Enrico Grassi
Tra pluralismo e corporativismo
[Dahl ha sostenuto che gli equilibri tra le grandi corporazioni politiche, economiche e
sindacali, veri e propri sottosistemi, evitano che si creino situazioni di dominio di una sola
parte, dando luogo ad una democrazia pluralista].
Alcuni pensano che il rapporto tra Stato e società sia cambiato con la
nascita del capitalismo di Stato, quando quest’ultimo è diventato forza
economica attiva, che interviene in prima persona nella sfera sociale.
Marramao ha discusso il problema del ruolo dello Stato attraverso le teorie
formulate in Germania all’epoca della Repubblica di Weimar, procedendo poi
alla contrapposizione delle tesi dei teorici francofortesi (la Kritische Theorie) a
quelle di Neumann, Fraenkel, Laski, Maier, Kirchheimer, che, seppure con
intenti diversi, hanno indirizzato la ricerca sulla tendenza pluralisticocorporatista, diventata a parer loro sostanza delle società post-industriali a
partire dagli anni venti. A Habermas ed Offe mancherebbe proprio questa
visione dei conflitti intersettoriali, limitandosi la loro teoria dei sistemi al nesso
complessità-riduzione. Non avrebbero capito, in sostanza, che i molteplici
interessi si ricompongono in equilibri precari e quindi mutevoli, avendo
sacrificato l’aspetto dinamico-trasformativo alla ricerca del paradigma unico,
del paradigma della governabilità, ove far confluire politica ed economia,
senza tenere conto del fallimento delle politiche keynesiane e del Welfare
State. L’altro gruppo di teorici invece avrebbe capito i mutamenti che lo Stato
subisce a partire dagli anni venti, nel momento in cui entra nel privato e nel
sociale, diventando luogo di conflittualità, di alleanze, di mediazioni. Il
compromesso tra soggetti collettivi diventerebbe il prerequisito di ogni
intervento anticrisi dello Stato (1).
“Ma proprio perché frutto di un compromesso, la politica economica e sociale non è
pianificata sulla base del riferimento monofunzionale ad un unico e omogeneo interesse (sia
pure quello «comune»), ma è piuttosto il vettore che di volta in volta emerge dal conflitto tra le
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diverse «autonomie» in cui il sistema politico è costituzionalmente diviso” ( ).
È questo il «paradigma dello scambio politico» di cui parla Rusconi,
che sottopone il potere a continui rimodellamenti dovuti alle nuove forze che
vi entrano antagonisticamente, in una dinamica che disconosce ogni logica
monocausale (3). Lo stesso autore, riassumendo un articolo di Fraenkel, così
scriveva:
“Il deperimento del parlamento è irreversibilmente legato alla sua forma di
rappresentanza liberale «individualistica» – i cui corollari sono la prepotenza delle logiche di
coalizione, da un lato, e l’onnipotenza dell’esecutivo-amministrativo, dall’altro. La correzione
1 - Si veda di F. L. Neumann The Change in the Function of Law in Modern Society, in K. Knorr e E. A.
Shils (a cura di), Selected Readings, Second Year Course in the Study of Contemporary Society,
University of Chicago Press, Chicago 1939, versione abbreviata di Der Funktionswandel des Gesetz im
Recht der bürgerlichen Gesellschaft, in “Zeitschrift für Sozialforschung”, 1937, vol. VI, pp. 542-596;
trad.it., Mutamenti della funzione della legge nella società borghese, in F. L. Neumann, The democratic
and the authoritarian state, Free Press of Glencoe, London 1964; trad. it., Lo Stato democratico e lo
Stato autoritario, il Mulino, Bologna 1973, p. 273 segg.. L’autore mostra in chiave critica come ad una
economia monopolistica segua nella sfera politica la democrazia collettivista, secondo la definizione di
Fraenkel (1929) e Laski (1931), in cui le decisioni politiche nascono dall’incontro di più volontà,
comprese quelle delle organizzazioni sociali autonome, e osserva che nella sfera giuridica i principi
generali (Generalklausen), manipolabili in vario modo, sostituiscono le leggi generali. L’autore ritorna sul
pluralismo nel Behemoth, cit., p. 31-35.
2 - G. Marramao, Dopo il Leviatano, Giappichelli, Torino 1995, p. 167.
3 - G. E. Rusconi, Scambio, minaccia, decisione, il Mulino, Bologna 1984.
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va cercata nella creazione di organismi liberi, ma collettivi, perché organizzano interessi
sociali, che competano direttamente con l’amministrazione sul terreno delle decisioni di fatto.
Il parlamento e il sistema dei partiti rimangono insostituibili istituti «politici», ma essi sono da
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integrare con istituti di rappresentanza «sociale» dotati di piena legittimità decisionale” ( ).
Dahl ha sostenuto che gli equilibri tra le grandi corporazioni politiche,
economiche e sindacali, veri e propri sottosistemi, evitano che si creino
situazioni di dominio di una sola parte, dando luogo ad una democrazia
pluralista (5).
4 - G. E. Rusconi, La «Kollektive Demokratie» di Fraenkel e il corporatismo contemporaneo, in
“Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali”, 1980, n° 8, pp. 593-599. Su queste posizioni si
trovano anche O. Kirchheimer Strukturwandel des politischen Kompromisses (1941), p. 223 segg., in
Von der Weimarer Republik zum Faschismus: Die Auflösung der demokratischen Rechtsordnung,
Suhrkamp, 1976 e C. S. Maier, Recasing burgeois Europe, Princeton University Press, Princeton 1975;
trad. it., La rifondazione dell’Europa borghese, De Donato, Bari 1979, pp. 23-34 e 604-620. N. Bobbio in
La regola di maggioranza: limiti e aporie, in N. Bobbio, C. Offe, S. Lombardini, Democrazia,
maggioranza e minoranza, il Mulino, Bologna 1981, pp. 49-51, include la libera contrattazione e il
compromesso tra i principi della democrazia, purché in un rapporto tra uguali. Esprime lo stesso
concetto anche in Il futuro della democrazia, Einaudi, Torino 1995, (I ed. 1984), nel capitolo Contratto e
contrattualismi nel dibattito attuale, ove il potere è ridotto a mérecratie, a potere delle parti, in una
visione neocontrattualista, costrette ad accordarsi su tutte le leggi.
5 - R. Dahl, Dilemmas of Pluralist Democracy, Yale University Press, New Haven 1982; trad. it., I
dilemmi della democrazia pluralista, il Saggiatore, Milano 1988,, p. 40. Una posizione simile era già
stata assunta dall’autore in A critique of the Ruling Élite Model, in “American Political Science Review”,
LIII, pp. 463-469, 1958; trad. it., Critica al modello dell’élite dominante, in G. Sartori (a cura di),
Antologia di scienza politica, il Mulino, Bologna 1970. D. Riesman in The lonely crowd: a study of
changing american character, Yale University Press, New Haven 1950; trad. it., La folla solitaria, il
Mulino, Bologna 1956, aveva sostenuto che il pluralismo parte dal principio che in contesti sociali diversi
si affermano gruppi diversi, nessuno in posizione stabilmente dominante: “C’è stato, negli ultimi 50 anni,
un cambiamento nella configurazione del potere in America, per cui un’unica gerarchia con una classe
dirigente a capo è stata sostituita da un numero di «gruppi con potestà di veto» tra cui è diviso il potere”
(p. 250). S. M. Lipset in Political men, Heineman, London 1960; trad. it., L’uomo e la politica, Comunità,
Milano, 1963, ha sostenuto che una stabile democrazia presuppone la manifestazione di un conflitto tra
le forze sociali: «In ogni moderna democrazia, il conflitto tra i diversi gruppi si esprime attraverso i partiti
politici che rappresentano sostanzialmente una proiezione, sul piano democratico, della lotta di classe»
(p. 233). Dahl perfezionò la tesi di Riesman, quando scrisse Who Governs? Democracy and Power in
an American City, Yale University Press, New Haven 1961, attirando su di sé una lunga serie di critiche.
Di recente Dahl ha attenuato la sua teoria pluralista, senza tuttavia rinnegarla, scrivendo che: “La
democrazia su vasta scala rende le associazioni politiche necessarie e auspicabili…In una grande
repubblica, dunque, le associazioni sono non solo necessarie e auspicabili, ma anche inevitabili. Le
associazioni indipendenti, inoltre, favoriscono la diffusione dell’educazione civica e formano un’opinione
pubblica illuminata (On democracy, Yale University Press, New Haven-London 1998; trad. it., Sulla
democrazia (1998), Laterza, Roma-Bari 2000, p. 104). Interessante la sintesi del dibattito tedesco sul
pluralismo che ci fornisce Kremendahl, da cui risulta che è stato inteso in molti modi: 1) come teoria che
rispecchia la realtà sociale (Pluralismus als Realität), ma anche come principio soggettivo di
organizzazione sociale (Pluralismus als Norm und Sollwert); 2) come idea regolativa a-posteriori
(Strukturprinzip) del bene comune (Gemeinwohl), derivata da un lungo processo di formazione della
volontà politica, da intendersi come resultante dei vettori delle forze dei vari gruppi di interesse, vicina
alla «mano invisibile» e all’armonia prestabilita della concezione liberale, opposta al concetto
rousseauiano della volontà generale; 3) come risultato storico delle società occidentali, in quanto
organizzano sulla base del consenso l’agire di un potere molteplice (partiti, associazioni), riuscendo a
collegare esigenze liberali e socialiste (Konkurrenztheorie der Demokratie) (H. Kremendahl, Pluralismus
Theorie in Deutschland, Heggen, Leverkusen 1977, p. 32). Se la nuova realtà politica presenta uno
Stato disperso in un’amministrazione divisa tra burocrazia e forze reali ad essa esterne, allora è
possibile sostituire con D. Easton il termine Stato con quello di “sistema politico”, come propose in un
testo del 1953, ripreso poi nel 1990 in Id., The analysis of political structure, Routledge, New York 1990;
trad. it., L’analisi della struttura politica, Rubbettino, 2001. In questa opera insiste sul concetto di Stato
come sistema di relazioni fra gli elementi costitutivi dell’organismo politico, quali i partiti, i gruppi di
interesse, i poteri legislativi, la cultura, ecc., equiparando forze economiche e forze politico-culturali. V.
Mura, in Categorie della politica. Elementi per una teoria generale, Giappichelli, Torino 1997, sostiene
che la dinamica del processo politico è affidata al bargaining, alla negoziazione tra gruppi, in una
condizione di vera e propria poliarchia. C. S. Maier in La rifondazione dell'Europa borghese, De Donato,
Bari 1979, ha sostenuto, entro una visione negativa della democrazia moderna, che il tramonto della
sovranità tradizionale è collegato alla crescita del privato e del mercato, e che il responsabile della
rottura tra pubblico e privato è stato il nuovo ruolo dei partiti, dei sindacati, dei ministeri, vale a dire il
moderno "corporatismo".
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Il corporativismo moderno rappresenta una variante rispetto al
pluralismo, in quanto sostiene che i grandi gruppi di interesse, come ad
esempio le associazioni industriali e operaie, hanno finito per essere incluse,
di fatto o di diritto, tra le istituzioni governative. Schmitter così riassume le
differenze tra le due teorie:
“I primi suggeriscono formazione spontanea, proliferazione numerica, estensione
orizzontale e interazione competitiva; i secondi sono favorevoli a formazione controllata,
limitazione quantitativa, stratificazione verticale e indipendenza complementare. I pluralisti
ripongono la loro fiducia nell’equilibrio mutevole di forze che si intersecano meccanicamente;
i corporativisti fanno appello all’adattamento funzionale di un tutto organicamente
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interindipendente” ( ).
Per dirla più semplicemente, sempre con le parole di Schmitter,
“ho trovato utile considerare il corporativismo come un sistema di
rappresentanza…per collegare interessi associativamente organizzati della società civile con
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le strutture decisionali dello Stato” ( ).
Mi sembra equilibrata la posizione di Cawson quando media tra le due
teorie, scrivendo che:
“La mia ipotesi è che un settore corporativo in politica e in economia continuerà a
coesistere con un settore pluralista, e che la tendenza verso il corporativismo si esprime in un
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ampliamento delle dimensioni e dell’importanza del primo a spese del secondo” ( ).
Nella storia recente di molti paesi occidentali alcune forze sono state
delle vere corporazioni inserite negli apparati dello Stato, in altri momenti
invece hanno giocato in modo molto più libero in un processo sempre aperto
e in un assetto sempre variabile in rapporto alla forza mutevole delle parti, alle
attrazioni e alle repulsioni che sorgono.
Io credo che la teoria pluralista-corporativista in alcune sue forme sia in
grado di rispecchiare la realtà economico-politica attuale, ossia il tipo di
gestione vigente, a patto di distinguere tra associazioni primarie, che
rappresentano i principali rapporti di produzione e le principali forze produttive
che compongono il sistema, e quelle secondarie, sempre intenzionate a
passare di rango (9). Va tuttavia notato che i teorici del pluralismo hanno
oscillato tra posizioni diverse nel definire lo Stato ora come risultato precario
di un accordo, ora come parte tra parti, infine come ente super partes alla
ricerca del bene comune (10), pur pensando, ma solo a volte e confusamente,
6 - P. C. Schmitter, Still the Century of Corporatism?, in “The Review of Politics”, XXXVI, 1974, pp. 85131; trad. it., Ancora il secolo del corporativismo?, in M. Maraffi (a cura di), La società neo-corporativa, il
Mulino, Bologna 1981, p. 56.
7 - Ivi, p. 46.
8 - A. Cawson, Pluralism, Corpotatism and the Role of the State in “Government and Opposition”, XIII,
1978, pp. 178-198; trad. it., Pluralismo, corporativismo e ruolo dello Stato, pp. 283-300, in M. Maraffi (a
cura di), La società neo-corporativa, cit., p. 284.
9 - Tutti gli altri problemi, seppure importantissimi, possono essere considerati secondari rispetto alla
produzione: il clima, l’energia, l’immigrazione, l’Europa, le nuove classi, la nazione e lo Stato, sono
decisivi per farci vivere in modo più o meno gradevole, non per farci vivere. C. Schmitt si rende conto
che la democrazia liberal-parlamentare riduce lo Stato ad una sommatoria di interessi, ad una sorta di
auto-organizzazione della società. L’autore tuttavia pensa che solo un regime dittatoriale possa essere
super partes, come se l’eliminazione di alcune forze in campo non rappresenti al tempo stesso il
rafforzamento di altre.
10 - Winkler cade con più decisione degli altri in questa concezione dello Stato come entità autonoma
super partes, dotato di una razionalità superiore, necessaria per accordare le corporazioni private
secondo l’interesse nazionale. L’esempio della Svezia, a nostro avviso, non è dimostrativo, se proprio
questo paese ha conosciuto di recente la crisi del tradizionale patto di welfare, dovuta al fatto che i
gruppi di potere hanno avuto bisogno di nuovi equilibri politici ed economici, dando luogo ad uno Stato
adeguato ai nuovi assetti (J. T. Winkler in The Corporatism Economy: Theory and Administration, in R.
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che lo Stato rappresenti la gestione reificata di spinte che provengono dal suo
stesso corpo sociale. Il potere politico non è ristretto alla sola forza produttiva
del capitale, pubblico o privato che sia, ma distribuito tra tutte le forze
produttive e non produttive, secondo l’assetto variabile dei provvisori rapporti
di forza, pur all’interno, volta per volta, dei rapporti di produzione dominanti
(11).
Nel ventesimo secolo ha avuto molta fortuna la teoria soggettivistica
delle élite, aggregata e scambiata spesso con la teoria oggettivistica del
pluralismo. Wright Mills sostiene che il potere è saldamente nelle mani di
coloro che occupano posti di rilievo nei settori della politica, della produzione,
dell’esercito, con un netto declino, dopo la seconda guerra mondiale, dell’élite
politica. Pochi individui, non necessariamente collegati con le forze
economiche, muoverebbero la storia: se fossero espressione delle forze
economiche e sociali la teoria non avrebbe ragion d’essere, giacché
ricadrebbe nella concezione pluralista (12).
Ci sembra invece privo di risultati significativi il dibattito che si sviluppò
prima in Germania sulla rivista “Die Tat” e poi in America tra i tedeschi
dell’”Institut of Social Research”, in quanto finì per sostituire al dominio
dell’economia il dominio della politica, nel tentativo di spiegare il Nazismo.
Scase (a cura di), Industrial Society: Class, Cleavage and Control, Allen and Unwin, London 1977, pp.
43-58; trad. it., L’economia corporativa: teoria e gestione, in M. Maraffi, cit.).
11 - Una panoramica su questa discussione si ha in C. Ham e M. Hill in The policy process in the
modern capitalist state, Wheatsheaf Book, Brighton 1984; trad. it., Introduzione all’analisi delle politiche
pubbliche, il Mulino, Bologna 1995.
12 - Wright Mills scrive: “Il capitalismo americano è in buona parte un capitalismo militare…Nella élite,
questa coincidenza di interessi tra le alte sfere militari e i capitani d’industria rafforza le une e gli altri e
subordina ulteriormente il ruolo degli uomini esclusivamente politici” (C. Wright Mills, The Power Elite,
Oxford Univerity Press, New York 1956; trad. it., La élite del potere, Feltrinelli, Milano 1966, p. 257). Su
posizioni simili troviamo G. Kolko in The Roots of American Foreign Policy, Beacon Press, Boston 1969;
trad. it., Le radici economiche della politica americana, Einaudi, Torino 1970, anche se attribuisce un
potere minore ai militari. All’inizio del ventesimo secolo, R. Michels aveva formulato in Zur sociologie
des Parteiwesens in der modernen Demokratie, Klinkhardt, Leipzig, 1911; trad. it., La sociologia del
partito politico, il Mulino, Bologna 1966, un’organica teoria delle oligarchie di potere, dandone un
giudizio negativo, diversamente da M. Weber, che ricostruiva la formazione della figura del politico di
professione nel passaggio dai regimi monarchico-assolutisti alla democrazia parlamentare, fondata su
convinzione e responsabilità (M. Weber, Politik als Beruf, Duncker-Humblot, München 1919; trad.it., La
politica come professione, in Il lavoro intellettuale come professione, Einaudi, Torino 1976). G. Mosca
nel 1933 riprese la tesi del predominio di una classe politica (Storia delle dottrine politiche, Laterza,
Roma-Bari 1964), scrivendo che: “Sarebbe ingenuo credere che i regimi liberali…si appoggino sul
consenso esplicito della maggioranza numerica dei cittadini, perché…nelle elezioni la lotta si svolge fra i
diversi gruppi organizzati che possiedono i mezzi capaci di influenzare la massa degli elettori
disorganizzati, ai quali non resta che scegliere fra i pochissimi rappresentanti di questi gruppi” (p. 301).
H. Kelsen aveva sostenuto idee simili in Vom Wesen und Wert der Demokratie, Mohr, Tubingen 1929;
trad. it., Essenza e valore della democrazia in La democrazia, il Mulino, Bologna 1998. Una variante
della teoria delle élite si ha con il concetto del Partito-Stato in K. Beyme, Die politische Klasse im
Parteienstaat, Suhrkamp, Frankfurt/Main 1993: l’affermazione della democrazia parlamentare avrebbe
trasformato il partito nel nuovo Leviathan, la cui attività principale consiste non già nella mobilitazione
delle masse, ma nel reclutamento delle élite e nella trasmissione delle proprie volontà alle istituzioni (pp.
40-45). D. Held (Modelli di democrazia, cit,) riproduce la discussione sull’”elitismo competitivo”, ma con
la convinzione che sono operative alcune forme di democrazia partecipativa, di democrazia “faccia a
faccia”, pur ricadendo nell’antinomia di uno Stato assoggettato alle strutture oggettive del capitale e del
mercato e, al tempo stesso, di uno Stato al di sopra delle parti. C. Crouch (Coping with post-democracy,
Fabian Society, London 2000; trad. it., Postdemocrazia, Laterza, Roma-Bari 2003) ha ripreso la teoria
delle élite, riproponendo ancora una volta la visione soggettivistica della politica, come se tutto sia
deciso da pochi individui in posizioni di potere, senza tener conto dei molteplici interessi reali, che non
sono solo quelli delle grandi aziende, ma di tutto ciò che fa parte del sistema (i lavoratori, gli immigrati, i
sindacati, i movimenti di massa, le cittadinanze, la globalizzazione, la Cina), pur con tutte le
subordinazioni che possiamo intuire. Schumpeter, come molti altri, assunse una posizione oscillante tra
l’area del materialismo storico e il soggettivismo elitistico, sostenendo che non esiste una autonoma
volontà popolare, se escludiamo le questioni pecuniarie, ma solo vaghi impulsi, su cui agiscono la
propaganda e le pressioni dei vari gruppi di potere economico (J. A. Schumpeter in Kapitalismus,
Sozialismus und Demokratie, Franke, Bern 1946; trad. it., Capitalismo, socialismo e democrazia,
Etas/Kompass, Milano 1967). La democrazia si ridurrebbe in tal modo alla limitata funzione di
produzione di leader in condizioni di libera concorrenza, così come avviene sul mercato economico.
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Gurland attribuisce il rovesciamento di rango al tramonto del dinamismo
industriale nell’era della tecnologia. Pollock, che pure ritiene il capitalismo
ancora propulsivo, pensa che nella fase del Capitalismo di Stato la merce non
sia più in grado di mediare i rapporti sociali, inducendo la ricomposizione di
economia e politica (13). A simili conclusioni giungono Horkheimer (14) e
Marcuse, attribuendo il salto qualitativo alla nuova razionalità tecnologica
impersonale e oggettiva, in grado di conferire alla burocrazia amministrativa
l’unica razionalità ormai possibile. Anche Kirchheimer, pur convinto della
permanenza delle contraddizioni, pensa che la loro composizione si sia
spostata dall’ambito del danaro a quello dello Stato, attraverso il
«compromesso politico» tra gruppi, dopo che è stata eliminata la sfera del
privato-individuale.
13 - F. Pollock, State Capitalism, in “Zeitschrift für Sozialforschung”, IX, pp. 200-225, 1941; trad.it.,
Capitalismo di Stato, in G. Marramao (a cura di), Teoria e prassi dell’economia di piano. Antologia degli
scritti (1928-1941) di F. Pollock, De Donato, Bari 1973. Sul nesso economia e politica, sulla formazione
dei prezzi e sul salario, anche, Habermas assumerà una posizione rovesciata rispetto al marxismo,
collocandosi sulla scia dei teorici di Die Tat e dei suoi continuatori in America (J. Habermas in
Legitimationsprobleme im Spätkapitalismus, Suhrkamp, Frankfurt/Main 1973; trad.it., La crisi della
razionalità nel capitalismo maturo, Laterza, Roma-Bari 1975). Per alcuni aspetti anche C. Offe
assumerà posizioni simili in Strukturprobleme des kapitalistischen Staates, Suhrkamp, Frankfurt/Main
1972; trad. it., Lo Stato nel capitalismo maturo, Etas Kompass, Milano 1977.
14 - M. Horkheimer, Autoritärer Staat, in Id, Gesellschaft im Übergang. Aufsätze, Reden und Vorträge
1942-1970, Athenäum-Fischer-Taschenbuch-Velag, Frankfurt/Main 1972; trad. it., Stato autoritario, in
Id, La società di transizione, Einaudi, Torino 1980.
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