 10%. Un altro metodo utilizzato è il Metodo Montecarlo, che simula il numero di ionizzazioni per ogni singolo fotone sparato, sempre partendo dalla DAP, dall'area irradiata e da una struttura anatomica semplificata. Si calcola ciò che può Dose Efficace per le diverse procedure
avvenire per ogni fotone, per migliaia di volte, fino mSv
a quando non si ottiene una rappresentazione 0 2 4
6 8 10
Computed Tomography
virtuale. È necessario conoscere qual è la dose Head
Torax
entrante e qual è il campo irradiato per ogni Abdomen
proiezione.
Liver
Kidney
Infine, il Modello ODS­60 stima le dosi che Lumbar pine
giungono ai singoli organi calcolando Fluorographic examinations
Barium enema
l'attenuazione del fascio nei vari tessuti Barium meal
IVU
attraversati, considerando anche il loro diverso Radiographic examination
coefficiente di assorbimento, oltre alle condizioni Lumbar spine
Abdomen
di emissione della radiazione. Pelvis
Il calcolo della dose efficace per procedure Torax
Head
complesse è laborioso e soggetto a notevole errore, Spine (full)
e viene applicato sistematicamente solo per Interventional Radiology
Diagnostic
ricerca! Normalmente viene applicato per Therapeutic
categorie e non sul singolo paziente.
La Dose Efficace nelle diverse procedure si Annual natural dose
mantiene su livelli molto bassi, nell'ordine dei milliSievert.
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RISCHIO DETERMINISTICO E RISCHIO STOCASTICO
Quando nei diversi tessuti si supera una soglia ben definita di dose assorbita, si hanno manifestazioni di sofferenza tissutale che possono andare dall'eritema all'edema o alla necrosi; queste sono un effetto deterministico dovuto ad un uso improprio ed alla somministrazione di dosi localizzate di entità superiore alla soglia di innesco degli effetti; se si ha guarigione non 30
☤ Alessandro G. - 2011/2012
si hanno conseguenze a distanza. Qualunque sia la dose assorbita, le radiazioni innescano anche processi dannosi che possono manifestarsi anche a notevole distanza di tempo dall'irraggiamento. Si assume che questi effetti stocastici non abbiano una soglia di innesco, e che siano linearmente proporzionali alla Dose Efficace; la dose efficace è un buon indice di rischio stocastico e quindi un buon modo per valutare le probabilità di causare danni mortali:
Rischio = ( 5% / Sievert ) / 20 anni,
ovvero esponendo ad una Dose Efficace di 1 Sv una popolazione di 100 persone, si hanno mediamente 5 tumori letali entro 20 anni.
Il rischio deve essere valutato per decidere l'opportunità dell'esame: si può arrivare alla situazione in cui il pz è stato sottoposto ad un numero talmente elevato di procedure il cui singolo rischio si è sommato, che diventa più pericoloso sottoporlo ad un nuovo esame, che non trattare la patologia! Allo stesso tempo non ci sono limiti per la dose efficace da somministrare al paziente: vige il principio ALARA (As Low As Reasonably Achievable), secondo cui è sufficiente e necessario mantenere le dosi più basse possibili, compatibilmente al risultato che si desidera ottenere.
Ci sono invece limiti alla dose efficace che coinvolge la popolazione e gli operatori:
• Emax totale: 20 mSv all'anno. Se ci sono condizioni ambientali che portano a prevedere di superare questa dose, le popolazioni devono essere allontanate.
• Emax per i lavoratori di cat. A (esposti professionalmente alle radiazioni): 6 mSv all'anno (equivalente alla dose di una TC). Se dal registro del dosimetro dell'operatore risulta una dose più alta, non necessariamente assorbita, ma anche solo teorica, egli viene momentaneamente allontanato dal servizio.
• Emax per la popolazione: 1 mSv all'anno (equivalente alla dose di 10 radiografie).
Cosa fare:
1. Ottimizzare le procedure radiologiche dal punto di vista strumentale: non vuol dire comprare strumenti più nuovi ma ottimizzare la dose in funzione dei tessuti da attraversare; le dosi a parità di immagini saranno in questo caso più basse.
2. Ridurre al minimo i tempi di esposizione.
3. Evitare esposizioni inutili.
4. Utilizzare filtri, diaframmi e schermi protettivi
5. Evitare l'irraggiamento di organi “critici” (gonadi, midollo, etc.).
6. Evitare o ridurre all'indispensabile l'esposizione di feti.
7. Allontanarsi per quanto possibile dalla sorgente di radiazione: raddoppiando la distanza dalla sorgente radioattiva la dose assorbita si riduce di ¼.
8. Usare la testa e non fare gli “eroi”.
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