PENSARE LA CRISI. Ciclo di seminari a cura di Hervé Baron, Università dell’Insubria (Varese) Lo scopo dei nostri incontri sarà cercare di indagare le cause e i fenomeni riguardanti la crisi, sia nella sua dimensione finanziaria che in quella reale; sia nella sua dimensione mondiale che in quella più specificamente «europea». Per raggiungere il nostro scopo, procederemo come segue: - Nel primo incontro ci siamo concentrati sull’«innesco» della crisi e ci siamo rifatti soprattutto alle analisi di André Orléan; - A partire da oggi, invece, cercheremo di capire le cause che stanno «dietro» alla crisi e il suo rovesciamento dalla sfera finanziaria a quella reale. 1 La crisi: da finanziaria a «reale»* Tra gli economisti sono molto diffusi due atteggiamenti, divergenti ma speculari riguardo alle crisi: - «quelli che…le crisi non esistono» (di solito di provenienza mainstream) e quando ne capita una, si tratta di un «cigno nero»; - «quelli che…il capitalismo è sempre in crisi» (di solito di provenienza marxista); Dunque non si riescono a spiegare né i periodi lunghi di crescita né il mancato avvento del «crollo finale». * Nel prosieguo, sosterremo che le crisi sono uno dei modi in cui il capitalismo cerca di superare le contraddizioni che esso stesso crea. Inoltre: la distinzione tra crisi finanziaria e crisi reale deve essere considerata solo come una distinzione didattica, essendo in ambito capitalistico le due sfere strettamente intrecciate. (Queste slides sono state costruite utilizzando molti dei concetti contenuti in: Bellofiore, Halevi, (2010) La Grande Recessione e la Terza Crisi della Teoria Economica, reperibile qui: http://criticamarxistaonline.files.wordpress.com/2013/06/34_2010bellofiore_halevi.pdf. Inoltre, esse devono molto ai lavori di Marco Passarella e Gennaro Zezza, che si ringraziano 2 sentitamente) È questa, che stiamo vivendo, l’unica «grande crisi» del capitalismo? Evidentemente no. Possiamo considerare (almeno): - La Grande Depressione della seconda metà dell’800 (tendenza alla caduta del saggio di profitto ); - La Grande Crisi degli anni 1930 (crisi della domanda effettiva); - La Crisi sociale di valorizzazione degli anni 1970; - L’attuale Crisi, nata come «crisi dei mutui subprime», ma che in Europa sviluppa, almeno dal 2009, una dinamica sui generis: 2007-?. In ogni occasione il capitalismo ha cercato di uscire da una crisi gettando le basi per la successiva: - all’inizio del ‘900, attraverso l’«organizzazione scientifica del lavoro» e l’esperimento fordista; - nel secondo dopoguerra, con l’adozione delle politiche «keynesiane» nei «trenta gloriosi» (1945-73); - a partire dagli anni 1980, con l’emergere del «nuovo capitalismo». 3 Ma cos’è di preciso il «nuovo» capitalismo? Capirlo significa capire «di cosa», esattamente, stiamo vivendo la crisi. Tra gli elementi che caratterizzano l’ultimo trentennio (che potremmo chiamare i «trenta ingloriosi») ci sono: - La svolta conservatrice degli anni 1980; con Reagan e Thatcher abbiamo l’applicazione di politiche monetariste che portano ad alti tassi d’interesse, all’indebolimento dei lavoratori (via aumento della disoccupazione) e, di conseguenza, alla diminuzione dei salari. Da ciò una tendenza alla diminuzione dei consumi e degli investimenti. Perché non si è avuta subito una crisi da domanda? In Europa si comincia a puntare sulle esportazioni nette (neomercantilismo), mentre negli USA aumenta la spesa finanziata in disavanzo (federale ed estero) doppio deficit di Reagan. Gli USA (e, in misura minore, gli altri paesi anglofoni) diventano la «spugna assorbente» 4 del mondo. - Il money manager capitalism (Minsky); il risparmio delle famiglie viene dirottato nei fondi istituzionali (fondi comuni, fondi pensione, ecc.) la cui gestione è affidata a manager e finalizzata a rendimenti più alti possibile nel periodo più breve possibile. Sono proprio tali manager a imporre i criteri generali di corporate governance anche ai manager delle imprese non finanziarie. - La grande moderazione; data la situazione sul mercato del lavoro, i pericoli di inflazione non provengono più dal fronte salariale. Detto altrimenti, la «curva di Philips», risulta sostanzialmente appiattita in orizzontale. Di conseguenza, l’inflazione si trasferisce dal mercato dei beni e servizi a quello degli asset. 5 - La capital asset inflation; a partire dagli anni 1990, la variabile chiave diventano i consumi privati delle famiglie (soprattutto americane). Ma, se i salari non crescono, come possono crescere i consumi? Durante la presidenza Clinton crescono i mercati finanziari e quindi gli «effetti ricchezza» da essi generati che alimentano i consumi «autonomi» (ossia sganciati dal reddito) delle famiglie. - Il new consensus in politica economica; lo strumento di politica economica per raggiungere la piena sotto-occupazione non è comunque più la politica fiscale (come nel keynesismo del secondo dopoguerra), bensì quella monetaria, la quale però viene condotta non più cercando di controllare la massa monetaria (come nel primo monetarismo), ma fissando il tasso d’interesse di riferimento (New Consensus Model) 6 Perché Wall Street cresce per tutti gli anni 1990? Per i flussi di capitale provenienti dall’estero (crisi russa, crisi asiatiche, ecc.) e per la politica monetaria espansiva della FED, che monetizza i guadagni in conto capitale derivanti dalla capital asset inflation. Tutto ciò che abbiamo detto sin qui, genera la convinzione (o per meglio dire l’illusione) delle autorità di politica economica di poter guidare l’economia USA (e di conseguenza il «nuovo» capitalismo a livello mondiale) di bolla in bolla, quasi fosse possibile una crescita svincolata persino dal ciclo economico. 7 Possiamo ora guardare più da vicino le figure sociali che hanno fatto da supporto al «nuovo» capitalismo: 1) Un lavoratore che si trova dinnanzi un mercato del lavoro sempre più segmentato e un impiego sempre più precario (stagnazione o riduzione del salario, piena sottooccupazione) 2) Un risparmiatore affetto da «sindrome bipolare» (irrazionalmente euforico quando il prezzo degli asset sale, maniacalmente depresso in caso contrario) 3) Un consumatore sempre più indebitato, che si indebita per mantenere il proprio status nonostante i suoi redditi siano stazionari e le sue spese crescenti (istruzione, sanità, assicurazione, ecc.). Anche se incorpora una distorsione dei consumi verso l’opulentismo (minor consumo di beni essenziali, maggior consumo di beni non essenziali), è chiaro che la figura del consumatore indebitato non corrisponde 8 affatto ad un quadro di benessere. Un po’ di dati (1) Salario medio settimanale (in dollari del 1982) settore manifatturiero USA (Elaborazione di Gennaro Zezza su dati del Bureau of Labour Statistics ) 9 Un po’ di dati (2) Percentuale dei salari e dei consumi sul Prodotto Interno lordo negli USA (Elaborazione di Marco Passarella su dati Federal Reserve Statistical Release - Flow of Funds Accounts) 10 Un po’ di dati (3) Aliquota femminile nell’ambito dell’occupazione non agricola in USA (Elaborazione di Gennaro Zezza su dati del Bureau of Labour Statistics ) 11 Un po’ di dati (4) La propensione al risparmio delle famiglie (% su reddito disponibile) 12 Un po’ di dati (5) Settore privato USA: Debito e prestiti (Elaborazione dati di Gennaro Zezza) 13 Un po’ di dati (6) Bilanci dei tre macro-settori dell’economia USA (Elaborazione dati di Gennaro Zezza) 14 Il risveglio, ovvero: una dinamica necessaria In USA, con lo scoppio della bolla delle imprese .com (nel 2000, prima degli attacchi dell’11/09), gli investimenti cadono a picco, aumenta il deficit commerciale (già rilevante) e i consumi cominciano a cedere il passo. L’amministrazione Bush, Jr. ricorre alla spesa pubblica (bellica) e alla leva monetaria (spettacolare riduzione dei tassi d’interessa operata da Greenspan). A partire dal 2003 l’economia americana ricomincia a crescere e ancora una volta la crescita è trainata dai consumi (a debito). Questa volta però la bolla non riguarda più i mercati azionari: si è spostata altrove, e noi sappiamo già dove: sul mercato immobiliare. Ora la concessione di credito viene estesa sino ai cosiddetti n.i.n.j.a. (no income, no job or assets). 15 Come è andata a finire lo sappiamo… INFATTI AVEVAMO A CHE FARE CON: Sette processi insostenibili… più uno Già nel 1999, l’economista post keynesiano Wynne Godley (1999) pose l’attenzione su sette processi insostenibili che avrebbero influito negativamente sulle prospettive di cresicta degli USA. Cfr. Godley, W. (1999) “Seven Unsustainable Processes: Medium-Term Prospects and Policies for the United States and the World”, in The Levy Economic Institute of Bard College, Strategic Analysis, January. 1. La caduta del risparmio privato, che diviene addirittura negativo; 2. La crescita del flusso di prestiti netti nel settore privato; 3. L’aumento del tasso di crescita dello stock di moneta; 4. L’aumento del prezzo degli asset, ad un tasso che eccede enormemente la crescita dei profitti (o del P.I.L.); • 5. La crescita del surplus di bilancio federale; • 6. La crescita del deficit delle partite correnti; • 7. L’incremento dell’indebitamento netto estero rispetto al P.I.L. degli USA. (Sin qui: Godley 1999) • • • • A cui va aggiunto: • 8. Il cambiamento nella distribuzione del reddito. 16 Possiamo cominciare a trarre qualche conclusione (1) 1. Sino all’avvento della crisi, il «nuovo» capitalismo è stato tutto fuorché stagnazionistico. Anzi, esso ha garantito un trentennio circa (i trenta «ingloriosi») di crescita. È stata però una crescita squilibrata e alla fine insostenibile. 2. Esso si muove lungo l’asse finanza-precarietà. 17 Possiamo cominciare a trarre qualche conclusione (2) Abbiamo comunque a che fare con un doppio fallimento: 3. Del tentativo di sostituire i redditi da lavoro con il debito. 4. Del tentativo di sostituire il debito pubblico con il debito privato. La giustificazione di (4) era fondata sull’idea che il debito privato sia frutto di scelte individuali (decisioni di allocazione intertemporale di consumi/risparmi) e che il debito pubblico fosse una illegittima intromissione nel funzionamento “efficiente” dei mkts. Tutto ciò ha però portato ad un esito paradossale: il debito pubblico creato (dal 2007) per salvare il settore bancario18 finanziario si è sommato a quello privato già esistente. L’esito paradossale 19 Guardiamo più da vicino la crescita dei «trenta ingloriosi» Se gli USA sono stati, come detto, la «spugna assorbente» dell’economia mondiale, altri Paesi sono stati per tutto il periodo «esportatori netti» (politica neo-mercantilista). Tra questi ultimi vanno ricordati (almeno): il Giappone, la Cina (a partire dagli anni 1990), alcuni Paesi europei (quelli del «nucleo» e in misura molto minore, l’Italia). Dunque i flussi di merci andavano (semplificando molto) dal resto del mondo agli USA, mentre i flussi di pagamenti avevano direzione opposta. 20 A tutto ciò si aggiunge una caratteristica particolare: invece di esportare capitali, come sarebbe logico per un Paese a capitalismo maturo e finanziariamente sviluppato, gli USA importano massicciamente capitali dal resto del mondo, soprattutto dai Paesi con cui hanno contratto debiti dal lato delle «partite correnti» (esempio tipico: Cina) A fianco: Asset netti esteri posseduti dagli USA – Tratto da Godley (1999). (Dati elaborati da Godley usando indici ufficiali. Dopo il 1998 sono proiezioni) 21 e delle merci Flussi capitali Flussi merci 22 (e delle merci) 23 Dunque, prima della crisi, le scelte politiche dei big player possono essere riassunte in tre schemi: Schema Cina • politiche fiscali restrittive • politiche monetarie restrittive • politiche commerciali aggressive • politiche di controllo dei cambi Sostiene uno sviluppo trainato dalle esportazioni. 24 Schema USA • politiche fiscali espansive • politiche monetarie espansive • politiche di deregulation dei mercati finanziari • politiche valutarie concertate con la Cina Sostiene uno sviluppo trainato dal debito. Lo Schema è funzionale al mantenimento dell’egemonia degli USA quali: polo finanziario del mondo, gendarme del mondo, locomotiva dello sviluppo. 25 Schema UE • politiche fiscali restrittive • politiche monetarie restrittive Determina uno sviluppo frenato. Obiettivi: indebolimento del movimento sindacale, rafforzamento dei paesi core rispetto a quelli periferici. 26 I meccanismi macroeconomici del rovesciamento Considerando quanto affermato sin qui e ricordando il grado di finanziarizzazione e di integrazione raggiunto dall’economia mondiale possiamo cominciare a capire i meccanismi «macroeconomici» attraverso cui la crisi, da finanziaria, si è rovesciata in «reale» - Innanzitutto, la caduta delle esportazioni. Se gli USA non agiscono più da «spugna assorbente», i primi a risentirne sono i paesi neomercantilisti. Gli effetti reali dovrebbero essere chiari: siccome questi si affidano alla domanda estera più che a quella interna, se quest’ultima viene a mancare… - Poi, un canale di trasmissione finanziario. Se i titoli tossici sono andati in giro dappertutto, tutte le banche del mondo li hanno «nella pancia», ma ciò nuoce ai loro bilanci e le rende «fragili». E banche in posizione di fragilità impattano sull’economia reale per almeno due 27 motivi: • 1) le banche, nel panico, cercano di rientrare chiudendo bruscamente i rubinetti del credito; • 2) le banche, avendo aspettative negative, si rifiutano di finanziare nuovi investimenti. Sia 1) che 2) sono deleteri per l’economia reale. - Infine, ultimo ma non ultimo, bisogna considerare lo sgonfiamento della bolla immobiliare, particolarmente significativa in molti paesi oltre gli USA (p.es., Spagna, Irlanda, UK). Tutto ciò ha almeno due conseguenze reali: a) lo sgonfiamento della bolla significa da un lato calo di domanda («effetti ricchezza» negativi), e quindi ulteriore mancanza di «sbocchi» per le economie neo-mercantiliste; b) esso significa anche fuga dei capitali esteri e dunque collasso per quelle economie che erano prosperate attirandoli (p.es. Spagna e soprattutto Irlanda) 28 Come hanno reagito le varie economie? Di fronte ai meccanismi descritti poc’anzi, le varie economie non hanno reagito tutte nello stesso modo: - gli USA non stanno più agendo da «spugna assorbente», perché non possono più permetterselo; - il Giappone stava attraversando una lunga crisi già prima dello scoppio della crisi dei mutui e vive una dinamica sui generis; - la Cina e gli altri Paesi asiatici (le «tigri») hanno sofferto sicuramente a causa del rallentamento della domanda globale. Ma la Cina sta già pensando a come convertire la propria crescita da crescita basata sulle esportazioni a crescita basata sulla domanda interna. - E l’Europa??? 29 Innesco, combustibile, comburente della crisi europea 1. Innesco: la crisi dei subprime, che ha origine negli USA. 2. Combustibile: permanenti “squilibri esterni” tra i Paesi membri della UME. 3. Comburente: comportamento della BCE (il quale, a sua volta, deriva dallo “statuto” della BCE). I punti 2 e 3 sono stati chiaramente sottovalutati dalla BCE. Perché? Perché gli squilibri esterni erano considerati un segnale di integrazione tra le varie economie, mentre l’«indipendenza» della banca centrale è uno dei dogmi del neo-liberalismo. (Con squilibri esterni si deve intendere squilibri nelle bilance dei pagamenti, soprattutto nell’ambito delle “partite correnti”, dei vari 30 Paesi.) Una ipotetica economia a 2 Paesi • Gli output dei due Paesi sono simili (ma non identici) • C’è un accordo di libero scambio e piena libertà nei movimenti di capitale • Stesso tasso di profitto • Stesso tasso di crescita • Stessa competitività 31 Caso 1: due sistemi di produzione e due valute Esportazione merce A (Importazione merce A Domanda valuta A) (Importazione merce B Domanda valuta B) Esportazione merce B 32 Cosa succede se il Paese A diviene più competitivo? Esportazione merce A cresce (a causa di un «miglioramento» vuoi nel costo del lavoro vuoi nella produttività) Cresce anche domanda valuta A Decresce anche domanda valuta B Esportazione merce B si riduce 33 L’appezzamento della valuta di A controbilancia i suoi minori costi Esportazione merce A si riduce (perché valuta A si apprezza) Più bassa produttività o più alti salari (ma valuta più debole) Più alta produttività o più bassi salari (ma valuta più forte) Esportazione merce B aumenta (perché valuta B si deprezza) 34 Perché mai legarsi le mani (rinunciando al riequilibrio attraverso il cambio)? Paese A Paese B • Nuove e più profittevoli • Afflusso di capitali per opportunità d’investimento finanziare investimenti • Nuovi mercati di sbocco produttivi per merci e capitali • Minore inflazione • Nessun rischio di cambio • Maggior tasso di crescita Trasformazione in qualcosa simile a Paese A 35 Caso 2: stessa situazione di prima, ma una sola moneta (o un tasso di cambio fisso) Esportazione di capitali da A a B Esportazione merce A aumenta Credito crescente verso B Debito crescente verso A Esportazione merce B si riduce B usa il credito fattogli da A per comprare da A 36 Il lieto fine (secondo l’economia mainstream) Esportazione merce A Esportazione merce B Il Paese B, diventando «credibile», importa capitali da A e li usa per far 37 crescere la propria economia. Alla fine i due Paesi tornano ad essere simili Ma, siamo sicuri? Paese A Paese B • Nuove e più profittevoli opportunità d’investimento • Nuovi mercati di sbocco per merci e capitali • Nessun rischio di cambio • Acquisizione delle imprese concorrenti che stanno in B 38 La desertificazione produttiva di B Capitali, da A a B Merce A Debito crescente verso A Credito crescente verso B B non riesce più a vendere la sua merce ad A! B usa il credito fattogli da A per comprare la merce A 39 Giunti a questo punto, il Paese B dovrebbe (forse) porsi una domanda: Che fare? 40 Arrivederci e grazie! 41