2014 n° 1-2 Temi Romana n° 1-2 Rassegna di dottrina e giurisprudenza a cura dell’Ordine degli Avvocati di Roma ANNO LXII GENNAIO – GIUGNO 2014 Passeggiata in libreria n° 1-2 Rassegna di dottrina e giurisprudenza a cura dell’Ordine degli Avvocati di Roma In libreria “CODICE DELL’UDIENZA FALLIMENTARE” Antonio Caiafa DIKE GIURIDICA EDITRICE, ROMA pp. 660, euro 25,00 Nell’epoca della “nevrosi” del legislatore si pone all’interprete l’esigenza di avere, per ciascuna materia di riferimento, un quadro legislativo chiaro e puntuale delle norme di applicazione quotidiana. La collana degli Oscar Dike vuole offrire al giurista una serie ben ordinata di testi legislativi di facile e maneggevole consultazione, arricchita, per le norme più importanti, dai testi storici delle disposizioni. Per conseguire l’auspicato fine, gli Oscar Dike sono curati da Maestri indiscussi del diritto italiano e presentano la comodissima veste del codice tascabile. Direttore Responsabile: Mauro VAGLIO Direttore Scientifico: Alessandro CASSIANI Capo Redattore: Samantha LUPONIO Comitato Scientifico: Paola BALDUCCI, Antonio BRIGUGLIO, Luigi CANCRINI, Pierpaolo DELL’ANNO, Antonio FIORELLA, Giovanni Maria FLICK Giorgio LOMBARDI, Carlo MARTUCCELLI, Ugo PETRONIO Eugenio PICOZZA, Giulio PROSPERETTI, Giorgio SPANGHER Alfonso STILE, Federico TEDESCHINI, Roberta TISCINI, Giancarlo UMANI RONCHI, Romano VACCARELLA Comitato di Redazione: Mauro VAGLIO, Pietro DI TOSTO, Antonino GALLETTI Riccardo BOLOGNESI, Fabrizio BRUNI, Antonio CAIAFA Alessandro CASSIANI, Domenico CONDELLO, Antonio CONTE Mauro MAZZONI, Aldo MINGHELLI, Roberto NICODEMI Matteo SANTINI, Mario SCIALLA, Isabella Maria STOPPANI “PROCESSO AMMINISTRATIVO E TUTELA CAUTELARE” Maria Vittoria Lumetti CEDAM, ASSAGO pp. 736, euro 60,00 Si tratta della prima opera, dopo l’entrata in vigore del codice processuale amministrativo, che affronta in maniera sistematica e globale tutta la problematica del processo cautelare amministrativo in ogni fase e grado del giudizio, compresi il processo di ottemperanza, la revocazione, l’accesso, il silenzio, il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, il giudizio risarcitorio, la sospensione della sentenza pendente ricorso in Cassazione e in Adunanza plenaria, la rimessione alla Corte di giustizia e alla Corte costituzionale. Il libro, alimentato dalla passione che il processo amministrativo è ancora in grado di suscitare ed arricchito dall’esperienza quotidiana nelle aule giudiziarie, si propone di offrire una visuale completa della tutela cautelare nel processo amministrativo, anche in raffronto con altri processi e alla luce delle innovazioni recate dal codice e dal diritto comunitario. “ABUSO SESSUALE SUI MINORI. SCENARI, DINAMICHE, TESTIMONIANZE” Giuliana Olzai ANTIGONE, TORINO pp. 375, euro 28,00 Coordinatori: Antonio ANDREOZZI, Andrea BARONE, Camilla BENEDUCE Domenico BENINCASA, Marina BINDA, Ersi BOZEKHU Francesco CASALE, Francesco CIANI, Benedetto CIMINO, Irma CONTI Antonio CORDASCO, Alessandro CRASTA, Carmelita DE FINIS Annalisa DI GIOVANNI, Ruggero FRASCAROLI, Maria Vittoria FERRONI Fabrizio GALLUZZO, Alessandro GENTILONI SILVERI, Mario LANA Paola LICCI, Andrea LONGO, Giuseppe MARAZZITA, Franco MARCONI Alessandra MARI, Gabriella MAZZEI, Arturo MEGLIO, Chiara PACIFICI Ginevra PAOLETTI, Chiara PETRILLO, Tommaso PIETROCARLO Aurelio RICHICHI, Sabrina RONDINELLI, Serafino RUSCICA Marco Valerio SANTONOCITO, Massimiliano SILVETTI, Luciano TAMBURRO Federico TELA, Antonio TESTA, Federica UMANI RONCHI, Clara VENETO Segretario di redazione: Natale ESPOSITO L’orrore degli orrori, quello che nessuno ha voglia di scoprire. L’abuso sessuale sui bambini e le bambine è forse l’ultimo tabù rimasto, quello su cui gravano ancora una forte condanna da parte dell’opinione pubblica e una pesante sanzione di mass media e rappresentanti politici. Su questo reato odioso cerca di far luce il volume di Giuliana Olzai, laureata in Statistica e specializzata in Metodi e tecniche per la ricerca sociale, che ha analizzato i 288 procedimenti giudiziari del Tribunale penale di Roma nel quadriennio 2000-2003 riguardanti proprio gli abusi sui minori di 14 anni. Con un lavoro accurato, l’autrice ha seguito i percorsi processuali delle denunce, ha ripercorso l’iter giudiziario compiuto dalle vittime che denunciano una violenza, perpetrata quasi sempre da persone che conoscono bene, con le quali hanno spesso un legame affettivo. Un’analisi che cerca di aiutare il lettore a comprendere come questo stretto legame fra vittima e carnefice abbia un effetto diretto sull’invasività e la gravità degli abusi, sulla ripetizione delle violenze così come sul tempo che trascorre prima che il bambino o la bambina abbia il coraggio di denunciare. “MANUALE PRATICO DEI MARCHI E BREVETTI” (CON CD ROM) Andrea Sirotti Gaudenzi MAGGIOLI EDITORE, SANTARCANGELO DI ROMAGNA pp. 666, euro 74,00 Progetto grafico: Alessandra GUGLIELMETTI Disegno di copertina: Rodrigo UGARTE ____________ Temi Romana - Autorizzazione Tribunale di Roma n. 320 del 17 luglio 2001 - Direzione, Redazione: P.zza Cavour - Palazzo di Giustizia - 00193 Roma Impaginazione e stampa: Infocarcere scrl - Via C. T. Masala, 42 - 00148 Roma L’opera, aggiornata al D.L. 1/2012 convertito con modifiche in L. 27/2012 che modifica il codice della proprietà industriale (D.Lgs. 30/2005) e alla recente giurisprudenza, caratterizzata da un’impostazione sistematica degli argomenti, ripercorre con taglio agile tutti i principali temi legati alla proprietà industriale, offrendo all’operatore tutti i necessari strumenti pratici. Il testo è suddiviso in sette parti con i rispettivi capitoli e paragrafi che analizzano in modo completo ed esaustivo le materie di “marchi, segni distintivi e brevetti per invenzioni e modelli”. Sommario n°1-2 Rassegna di dottrina e giurisprudenza a cura dell’Ordine degli Avvocati di Roma 2 PIERO CALAMANDREI: LA STORIA 4 SAGGI A cura della Redazione I delitti di criminalità organizzata e il c.d. regime del doppio binario nella sua articolazione penale, investigativo-processuale e del trattamento penitenziario previsto nei confronti dei soggetti detenuti per tali fattispecie di reato Iole Falco 11 La duttilità della fase cautelare: intrecci, compressione, ampliamento e conversione in altri riti. Alla ricerca della fase di merito nella costellazione dei segmenti cautelari Maria Vittoria Lumetti 24 L’ascolto del minore: dovere del giudice e diritto del figlio. Riferimenti normativi Samantha Luponio 29 Il fenomeno del pentitismo nella prospettiva criminologica integrata Giovanni Neri 35 Competenza legislativa concorrente in materia di coordinamento della finanza pubblica e vincoli di riequilibrio finanziari anche nei confronti delle Regioni a statuto speciale: ultime pronunce in tema della Corte costituzionale e prospettive di riforma Maria Giulia Putaturo Donati 43 Criteri d’individuazione del titolare della qualifica soggettiva nell’ambito delle organizzazioni complesse e operatività della delega di funzioni, con particolare riferimento, alla responsabilità di Amministratori e Sindaci di società - Parte I - Delega di funzioni, teorie e criteri Francesca Zignani 52 OSSERVATORIO LEGISLATIVO Sulla non equivalenza del credito per retribuzioni e quello di regresso per t.f.r. Antonio Caiafa 59 La disciplina del contratto a termine dopo il decreto Poletti e la legge di conversione Andrea Lutri 62 NOTE A SENTENZA La depenalizzazione della colpa lieve nell’attività medico-chirurgica Roberta Mencarelli 67 Quando il potere diventa arbitrio Angelo Miele 69 CRONACHE E ATTUALITÀ L’Avvocatura Pubblica quale strumento per la realizzazione dei principi di legalità, economicità, efficacia ed efficienza dell’attività amministrativa Stefania Ricci 74 La mediazione in Europa e in Italia Giorgio Santacroce Temi Romana 1 Piero Calamandrei: la storia A cura della Redazione P gruenze e le possibili debolezze future. Una lezione di metodo democratico e di passione civile che non ha perso la sua straordinaria carica ideale. Così disse Calamandrei: “È un po’ successo, agli articoli di questa Costituzione, quello che si dice avvenisse a quel libertino di mezza età, che aveva i capelli grigi ed aveva due amanti, una giovane e una vecchia: la giovane gli strappava i capelli bianchi e la vecchia gli strappava i capelli neri; e lui rimase calvo. Nella Costituzione ci sono purtroppo alcuni articoli che sono rimasti calvi”. Nel 1948 fu deputato per «Unità socialista». Nel 1953 prese parte alla fondazione del movimento di «Unità popolare» assieme a Ferruccio Parri, Tristano Codignola e altri. Fondatore nel 1945 del settimanale politico-letterario Il Ponte, che diresse per dodici anni, Piero Calamandrei fu anche direttore con Carnelutti della Rivista di diritto processuale, con Finzi, Lessona e Paoli della rivista Il Foro toscano, con Alessandro Levi del Commentario sistematico della Costituzione italiana, Accademico nazionale dei Lincei e direttore dell’Istituto di diritto processuale comparato dell’Università di Firenze. Molto apprezzato dai cultori del Diritto, il suo Elogio dei giudici scritto da un avvocato e, memorabile per efficacia, l’epigrafe dettata da Calamandrei per la Lapide ad ignominia, che il Comune di Cuneo ha dedicato al generale nazista, criminale di guerra, Albert Kesselring. iero Calamandrei nasce a Firenze il 21 aprile 1889, città dove muore il 27 settembre 1956. Di antica famiglia di giuristi (suo padre, professore e avvocato, era stato anche deputato repubblicano) si laurea a Pisa nel 1912. Nel 1915 è già docente di procedura civile all’Università di Messina e, se si esclude la parentesi della prima guerra mondiale (dove partecipò come ufficiale volontario combattente nel 218° reggimento di fanteria, conseguendo dapprima il grado di Capitano e, successivamente, la promozione a Tenente Colonnello) ha sempre insegnato: Modena (1918), Siena (1920) e, dal 1924 sino ai suoi ultimi giorni, nell’Ateneo fiorentino (di cui fu anche Rettore) come Professore ordinario di Diritto processuale civile. Subito dopo l’avvento del fascismo fece parte del Consiglio direttivo dell’«Unione Nazionale», fondata da Giovanni Amendola. Durante il ventennio fascista fu uno dei pochi professori che non ebbe né chiese la tessera, continuando sempre a far parte di movimenti clandestini. Collaborò a «Non mollare», nel 1941 aderì a «Giustizia e Libertà» e, nel 1942, fu tra i fondatori del Partito d’Azione. Dopo l’8 settembre fu colpito da mandato di cattura. Assieme a Francesco Carnelutti e a Enrico Redenti fu uno dei principali ispiratori del Codice di procedura civile del 1940, dove trovarono formulazione legislativa gli insegnamenti fondamentali della scuola di Chiovenda. Si dimise da professore universitario per non sottoscrivere una lettera di sottomissione al «Duce» che gli veniva richiesta dal Rettore del tempo. Presidente del Consiglio Nazionale Forense dal 1946 alla morte, fece parte della Consulta Nazionale e della Costituente in rappresentanza del Partito d’Azione. Partecipò attivamente ai lavori parlamentari come componente della Giunta delle elezioni della commissione d’inchiesta e della Commissione per la Costituzione. I suoi interventi nei dibattiti dell’assemblea ebbero larga risonanza, specialmente quelli sul piano generale della Costituzione, sugli accordi lateranensi, sulla indissolubilità del matrimonio, sul potere giudiziario. Celebre il discorso tenuto il 4 marzo 1947 sulla “chiarezza” nella Costituzione, esortazione (a volte spiritosa, a volte accorata o solenne) a costruire un testo giuridicamente limpido quale strumento effettivo di democrazia. Un documento che ci riporta a un altro Calamandrei: non il paladino della piena attuazione della nostra legge fondamentale ma il giurista di rango, capace di coglierne in statu nascenti tutte le incon- ALCUNI DEI SUOI TESTI Non c’è libertà senza legalità “La legalità è condizione di libertà. Senza certezza del diritto non può sussistere libertà politica”. Di fronte allo “spaventoso caos di un mondo in rovina”, nel terribile inverno tra il 1943 e il 1944, Piero Calamandrei comprese come ogni speranza di “duratura rinascita” non poteva non fare affidamento sul ripristino del principio di legalità a “metodo di governo”. Se il fascismo era stato il regime dell’illegalità dispiegata, una legalità repubblicana non soltanto doveva essere considerata come fondamento essenziale della libertà, ma doveva anche essere “una legalità che può modificare tutte le leggi meno quelle poste a priori come condizioni necessarie per il rispetto della libertà”. “La libertà di culto, di stampa, di pensiero, di riunione, la uguaglianza dei cittadini nonostante ogni diversità di razza o di religione, sono considerate come estrinsecazioni insopprimibili 2 Temi Romana Piero Calamandrei: la storia della personalità umana, che non si potrebbero menomare senza per questo sopprimere la libertà. Le leggi possono far tutto meno che sopprimere questi diritti intangibili: il liberalismo si può dunque considerare un regime di legalità entro le barriere dei diritti di libertà”. rendo ingiusto, che ad essere ingiusto apparendo giusto. “La legge è uguale per tutti” è una bella frase che rincuora il povero, quando la vede scritta sopra le teste dei giudici, sulla parete di fondo delle aule giudiziarie; ma quando si accorge che, per invocar la uguaglianza della legge a sua difesa, è indispensabile l’aiuto di quella ricchezza che egli non ha, allora quella frase gli sembra una beffa alla sua miseria. Il fascismo come regime della menzogna In questa opera Calamandrei redige un bilancio del ventennio all’indomani della Liberazione, un inno alla libertà ritrovata, un’analisi a caldo del regime in cui “Bisogna fare di tutto perché quella intossicazione vischiosa non ci riafferri: bisogna tenerla d’occhio, imparare a riconoscerla in tutti i suoi travestimenti. In quel ventennio c’è ancora il nostro specchio. Solo guardando ogni tanto in quello specchio possiamo accorgerci che la guerra di Liberazione, nel profondo delle coscienze, non è ancora terminata”. Dietro ogni articolo della Costituzione, o giovani, voi dovete vedere giovani come voi che hanno dato la vita perché la libertà e la giustizia potessero essere scritte su questa Carta. L’avvocato che si lagna di non essere capito dal giudice, biasima non il giudice, ma sé stesso. Il giudice non ha il dovere di capire: è l’avvocato che ha il dovere di farsi capire. Elogio dei giudici scritto da un avvocato Principi processuali, aneddoti, ambiente e vita giudiziaria si trovano in questo nobile libro di Piero Calamandrei. Come in un caleidoscopio, incalzano vivide scenette. Attualissime discussioni si accendono tra fautori del collegio e fautori del giudice unico. Seguono considerazioni dissacranti, secondo cui, molte volte, il cliente dovrebbe ringraziare della vittoria non il proprio ma l’avvocato dell’avversario. Intercalati, compaiono ritrattini di giudici fin troppo assorti nel proprio magistero, tanto da ignorare la vitale realtà che tumultua (magari a sproposito) fuori dalla camera di consiglio. Proprio per questo dovrebbero essere i giudici i più strenui difensori dell’avvocatura: poiché solo là dove gli avvocati sono indipendenti, i giudici possono essere imparziali; solo là dove gli avvocati sono rispettati, sono onorati i giudici; e dove si scredita l’avvocatura, colpita per prima è la dignità dei magistrati, e resa assai più difficile ed angosciosa la loro missione di giustizia. Per trovar la giustizia bisogna esserle fedeli: essa, come tutte le divinità, si manifesta soltanto a chi ci crede. La nobile passione dell’avvocato dev’essere in ogni caso consapevole e ragionante: avere i nervi così solidi da saper rispondere alla offesa con un sorriso amabile, e da ringraziare con un garbato inchino il presidente burbanzoso che ti toglie la parola. CITAZIONI Al giudice occorre più coraggio ad essere giusto appa- Temi Romana 3 Saggi I delitti di criminalità organizzata e il c.d. regime del doppio binario nella sua articolazione penale, investigativo-processuale e del trattamento penitenziario previsto nei confronti dei soggetti detenuti per tali fattispecie di reato Iole Falco Commissario di Polizia Penitenziaria I l nostro ordinamento giuridico non fornisce una precisa nozione di criminalità organizzata e, al contempo, non individua specifiche fattispecie configurabili appunto quali “delitti di criminalità organizzata”. Pertanto, il concetto di criminalità organizzata, pur prestandosi a svariate e disparate letture, può comunemente identificarsi – in una chiave dai marcati connotati sociocriminologici – con l’attività di quelle associazioni criminali contraddistinte da strutture organizzative particolarmente complesse e sofisticate, in cui è proprio l’elemento dell’“organizzazione” ad assumere un ruolo preminente ed autonomo rispetto ai singoli associati. Ne consegue che si considerano delitti di criminalità organizzata tutti quei reati posti in essere da una pluralità di soggetti che operano attraverso un’articolata rete organizzativa, al fine di perseguire uno specifico programma criminoso, in grado di suscitare un particolare allarme sociale. Nell’attuale situazione normativa è possibile individuare due serie principali di delitti: quella contenuta nel comma 3 bis dell’art. 51 c.p.p. e quella risultante dall’art. 407 co. 2 lett. a c.p.p.. In particolare, la norma da ultimo citata – in tema di termini massimi di durata delle indagini – comprende un gruppo molto vasto ed eterogeneo di norme incriminatrici. In essa si annoverano, infatti, taluni delitti obiettivamente collegati a strutture associative e talaltri reati che non presuppongono necessariamente il substrato di un’organizzazione criminale. La seconda elencazione di delitti è quella prevista dal comma 3 bis dell’art. 51 c.p.p., introdotto dalla L. 306/92 e funzionale all’individuazione dei c.d. “reati distrettuali” (cioè i delitti le cui indagini sono attribuite alle Direzioni Distrettuali Antimafia). Ciò premesso, non stupisce che il catalogo in esame contenga, per prima cosa, i delitti tipicamente connessi alla criminalità organizzata e cioè il reato di cui all’art. 416 bis e i delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dalla predetta norma ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dal medesimo art. 416 bis c.p.. Tale fattispecie di reato, introdotta dalla L. 646/82 c.d. legge Rognoni-La Torre, spicca all’interno dei reati associativi, in quanto rappresenta il fulcro sistematico di un reticolato di disposizioni di diritto penale speciale finalizzate alla lotta contro il fenomeno della criminalità organizzata. La previsione contenuta nella legge Rognoni-La Torre è, infatti, una fondamentale chiave di volta dell’intero sistema di contrasto alle compagini criminali e merita attenta lettura soprattutto quando focalizza il nucleo di antistatualità della condotta del reato nel far parte della associazione organizzata in una struttura stabile, al fine di avvalersi dell’accordo associativo e di utilizzare la forza di intimidazione derivante da tale vincolo per trarre vantaggio dalla condizione di assoggettamento e di omertà, diffuse nel territorio, con il fine di commettere ulteriori delitti ed acquisire utilità non solo economiche ma delle più varie tipologie. Le vicende legate ai fatti di criminalità organizzata 4 Temi Romana Saggi hanno influenzato massicciamente l’attività legislativa in materia di giustizia e sicurezza, dando vita ad una serie di norme e di interventi imposti dall’emergenza. Il quadro normativo che ne è venuto fuori, insieme alla frammentarietà delle disposizioni di legge contro la criminalità organizzata, si caratterizza per la scelta differenziata, all’interno del sistema, tra fattispecie di criminalità comune e reati commessi nel contesto di organizzazioni criminali. Va però detto che la disciplina presente nell’attuale sistema penale, investigativo-processuale e penitenziario impone l’adozione in via stabile e permanente di un sistema di c.d. doppio binario, volto a coniugare le esigenze di difesa sociale con la necessità di assicurare le adeguate garanzie degne di un moderno stato di diritto. In relazione al profilo del trattamento penale differenziato il legislatore, in piena attuazione del regime del doppio binario, ha previsto a carico di chi commette delitti tipici di criminalità organizzata uno speciale sistema di circostanze aggravanti tra le quali assume particolare rilievo l’aggravante speciale di cui all’art. 7 del D.L. 152/91 che risulta applicabile quando un delitto, punito con una pena diversa dall’ergastolo, sia compiuto avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416 bis c.p. o al fine di agevolare l’associazione di cui allo stesso articolo e causa un aumento della pena prevista per quel delitto da un terzo alla metà. La ratio di tale disposizione è, essenzialmente, quella di contrastare in maniera più decisa, stante la loro maggiore pericolosità e determinazione criminosa, gli atteggiamenti di coloro che partecipi o meno in reati associativi, ostentino in maniera evidente e provocatoria una condotta idonea ad esercitare sui soggetti passivi quella particolare coartazione e quella conseguente intimidazione propria delle organizzazioni criminali. Da ricordare è, altresì, il comma 6 dell’art. 416 c.p. come modificato dalla recente L. 94/2009 la quale ha introdotto un aggravamento di pena sia per i promotori, costitutori e organizzatori dell’associazione, sia per i partecipi della stessa, non solo nel caso in cui il sodalizio sia diretto a commettere i delitti di c.d. tratta (artt. 600, 601 e 602 c.p.) ma anche quando lo scopo comune sia quello di realizzare fatti di sfruttamento dell’immigrazione clandestina. Sempre in relazione al profilo del trattamento penale sono, all’inverso, previste speciali diminuzioni di pena Temi Romana per chi, dopo avere commesso tali fattispecie di reato, decide di dissociarsi e di collaborare con l’Autorità nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e l’individuazione dei colpevoli. Sotto il profilo investigativo e processuale, l’insieme delle deroghe alla disciplina ordinaria ha creato un vero e proprio “sottosistema processuale” volto ad assicurare un contrasto effettivo alla criminalità organizzata. Innanzitutto la specialità della procedura antimafia si riscontra nella fase preliminare e, in special modo, in quell’insieme di norme finalizzate a modellare l’organizzazione delle indagini alle peculiari modalità investigative richieste dal fenomeno del crimine organizzato. L’azione di contrasto del fenomeno mafioso è assicurata da organi investigativi specializzati, tra i quali si annoverano i servizi centrali e interprovinciali di polizia giudiziaria (art. 12 del D.L. n. 152 del 1991, convertito nella legge n. 203 del 1991) e la Direzione investigativa antimafia (art. 3 D.L. n. 345 del 1991). Ma la diversificazione soggettiva più significativa è, sine dubio, quella che ha riguardato l’organizzazione degli uffici dell’accusa. Invero, con il decreto legge n. 367 del 1991 (poi convertito nella legge n. 8 del 1992) intitolato, appunto “Coordinamento delle indagini nei procedimenti per reati di criminalità organizzata” si è differenziata la disciplina in tema di acquisizione della notizia di reato mediante l’istituzione delle Direzioni Distrettuali Antimafia e della Direzione Nazionale Antimafia, cui è preposto il Procuratore Nazionale Antimafia. A seguito di tale intervento legislativo, le indagini sui reati di cui all’art. 51 comma 3 bis c.p.p. sono concentrate presso uno speciale ufficio del pubblico ministero, appositamente costituito presso il tribunale del capoluogo del distretto (le DDA, appunto), in modo da rafforzare l’unitarietà dell’accusa e annullare la possibilità che possa insorgere un contrasto. Alle singole procure distrettuali è stato preposto – secondo una “logica verticale” – un organo istituito nell’ambito della Procura Generale presso la Corte di Cassazione: la “Procura Nazionale Antimafia”, cui sono demandate funzioni di impulso dell’attività investigativa, di ricerca e sistemazione delle informazioni attinenti al crimine organizzato (art. 371 bis c.p.p.), nonché di investigazione preventiva come previsto dal c.d. “Decreto sicurezza” del 2008 (D.L. n. 92 del 5 Saggi 2008). Sempre con riguardo alle indagini preliminari, la specialità investe altresì la tempistica e i meccanismi di proroga. Ed invero, le esigenze di assicurare la completezza di investigazioni complesse e di garantirne la segretezza nei procedimenti per i “delitti di grande criminalità” (art. 407 comma 2 lett. a c.p.p.) hanno portato il legislatore a predisporre un secondo gruppo di disposizioni derogatorie: - l’art. 407 comma 2 lett. a. c.p.p. che allunga a due anni la durata massima complessiva delle indagini preliminari, contro un termine ordinario di diciotto mesi; - l’art. 405 comma 2 c.p.p. che, in maniera analoga, fissa in un anno (il doppio rispetto ai procedimenti per reati “comuni”) il termine entro il quale il pubblico ministero è normalmente tenuto alla conclusione delle indagini preliminari; - l’art. 406 comma 5 bis c.p.p. che contempla una disciplina ampiamente derogatoria rispetto al regime ordinario di comunicazioni e avvisi per una serie più ristretta di reati, escludendo, infatti, ogni forma di contraddittorio con la persona sottoposta alle indagini riguardo alla proroga, perciò definita “coperta”, al fine di salvaguardare gli sviluppi delle attività investigative dai tentativi di depistaggio o inquinamento che puntualmente si registrano nelle inchieste relative ai delitti di criminalità organizzata; - l’art. 335 comma 3 c.p.p. che, analogamente, deroga al regime ordinario di conoscibilità dell’indagine sancendo la non comunicabilità esterna delle informazioni iscritte nel registro delle notizie di reato. Continuando la carrellata sugli elementi di specialità, una significativa differenziazione si registra anche in relazione alle attività esperibili nell’indagine preliminare. Nei procedimenti di criminalità organizzata è, infatti, incrementata la facoltà di iniziativa, nonché l’incisività dei poteri investigativi e coercitivi attribuiti alla polizia giudiziaria. Si segnala, a tal proposito, la possibilità affidata agli ufficiali e agli agenti di p.g. di procedere – nel corso di procedimenti per la prevenzione e la repressione del reato di cui all’art. 416 bis C.P. e di quelli commessi in relazione ad esso – a controlli, ispezioni e perquisizioni con l’autorizzazione, anche successiva, del pubblico ministero (art. 27, commi 1 e 2, della legge n. 55 del 1990). Altrettanto degno di nota è il potere in capo agli organi di p.g. di compiere, previo controllo dell’autorità giurisdizionale, perquisizioni in interi edifici o blocchi di essi attribuito dall’art. 25 bis D.L. n. 306 del 1992 per i delitti di cui all’art. 51 comma 3 bis c.p.p. e recentemente esteso nell’ambito del contrasto al terrorismo internazionale. Ciò consente un allargamento eccezionale dei poteri di ricerca degli organi di polizia, qualora ci sia fondato motivo di sospettare che un latitante o un evaso stia trovando riparo in un contesto urbano. Un’ultima menzione, per concludere, si rivolge alla possibilità da parte del pubblico ministero o degli ufficiali di polizia appartenenti alle strutture investigative specializzate di raccogliere, previa autorizzazione, le dichiarazioni dei soggetti detenuti o internati, a fini preventivi o repressivi, attraverso colloqui riservati e informali, per i quali non è nemmeno prevista la presenza del difensore (art. 18 bis legge n. 354/75, introdotto dalla legge n. 306 del 1992). Nella dissertazione sulla specialità degli strumenti investigativi, le intercettazioni meritano uno spazio autonomo. Infatti, l’art. 13 D.L. n. 152 del 1991 (convertito nella legge n. 203 del 1991, come modificato, da ultimo, dalla legge n. 63 del 2001) prevede specifici presupposti e differenti limiti di durata per l’ascolto occulto delle conversazioni telefoniche e ambientali, in deroga ai parametri imposti dagli artt. 266 e 267 c.p.p. per la concessione di questi invasivi mezzi di ricerca della prova. In particolare, per quanto riguarda la captazione di comunicazioni telefoniche, si attenua il rigore dei presupposti richiesti per l’atto di autorizzazione (il riscontro di “sufficienti indizi” di tale tipologia di reato, un parametro meno stringente rispetto a quello ordinario della “assoluta indispensabilità”, dello strumento “per la continuazione delle indagini”) e si allungano i tempi di durata per le operazioni (quaranta giorni con proroga di venti, anziché quindici giorni con proroga della medesima durata). Inoltre, ai fini dell’autorizzazione allo svolgimento di intercettazioni di conversazioni “tra presenti” nei luoghi indicati dall’art. 614 C.P., non è necessario un fondato motivo che al loro interno si stiano svolgendo attività criminose, potendo tale ultima particolare modalità di captazione essere ammessa anche “quando si trat- 6 Temi Romana Saggi ta di agevolare le ricerche di un latitante” (art. 295 comma 3 c.p.p.). Per i “delitti distrettuali”, l’art. 226 disp.att. c.p.p. prevede, altresì, che la polizia giudiziaria, con un provvedimento motivato del Procuratore della Repubblica, possa svolgere controlli sulle comunicazioni quando questi siano indispensabili per la prevenzione del crimine organizzato. Si ricorda, però, che – in quanto strumenti preventivi – i risultati di tali intercettazioni saranno sprovvisti di qualsiasi valore processuale, valendo quindi unicamente a giustificare successive attività idonee a costituire autonoma fonte di acquisizione di notizie di reato. Dall’analisi sinora compiuta, si ricava che uno dei tratti di specialità più marcati dei procedimenti per fatti di criminalità organizzata riguarda l’attività di ricerca – in maniera costante e diretta – della notitia criminis da parte degli organi inquirenti. A questo scopo il legislatore è andato implementando sempre più quello che è stato efficacemente definito come un “apparato di auto-approvvigionamento di informazioni” sui sodalizi criminali (dati ambientali, forme organizzative ecc.). Tale apparato si traduce, quindi, in una “super indagine” rivolta a porre le basi conoscitive sull’associazione criminale, funzionali alla stessa indagine preliminare. In altri termini, si registra la predisposizione di uno strumentario giuridico finalizzato a disciplinare quelle “inchieste preparatorie” favorite dalla stessa fattispecie del reato di cui all’art. 416 bis c.p.. Si tratta, dunque, di una fase che il legislatore qualifica come “preventiva”, per la quale dispone che gli elementi raccolti in essa non siano in alcun modo utilizzabili nel procedimento penale in senso stretto. Un ulteriore profilo di specialità dei procedimenti in esame si registra sul terreno delle misure cautelari. Invero, in materia di compiti cautelari del giudice, vige un regime differenziato in base al quale, per gli accusati di delitti di criminalità organizzata, si realizza un arretramento del principio di inviolabilità della libertà personale e si nota una netta prevalenza del carcere rispetto alle altre modalità di custodia. In particolare, l’art. 274 lett. c c.p.p. ammette la possibilità di disporre un provvedimento cautelare non solo quando vi sia un pericolo di fuga o di inquinamento del materiale probatorio, ma anche quando sussista il Temi Romana rischio che l’indagato torni a commettere determinati delitti particolarmente efferati, tra cui quelli connessi all’associazionismo criminale. La descritta occorrenza cautelare – definita “esigenza di tutela della collettività” – è espressione di una logica in cui si confondono le istanze preventive con quelle direttamente sanzionatorie. Ma la disposizione di cui sopra deve essere letta congiuntamente a quella prevista dal terzo comma dell’art. 275 c.p.p., il quale fissa, per i procedimenti in esame, una presunzione di inadeguatezza delle misure cautelari diverse dalla custodia cautelare in carcere, invertendo in tal modo la regola “ordinaria” del carcere come extrema ratio. Occorre aggiungere sul punto che il regime speciale sopra descritto – nonostante sia caratterizzato da una “presunzione relativa di periculum libertatis” e da una “presunzione assoluta” circa l’adeguatezza del carcere – ha regolarmente superato il vaglio di legittimità da parte della Corte Costituzionale e della Corte europea dei diritti dell’uomo, le quali ne hanno giustificato la sussistenza in ragione delle peculiarità strutturali e criminologiche dei delitti per cui è predisposto. La differenziazione sul versante processuale per l’accertamento dei reati di criminalità organizzata ha riguardato anche la fase dibattimentale. Tra queste norme occorre ricordare quelle che, dal 1998 hanno contribuito a disciplinare il c.d. processo “virtuale”. Si tratta, invero, di particolari modalità di formazione della prova, quali la partecipazione a distanza della persona in stato di detenzione (art. 146 bis disp. att. c.p.p.) e l’esame delle persone che collaborano con la giustizia o degli imputati di reato connesso (147 bis disp. att. c.p.p.). In particolare, mediante la prima disposizione citata, il legislatore ha predisposto un apposito sistema di collegamento audiovisivo per l’esame di una persona che si trovi in stato di detenzione in carcere e versi in una delle ipotesi tassative previste dalla norma. Si tratta, quindi, di una disposizione che, limitando gli spostamenti dei detenuti, consente di evitare dilatazioni dei tempi processuali, in procedimenti già afflitti dalle lungaggini del gigantismo processuale e di garantire la tutela della sicurezza pubblica, poiché riguarda il trattamento di detenuti particolarmente pericolosi. Per concludere, è sufficiente ricordare – in questa sede 7 Saggi – come la specialità dei processi di criminalità organizzata sia arrivata a permeare anche il versante del procedimento probatorio in senso stretto. Nei procedimenti di criminalità organizzata si riscontrano, infatti: una peculiare limitazione del diritto alla prova per evitare la c.d. “usura delle fonti” (art. 190 bis c.p.p.); un particolare uso probatorio delle sentenze (art. 238 bis c.p.p.) e un singolare atteggiarsi del meccanismo di accertamento dell’intimidazione, ai fini del recupero delle precedenti dichiarazioni (art. 500 commi 4 e 5 c.p.p.). Parallelamente al corpus di norme costituenti il regime processuale ed investigativo differenziato per coloro che rispondono dei delitti di criminalità organizzata esistono altri strumenti atti a differenziare sul piano penitenziario l’attività di contrasto alla criminalità organizzata da tutte le altre forme di difesa sociale contro il crimine. Nei primi anni ’90 alla recrudescenza della criminalità organizzata e, in particolare, ad alcuni feroci attacchi alle istituzioni lo Stato rispose, in materia penitenziaria, attraverso l’introduzione di un vero e proprio “doppio binario trattamentale”: da un lato i condannati ordinari, nei cui confronti continua ad essere prevalente la finalità specialpreventiva e rieducativa della pena e ai quali, pertanto, è offerto un trattamento penitenziario ed extrapenitenziario funzionale alla risocializzazione; dall’altro lato, i detenuti per i delitti di maggiore allarme sociale, in relazione ai quali appare necessario rafforzare le esigenze di prevenzione generale e di neutralizzazione. Dal 1991 in poi, infatti, per quest’ultima categoria di detenuti, la possibilità di procedere ad un trattamento e ad un regime differenziato per assicurare la sicurezza sia interna degli istituti che pubblica, si è fatta strada in due diverse direzioni: da un lato, attraverso l’individuazione di un accesso differenziato ai benefici e alle misure alternative, secondo le previsioni introdotte dall’art. 4 bis o.p. e, dall’altro, attraverso la sospensione in tutto o in parte, per taluni detenuti, delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla legge penitenziaria, mediante l’introduzione dell’art. 41 bis co. 2 o.p. ad opera della legge 356/92. A questa categoria di detenuti, per i quali vige una presunzione assoluta di pericolosità criminale o sociale, è preclusa o limitata la concessione delle misure alterna- tive alla detenzione (fatta eccezione per la liberazione anticipata), dei permessi premio e del lavoro all’esterno, fruibili solo mediante l’offerta della “collaborazione con la giustizia” qualificata ex art. 58 ter o.p., essendo questo l’unico modo per dimostrare l’avvenuta rottura dei collegamenti con la criminalità organizzata che, altrimenti, si presumono sempre esistenti. Da qui, la necessità, secondo il legislatore, di intervenire non solo nel settore delle misure alternative alla detenzione, ma anche in quello del trattamento penitenziario, restringendo al massimo le opportunità di contatto dei detenuti ex art. 4 bis o.p. con l’esterno. Per soddisfare tale esigenza, il legislatore, con legge 356/92, ha introdotto nell’art. 41 bis un 2° comma relativo ad un’ipotesi particolare di sospensione delle normali regole trattamentali (sostanzialmente identica alla abrogata disciplina di cui all’art. 90 o.p.). Il provvedimento ministeriale consente l’adozione di misure in deroga al regime ordinario che comportano la sospensione, nei confronti dei detenuti o internati per taluno dei delitti di cui al primo periodo del comma 1 dell’art. 4 bis o.p. e in relazione ai quali vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con un’organizzazione criminale, terroristica o eversiva, dell’applicazione delle regole di trattamento e degli istituti che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza. La formula presente nella versione originaria del 2° co. dell’art. 41 bis o.p. è stata arricchita dalla precisazione che le restrizioni adottate devono essere necessarie per il soddisfacimento di tali esigenze e per impedire i collegamenti con l’associazione criminale di appartenenza. La Corte Cost., pur riconoscendo all’amministrazione penitenziaria il potere di adottare provvedimenti in ordine alle modalità di esecuzione della pena, ha specificato, con sentenza n. 349/93, che tali provvedimenti restano comunque soggetti ai limiti e alle garanzie previsti dalla Costituzione in ordine al divieto di ogni violenza fisica e morale (art. 13 co. 4 Cost.) o di trattamenti contrari al senso di umanità (art. 27 co. 3) ed al diritto di difesa (art. 24). Le modifiche apportate dalla legge 94/2009 rispondendo all’intento di spezzare ogni legame tra il carcere e il mondo esterno, allo scopo di isolare gli appartenenti a organizzazioni criminali per indebolire la loro posizione, hanno inciso in modo particolarmente pesante sul 8 Temi Romana Saggi contenuto del provvedimento sospensivo delle regole trattamentali delineato nel co. 2 quater dell’art. 41 bis o.p. La nuova formulazione premette all’elenco delle restrizioni la precisazione che i soggetti sottoposti al regime in peius sono ristretti all’interno di istituti a loro esclusivamente dedicati, collocati preferibilmente in aree insulari, ovvero comunque all’interno di sezioni speciali e logisticamente separate dal resto dell’istituto e custoditi da reparti specializzati della polizia penitenziaria (il c.d. GOM – Gruppo Operativo Mobile). Prima di analizzare le singole restrizioni è interessante evidenziare che nel secondo periodo del co. 2 quater dell’articolato normativo in esame si dice che la sospensione prevede, anziché, come nella versione precedente, può prevedere, volendo in tal modo significare che non è possibile modulare il contenuto del decreto ministeriale in ragione delle esigenze riscontrate nel caso concreto ma che necessariamente sono imposte tutte le limitazione indicate, le quali, dunque, sono ritenute tutte presuntivamente necessarie, eliminando ogni possibile spazio discrezionale. Per quanto concerne le singole limitazioni elencate nel comma in esame, occorre rilevare che si tratta delle stesse che già caratterizzavano i decreti ministeriali nella vigenza del vecchio co. 2 dell’art. 41 bis o.p. e che sono dirette ad incidere su due fronti: quello dei rapporti con il mondo esterno e quello relativo alla vita intramuraria, determinando un ulteriore inasprimento del regime a seguito dell’intervento legislativo del 2009. Per quanto concerne il primo versante la sospensione incide sui colloqui con i terzi che sono esclusi, salvo casi eccezionali determinati di volta in volta dal direttore (o dall’A.G. procedente per gli imputati), nonché sui colloqui con i familiari ridotti ora ad uno solo mensile e da svolgersi in locali muniti di vetri divisori e di citofoni, onde evitare il passaggio di oggetti. I colloqui inoltre possono essere sottoposti a controllo auditivo e a registrazione, previa motivata autorizzazione dell’A.G. competente, diversamente dunque da quanto previsto dal regime ordinario che all’art. 18 o.p. consente il controllo a vista non auditivo. La sospensione incide, altresì, sulla corrispondenza telefonica che, tuttavia, può essere autorizzata nella misura di una telefonata mensile solo nei confronti di coloro che non effettuano colloqui, purché siano decorsi sei mesi dall’applicazione del 41 bis ed è comunque Temi Romana sempre sottoposta a registrazione. La volontà di inasprire il regime e soprattutto di rendere ancora più duro l’isolamento di tali soggetti non ha risparmiato neppure i contatti con il difensore. Infatti, tali colloqui sono stati ridotti al numero massimo di tre alla settimana, sia che si tratti di colloqui diretti o di conversazioni telefoniche che avranno la stessa durata di quelli con i familiari. Parimenti volta ad incidere sui rapporti con il mondo esterno è la disposizione di cui alla lett. e del comma in esame che consente il visto di censura sulla corrispondenza, fatta salva quella con i membri del Parlamento o con autorità europee o nazionali aventi competenza in materia di giustizia. Pur non contenendo alcun riferimento all’intervento autorizzativo dell’A.G. si deve ritenere che la prescrizione di tale lettera abbia efficacia solo a patto che intervenga l’autorizzazione al visto di controllo da parte dell’A.G. competente. Per quanto concerne le attività che strettamente afferiscono alla vita in carcere è prevista nella lett. d del co. 2 quater l’esclusione dalle rappresentanze dei detenuti e degli internati e nella lettera f la permanenza all’aria aperta ridotta, a seguito dell’intervento del 2009, da quattro a due ore e in gruppi che non possono essere composti da più di quattro persone. Si pone, nella prospettiva di incidere sulla vita interna all’istituto e nel contempo indirettamente sui contatti con il mondo esterno, la prescrizione della lett. c volta a limitare le somme, i beni e gli oggetti che possono essere ricevuti dall’esterno e, non anche inviati, al fine di garantire esigenze di ordine e sicurezza atte ad impedire illecite comunicazioni all’interno e all’esterno dell’istituto. Si noti che, mentre nei decreti ministeriali applicativi del regime differenziato antecedenti alla legge 279/2002, si poneva un divieto assoluto di invio e di ricezione di somme, nella lett. c in esame è prevista la possibilità di imporre limitazioni la cui entità è lasciata alla discrezionalità dell’amministrazione penitenziaria. La lettera a del co. 2 quater in esame afferma che le misure di elevata sicurezza interna ed esterna adottate sono finalizzate a prevenire contatti con l’organizzazione di appartenenza o di attuale riferimento, contrasti con elementi di organizzazioni contrapposte, interazione con altri detenuti o internati appartenenti alla mede- 9 Saggi sima organizzazione ovvero ad altre ad essa alleate. Si tratta, dunque, di misure di difficile individuazione certamente volte ad ampliare la gamma, peraltro già assai ampia, degli interventi limitativi ad opera dell’amministrazione penitenziaria. Il secondo comma dell’art. 41 bis o.p. rappresenta, dunque, uno strumento di politica criminale volto a neutralizzare la pericolosità sociale di taluni detenuti e a indurre scelte di rottura con l’organizzazione di appartenenza senza con ciò incidere sugli istituti trattamentali. Le differenziazioni sopra esposte, infatti, non dovranno mai implicare disparità nel concreto esercizio dei diritti, nella fruizione delle opportunità trattamentali offerte dall’o.p., né tantomeno nell’osservanza dei doveri dei detenuti, essendo connesse solo a garantire nei confronti degli interessati un livello superiore di sicurezza. Invero, le attività del trattamento penitenziario devono comunque essere consentite nel rispetto delle finalità rieducative della pena, mantenendo però un atteggiamento di osservazione dei fenomeni che consenta di valutare possibili strumentalizzazioni di attività legittime per fini illeciti. È noto, infatti, che operare con atteggiamento burocratico nei confronti di soggetti organizzati e che operano utilizzando precise strategie comportamentali, aumenta il rischio di deviazioni dalle finalità istituzionali. È necessario, pertanto, controllare che il trattamento consegua correttamente il suo scopo ed impedire che lo stato detentivo dei soggetti in questione invece che configurarsi quale ostacolo all’ulteriore delinquere ne costituisca il veicolo o faciliti l’incontro di personalità e alleanze. 10 Temi Romana Saggi La duttilità della fase cautelare: intrecci, compressione, ampliamento e conversione in altri riti. Alla ricerca della fase di merito nella costellazione dei segmenti cautelari Maria Vittoria Lumetti Avvocato dello Stato dell’Avvocatura Generale SOMMARIO: 1. Gli intrecci cautelari. Il processo cautelare e i suoi segmenti processuali o microgiudizi cautelari – 2. La conversione dell’incidente cautelare in decisione sul merito: dal rito cautelare al rito immediato – 3. Compressione o ampliamento della fase cautelare – 4. Rapporti tra giudizio cautelare e giudizio di merito; la accentuata connessione tra fase della cautela e fase di merito prevista dal c.p.a; l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 917/2011 – 5. Il deficit culturale della fase di merito: sua eventualità e sviluppo sostenibile – 6. L’anticipazione della soglia di tutela: merito come “appello domestico”? – 7. La bulla aurea del processo cautelare: declino della fase di merito… – 8. …o declino della fase cautelare? – 9. La rivincita dell’udienza di merito: la conversione della fase cautelare nella fase di merito e il corto circuito cautelare – 10. Il nuovo codice e l’abbondanza delle corsie acceleratorie – 11. La tutela cautelare come momento unificante – 12. Il grande processo cautelare – 13. Il processo amministrativo è il processo cautelare? 1. Gli intrecci cautelari. Il processo cautelare e i suoi segmenti processuali o microgiudizi cautelari Il meccanismo tipico del rito cautelare viene utilizzato in altre tipologie processuali come una sorta di rito passe-partout per risolvere problemi altrimenti di difficile soluzione. Il rito del processo cautelare è il modello di riferimento, seppure con qualche variante, anche dei riti camerali speciali. Questi ultimi, che si sviluppano in microsegmenti cautelari, privilegiano, senza alcuna distorsione prospettica, l’obiettivo di velocizzare la definizione di giudizi il cui esito si pone in rapporto di strumentalità e di accessorietà con eventuali processi pendenti o successive azioni giurisdizionali. Il processo cautelare è ormai costituito da segmenti cautelari, microgiudizi, miniprocedimenti: si profila una cautela caratterizzata da tanti innesti. Oltre che nel giudizio contro il silenzio (art. 117 c.p.a.), la legge prevede lo schema del giudizio cautelare nella fase di esecuzione delle pronunce cautelari (art. 114 co 5 c.p.a.), nel rito dell’accesso (art. 116 c.p.a.)1 e anche nell’ipotesi di regolamento preventivo di competenza da parte del Consiglio di Stato (art. 15 comma 3). Il principio è stato codificato in via generalizzata dall’art. Temi Romana 87 c.p.a. comma 2, il quale espressamente dispone che “oltre agli altri casi espressamente previsti, si trattano in camera di consiglio i giudizi cautelari, quelli relativi all’esecuzione delle misure cautelari collegiali, il giudizio in materia di silenzio, di accesso ai documenti amministrativi, di ottemperanza, di opposizione ai decreti che pronunciano l’estinzione o l’improcedibilità del giudizio”. È evidente l’intento del legislatore di imporre, per particolari materie, che i ricorsi concernenti pretese lesioni di posizioni giuridiche dei singoli debbano essere decisi dal giudice amministrativo entro tempi brevissimi, che si configurano come del tutto incompatibili con quelli tipici della procedura ordinaria2. Si è parlato anche di rito camerale accelerato e deformalizzato3 non tanto per la previsione, in alcuni casi, di un termine massimo per la pronuncia, ma per il rito processuale, che è quello proprio del rito camerale ordinario. Abbiamo visto che nel processo cautelare sono prospettabili vari innesti: l’innesto del giudizio immediato nel processo cautelare e abbreviato, l’innesto della tutela ante causam e della tutela monocratica in quella collegiale, l’innesto della tutela ante causam nel giudizio immediato e abbreviato. È innegabile che siamo passati dal procedimento cautelare ai procedimenti cautelari. 11 Saggi 2. La conversione dell’incidente cautelare in decisione sul merito: dal rito cautelare al rito immediato Come è stato esaminato è possibile anche l’innesto del giudizio immediato nel processo cautelare e abbreviato. La conversione del rito cautelare in rito immediato4 si verifica in quattro ipotesi: nel caso dell’artt. 60 che regola il giudizio immediato in generale, dell’art. 74, riguardante i casi speciali di giudizio immediato, applicabile solo in determinati casi previsti dalla legge (manifesta fondatezza, irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza del ricorso), nell’ambito del giudizio abbreviato (art. 119 comma 3) ed ancora del giudizio abbreviato speciale (art. 120 comma 6). Entrambe le disposizioni di cui agli artt. 119 comma 3 e 120 comma 6 rinviano all’art. 60 e alla disciplina ivi contenuta, che è quella relativa al rito immediato. La conversione dell’incidente cautelare in decisione sul merito della controversia può verificarsi anche senza il passaggio attraverso il rito immediato. L’art. 55 comma 10 infatti, introducendo una forma di tutela intermedia, elimina la fase cautelare in presenza di determinati presupposti individuati dal giudice. Lo stesso accade nel caso dell’art. 71 comma 5 che consente la fissazione “di un merito a breve” in cambio della rinuncia della parte al cautelare o dell’art. 72, che legittima il giudice ad obliterare la fase cautelare e di fissare con priorità l’udienza di merito in presenza di ricorsi vertenti su un’unica questione. Lo strumento della conversione della fase cautelare o, il che è lo stesso, della sua eliminazione, costituisce un importante mezzo di accelerazione del processo amministrativo e indica uno sfavor legislativo nei confronti della tutela cautelare stessa, in quanto la spinta innovativa è ormai tutta proiettata verso il processo di merito e, in ogni caso, in direzione dell’esecuzione coattiva della pronunzia della sentenza di primo grado, che è emanata sulla base di una cognizione piena. La norma si pone in linea con la nuova formulazione dell’art. 111 della Costituzione che afferma il principio del rispetto del giusto processo, nonché del 1° comma dell’art. 117 Costituzione, come novellato con la legge costituzionale 12 ottobre 2001 n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), che impone una interpretazione conforme anche ai vincoli ed agli obblighi internazionali. 3. Compressione o ampliamento della fase cautelare La duttilità della fase cautelare si ravvisa non solo nella sua attitudine alla conversione in altri riti, ma anche nella sua compressione o nel suo ampliamento, a seconda dei casi. Come si è detto il congegno regolato dall’art. 199 comma 3 c.p.a. provoca una compressione della tutelare cautelare che non decolla, ma si prepara a convertire in giudizio di merito, pur sussistendo i presupposti per poterla prendere in esame. Si tratta di una fase cautelare “finta”, che tuttavia si amplia in un’altra direzione: nella dilatazione della fase istruttoria, che diventa piena, come nel giudizio di merito, proprio perché il processo sta mutando, attraverso una metamorfosi che sfocerà nel vero e proprio giudizio di merito. Nel caso del rito abbreviato speciale questo non avviene e, fermo restando la conversione in rito immediato ai sensi dell’art. 60, il giudice può comunque adottare le misure cautelari, qualora ravvisi i presupposti ordinari del fumus e del periculum. Ma anche in questo caso, la fase cautelare, che non è più finta, si amplia: l’art. 120 comma 8 dispone che il giudice, proprio in quella fase, possa ordinare adempimenti istruttori e concedere termini a difesa La norma sembra voler indicare che anche in questo caso trattasi di fase cautelare anomala, comunque proiettata verso il giudizio di merito, che anzi viene addirittura anticipato in parte nella fase cautelare stessa. Può accadere che il giudice non ritenga di disporre alcuna misura cautelare e, anche in tal caso, assistiamo ad una curiosa conversione della fase cautelare in fase di merito. È la prova evidente che l’allocazione incidentale del procedimento cautelare non va necessariamente a scapito dell’efficienza della tutela, e questo grazie alla duttilità dello strumento cautelare. 4. Rapporti tra giudizio cautelare e giudizio di merito; la accentuata connessione tra fase della cautela e fase di merito prevista dal c.p.a.; l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 917/2011 La riforma apportata dal c.p.a. alla struttura della tutela cautelare e che ne ha ampliato la portata, incide sulle misure che tutelano la fruttuosità dell’azione di merito5. L’art. 55 comma 4 evidenzia il carattere accessorio 12 Temi Romana Saggi della tutela d’urgenza rispetto al giudizio di merito, prevedendo l’improcedibilità della domanda cautelare fino a quando non viene presentata l’istanza di fissazione dell’udienza di merito, a meno che quest’ultima non debba essere fissata d’ufficio6. La stessa legge 205 del 2000 aveva attribuito al giudice amministrativo il potere di adottare “le misure cautelari... che appaiano, secondo le circostanze più idonee ad assicurare interinalmente gli effetti della decisione sul ricorso” (art. 21 comma 8 della L. 6.12.1971 n. 1034 così come sostituito dall’art. 3, L. 21 luglio 2000, n. 205). La misura cautelare atipica delineata dal legislatore del 2000 e confermata dal codice appare più idonea della mera sospensiva dell’atto impugnato a tutelare soprattutto gli interessi pretensivi. Si riconosce, di fatto, all’autorità giudiziaria, la possibilità di emettere ordinanze non solo di natura propulsiva, ordinando alla P.A. di provvedere nuovamente, fatto salvo l’esito definitivo del processo, ma anche di natura decisoria, mediante l’adozione di un nuovo provvedimento emesso direttamente dal giudice in provvisoria sostituzione dell’atto impugnato, sino alla definizione del merito della causa. Le aperture della giurisprudenza prima delle ultime riforme volte a riconoscere la possibilità di ricorrere alla “sospensiva” anche avverso i provvedimenti negativi, pur se condizionate dalla necessità che il giudice non utilizzi i poteri esclusivi della P.A., hanno sicuramente influenzato il legislatore7. La disposizione di cui all’art. 55 comma 4 mira a contemperare l’esigenza della rapida definizione del giudizio con quella della salvaguardia del diritto alla difesa. Tale fine viene perseguito mediante l’attribuzione al giudice cautelare del potere di emettere una decisione immediata nel merito, previo accertamento della completezza del contraddittorio e dell’istruttoria, estendendo così alla generalità delle controversie la disciplina finora prevista solo per le cause in materia di aggiudicazione di appalti di opere pubbliche9. La norma dispone anche che in caso di estrema gravità ed urgenza, tale da non consentire neppure la dilazione sino alla data della camera di consiglio, l’autorità giudiziaria possa, su domanda di parte ed anche inaudita altera parte, disporre misure provvisorie, efficaci fino alla pronuncia cautelare del collegio, cui la questione è sottoposta alla prima camera di consiglio utile. Si trat- Temi Romana ta della c.d. tutela cautelare anticipata, disciplinata ora dall’art. 56 del c.p.c. e precedentemente regolata dall’art. 3, L. 21 luglio 2000, n. 205 abr. che a sua volta sostituiva l’originario settimo comma dell’art. 21, L. 6.12.1971, n. 1034. E ancora, nel caso in cui l’amministrazione non dia ottemperanza alle misure cautelari, l’art. 59 del c.p.a. attribuisce al Tribunale che ha concesso la misura cautelare il potere di disporre le misure attuative, con la potestà estesa al merito propria del giudice dell’ottemperanza, dettando gli opportuni provvedimenti attuativi e le modalità10. Inoltre, l’art. 62 del c.p.a. riduce notevolmente i termini rispetto alla normativa precedente: i termini per proporre l’appello cautelare sono di 30 giorni dalla notificazione e 60 giorni dalla pubblicazione della ordinanza cautelare. Nei casi in cui dall’esecuzione della misura cautelare possano derivare effetti irreversibili, il giudice può subordinare l’efficacia della misura cautelare concessa alla prestazione di una cauzione, peraltro esclusa qualora l’istanza riguardi interessi essenziali della persona, quali il diritto alla salute, all’integrità dell’ambiente ovvero ad altri beni di primario rilievo costituzionale. L’accoglimento della domanda cautelare presuppone, secondo i principi della disciplina processualistica, un giudizio sulla sussistenza del fumus bonis iuris e del periculum in mora. Quanto al primo elemento, è necessario sottolineare come in seguito alla riforma esso abbia assunto una rilevanza ben maggiore del periculum in mora. La riforma, infatti, impone al giudice cautelare di pronunciarsi sulla base della “ragionevole” previsione dell’esito del ricorso. Pertanto, il giudizio sulla sussistenza dell’elemento non ha ad oggetto l’approssimativa verosimiglianza dell’esistenza del diritto ma, di fatto, rappresenta l’anticipazione del giudizio di merito. Da questo mutato quadro normativo, decisione cautelare e decisione di merito risultano intimamente collegate, tanto che la nuova legge impone all’autorità giudiziaria cautelare non più un obbligo generico di motivazione, come si limitava a fare la disciplina previgente, ma prevede la descrizione dell’iter logico che ha portato alla decisione11. I presupposti della pronuncia cautelare sono differenti da quelli della decisione di merito: se il pericolo attuale di un pregiudizio grave e irreparabile, a fronte di un danno presuntivamente ritenuto sempre rimediabile 13 Saggi non sia ritenuto sussistente, il giudice cautelare non può affrontare l’esame dei profili di merito della causa. Se risulta invece ravvisabile, l’esame del merito deve essere limitato alla parvenza di fondatezza del ricorso. Al contrario, il giudice del merito deve esaminare le censure per acquisire la prova piena della loro fondatezza: anche l’evidenza del fumus non ha nulla a che vedere con quella della fondatezza della controversia. La connessione tra fase della cautela e fase di merito si riscontra anche nella possibilità da parte del TAR o del Consiglio di Stato, in sede cautelare, di fissare l’ordinanza collegiale e la data di discussione del ricorso nel merito (art. 55 comma 10 c.p.a.) in caso di accoglimento del ricorso in sede cautelare (art. 55 comma 11 c.p.c. e art. 3 L. 205/2000 abr.). L’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 917/2011 ha evidenziato e accentuato la connessione tra fase cautelare e fase di merito prendendo atto che, in presenza di un orientamento non omogeneo circa l’interpretazione di norme di legge, anche tenendo conto della natura cautelare del provvedimento appellato, è necessario attendere che l’esame dei profili di diritto sia affrontato nella rituale sede di merito, dinanzi al giudice di primo grado12. Tale pronuncia potrebbe essere considerata sintomo della non utilità del processo cautelare nella trattazione di determinate questioni complesse e di notevole difficoltà interpretativa, che possono essere approfondite, per quanto attiene all’esame dei profili di diritto, solo in sede di merito. La Corte Costituzionale ha, da tempo, proprio in riferimento alla giurisdizione amministrativa calibrata essenzialmente sull’annullamento degli atti illegittimi, posto in luce il carattere essenziale della procedura cautelare e l’intima compenetrazione della stessa con il processo di merito, dichiarando illegittima l’esclusione o la limitazione del potere cautelare di determinate categorie di atti amministrativi o al tipo di vizio denunciato (sentenze n. 227 del 1975 e n. 284 del 1974)13. Il raccordo rapido tra fase cautelare e fase di merito è favorito anche dall’art. 55 comma 12 c.p.a. che, recependo una prassi già in uso presso i TAR, dispone che in sede di esame della domanda cautelare il collegio possa adottare, su istanza di parte, i procedimenti necessari per assicurare la completezza dell’istruttoria e l’integrità del contraddittorio. Quanto al processo civile è noto che la tutela cautelare è da considerarsi distinta dalla tutela cognitiva ed esecutiva in quanto non ha funzione autonoma ma strumentale: si è precisato tuttavia che la strumentalità della tutela ordinaria rispetto al giudizio ordinario non ne esclude l’autonomia14. 5. Il deficit culturale della fase di merito: sua eventualità e sviluppo sostenibile L’art. 21, comma 8 della legge n. 1034 del 1971, ora abrogato dal codice, attribuiva valore di diritto positivo al principio di strumentalità della misura cautelare che la dottrina aveva individuato come carattere ontologico di tali rimedi processuali15. L’art. 55 comma 10 del codice processuale introduce una novità: la possibilità da parte del TAR o del Consiglio di Stato, in sede cautelare, di fissare con ordinanza collegiale la data di discussione del ricorso nel merito. Il presupposto di tale concessione è che le esigenze del ricorrente siano apprezzabili favorevolmente e tutelabili adeguatamente con la sollecita definizione del giudizio nel merito. L’art. 55 comma 10 c.p.a. che, come abbiamo visto, introduce la possibilità da parte del TAR o del Consiglio di Stato, in sede cautelare, di fissare con ordinanza collegiale la data di discussione del ricorso nel merito, potrebbe indurre a ritenere che in questi casi i presupposti per la richiesta cautelare non sussistano. Stessa cosa potrebbe ritenersi riguardo al comma 11 del medesimo articolo 55, il quale prevede che l’ordinanza con cui è disposta una misura cautelare fissi anche la data di discussione del ricorso nel merito. Un intervento normativo di qualche anno fa ha mutato i termini della questione anche nel processo cautelare civile. L’art. 669 octies comma 6 dispone che “Le disposizioni di cui al presente articolo e al primo comma dell’art. 669 novies non si applicano ai provvedimenti di urgenza emessi ai sensi dell’art. 700 c.p.c. e agli altri provvedimenti cautelari idonei ad anticipare gli effetti della sentenza di merito, previsti dal codice civile o da leggi speciali, nonché ai provvedimenti emessi a seguito di denunzia di nuova opera o di danno temuto ai sensi dell’art. 688, ma ciascuna parte può iniziare il giudizio di merito”. Il comma è stato aggiunto dall’art. 23, lett. e bis, n. 2.3, D.L. 14 marzo 2005, n. 35, conv., con modificazioni, dalla L. 14 maggio 2005, n. 80. La modifica legislativa 14 Temi Romana Saggi suale e non anche sotto il profilo sostanziale: non produce utilità finali diverse e comunque disomogenee da quelle che la decisione di merito può procurare alla parte22. Laddove il provvedimento anticipatorio fosse materialmente e totalmente satisfattivo delle pretese vantate dall’istante, il giudizio di merito costituirebbe nulla più che una sorta di ripetizione, se non di duplicazione della fase già svolta, con evidente spreco di economia processuale23. Può tuttavia accadere che l’ampliamento della tipologia delle misure d’urgenza, determinato come abbiamo detto, dalla lunga elaborazione giurisprudenziale e volto a garantire la satisfattività della sentenza, releghi talora la fase di merito a un ruolo di vero e proprio “appello domestico”. Da un ruolo di supplente, il rito cautelare ha acquisito non solo un ruolo integrativo e creativo delle disposizioni di legge, ma si è sviluppato al punto da far retrocedere, in molto casi, la parte principale del processo a una fase di mero controllo dell’operato del giudice cautelare. dell’art. 669 octies c.p.c. ha reso meramente eventuale la fase di merito: le disposizioni relative alla prosecuzione nel merito del procedimento cautelare definito con ordinanza non si applicano ai provvedimenti d’urgenza emessi ex art. 700 c.p.c. e agli altri provvedimenti cautelari idonei ad anticipare gli effetti della sentenza di merito nonché ai provvedimenti emessi a seguito di nuova opera e di danno temuto ex art. 688 c.p.c.16. Ne consegue che solo nei casi di sequestri e procedimenti cautelari previsti da leggi speciali si richiede la verifica della natura anticipatoria o conservativa del provvedimento. Ma la stessa giurisprudenza aveva individuato nella struttura bifasica del procedimento possessorio una ragione non ostativa alla concentrazione delle due fasi allorché gli elementi raccolti nella fase a cognizione sommaria consentano al giudice di definire la causa con un provvedimento unico che, in quanto conclusivo dell’intero procedimento, abbia natura di sentenza17. Il termine per l’inizio del giudizio di merito dopo la concessione del provvedimento cautelare ai sensi dell’art. 669 octies c.p.c. decorre dalla comunicazione di cancelleria dell’avvenuto deposito del provvedimento cautelare18. Prima della riforma si insisteva sulla natura interinale e strumentale del provvedimento d’urgenza19, ora la dottrina processualcivilistica pone l’accento sulla attenuazione del nesso di strumentalità tra provvedimento cautelare e la sua necessaria correlazione con un provvedimento principale, chiedendosi se non si debba ora parlare di autonomia ed esaustività del procedimento cautelare20. Di conseguenza ci si chiede se i provvedimenti di cui al 6° comma dell’art. 669 octies siano ancora da qualificare come cautelari, o invece da inserire in una diversa categoria di provvedimenti decisori sommari di cognizione a contenuto anticipatorio21. Il dibattito ha avuto ripercussioni anche nel diritto processuale amministrativo a proposito della sentenza succintamente motivata: la strumentalità della misura cautelare non pregiudica infatti l’autonomia della fase d’urgenza da quella di merito. 7. La bulla aurea del processo cautelare: declino della fase di merito... Sorge il dubbio che il trascinamento della fase di merito in quella cautelare comporti una inversione cronologico-temporale degli eventi processuali. Ormai la sensazione è che la fase di merito sia un mero contenitore dove va a confluire la pregressa attività cautelare, ormai “finta” forma di tutela ancillare24. La dilatazione della fase cautelare è stata nel tempo alimentata dalla lentezza della fase di merito, che ora viene annientata, spazzata via quasi come per una sorta di “nemesi”, dalla irruenza strabordante della fase cautelare. Il “paziente malato” si è trasformato in una vittima dei correttivi adottati per limitare o arginarne la eccessiva lunghezza dei tempi di definizione della causa. Orbene, visto e considerato che la sempre maggiore importanza della tutela cautelare è stata originata come stampella della languente fase di merito, come mezzo di fortuna insomma, forse è il caso di ristabilire un po’ di ordine e riconoscere che il rappezzo del cautelare si è talmente trasformato sì da raggiungere una compiutezza tale da rendere inutile e non più necessaria la fase di merito. Eliminare qualche corsia acceleratoria potrebbe resti- 6. L’anticipazione della soglia di tutela: merito come “appello domestico”? Nel processo amministrativo il giudizio cautelare, che ha carattere strumentale rispetto al giudizio di merito, è autonomo da quest’ultimo solo sotto l’aspetto proces- Temi Romana 15 Saggi tuire la dignità perduta a un processo che da sempre ha dovuto fare i conti con l’arretrato, anche a causa del radicamento di contenziosi talora temerari e al proliferare inutile di parecchi altri proposti al solo fine di mettere alle strette l’amministrazione o nella speranza di ottenere una “sospensiva” (tanto poi il merito arriva dopo anni e anni…), quasi come fosse una sorta di lotteria, di ruota della fortuna. La fase ancillare, servente, diventa centrale fondamentale e definitiva e determina la decentralizzazione del processo amministrativo. In dottrina si invoca infatti la dovuta cautela nell’elaborazione di concetti che rischiano di modificare il baricentro della giustizia amministrativa. Determinate teorie possono infatti creare confusione a causa del rimescolamento di competenze e di funzioni cui possono dar luogo25. “La fase cautelare diventa il centro del giudizio, quale momento ravvicinato di delibazione della fondatezza della domanda” e la “centralità della tutela cautelare la si rinviene all’interno del giudizio di merito26. Si ravvisa una svalutazione del requisito del periculum in mora in vantaggio di una più attenta disamina del fumus che coinvolge la valutazione da parte del giudice della loro rilevanza reciproca dei caratteri dell’attività lesiva posta in essere dal ricorrente e contestata dal ricorrente. Il processo interviene pur sempre su una vicenda sostanziale di esercizio del potere e che, in quanto tale, non è statica, ma deve essere portata a compimento, poiché la cura dell’interesse pubblico non può arrestarsi: ma allora anche da questo punto di vista, come emerge dalle norme esaminate, la fase cautelare diventa il centro del giudizio quale momento ravvicinato di delibazione della fondatezza della domanda. Oramai è inconfutabile la capacità della tutela cautelare, nell’esperienza del processo amministrativo, di offrire strumenti di tutela particolarmente completi e dunque effettivi. La valorizzazione della probabile fondatezza del ricorso induce a domandarsi se il giudizio in questione sia ancora un giudizio cautelare oppure sia l’anello di congiunzione tra la fase cautelare e il merito: una sorta di fase preliminare, in quanto sono assenti provvedimenti cautelari, ma anticipatoria della futura sentenza31. Come già osservato, non vi è alcun dubbio che il legislatore del codice abbia manifestato un favor per l’immediata definizione del merito della controversia. Diversi sono i dati normativi che è possibile richiamare a conferma di tale assunto: può farsi riferimento alla previsione che impone, in caso di concessione della misura cautelare, la doverosa fissazione con carattere di priorità della data di trattazione del ricorso nel merito o a quella che generalizza un meccanismo di conversione della decisione sull’istanza cautelare in decisione intesa a definire il merito della vicenda processuale (prima contemplato, ancorché con non indifferenti differenze di disciplina, nel settore degli appalti dall’art. 19, D.L. n. 67/97)32. Qualche perplessità viene espressa in dottrina anche in ordine al particolare profilo del carattere strumentale del giudizio cautelare relativo ai rapporti tra ordinanza cautelare e decisione di merito33. Una volta indicati i profili di accoglimento o di rigetto della chiesta misura cautelare, appare difficile che il giudizio espresso in quella sede possa essere disatteso nella fase di decisione di merito, nonostante la norma nulla dica a tal proposito. Sino ad ora, dottrina e giuri- 8. …o declino della fase cautelare? Non tutta la dottrina è concorde nel ritenere così pregnante la metamorfosi o quantomeno la trasformazione del rito cautelare nonché la sua conversione in giudizio di merito27. Ma altra parte della dottrina è convinta che ci sia comunque una trasformazione da cogliere nella sempre più rilevante funzione di raccordo che la fase cautelare esercita (percepibile soprattutto nel rito abbreviato)28, o in ogni caso un sensibile riavvicinamento tra le fasi processuali29. Solo in caso di pregiudizio particolarmente qualificato da estrema gravità e urgenza il collegio può disporre misure cautelari. Ma allora è il tasso di gravità e urgenza a orientare il giudice nella scelta della concessione o meno della misura cautelare: un tasso medio non giustifica l’accoglimento della domanda cautelare, tenuto conto della brevità del termine entro il quale il ricorso può essere definito nel merito30. Ormai l’ordinanza non interviene dopo una significativa delibazione del ricorso principale, tenuto conto anche della delibazione non propriamente sommaria che caratterizza l’esame della domanda cautelare avanti il collegio e appare altresì difficilmente ribaltabile nel merito. 16 Temi Romana Saggi sprudenza, hanno ritenuto ininfluente il giudizio espresso in sede cautelare rispetto a quello finale34. Una evoluzione legislativa da un lato, e giurisprudenziale dall’altro, è tuttavia in corso, e tende ad avvicinare gli opposti sistemi. Nell’ordinamento processuale in generale abbiamo riscontrato la tendenza dei recenti interventi normativi a rendere autonomo il provvedimento d’urgenza dalla causa di merito, dichiarando inapplicabili ad esso le norme (artt. 669 octies e 669 novies) che ne sanciscono la caducazione in caso di mancata instaurazione della causa in un termine perentorio. E in più occasioni parte della dottrina ha affermato che, in via di principio, l’art. 669 quaterdecies, c.p.c. si estende sino a ricomprendere il processo cautelare amministrativo35. In virtù di tale norma si applicherebbero le disposizioni contenute nei precedenti articoli da 669 bis a 669 terdecies i quali, dettando la nuova disciplina unitaria od uniforme dei procedimenti cautelari in generali, si estenderebbero anche, in quanto compatibili, agli altri provvedimenti cautelari previsti dal codice civile e dalle leggi speciali36. solo eventuale costituendo essa una eccezione: l’art. 119 comma 4 la subordina alla presenza di un periculum particolarmente qualificato (l’estrema gravità e urgenza). Nel caso del giudizio abbreviato speciale invece tale limitazione all’operatività della tutela cautelare non sussiste, in quanto il giudice può disporla qualora ravvisi il fumus e il danno grave e irreparabile: tale congegno rimane tuttavia eventuale, ben potendo il giudice fissare direttamente l’udienza di merito ai sensi dell’art. 119 comma 3 o fissare immediatamente d’ufficio con assoluta priorità37. 10. Il nuovo codice e l’abbondanza delle corsie acceleratorie Non si può negare l’attuale sovrabbondanza di corsie acceleratorie che catterizza la definizione del giudizio amministrativo e che consente la predisposizione di una cautela preprocessuale ed endoprocessuale. Ci troviamo di fronte alla particolarità di una tutela cautelare fruibile più di una volta, di provvedimento cautelare servente una seguente fase cautelare che, a sua volta, è servente di una fase a cognizione piena, ove le misure cautelari provvisorie sono destinate ad avere efficacia sino alla decisione sul ricorso principale, e il decreto monocratico è destinato a durare fino all’eventuale adozione delle misure cautelari adottate con contraddittorio, in una sorta di cautela strumentale alla cautela strumentale al merito38. Se si pensa che la finalità è quella di ovviare al ritardo con cui l’udienza di merito viene celebrata e che sussiste la concreta possibilità che in sede cautelare ordinaria il giudizio possa essere definito con una sentenza “breve”, può accadere che risultino superflue tali corsie acceleratorie che, oltre ad appesantire il processo, lo rendono talora oltremodo complesso. È evidente l’intento del legislatore di imporre, per particolari materie, che i ricorsi concernenti pretese lesioni di posizioni giuridiche dei singoli vengano decisi dal giudice amministrativo entro tempi brevissimi, che si configurano del tutto incompatibili con quelli tipici della procedura ordinaria. Peraltro, se il dato normativo non viene applicato alla lettera, il rischio che si corre è che si realizzi una duplicazione della tutela cautelare nel processo amministrativo: da una fase precautelare a una fase cautelare, con il profilarsi di un doppione a volte inutile. 9. La rivincita dell’udienza di merito: la conversione della fase cautelare nella fase di merito e il corto circuito cautelare Non sempre tutto ciò che avviene nella fase cautelare condiziona il merito e la sua stessa esistenza. Vi sono casi in cui accade il contrario e in cui la ghigliottina normativa investe la fase cautelare. Il codice processuale disciplina non solo ipotesi di conversione della fase cautelare già previste e regolate dalla pregressa disciplina, ma ne introduce altre. La spinta propulsiva del legislatore è volta in tali casi a consentire e, anzi, agevolare la compresione o di saltare la fase cautelare. Come abbiamo esaminato, la tecnica adottata è quella della conversione dell’udienza cautelare in udienza di merito o nel rito immediato, per giungere direttamente al merito, minimizzando la cautela a favore di una più compiuta analisi nella fase successiva. La conversione dell’udienza cautelare in giudizio di merito rimane tuttavia circoscritta allo speciale rito abbreviato. In sintesi, si ravvisano due casi previsti e regolati dall’art. 119 comma 3 e 120 comma 8 c.p.a. Nel giudizio abbreviato ordinario la fase cautelare è Temi Romana 17 Saggi Si pensi anche alla circostanza che possano sopravvenire in sequenza, nella sola fase cautelare: provvedimento dell’Amministrazione, pronuncia cautelare del giudice di prime cure, esecuzione dell’Amministrazione, nel caso a seguito di nuovo intervento del giudice cautelare, quale giudice dell’esecuzione, pronuncia cautelare di secondo grado e nuovo provvedimento dell’Amministrazione. È ben possibile, inoltre, che si creino sovrapposizioni di pronunce giudiziali rese nel corso di separati, e pur tuttavia connessi, procedimenti amministrativi e/o giudiziari, ad esempio in riferimento al controinteressato pretermesso39. Non si configura più un solo modello di processo amministrativo di cognizione, a struttura prevalentemente monofasica, bensì tanti processi, speciali e differenti a secondo della materia da trattare, con diversi termini processuali e, spesso, interamente celebrati in camera di consiglio, che tendono a loro volta a divenire micro-sistemi, contrapposti al rito c.d. ordinario. Tali corsie acceleratorie non dovrebbero attentare alla unitarietà del processo amministrativo, che conserva la semplicità e la linearità che dai suoi albori lo caratterizza, soprattutto ora che la disciplina è stata riordinata in un codice. È stato osservato che la concessione del decreto cautelare provvisorio potrebbe avere una qualche utilità nel periodo feriale, in cui le camere di consiglio sono limitate. A ciò si aggiunga che esistono ormai tante regole diverse in base al settore cui la domanda di giustizia inerisce. Anche se il processo amministrativo è regolato dal principio dispositivo, in esso non vengono in rilievo esclusivamente interessi privati, ma devono trovare composizione e soddisfazione anche interessi pubblici. La misura cautelare reca in sé delle enormi potenzialità. Ma tali potenzialità richiedono di non travalicare i limiti da osservare al fine di non provocare “strappi” al potere processuale assegnato dalla legge. Il processo amministrativo ricorda quello penale in cui, la previsione di riti alternativi alla fase dibattimentale, hanno fatto retrocedere quest’ultima a un ruolo almeno statisticamente meno rilevante. utilizzato, seppure con qualche variante, anche nei riti camerali speciali. Questi ultimi privilegiano l’obiettivo di velocizzare le definizione di giudizi il cui esito si pone in rapporto di strumentalità e di accessorietà con eventuali processi pendenti o successive azioni giurisdizionali. Il meccanismo tipico di questo riti accelerati viene utilizzato in altri tipi di processo come una sorta di rito passe-partout per risolvere problemi altrimenti di difficile soluzione. Oltre che nel giudizio contro il silenzio, la legge lo prevede nella fase di esecuzione delle pronunce cautelari, nel rito dell’accesso. La strumentalità sia strutturale sia funzionale era già stata superata dal legislatore: la legge n. 205 del 2000 all’art. 21 faceva riferimento agli effetti interinali fino alla pronuncia finale e agli effetti sostanziali. L’autonomia cautelare è un danno da pericolo, diverso dal merito e ci si chiede se la tutela cautelare stia oltrepassando il fronte della strumentalità. L’obiettivo principale è stato quello di semplificare il processo amministrativo ristrutturando in modo organico le norme succedutesi nel tempo e garantendo efficienza, efficacia e legalità a questo particolare settore. 12. Il grande processo cautelare Si va delineando un nuovo rito, un nuovo processo scandito da momenti e da parentesi che nulla a che fare hanno con la strutturazione originaria basata sulla netta distinzione tra fase cautelare e di merito. Oppure, il che è ancora più pregnante, si può parlare di tutela cautelare come (piccolo) processo amministrativo breve, abbandonando la maschera ideologica di un processo in cui il merito ha sempre avuto una legittimazione concettuale predominante: ora tutto ciò che avviene nella fase cautelare condiziona il merito e la sua stessa esistenza. L’allievo insomma ha superato il maestro e il piccolo processo si è proiettato verso una metamorfosi che, da una posizione dapprima dominante, ha preso l’abbrivio, quasi per un moto inerziale, anche dopo la cessazione della sua spinta propulsiva, per la configurazione di un nuovo processo amministrativo, che non è più né fase della cautela né di merito o dove, il che è lo stesso, cautela e merito si confondono. La sensazione è che il processo amministrativo sia diventato nel corso degli anni “un grande processo cautelare”. Basti pensare all’ampliamento della fase istrut- 11. La tutela cautelare come momento unificante Come abbiamo visto il rito del processo cautelare viene 18 Temi Romana Saggi toria cautelare che, oltre che ad essere previsto in taluni casi dal codice stesso (art. 119 comma 3), sta diventando prassi diffusa del giudice cautelare40. Ma si rinvengono altri casi, non individuati legislativamente ma utilizzati dalla giurisprudenza, in cui la fase cautelare viene utilizzata dal giudice per soddisfare l’esigenza di una istruttoria compiuta e approfondita o per attendere verifiche o la produzione di ulteriore documentazione41. Per non parlare, poi, delle varie tipologie di urgenza: il «pregiudizio grave ed irreparabile» (art. 55), la «estrema gravità ed urgenza» (art. 56), che legittima l’intervento del Presidente, prima dell’udienza settimanale, la «eccezionale gravità ed urgenza» (art. 61), nel caso in cui non vi sia nemmeno il tempo di presentare il ricorso. Altra novità riguarda la possibilità per il TAR, in sede cautelare, di fissare nell’ordinanza cautelare anche la data di discussione nel merito, una volta valutato che le esigenze del ricorrente siano apprezzabili e si possano tutelare con una sollecita decisione di merito (art. 55 comma 10). Lo stesso può fare il Consiglio di Stato, che nel riformare l’ordinanza cautelare di primo grado, ritrasmette gli atti al TAR perché fissi in modo sollecito l’udienza (art. 55 comma 10, ult. cpv.). Tutto questo ci delinea, probabilmente, un nuovo processo, un processo “unico” che passa attraverso la soppressione della fase di merito ma anche della fase cautelare, subendo entrambe le fasi una mutazione, laddove una è servente dell’altra, a causa dell’attenuazione del carattere ancillare del rito cautelare. Tra compressioni, metamorfosi, obliterazioni, definizioni per saltum si delinea la nuova tutela cautelare: la sua centralizzazione determina un bilanciamento delle due fasi del pro- cesso amministrativo. Fase cautelare al centro del giudizio di merito e del processo in genere. Ma a questo punto esiste ancora la fase di merito? O forse esiste ormai una nuova fase, un nuovo processo, che stravolge l’impostazione processuale originaria? È ormai una mera formalità la fase di merito? 13. Il processo amministrativo è il processo cautelare? Le linee di fondo del processo cautelare possono essere sintetizzate in pochi assunti. In primo luogo, nel rispetto del principio del contraddittorio, che è stato riportato a cardine essenziale del procedimento, pur nel necessario coordinamento con le esigenze dell’urgenza, coessenziali alla materia. In secondo luogo, nella valorizzazione del carattere strumentale di questa forma di tutela, colta come servente rispetto alla tutela di merito. Infine, nell’introduzione di un regime di stabilità limitata per il provvedimento cautelare positivo e, soprattutto, negativo. Evidenti sono i riferimenti al modello cautelare civilistico. In alcuni casi l’ordinanza interviene in procedimenti amministrativi ancora in itinere, come nel caso del giudizio di maturità di non ammissione: nei fatti la decisione finale viene superata, salta quindi la strumentalità strutturale. Nel processo civile non si arriva a questi risultati. È intervenuta una metamorfosi del processo cautelare e amministrativo in generale42. L’esorbitanza dei poteri cautelari incide sullo strumentario o strumento delle misure cautelari: c’è da chiedersi se la fase cautelare al centro del giudizio di merito e del processo in genere e la frantumazione della tutela cautelare dia luogo alla inutilità della fase di merito. _________________ 1 G. VIRGA, L’esecutività delle sentenze di primo grado tra giudizio di ottemperanza e tutela cautelare, in www. giust.it/corte/cortecost_1998-406.html. 2 N. SAITTA, I giudizi nella camera di consiglio nella giustizia amministrativa, Milano 2003, p. 420. 3 S. MENCHINI, Processo amministrativo e tutele giurisdizionali differenziate, in Dir. Temi Romana Proc. Amm, 1999, p. 971 4 Prima regolato dall’abr. art. 21, comma decimo, della legge 6 dicembre 1971, n. 1034. 5 In dottrina in precedenza era stata evidenziata la eccessiva discrasia tra il contenuto dell’ordinanza e della sentenza di merito e si ritengono positive le norme del codice che hanno attutito tale divaricazione tra processo cautelare e processo di merito, v. 19 sul punto M. SANINO, Codice del processo amministrativo, Torino 2011, pp. 254-255. 6 E. PICOZZA, Il processo amministrativo, Milano 2008, p. 103. 7 G. FERRARI, Il nuovo codice del processo amministrativo, Roma 2010, p. 205. 8 Cons. Stato, Sez. VI, sent. n. 3080 del 23.5.2006. 9 Art. 26, quinto comma, legge n. 1034 del Saggi 1971 nel testo novellato con la legge n. 205 del 2000. 10 In precedenza la materia era regolata dall’art. 21, L. 6.12.1971 n. 1034 che ha sostituito l’originario settimo comma per effetto di quanto disposto dall’art. 3, L. 21 luglio 2000, n. 205. 11 R. DE NICTOLIS, Processo amministrativo, Milano 2011, p. 659 e ss. 12 Consiglio di Stato – Adunanza Plenaria – Ordinanza sospensiva 25 febbraio 2011 n. 917, in www.giustamm.it, n. 4-2011: sospende un diniego emersione lavoro irregolare, diniego emesso ai sensi dell’art. 1 ter, comma 2, del D.L. 1 luglio 1979 n. 78, convertito nella legge 3 agosto 2009 n. 102 (condanna riportata ai sensi dell’art. 14, co. 5 ter, D.Lgs. n. 286 del 1998 per essersi il ricorrente trattenuto illegalmente nel territorio dello Stato, in violazione dell’ordine impartito dal questore ai sensi del comma 5 bis dello stesso decreto, reato punito con la reclusione da uno a quattro anni). Per tale reato, a norma dell’art. 14, comma 5 quinquies dello stesso D.Lgs. n. 286, è obbligatorio l’arresto dell’autore del fatto. Esistendo un orientamento non omogeneo circa gli artt. 380 e 381 c.p.p. si ritiene necessario attendere che l’esame dei profili di diritto sia affrontato nella rituale sede di merito, dinanzi al giudice di primo grado. In senso analogo le Ordinanze dell’Adunanza Plenaria di pari data nn. 912, 913, 914, 915 e 916 del 2011. Da segnalare infatti anche la pronuncia dell’Ad. Plen. del Cons. di St. n. 917/2011 del 25.2.2011 che ha ritenuto fondamentale decidere rapidamente il merito della questione sottopostale (sempre in materia di immigrazione clandestina). 13 Corte Costituzionale, sentenza 16 luglio 1996, n. 249 (Gazzetta ufficiale, 1ª serie speciale, 31 luglio 1996, n. 31), in Foro it., 1996, parte I, col. 2607: con riguardo all’art. 31 bis, 3° comma, L. n. 109 del 1994 prevede che, nei giudizi amministrativi in materia di lavori pubblici nei quali sia stata chiesta la sospensione del provvedimento impugnato, i controinteressati e l’amministrazione resistente possono chiedere che la questione venga decisa nel merito. L’udienza fissata a tal fine deve aver luogo entro novanta giorni o, nel caso in cui l’istanza sia proposta all’udienza già fissata per la discussione del provvedimento d’ur- genza, entro sessanta giorni. Tutte le ordinanze di rimessione muovono dal presupposto che, ai sensi della norma impugnata, la presentazione dell’istanza di decisione della questione nel merito precluda l’esame dell’istanza cautelare, privando il giudice amministrativo del potere di sospendere l’efficacia del provvedimento impugnato, e su tale premessa interpretativa fondano tre diverse censure di costituzionalità. La questione non è fondata nei termini di seguito precisati. L’interpretazione della norma impugnata, che tutte le censure presuppongono, in base alla quale la richiesta che la causa venga decisa nel merito paralizzerebbe il procedimento cautelare, non può essere condivisa. E, invero, dallo stesso contesto dell’art. 31 bis è agevole trarre l’interpretazione opposta, secondo la quale la presentazione dell’istanza di cui all’art. 31 bis, 3° comma, non elimina il potere cautelare del giudice, che può pur sempre sospendere il provvedimento impugnato in presenza dei presupposti di legge. 14 L’azione cautelare ha infatti un proprio oggetto specifico consistente nella misura richiesta, ed una propria causa petendi, consistente oltre che nei fatti costitutivi del diritto sui quali è richiesto un accertamento sommario, nel periculum in mora, cioè nel probabile danno, normalmente irreparabile, che deriverebbe al richiedente nelle more del giudizio. Vd. C. ASPRELLA, Alcuni aspetti del procedimento cautelare uniforme alla luce delle recenti riforme del processo civile, in: appinter.csm.it/incontri/vis_relaz_inc.php? &ri=MjAwNzc%3D, 2011, 1. Vd. P. CALAMANDREI, Introduzione allo studio sistematico dei provvedimenti cautelari, Padova 1936, p. 21 e sgg. e F.G. SCOCA, Giustizia amministrativa, Torino 2006, p. 285. 15 L’art. 21, comma 8 della legge n. 1034 del 1971, ora abrogato dal codice, disponeva che “Se il ricorrente, allegando un pregiudizio grave e irreparabile derivante dall’esecuzione dell’atto impugnato, ovvero dal comportamento inerte dell’amministrazione, durante il tempo necessario a giungere ad una decisione sul ricorso, chiede l’emanazione di misure cautelari, compresa l’ingiunzione a pagare una somma, che appaiono, secondo le circostanze, più idonee ad assicurare interinalmente gli effetti della decisione sul ricorso, il tribunale 20 amministrativo regionale si pronuncia sull’istanza con ordinanza emessa in camera di consiglio. Nel caso in cui dall’esecuzione del provvedimento cautelare derivino effetti irreversibili il giudice amministrativo può altresì disporre la prestazione di una cauzione, anche mediante fideiussione, cui subordinare la concessione o il diniego della misura cautelare. La concessione o il diniego della misura cautelare non può essere subordinata a cauzione quando la richiesta cautelare attenga ad interessi essenziali della persona quali il diritto alla salute, alla integrità dell’ambiente, ovvero ad altri beni di primario rilievo costituzionale. L’ordinanza cautelare motiva in ordine alla valutazione del pregiudizio allegato, ed indica i profili che, ad un sommario esame, inducono a una ragionevole previsione sull’esito del ricorso. I difensori delle parti sono sentiti in camera di consiglio, ove ne facciano richiesta”. Sul parallelismo tra processo cautelare e di merito e le attribuzioni giurisdizionali di annullamento e quelle di ordine cautelare cfr. Consiglio Stato, Sez. IV, 5 giugno 1979, in Giur. Cost. 1979, II, p. 1857: “Non è manifestamente infondata – in riferimento agli articoli 3 comma 1, 24 comma 1, 97 comma 1, 101 comma 1 e 113 commi 1 e 2 Cost. – la questione (sollevata per l’eventualità dell’accoglimento di quella precedentemente dedotta con riguardo all’art. 5 comma 5 L. n. 1 del 1978) di legittimità costituzionale dell’art. 5 comma 4 della medesima L. 3 gennaio 1978 n. 1 nella parte in cui circoscrive l’efficacia delle ordinanze di sospensione del provvedimento impugnato da parte dei tribunali regionali amministrativi a non oltre sei mesi dalla data di emanazione. Tale limitazione, che priva l’istante di tutela per la restante durata del processo di primo grado non appare giustificata dalla “ratio” della norma di assicurare la celere realizzazione delle opere pubbliche (il che porta ad escludere in via interpretativa la possibilità di reiterazione della sospensione di sei mesi in sei mesi). Sussiste altresì la violazione dell’art. 97 Cost., non corrispondendo al principio di buon andamento dell’amministrazione che venga data attuazione al provvedimento amministrativo nonostante la sussistenza del “fumus” di legittimità discendente dalla disposta sospensione (salva la possibilità di un’ulteriore sospensione disposta dal giudice di appello ai sensi dell’art. 33 comma 3 della L. n. 1034 del 1971). Infine in un siste- Temi Romana Saggi ma di giurisdizione di annullamento non si giustifica l’esclusione della possibilità di anticipare in via cautelare l’effetto finale di annullamento, dovendosi ravvisare un perfetto parallelismo fra le attribuzioni giurisdizionali di annullamento e quelle correlative a strumenti di ordine cautelare (articoli 103 e 113 Costituzione). Se poi alla disposizione dell’art. 5 dovesse riconoscersi efficacia limitata alla materia delle opere pubbliche, ne risulterebbe anche il contrasto con l’art. 3 Cost. non apparendo giustificata la diversità di trattamento dalle esigenze di celerità di realizzazione delle predette opere pubbliche”. 16 Cfr. Tribunale Firenze, 17.8.2006, in Foro toscano-Toscana giur., 2006, p. 340, il quale puntualizza che “avendo la modifica legislativa dell’art. 669 octies c.p.c. reso meramente eventuale la fase di merito, sono necessarie la formulazione delle conclusioni definitive già nella fase dell’urgenza”. Tribunale di Ivrea, 28.6.2006, in Foro it., 2007, I, p. 1965 e in Giur. merito, 2007, p. 1675, e in Dir. e giustizia, 2006, fasc. 32, p. 41; Cass., Sez. Lav., 10.8.2006, n. 18152 precisa che, in seguito alla riforma, in tema di procedimenti cautelari, il termine perentorio previsto dall’art. 669 octies c.p.c. per l’inizio del giudizio di merito decorre dalla pronuncia dell’ordinanza di accoglimento della domanda cautelare ante causam (se avvenuta in udienza) ovvero dalla sua comunicazione, anche se l’originario provvedimento viene confermato in sede di reclamo. Infatti, per «ordinanza di accoglimento» di cui alla citata norma si intende quella originaria e non quella emessa in sede di reclamo, assumendo la prima rilevanza fondamentale ai fini dell’instaurazione della fase di merito e necessitando di una verifica nel giudizio di cognizione. La seconda, invece, non ha effetto assorbente o sostitutivo, come nel caso di conferma della misura cautelare. La sentenza rileva, inoltre, che nessuna norma assegni al reclamo effetti sospensivi del termine in questione, escludendo anzi l’art. 669 terdecies c.p.c. che il reclamo sospenda automaticamente l’esecuzione del provvedimento impugnato. 17 Cass., Sez. II, 29.9.2006, n. 21140. 18 Tribunale di Napoli, 4.7.2001: “Non rileva infatti l’eventuale conoscenza in fatto del provvedimento stesso ed inoltre, trattandosi di giudizio ordinario, il suddetto termine è soggetto alla sospensione feriale”, in Temi Romana Dir. ind., 2002, p. 129. 19 Cass., Sez. Lav., 9.5.2002, n. 6672: “Il provvedimento con il quale il tribunale, in sede di reclamo, nega la tutela urgente richiesta ex art. 700 c.p.c., per il suo carattere interinale e strumentale rispetto al possibile riesame della questione nel merito in via ordinaria, non produce effetti di natura sostanziale o processuale con efficacia di giudicato e non è pertanto suscettibile di ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 111 Costituzione. Né la natura del provvedimento muta per il fatto che il giudice del reclamo possa avere valutato il fumus boni iuris della domanda, in quanto ciò non attribuisce carattere definitivo e decisorio alla pronuncia, potendo la domanda essere riproposta in un giudizio in via ordinaria, e neanche per il fatto che il giudice non abbia fissato il termine per la proposizione del giudizio di merito, essendo tale adempimento previsto solo in relazione ai provvedimenti che accolgano la richiesta cautelare, mentre, non potendosi escludere che alla fase cautelare conclusasi negativamente per il ricorrente non faccia seguito un giudizio in via ordinaria, si giustifica la previsione della pronuncia sulle spese, opponibile ai sensi degli artt. 645 seg. c.p.c. 20 Cfr. sul punto L. QUERZOLA, La tutela anticipatoria tra procedimento cautelare e giudizio di merito, Bologna 2006, p. 6 e sgg., che sottolinea come la norma, che per certi si può definire “rivoluzionaria” era da tempo auspicata in dottrina. Sul punto v. anche A. PROTO PISANI, La tutela giurisdizionale dei diritti della personalità: strumenti e tecniche di tutela, in Foro it., 1990, V, p. 1. Sull’attenuazione del principio di strumentalità vd. L. VIOLA, Riforma del processo civile e giudizio amministrativo: l’attenuazione del principio di strumentalità della misura cautelare, in www.giust.amm., 2006, p. 545. 21 Per A. PROTO PISANI, Novità nella disciplina dei procedimenti cautelari in generale (1994/2005), in Foro it., 2007, V, p. 81, si tratta di “Questione francamente oziosa è quella di stare a discutere (come pure si è fatto in dottrina) se i provvedimenti di cui al 6° comma dell’art. 669 octies siano ancora da qualificare come cautelari, o invece da inserire in una diversa categoria di «provvedimenti decisori sommari di cognizione a contenuto anticipatorio»: la questione è oziosa, poiché per un verso l’art. 669 octies, 21 6° comma, continua ad assoggettare i provvedimenti in esame alla disciplina dei provvedimenti cautelari in generale disposta dagli articoli 669 bis e ss., per altro verso la diversa qualificazione non varrebbe in ogni caso ad attribuire ai provvedimenti in esame attitudine a giudicato; così come il loro accostamento ai provvedimenti ex artt. 186 bis e 186 ter non vale ad assoggettare il regime della loro revocabilità alla disciplina generale dell’art. 177 invece che a quella speciale di cui all’art. 669 octies”. 22 C. Stato, ad. plen., 5.9.1984, n. 17, in Cons. Stato, 1984, I, p. 971, in Foro amm., 1984, p. 1651, in Foro it., 1985, III, p. 51, con nota di G. SAPORITO. Vd. VIOLA, Riforma del processo civile e giudizio amministrativo... cit., p. 545. 23 Nella letteratura processualcivilistica vd. L. QUERZOLA, La tutela anticipatoria tra procedimento cautelare e giudizio di merito, Bologna 2006, p. 212. Sul legame tra anticipazione, cautela e strumentalità, entità non contrapponibili da giustapporsi variandone la scala di intensità, in quanto rappresentano diversi aspetti di un medesimo fenomeno vd. M. PEDRAZZOLI, La tutela cautelare delle situazioni soggettive nel rapporto di lavoro, in Riv. Trim. dir. proc. civ., 1973, p. 41 e sgg. e QUERZOLA, La tutela… cit., Bologna 2006, p. 213. 24 Verrebbe da dire Che vi sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa, prendendo a prestito le parole di Demetrio di Pietro Metastasio musicate da Mozart (libretto di Lorenzo Da Ponte per il Così fan tutte, con riferimento alla fede amorosa). 25 A. DI CUIA, La Sospensione dell’esecuzione del provvedimento impugnato nel processo amministrativo, in www.jius. unitn.it/cardozo/obiter dictum/dicuia.htm. 26 M. ANDREIS, La tutela cautelare, in R. CARANTA (a cura di), Il nuovo processo amministrativo, Bologna 2011, p. 337 e p. 340. 27 A. TRAVI, Osservazioni a Cons st., sez. IV, 12 giugno 2003 n. 3312, in Foro it., 2003, III, p. 681. 28 M. ANDREIS, La tutela cautelare, in Il nuovo processo amministrativo, CARANTA (a cura di), Il nuovo processo amministrativo cit., pp. 339-340. 29 M. SANINO, Codice del processo amministrativo, Torino 2011, p. 255. Saggi 30 ANDREIS, La tutela cautelare… cit., p. 339. 31 ANDREIS, La tutela cautelare… cit., pp. 340-341. 32 R. GAROFOLI, La tutela cautelare degli interessi negativi. Le tecniche del remand e dell’ordinanza a contenuto positivo alla luce del rinnovato quadro normativo, in Dir. proc. amm., 2002, p. 13, il quale osserva tuttavia che l’indubbia preferenza accordata dal legislatore per una definizione tempestiva del merito della controversia non è argomento spendibile per ridimensionare ed attenuare il livello di incisività della misura cautelare invocabile nel processo amministrativo; misura di cui va sempre assicurata, invece, la più ampia ed intensa idoneità a soddisfare le esigenze di piena tutela delle posizioni soggettive dedotte in giudizio, a condizione che siano rispettati i caratteri ontologicamente propri dell’intervento interinale affidato al giudice; E.M. BARBIERI, È bene abolire la pregiudiziale amministrativa?, in Riv. trim. appalti, 2006 pp. 807 e sgg.; O.M. CALSOLARO, Per la pregiudiziale amministrativa: la «doppia anima» dell’interesse legittimo (Nota a TAR Puglia, sede Lecce, sez. II, 4 luglio 2006, n. 3710, Soc. Stilio c. Com. Lecce), in Foro amm. TAR, 2006, p. 2652 e sgg.; R. CARANTA, Ancora sulla pretesa pregiudizialità tra ricorso d’annullamento e ricorso risarcitorio (Nota a C. Stato, Sez. V, 30 agosto 2006, n. 5063), in Urb. e app., 2007, pp. 83 e ss.; S. Castro, La pregiudiziale amministrativa dell’annullamento dell’atto: tramonto dell’ennesimo mito pubblicistico?, in Merito, 2007, fasc. 4, p. 74. 33 D. DE CAROLIS, Tutela cautelare e atti negativi, in M. ROSSI SANCHINI (a cura di), La tutela cautelare nel processo amministrativo, Milano 2006, p. 125. 34 A titolo esemplificativo si segnala l’ord. n. 655/2007 del TAR Emilia Romagna – Bologna Sez. I, che aveva respinto l’istanza cautelare “Ritenuto, ad un primo esame della causa, che il ricorso non contenga puntuali censure rilevanti l’illegittimità del provvedimento impugnato…”. Con la pronuncia di merito, la n. 2997/2007, lo stesso TAR accoglie invece la domanda, specificando nel corpo della motivazione che “Nonostante il diverso avviso espresso da questo tribunale in sede cautelare (peraltro sulla base della sommaria deliberazione tipica di quella fase) il Collegio ritiene che il ricorso merita di essere accolto in quanto risultano fondate, in particolare, le censure riguardanti l’insufficienza della motivazione posta a base del giudizio di non ammissione e il mancato coinvolgimento della famiglia nelle vicende scolastiche dell’alunna”. 35 R. CAPONI, La nuova disciplina dei procedimenti cautelari in generale (L. n. 80 del 2005), in Foro it., 2006, V, p. 69, spec. sub 7. 36 In base a tali assunti potrebbero ritenersi applicabili pure nel processo amministrativo sia l’art. 669 sexies c.p.c., sia il precedente art. 669 quater, 2° comma, in virtù dei quali, se la causa pende davanti al Tribunale la domanda si propone al giudice istruttore oppure, se questi non è ancora designato, al presidente, cfr. A. PROTO PISANI, Novità nella disciplina dei procedimenti cautelari in generale (1994/2005), in Foro it., 2007, V, p. 81: “Circa l’interpretazione dell’art. 669 octies, 6° comma alla nuova disciplina sono soggetti: a) tutti i provvedimenti d’urgenza ex art. 700, abbiano essi (come normalmente accade) contenuto anticipatorio o (come non è escluso dalla lettera dell’art. 700) contenuto conservativo (es., a tutela del diritto alla riservatezza, sequestro di materiale fotografico); b) tutti gli altri provvedimenti cautelari idonei ad anticipare gli effetti della sentenza di merito, previsti dal codice civile o da leggi speciali; sia che l’anticipazione sia totale (di tutti gli effetti della sentenza di merito) sia che l’anticipazione sia soltanto parziale. Viene immediatamente alla mente l’inibitoria provvisoria c.d. brevettuale, inibitoria oggi prevista dall’art. 131 D.Lgs. 30/05 (codice della proprietà industriale), ma subito l’interprete si scontra con la dura realtà della modifica apportata all’art. 131 dal D.Lgs. 140/06, che assoggetta tale inibitoria ad un regime di rigida strumentalità: c) Tutti i provvedimenti emessi a seguito di denunzia di nuova opera o di danno temuto. La previsione è di grosso interesse poiché ai sensi dell’art. 1171, 2° comma, c.c. la cauzione è in ogni caso componente ineliminabile dei provvedimenti in tema di denuncia di nuova opera: il che dimostra chiaramente come non vi sia alcun ostacolo ontologico all’adozione del regime di strumentalità allentata o attenuata anche ai provvedimenti conservativi, nonché che il regime di strumentalità allentata o attenuata non sarà osta- 22 colato in modo alcuno dall’imposizione di una cauzione ex art. 669 undecies a un provvedimento d’urgenza ex art. 700 o ad altro provvedimento «anticipatorio» degli effetti della sentenza. Con queste indicazioni ogni certezza finisce, così che, fuori delle non secondarie ipotesi sopra ricordate, l’operatore pratico prudente farà bene ad instaurare la causa di merito nei termini previsti dall’art. 669 octies, 1° comma, sempre però che si sia alla presenza di un vero provvedimento cautelare soggetto alla disciplina degli artt. 669 bis e sgg.: al riguardo rinvio alle precisazioni già effettuate nell’articolo del 1991, specie sub 11.8; R. CAPONI, La nuova disciplina dei procedimenti cautelari in generale (L. n. 80 del 2005), in Foro it., 2006, V, p. 69, spec. sub 7. 37 Cons. St. Sez. III n. 4067 del 16 settembre 2011 accoglie l’istanza cautelare rinviando al TAR per la sollecita fissazione dell’udienza di merito ai sensi dell’art. 55, comma 10, c.p.a. e, specificando che “potrà essere verificata in sede di merito la situazione familiare dell’appellante e la effettività e attualità del ricongiungimento familiare, nonché la durata del suo regolare soggiorno in Italia”. 38 A. MONACILIUNI, I limiti della tutela cautelare nel processo amministrativo, in www.lexitalia.it: “La giustizia tanto più effettiva avrà ad essere quanto più sarà in grado di valutare immediatamente e contestualmente le diverse ragioni, emanando decisioni il più possibile certe e definite, evitandosi che l’alea iudiciorium, riferita alla fase cautelare, possa significare che la partita è giocata con dadi così piccoli, da non rendere chiaro neppure chi «la sorte» abbia favorito. Si obietterà che le osservazioni sopra esposte sono riferibili all’intera gamma dei procedimenti cautelari e che rappresentano il rovescio della medaglia del doppio grado di giurisdizione, che, tuttavia, ha, dall’altra faccia, il vantaggio insopprimibile di garantire il vaglio successivo del giudice dell’appello anche su dette misure cautelari, rese in prime cure. Non è questa la sede per approfondire il discorso in relazione alla generalizzazione dell’istituto del doppio grado di giurisdizione ed ai suoi effetti; quel che appare potersi qui rilevare è come tale approfondimento andrebbe senza dubbio esperito in una riforma del complessivo sistema giudiziario civile e penale, allo stato incapace di assicurare effettiva giusti- Temi Romana Saggi zia, che significa anche dare effettività alla stessa, se del caso sacrificando qualcosa in tema di garanzie meramente formali, sì da non rendere concreto, al termine della fase cautelare, di quella di merito, delle impugnazioni e di quant’altro ancora possibile, il detto summum ius summa iniuria. 39 F. COCOMILE, Niente alternatività per il controinteressato pretermesso, in Giust. amm., 2006, p. 1283. MONACILIUNI, I limiti… cit.: “È evidente come “in luogo del continuum si assisterà ad un susseguirsi schizofrenico di go and stop, che poco ha da spartire con l’effettività della tutela.[...] Temi Romana Inevitabilmente, in tal modo, il giudice diviene, in qualche misura, parte della complessiva azione, con conseguente svilimento del suo ruolo e di quell’imperium iudicis, che dovrebbe essere preservato, al di sopra ed al di là delle parti in causa, rappresentando la giustizia la più alta espressione della sovranità dello Stato”. cautelare disponga, qualora lo ritenga necessario, il deposito documenti, con un conseguente ampliamento della fase istruttoria cautelare che, in tal caso, è conseguenza diretta della conversione del giudizio abbreviato in giudizio di merito. 40 Vd. TAR Lombardia – Milano, Sez. I del 15.9.2011 in merito ad procedimento di verifica dell’inquinamento acustico e TAR Lombardia – Milano, Sez. I del 15.9.11 che accoglie in attesa di verifiche l’art. 119 comma 3 del codice prevede che il giudice 42 Anche se la sensazione, che può anche essere forse di conforto per certi aspetti, è che Plus ça change, plus c’est la même chose (più si cambia, più è la stessa cosa), per dirla con Alfonso KARR, in En fumant, Paris 1861, p. 54. 23 41 V. TAR Lombardia – Milano, Sez. I, cit. Saggi L’ascolto del minore: dovere del giudice e diritto del figlio. Riferimenti normativi Samantha Luponio Avvocato del Foro di Roma L’ L’elevazione dell’ascolto a diritto soggettivo Ora, con l’entrata in vigore della legge n. 219/2012, che ha riformato alcune norme sullo status filiationis, l’ascolto del minore risulta elevato a vero e proprio diritto soggettivo: ai diritti-doveri costituzionalmente garantiti ai genitori dall’art. 30 (Cost.), infatti, con l’inserimento della norma dell’art. 315 bis c.c. ad opera di tale legge, sono stati attribuiti al soggetto “figlio”, legittimo o naturale, i corrispondenti diritti soggettivi ad essere mantenuto, istruito, educato, assistito moralmente dai genitori, il diritto a crescere in famiglia e a mantenere rapporti significativi con i parenti e, infine, il diritto soggettivo a essere ascoltato: proprio perché il futuro provvedimento di affidamento lo riguarda direttamente, il “figlio” non dovrà più essere considerato solo quale individuo oggetto di protezione, ma come soggetto portatore di un autonomo diritto soggettivo. D’altronde anche le ricerche in ambito psicologico parlano dell’ascolto come uno dei doveri dell’adulto nei confronti dei bisogni del bambino. Punto di convergenza, pertanto, tra le due discipline (ordinamento giuridico e costante giurisprudenza da un lato ed ambito psicologico dall’altro) sta nel fatto che in entrambe si afferma la necessità che il bambino venga ascoltato. Secondo Wallerstein e Tanke “i Tribunali dovrebbero ascoltare la voce di un minore, amplificandola e anteponendola al rumore del conflitto genitoriale, solo in questo modo è possibile assicurarsi il miglior interesse del minore”. istituto dell’ascolto della persona minore di età, nell’ambito dei procedimenti in materia familiare, è stato elevato a principio generale del nostro ordinamento interno dall’art. 12 della legge 176/1991, di ratifica della Convenzione dei Diritti del Fanciullo di New York del 1989, secondo il quale: “Gli Stati parti garantiscono al fanciullo capace di discernimento il diritto di esprimere liberamente la sua opinione su ogni questione che lo interessa, le opinioni del fanciullo essendo debitamente prese in considerazione tenendo conto della sua età e del suo grado di maturità. A tal fine, si darà in particolare al fanciullo la possibilità di essere ascoltato in ogni procedura giudiziaria o amministrativa che lo concerne, sia direttamente, sia tramite un rappresentante o un organo appropriato, in maniera compatibile con le regole di procedura della legislazione nazionale”. Il tema dell’ascolto del minore è stato poi rafforzato dalla Convenzione di Strasburgo del 1996, ratificata con la legge 77/20031. L’impatto di tali strumenti nell’ordinamento interno non ha tardato a farsi avvertire. E, infatti, la L. 54/2006, conosciuta come “legge sull’affidamento condiviso”, ha inserito nel codice civile, tra gli altri, l’art. 155 sexies in forza del quale, prima dell’emanazione, anche in via provvisoria, dei provvedimenti relativi ai figli “il giudice dispone l’audizione del figlio minore che abbia compiuto gli anni 12 o anche di età inferiore ove capace di discernimento”. Tale audizione, per effetto dell’art. 4 della medesima legge appena citata, è prevista, peraltro, anche nei giudizi di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio, nonché nei procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati. Momento processuale necessario Nella prassi, tuttavia, nonostante questa convergenza di pensiero, l’audizione del “figlio” minore di età nei procedimenti che lo riguardano continua a trovare non poche difficoltà ad essere recepita come necessario momento processuale, volto all’acquisizione di uno degli elementi che il giudice deve tenere presente nel decidere. 24 Temi Romana Saggi sue emozioni e contribuisce al miglior convincimento del giudice, senza poterlo determinare, né costituisce una prova in senso tecnico. L’ascolto non è assimilabile alla testimonianza, in quanto non è diretto a recepire fatti dei quali una persona possa riferire: anzi è il suo esatto contrario, poiché nella testimonianza sono da escludere le valutazioni e le opinioni, mentre il minore è chiamato proprio a manifestare il suo pensiero. Nemmeno è assimilabile all’interrogatorio formale: la prospettiva di confessione della parte di circostanze alla stessa sfavorevoli è evidentemente estranea all’audizione del minore. Poiché, secondo plurime pronunce della Corte Costituzionale e della Cassazione, al minore va attribuita la qualità di parte in senso sostanziale, forse la sua audizione potrebbe essere assimilata all’interrogatorio libero che, secondo autorevole dottrina (Satta, Punzi), è volto a dare alla parte la possibilità di spiegare al giudice le proprie ragioni. Tuttavia la soluzione preferibile sembra quella di estraneità al sistema delle prove, conferendone specificità in ragione della sua funzione di recepire nel processo l’opinione del soggetto vulnerabile, nel cui preminente interesse il provvedimento verrà assunto. L’audizione del minore, pur non essendo atto istruttorio, è però certamente un atto processuale che si caratterizza, cioè, per la sua qualità di costituire elemento del processo di realizzazione della tutela giurisdizionale in quanto atto coordinato all’esercizio della giurisdizione in materia di diritti dei minori. Negli anni, si sono formate varie prassi interpretative ed applicative, alcune delle quali formalizzate in protocolli proliferati sul territorio nazionale, anche questi eterogenei sia per le previsioni sia per i soggetti firmatari. Il quadro applicativo che ne deriva comporta incertezza nei soggetti coinvolti in tali procedimenti e, talvolta, avvilimento dei diritti della difesa. Finalità dell’ascolto Con l’ascolto del minore, nei giudizi civili e precipuamente in quelli riguardanti l’affidamento del minore, ci si propone di comprendere il ruolo che egli assume all’interno del suo contesto di vita e di sintonizzarsi con il suo mondo interno e la sua visione degli eventi. Affinché ciò sia possibile, l’attenzione deve essere rivolta non soltanto verso gli aspetti oggettivi che lo riguardano (vissuto, situazioni ed eventi), ma anche verso gli aspetti soggettivi, che sono relativi al modo con cui vengono dal minore attribuiti significati alle cose e agli eventi nonché ai comportamenti delle persone che lo circondano. E tutto ciò per recepirne nel processo l’opinione, le istanze e le esigenze. Entrando nello specifico, l’ascolto può essere utile a indicare in che modo il figlio può coordinarsi tra le due abitazioni dei genitori, in cosa un genitore è più competente rispetto all’altro e, soprattutto, come ognuno dei due genitori possa impegnarsi, dopo la separazione, a gestire, insieme all’altro, la funzione educativa. Peraltro l’audizione del bambino, da parte del giudice o dei suoi ausiliari, può costituire un’occasione per favorire la capacità di ascolto da parte dei genitori che non dovrebbero mai dimenticare che è loro precipuo dovere tener conto delle capacità, inclinazioni e aspirazioni dei figli. Forma dell’ascolto In quanto atto processuale, dunque, l’ascolto del minore è soggetto al principio fondamentale in tema di forme processuali che è quello della libertà di forma. È noto che, se non sono richieste forme determinate, gli atti devono essere svolti nella forma più idonea al raggiungimento dello scopo cui sono preordinati, inteso evidentemente come funzione che l’ordinamento assegna a ciascuna di loro. Quindi, atteso che la funzione dell’ascolto è certamente quella di assicurare al giudice l’acquisizione dell’opinione del minore ed avuto riguardo alla circostanza che è necessario che tale pensiero sia libero e consapevolmente formato ed espresso, ci si chiede quale sia la forma No Atto Istruttorio – Sì Atto Processuale Dal punto di vista processuale, benché l’ascolto del minore sia stato inserito subito dopo la previsione che il giudice, prima di emanare i provvedimenti anche provvisori possa assumere mezzi di prova, non può affermarsi che tale “ascolto” sia un mezzo istruttorio, atteso che non è volto alla verifica di un fatto posto alla base della domanda giudiziaria di parte. La finalità dell’ascolto, infatti, è puramente informativa e riguarda le opinioni del minore, i suoi desideri e le Temi Romana 25 Saggi processuale più corretta per l’assunzione di tale atto. A tal fine, per individuare la forma processuale più adeguata, occorre fare riferimento ai principi generali in tema di giurisdizione e armonizzarli con il principio peculiare di ogni procedimento che abbia ad oggetto i diritti del minore. In sintesi, contraddittorio, diritto di difesa e terzietà del giudice debbono necessariamente contemperarsi, nel caso concreto, con il principio del superiore interesse del minore che costituisce criterio preminente di giudizio. del diritto di difesa non può essere astrattamente prevista in via anticipata ma deve essere invece modulato di volta in volta in ragione delle diverse e particolari situazioni (si pensi ad esempio alla diversità dell’audizione di un “grande minore” di età prossima ai 18 anni e quella di un bambino appena scolarizzato). La presenza dei difensori delle parti non può essere esclusa in via generale e preventiva, ma soltanto in presenza di particolari situazioni, che richiederanno adeguata motivazione. Il contraddittorio comunque potrà essere garantito, prima dell’audizione, con la formulazione al giudice di particolari questioni e dopo, con la concessione di termini per l’esame dell’audizione resa, finalizzata a consentire la eventuale formulazione di specifiche istanze. Anche per questo, la redazione del verbale di audizione dovrà essere fedele, pur se sintetica, ai fini della piena conoscenza di quanto svoltosi in sede di audizione, altrimenti, i diritti di difesa, subirebbero un’ingiustificata e illegittima compressione. Il minore ha diritto all’ascolto che non costituisce tuttavia l’oggetto di un suo obbligo. È invece obbligo dell’Autorità Giudiziaria far rispettare tale diritto, consentendo al bambino di esprimere le sue opinioni, libere da pressioni e spontaneamente formate. Contraddittorio e difesa delle parti Dall’esame della normativa e della giurisprudenza si ricava che l’opinione del bambino, nella cui sfera vanno a incidere i provvedimenti, è uno degli elementi su cui si forma il convincimento del giudice ma quest’ultimo, di certo, non ha l’obbligo di conformarvisi, poiché dovrà decidere tenendo prioritariamente conto dell’interesse del minore, potenzialmente non coincidente con l’opinione di costui. Sui pensieri espressi dal bambino, tuttavia, il Giudice dovrà motivare la propria decisione, così come dovrà chiarire le motivazioni per le quali eventualmente abbia ritenuto opportuno escludere l’audizione del minore, in ragione – ad esempio – del suo superiore interesse ovvero di una rilevata carenza di maturità. La difesa delle altre parti ha tutto l’interesse a conoscere direttamente l’opinione del minore nel processo, senza filtri che potrebbero essere devianti, sia per la formulazione di ulteriori istanze (anche istruttorie) nello stesso grado di giudizio, sia ai fini dell’eventuale impugnazione. Appare evidente che la piena attuazione del contraddittorio e del diritto di difesa esigerebbero che l’audizione del minore avvenisse alla presenza delle altre parti (genitori o tutore o parenti a seconda del procedimento). Ma è altrettanto evidente che, vigendo nei procedimenti minorili il principio generale del “superiore interesse del minore”, questo debba essere considerato anche nella prospettiva processuale del contraddittorio e dei diritti di difesa del bambino, che potrebbe trovarsi intimorito o non libero di esprimersi alla presenza dei difensori delle parti. Per la varietà di ragioni e per la diversità di scenari che potrebbero verificarsi, a seconda delle particolarità dei casi, è ovvio constatare che l’eventuale compressione Omesso ascolto – problematiche processuali Ci si è interrogati sulle conseguenze processuali dell’omesso ascolto del minore. La Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, con la sentenza n. 2238/09, a tale proposito, ha affermato l’obbligatorietà dell’audizione dei figli minori nei procedimenti riguardanti il loro affidamento, salvo che tale ascolto possa essere in contrasto con gli interessi fondamentali del bambino e dovendosi motivare l’eventuale assenza di discernimento dei minori che possa giustificarne l’esclusione. Non solo, ma la Cassazione ha altresì censurato l’omesso ascolto del minore sotto il profilo della violazione dei principi del contraddittorio e del giusto processo. All’ingiustificato omesso ascolto del minore, la Cassazione ha dunque fatto conseguire l’annullamento del decreto, con rinvio al giudice a quo. Protocolli Vari e anche molto difformi tra loro, sia per i soggetti 26 Temi Romana Saggi - con età superiore ai 12 anni. firmatari che per il contenuto delle regole, i protocolli sull’ascolto del minore diffusi sul territorio nazionale. Circa la natura e funzione di tali protocolli, costituiscono piuttosto individuazione di prassi applicative condivise dai firmatari che li diffondono tra gli appartenenti alle rispettive categorie. Se sottoscritti da istituzioni con potere disciplinare nei confronti degli aderenti o iscritti (come ad es. l’Ordine degli Avvocati), costituiscono norme integrative del codice deontologico. I protocolli, ovviamente, non possono contrapporsi a norme di legge, così come interpretate dalla giurisprudenza e quindi, ad esempio non possono prevedere in via astratta, preventiva e generale: - limitazioni al diritto di ascolto del minore; - l’esclusione dei difensori delle parti; - lo svolgimento dell’ascolto in forma soltanto indiretta o solo diretta. Ascolto diretto nel Tribunale Ordinario di Roma Alcuni Giudici evidenziano le difficoltà dell’ascolto diretto poiché, oltre a richiedere competenze specifiche di cui il Giudice non sempre dispone, l’accesso del bambino all’interno del contesto giudiziario potrebbe costituire per lui motivo di turbamento. A ciò si aggiunga il problema dell’attendibilità o meno di ciò che viene riportato dal minore e alla possibilità di capire se e quanto egli sia stato sottoposto a pressioni da parte di uno dei genitori o da parte di entrambi. In molte sedi di Tribunale vi sono protocolli già definiti. Presso il Tribunale Ordinario di Roma non si dispone di un protocollo in materia ma si segue una prassi. Il Giudice, infatti, quando procede all’ascolto diretto del minore, osserva in genere le seguenti modalità: - apre l’udienza con la sola presenza dei genitori e degli avvocati e chiede ai genitori se acconsentono a che l’audizione avvenga in loro assenza; - mette a verbale il consenso dei genitori a rimanere assenti; - se i genitori non prestano il consenso e il Giudice ritenga che la loro assenza sia necessaria per la serenità del minore e la genuinità dell’ascolto, esclude i genitori, con provvedimento motivato; - può comportarsi nello stesso modo con gli avvocati o anche solo avvisarli che l’esame sarà condotto dal Giudice e che non è ammessa la cross examination del minore; - si procede quindi all’accoglienza e all’informazione del minore, invitandolo ad entrare in aula: il Giudice si presenta e spiega con termini semplici quali siano le sue funzioni; - illustra al minore le ragioni dell’ascolto, gli spiega che si tratta di un suo diritto e che si terrà conto della sua opinione anche se poi le decisioni potranno essere diverse dalla sua volontà (se si tratta di un minore “grandicello”, può anche spiegare come funziona il processo e cioè che ognuno esprime la propria opinione e poi il Giudice decide); - comincia da domande di esplorazione delle aree di vita del minore, quali la quotidianità, i rapporti scolastici, i rapporti amicali, gli sport praticati, ecc.; - piano piano si avvicina all’oggetto del giudizio, che per lo più è l’affidamento, cercando di capire la Ascolto diretto e indiretto Molto si è dibattuto e ancora si dibatte sulla possibilità che il minore, soprattutto se infradodicenne, venga ascoltato con la modalità dell’ascolto diretto, per tale intendendosi l’audizione da parte del giudice in udienza, eventualmente anche da parte di un ausiliario esperto; oppure attraverso un ascolto delegato totalmente a un esperto di fiducia del Giudice (ascolto indiretto) e che potrà essere un Giudice onorario presso il Tribunale per i Minorenni, uno psicologo, un neuropsichiatra infantile ovvero uno psichiatra incaricato anche nell’ambito di una CTU. Nei giudizi di separazione giudiziale trattati dal Tribunale Ordinario di Roma, l’ascolto del minore, laddove effettuato, è stato spesso delegato ad un consulente tecnico d’ufficio e inserito nell’ambito di un’indagine più ampia, relativa alla valutazione della relazione genitore/figlio, delle caratteristiche di personalità ovvero delle competenze genitoriali. Occorre tenere presente che, presso il Tribunale Ordinario, la classe di età dei figli di separati maggiormente rappresentata è quella dei minori in età compresa tra i 6 e i 10 anni e che occorre tenere conto delle differenti competenze evolutive del minore effettuando una distinzione a seconda che si tratti di un minore: - di 12 anni; - di età compresa tra gli 8 e gli 11 anni; Temi Romana 27 Saggi - gestione e l’organizzazione dei rapporti familiari; legge il verbale al minore e gli chiede se ha tradotto bene il suo pensiero, avendo cura di sapere se c’è qualcosa che vuole far conoscere al giudice o chiedere; conclude la conversazione salutando il minore e lo congeda spiegandogli che deve terminare l’udienza; richiama i genitori ed eventualmente gli avvocati, dando lettura del verbale e chiedendo se vogliono rendere altre dichiarazioni o inserire qualcosa al verbale; va avanti con la procedura (rinvio o riserva o termini). una Consulenza Tecnica d’Ufficio, poiché questo sistema, pur maggiormente dispendioso in termini di tempi e di risorse, può risultare più efficace in quanto consente di inserire le dichiarazioni del minore all’interno del quadro relazionale allargato, di esplorare con attenzione il suo mondo affettivo e relazionale anche a livello intrapsichico ed eventualmente di avere uno spazio psicologico per testare la modificabilità di posizioni o relazioni disattivate, assunte nell’ambito del conflitto tra i genitori, come le difficoltà o i rifiuti nei confronti di un padre o di una madre. In conclusione, può formularsi l’auspicio che tutti gli operatori del diritto abbiano e dimostrino l’elevata sensibilità che qualsiasi minore ha diritto di esigere allorché si tratti di decisioni che lo riguardano e che sono destinate a segnare il suo sereno sviluppo verso l’età adulta. Conclusioni Soprattutto con i minori infradodicenni e nei casi più complessi sarebbe opportuno che il bambino venga ascoltato in modalità indiretta alla presenza di figure professionali con adeguata formazione e all’interno di _________________ 1 art. 6: “Nelle procedure che interessano un fanciullo, l’autorità giudiziaria, prima di adottare qualsiasi decisione deve: a) esaminare se dispone di informazioni sufficienti in vista di prendere una decisione nell’interesse superiore del fanciullo e, se del caso, ottenere informazioni supplementari in particolare da parte di coloro che hanno la responsabilità di genitore; b) quando un fanciullo è considerato dal diritto interno come avente un discernimento sufficiente, l’autorità giudiziaria: - si accerta che il fanciullo abbia ricevuto ogni informazione pertinente; - consulta personalmente il fanciullo, se del caso, e se necessario in privato, direttamente o attraverso altre persone 28 o organi, nella forma che riterrà più appropriata tenendo conto del discernimento del fanciullo, a meno che ciò non sia manifestamente in contrasto con gli interessi superiori dello stesso; - consente al fanciullo di esprimere la sua opinione; c) tenere debitamente conto dell’opinione espressa da quest’ultimo”. Temi Romana Saggi Il fenomeno del pentitismo nella prospettiva criminologica integrata Giovanni Neri Avvocato del Foro di Roma – Docente di Criminologia UNI I.P.U.S. Chiasso – Direttore scientifico della collana Jus & Comparative Law 1. Premessa La necessità di penetrare a fondo le maglie di organizzazioni criminali particolarmente perniciose, ramificate sul territorio, nazionale e sovranazionale, e connotate da strutture piramidali difficilmente decifrabili, ha indotto la magistratura negli anni a far frequente, se non costante, ricorso alla figura del collaboratore di giustizia. Si tratta di un membro effettivo del sodalizio che, per le ragioni più disparate, che possono spaziare dal mero utilitarismo alla necessità di svincolarsi dall’associazione mafiosa, decide di cooperare con le autorità statuali rendendo dichiarazioni utili a far conoscere, comprendere ed eventualmente sconfiggere la realtà criminale d’appartenenza. È indubbio infatti che il ricorso alla tecnica della collaborazione processuale produca effetti spesso devastanti all’interno delle organizzazioni criminali, da sempre rese forti dall’atteggiamento omertoso dei loro membri e della popolazione, e costrette a fare i conti con la presenza di potenziali traditori: un affiliato che decide di rompere con la cosca malavitosa, infatti, oltre a inquinarne le strutture, rende l’associazione vulnerabile, meno coesa e esposta al pericolo della scissione. In altre parole, l’attività collaborativa non solo è empiricamente necessaria al riscontro di prove utilizzabili in sede processuale, ma consente anche di sfaldare l’unione all’interno della mafia, ossia quella forma di aggregazione e reciproca fiducia che ha da sempre costituito il punto di forza degli uomini d’onore.1 La storia moderna del pentitismo italiano ha avuto inizio negli anni Ottanta, con le dichiarazioni di Tommaso Buscetta2 ed ha subito una graduale evoluzione che ha trasformato delazioni eccezionali in un ordinario strumento di lotta alla mafia. Il maggior numero di collaborazioni è stato riscontrato nella metà degli anni Novanta, all’indomani delle celeTemi Romana bri stragi di Capaci e di via D’Amelio. La morte dei magistrati Falcone e Borsellino e degli agenti di scorta infatti indussero le autorità nazionali ad inasprire le misure di contrasto alla criminalità organizzata e ad utilizzare gli ex mafiosi come valvola di accesso ai vertici delle strutture criminali. Tuttavia, il fenomeno negli anni ha progressivamente assunto connotati particolarmente problematici: invero, l’intersecarsi di sistemi tutori e premiali ha indotto sempre più i membri delle organizzazioni criminali a rendere dichiarazioni in cambio di sconti di pena, benefici penitenziari e meccanismi di protezione dell’incolumità personale propria e dei congiunti, ovviamente esposti a probabili vendette trasversali di tipo esemplare.3 Di qui l’evidente necessità di arginare il ricorso a collaborazioni di scarsa utilità, se non addirittura false o indotte dalla stessa mafia per fuorviare l’attività investigativa. Senza contare che, in difetto di regole ben definite di utilizzabilità delle collaborazioni rese, la magistratura era esposta ad atteggiamenti latamente ricattatori del pentito, che rendeva dichiarazioni incomplete e comunque eccessivamente dilazionate nel tempo. La necessità di scoraggiare forme pretestuose di cooperazione e di contenere sia il problema delle c.d. dichiarazioni a rate, che le difficoltà derivanti dall’utilizzo della decretazione d’urgenza, è stata alla base delle modifiche introdotte alla legge sulle collaborazioni di giustizia. Nel 2001 infatti il legislatore, con la tecnica dell’interpolazione, è intervenuto sul corpo normativo previgente, con innesti, modifiche ed integrazioni, ridisegnando, al termine di travagliati lavori parlamentari, i contorni della legislazione processuale e tutoria in materia. Il nostro lavoro si propone, da un lato, di analizzare sinteticamente i punti salienti della disciplina normativa, e dall’altro di focalizzare, in una prospettiva criminologi29 Saggi ca integrata, gli aspetti più problematici della vita del collaboratore che, distaccandosi progressivamente dal sodalizio di appartenenza, si trova a vivere inevitabili crisi d’identità e si rifugia nella protezione offertagli dal magistrato, dapprima nemico e poi, dopo la cesura con il vissuto mafioso, unico tutore della sua stessa incolumità. riori circostanze processualmente utilizzabili e deve garantire il silenzio sui fatti oggetto della cooperazione, noti alla sola autorità giudiziaria e al difensore. L’omessa o tardiva sottoscrizione del verbale inibisce l’applicazione delle circostanze attenuanti e la fruizione dei benefici penitenziari e delle misure tutorie connesse all’attività di collaborazione. Inoltre, l’inosservanza dei termini e dei divieti imposti in fase di stesura determina l’inutilizzabilità processuale delle dichiarazioni ivi contenute. Il verbale viene infine inserito in un fascicolo depositato presso il procuratore della Repubblica e confluisce per estratto in quello del pubblico ministero relativo ai procedimenti sui fatti oggetto della collaborazione. A scoraggiare le c.d. collaborazioni facili contribuisce inoltre l’eliminazione di ogni forma d’automatismo nella revoca o sostituzione della misura custodiale per l’intervenuta attività di cooperazione con la giustizia e la necessaria espiazione di una porzione di pena per l’accesso ai benefici penitenziari. Infatti, la cessazione della custodia cautelare in carcere resta subordinata ad un vaglio che accerti l’insussistenza di attuali legami del propalante con la criminalità organizzata e i benefici penitenziari possono essere concessi soltanto dopo l’espiazione di un quarto della sanzione inflitta e, in caso di condanna all’ergastolo, scontati almeno dieci anni di pena. L’applicazione delle misure di protezione è ad oggi completamente disgiunta dalla concessione dei benefici penitenziari, con pregevole scissione del momento tutorio da quello premiale, ed è gradualmente connessa all’attualità, intensità e gravità del pericolo cui il pentito viene esposto.10 Alle tecniche ordinarie di protezione, si affiancano misure speciali di varia natura, che possono consistere in precipui accorgimenti di videosorveglianza, trasferimenti o piantonamenti del collaboratore in regime di detenzione. In casi di particolare gravità viene infine adottato uno specifico programma di protezione, con tecniche di tutela particolarmente invasive, che spaziano dal trasferimento in luoghi protetti alla mimetizzazione anagrafica mediante il rilascio di appositi documenti di copertura.11 Il programma comprende anche forme di assistenza legale e finanziaria del pentito, costretto il più delle volte a interrompere l’attività lavorativa in corso: a tal 2. Il fenomeno del pentitismo. Profili giuridici Come premesso, la legge di riforma è intervenuta sulla normativa previgente adottando una serie di accorgimenti per lo più volti a scoraggiare il ricorso incondizionato alla collaborazione, altrimenti scontatamente concepita come una sicura via d’accesso a misure tutorie e premiali.4 Attualmente, infatti, l’acquisto dello status di collaboratore è limitato ai soli delitti di tipo mafioso5, subordinato a stringenti requisiti di veridicità, tempestività ed importanza delle informazioni rese, ed ha quale immediato contraltare la demenutio patrimonii del pentito.6 Espunto il requisito dell’indispensabilità, originariamente previsto in sede di riforma, la collaborazione deve ad oggi presentare i caratteri dell’attendibilità e, disgiuntamente, i connotati della novità o completezza. La genuinità delle dichiarazioni è garantita dall’isolamento del propalante,7 cui viene fatto divieto di interloquire con altri dichiaranti e di intrattenere rapporti di corrispondenza epistolare, telegrafica o telefonica, salvo che per gravi esigenze relative alla vita familiare. Inoltre, il pericolo di possibili concertazioni e dichiarazioni c.d. a rate è pressoché azzerato dalla prevista sottoscrizione del verbale illustrativo. Si tratta di un documento programmatico che deve essere redatto entro il termine perentorio di centottanta giorni dall’intervenuta manifestazione della volontà cooperativa e che cristallizza integralmente i contenuti della collaborazione.8 Il verbale deve contenere l’indicazione di ogni notizia utile alla ricostruzione dei fatti e degli episodi di maggior allarme sociale di cui il dichiarante sia a conoscenza, di ogni informazione che consenta la cattura dei complici, nonché dei dati necessari per procedere al reperimento e alla confisca dei beni del collaboratore o comunque a disposizione del gruppo criminale d’appartenenza.9 A conclusione delle dichiarazioni, l’aspirante collaboratore deve attestare di non essere a conoscenza di ulte- 30 Temi Romana Saggi proposito, è prevista la corresponsione di un assegno di mantenimento, che garantisca al medesimo e alla sua famiglia un dignitoso tenore di vita nel corso della collaborazione. Il programma è automaticamente esteso ai conviventi del pentito e a tutti coloro che, pur non coabitandovi, potrebbero in virtù del rapporto di parentela essere comunque esposti a vendette trasversali dell’associazione criminale tradita. Le misure sono gradualmente modulate sulla permanente situazione di pericolo in cui il protetto si trova e possono essere revocate o modificate al venir meno delle relative ragioni giustificatrici o per motivi disciplinari. In particolare, la revoca è automatica in caso di dichiarazioni false o reticenti, omessa o tardiva sottoscrizione del verbale illustrativo, mancata indicazione dei beni posseduti, violazione degli impegni assunti o commissione di reati esemplificativi del reinserimento o collegamento del collaboratore con la criminalità organizzata.12 Da ultimo, merita di esser segnalata la pregevole distinzione, introdotta nella legge di riforma, tra pentiti e c.d. testimoni di giustizia, ossia cittadini completamente estranei al circuito criminale o vittime di esso che per ragioni di sensibilità istituzionale decidono di cooperare con l’autorità giudiziaria, così ponendo in pericolo se stessi e i loro congiunti. I c.d. collaboratori incolpevoli infatti possono rendere dichiarazioni anche su delitti diversi da quelli di mafia o terroristico eversivi,13 non soggiacciono all’acquisizione dei cespiti patrimoniali e hanno diritto a usufruire di misure assistenziali in grado di garantirgli un tenore di vita analogo a quello precedente alla collaborazione. tare un non agevole percorso che lo conduce al progressivo distacco dal pensare mafioso e ad una conseguente ed inevitabile crisi d’identità. Infatti, l’uomo d’onore che decide di tradire il proprio nucleo d’appartenenza, rinuncia nel contempo al codice di condotta che ha governato da sempre la sua vita e cade in uno stato di evidente disorganizzazione e destrutturazione affettiva che può mostrarsi nei modi più disparati e con diversi gradi di intensità. Spesso si assiste a crisi di tipo depressivo, a stati di dissociazione, a condizioni di angoscia e fantasie persecutorie, dettate dalla paura di ritorsioni per se è per i propri cari, e soprattutto ad uno stadio di spersonalizzazione: il collaboratore infatti passa dallo stato di uomo d’onore a quello di inferiore, che nulla conta e nulla può, o, mutuando dalla comune terminologia di Cosa Nostra, di nuddu ammiscato cu nenti.15 Si trova in una condizione nuova, privo del suo lavoro, dei suoi ingenti beni, in isolamento, affettivo e materiale, e convive con la costante esigenza di tutela, offerta dalla magistratura e dal disposto programma di protezione: talvolta è obbligato a spogliarsi delle proprie generalità, mimetizzarsi in luoghi che non conosce, allontanarsi dal proprio nucleo familiare o sottoporsi ad interventi chirurgici di plastica facciale, così eliminando ogni collegamento con il proprio vissuto precedente. Non sempre può contare sull’appoggio dei propri familiari, che nella maggioranza dei casi si dissociano anche pubblicamente dalla decisione di pentirsi. Spesso infatti le donne di mafia rinnegano i mariti e si fanno porta voci dell’onore della famigghia, vivendo la collaborazione del compagno come un fallimento della progettualità familiare all’interno della società mafiosa.16 E i figli poi, se in giovane età o in fase para adolescenziale, subiscono traumi difficilmente reparabili. Del resto, una vita nel totale anonimato e nella diffidenza, la perdita di certezze, non sono psicologicamente superabili per un bambino, incapace di elaborare le ragioni dello sradicamento che è costretto a subire e completamente privo di ogni passato riferimento parentale e amicale. Obbligato improvvisamente a considerare nemici gli abituali frequentatori della propria casa e amici coloro che erano stati educati da sempre ad allontanare e disprezzare. La collaborazione diviene la sola ragione di vita del pentito e le informazioni rese vengono concepite come 3. Il fenomeno del pentitismo. Profili criminologici Dal punto di vista criminologico, il legislatore non ha ancorato gli effetti tutori e premiali della collaborazione all’effettiva e onesta resipiscenza del pentito e al suo sincero ripudio per i fatti narrati, e la decisione di informare la giustizia dell’esperienza vissuta in sodalizi criminali può essere il frutto delle più disparate considerazioni utilitaristiche, che vanno dalla volontà di accedere ai benefici penitenziari, alla vendetta, al riscatto familiare, alla paura della morte per mano della cosca.14 Qualunque siano i moventi della collaborazione, è comunque chiaro che chi si pente è chiamato ad affron- Temi Romana 31 Saggi unica ancora di salvezza per se e per i propri congiunti rimasti fedeli. Il protetto, infatti, sente di poter contare esclusivamente sul magistrato, nemico originario e ora il solo in grado di assicurargli la necessaria tutela. Egli mette in discussione persino il proprio rapporto fiduciario con il difensore, che lo assiste in genere solo nelle prime fasi, al momento di “trattare” i benefici derivanti dalla collaborazione, ed assume in seguito un ruolo del tutto marginale. Non è infrequente che il pentito, inserito nel programma, decida anche di rivolgersi ad un diverso legale, temendone il legame con l’organizzazione criminale d’appartenenza. Talora poi è lo stesso difensore a rinunciare all’incarico, per conflitti d’interesse o per dimostrare all’associazione cui è legato la propria devozione e il proprio disappunto per i c.d. uomini del disonore. In altre parole, all’avvocato difensore si sostituisce il “magistrato protettore”, che instaura con il pentito un rapporto di fiducia, garantendogli le necessarie tutele in cambio di contributi veritieri nella lotta alla criminalità organizzata17. Infatti, ogni collaboratore, anche quello che desideri in realtà mantenere un’identità deviante, devota ai circuiti malavitosi, non può non temere sicure ritorsioni da parte dell’organizzazione cui apparteneva che, al contrario, lo taccia come traditore e stigmatizza la vendetta eventualmente perpetrata nei suoi confronti, come monito per potenziali futuri collaboratori di giustizia. Ad ogni modo, di recente, si è assistito ad un mutamento di rotta dei collaboratori, spesso delusi dall’inefficacia e dal fallimento dei programmi di protezione, inadatti a tutelarne a pieno l’incolumità specie a fronte di gruppi criminali fortemente ramificati nel territorio dell’intera penisola. Senza contare le perplessità derivanti dall’indubbia sorte della Commissione e dalla mancanza di fondi statuali che hanno fortemente scoraggiato le collaborazioni in atto e talora indotto i dichiaranti a ripensare al loro nuovo status e a ritentare un progressivo reinserimento nei circuiti criminali, anche a rischio della propria vita. ALMA M., Nuova disciplina della protezione e del trattamento sanzionatorio di pentiti e testimoni. Sanzioni difesa e regime transitorio, in Dir. pen. proc., 2001. ARDITA S., La nuova legge sui collaboratori e sui testimoni di giustizia, in Cass. pen., 2001. ARLACCHI P., Gli uomini del disonore. La mafia siciliana nella vita del grande pentito Antonio Calderone, Milano 1991. ARLACCHI P., Addio Cosa Nostra. La vita di Tommaso Buscetta, Milano 1994. 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La vita di Tommaso Buscetta, Milano 1994. 3 Sulla legislazione anteriore alla riforma Temi Romana del 2001 vd. A. BERNASCONI, I sistemi di protezione per i collaboratori di giustizia nella prospettiva premiale dell’ordinamento italiano e nell’esperienza statunitense, in A.A.V.V., Criminalità organizzata e politiche penitenziarie, Milano 1994, p. 139; ID., La collaborazione processuale. Incentivi di protezione e strumenti di garanzia a confronto con l’esperienza statunitense, Milano 1995; ID., Indissolubile il collegamento tra collaborazione con la giustizia e benefici penitenziari, in Cass. Pen., III, 1997, p. 33 3570; ID., Le immunità occulte. Fase dell’esecuzione penale ed ideologia premiale tra razionalizzazione e garantismo, in Politica del Diritto, Giugno 1997, n. 2, p. 193; L. CAMPOSARAGNA, La collaborazione con la giustizia in fase esecutiva, in Dir. pen. proc., II, 1997, n. 10, p. 1214; G.C. CASELLI – A. INGROIA, Normativa premiale e strumenti di protezione per i collaboratori di giustizia: tra inerzia legislativa e soluzioni d’emergenza, in A.A.V.V., Processo penale e criminalità organizzata, a cura di Saggi V. Grevi, Bari 1993, p. 205; L. D’AMBROSIO, Collaboratori di giustizia. Breve analisi della disciplina vigente e appunti per una sua possibile riforma, in Documenti Giustizia, I, 1995, n. 3, p. 315; ID., Nuovo e contestato regolamento sulla protezione dei collaboratori di giustizia, in Dir. pen. proc., I, 1995, n. 5, p. 626; L. D’AMBROSIO – S. D’AMICO, Considerazioni sulla normativa a tutela dei collaboratori di giustizia, Roma 1992; S. D’AMICO, Il collaboratore della giustizia, Roma 1995; E. DELEHAJE, Collaboratori di giustizia e misure alternative alla detenzione: problemi applicativi ed uniformità interpretative, in Documenti Giustizia, I, 1995, n. 5, p. 729; F. DELLA CASA, Estensibile all’entourage del collaboratore la normativa premiale sull’illimitato accesso ai benefici penitenziari?, in Cass. Pen., III, 1997, p. 3582; O. DOMINIONI, Verso l’obbligo di “collaborare”, in Legislazione Penale, 1983, p. 604; G. FALCONE, Pentitismo e repressione della criminalità organizzata nella nuova emergenza, in Difesa penale, 1992; C. FIORIO, Sempre nuove questioni di diritto penitenziario: la collaborazione come presupposto per i benefici, in Giur. Cost., 1993; P. GIORDANO, Profili premiali della risposta punitiva dello Stato, in Cass. pen., 1997; F.P.C. IOVINO, Legge penitenziaria e lotta alla criminalità organizzata, in Cass. Pen., I, 1992, p. 438; M. LAUDI, Imputati pentiti (sistema di protezione), in Dig. Disc. Pen., VI, Torino 1992, p. 272; P. MANCUSO – G. MELILLO, Osservazioni sul nuovo regolamento per il programma di protezione dei collaboratori di giustizia, in Cass. Pen., I, 1995, p. 250; L. MARINI, Un nodo cruciale e trascurato: la “gestione del pentito”, in Questioni Giustizia, 1986, n. 3, p. 705; E. MUSCO, La premialità nel diritto penale, in A.A.V.V., La legislazione premiale, Milano 1987, p. 115; T. PADOVANI, Il traffico delle indulgenze, “Premio” e “Corrispettivo” nella dinamica della punibilità, in Riv. It. dir. proc. pen., 1986, p. 398; M. PANTALEONE, Mafia: pentiti?, Bologna 1985; A. PRESUTTI, Alternative al carcere, regime delle preclusioni e sistema della pena costituzionale, in A.A.V.V., Criminalità organizzata e politiche penitenziarie, Milano 1994, p. 59; S. PRESTIPINO, Nuovi condizionamenti e limiti per i benefici penitenziari a condannati pericolosi, in Giust. Pen., II, 1993, p. 252; A. SAMMARCO, La collaborazione con la giustizia in fase esecutiva, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., III, 1994, p. 871. con la giustizia ed il verbale illustrativo dei contenuti. Un “oggetto misterioso” introdotto dalla l. 45/01, in Diritto e giustizia, 2003. 4 Per approfondimenti vd. R. ALFONSO – F. ROBERTI, Pentiti: norme poco chiare favoriscono equivoci e applicazioni arbitrarie, in Diritto e Giustizia, 7 luglio 2001, n. 26, p. 46; M. ALMA, Nuova disciplina della protezione e del trattamento sanzionatorio di pentiti e testimoni. Sanzioni difesa e regime transitorio, in Dir. pen. proc., 2001; S. ARDITA, La nuova legge sui collaboratori e sui testimoni di giustizia, in Cass. pen., 2001; A. DINO, Pentiti. I collaboratori di giustizia, le istituzioni, l’opinione pubblica, Roma 2006; M. FUMO, Delazione collaborativa, pentimento e trattamento sanzionatorio. La nuova normativa sui collaboratori di giustizia: esegesi, spunti critici, riflessioni, Napoli 2001; F.P. GIORDANO – G. TINEBRA, Nuova disciplina della protezione e del trattamento sanzionatorio di pentiti e testimoni. Il regime di protezione, in Dir. pen. proc., 2001; G. MONTANARO – F. SILVESTRI, Dalla mafia allo Stato, Torino 2005; C. RUGA RIVA, Il premio per la collaborazione processuale, Milano 2002; F. SASSANO, La nuova disciplina sulla collaborazione di giustizia alla luce della legge 13 febbraio 2001, n. 45, Torino 2002; A. SPATARO, Per i collaboratori di giustizia legge scoraggia collaborazioni, in Diritto e Giustizia, 10 marzo 2001, n. 9, p. 9. 9 Vd. Art. 16 quater, L. 82/91. 5 L’art. 9, L. 82/91, espunto il richiamo all’art. 380 c.p.p., ad oggi prevede la rilevanza delle sole collaborazioni concernenti “delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine costituzionale ovvero ricompresi fra quelli di cui all’art. 51, comma 3bis, del codice di procedura penale e agli articoli 600 bis, 600 ter, 600 quater …e 600 quinquies del codice penale”. 6 Vd. V. TOMASONE, Rigore e genuinità della collaborazione. I pentiti nell’applicazione della legge, in Diritto e giustizia, 2003. 7 Il dichiarante deve essere collocato in apposite sezioni dell’istituto carcerario che ne garantiscano l’isolamento e ne tutelino l’incolumità personale. Non è invece più prevista la detenzione extracarceraria. 8 Vd. M. FUMO, Il verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione tra velleità di riforma e resistenze del sistema, in Cass. pen., 2003; A. LAUDATI, La collaborazione 34 10 Vd. F. ROBERTI, Nella netta distinzione tra premio e tutela un contributo al superamento delle distorsioni, in Guida al Diritto – Il sole 24 ore, 24 marzo 2001, n. 11, p. 45. 11 Vd. G. NATOLI, Problematiche concernenti il sistema di protezione dei collaboratori di giustizia, in Diritto e Giustizia, 15 settembre 2001, n. 31. 12 Nel caso di dichiarazioni false o violazioni dei doveri imposti al pentito, può essere disposta anche la revisione del processo nel quale sono stati applicati sconti di pena o attenuanti per effetto della collaborazione resa. 13 Le dichiarazioni peraltro devono presentare il solo connotato dell’attendibilità, e non anche quelli della novità o dell’importanza. Vd. anche L. D’AMBROSIO, Testimoni e collaboratori di giustizia, Padova 2002. 14 Sugli aspetti criminologici connessi al fenomeno del pentitismo vd. F. DI MARIA, Il sentire mafioso, Milano 1989; G. LO VERSO (a cura di), La mafia dentro. Psicologia e psicopatologia di un fondamentalismo, Milano 1998; LO VERSO – G. LO COCO, La psiche mafiosa, storie di casi clinici e collaboratori di giustizia, Milano 2003; P.L.VIGNA, La gestione giudiziaria del pentito: problemi deontologici, tecnici e psicologici, in A.A.V.V., Chiamata in correità e psicologia del pentitismo nel nuovo codice di procedura penale, Padova 1992. 15 Vd. P. ARLACCHI, Gli uomini del disonore. La mafia siciliana nella vita del grande pentito Antonio Calderone, Milano 1991. 16 Vd. O. INGRASCI, Donne d’onore. Storie di mafia al femminile, Milano 2007; L. MADEO, Donne di mafia, Milano 1994; T. PRINCIPATO, Mafia donna: le vestali del sacro e dell’onore, Palermo 1997; R. SIEBERT, Le donne, la mafia, Milano 1994. 17 Esempio emblematico della forza del legame che si crea con il magistrato è il suicidio di Rita Adria, seguito alla morte di Paolo Borsellino. Vd. S. RIZZA, Una ragazza contro la Mafia – Rita Adria, Palermo 1993. Sul rapporto tra il collaboratore e il magistrato vd. anche M. MELLINI, Il giudice e il pentito, Milano 1986. Temi Romana Saggi Competenza legislativa concorrente in materia di coordinamento della finanza pubblica e vincoli di riequilibrio finanziari anche nei confronti delle Regioni a statuto speciale: ultime pronunce in tema della Corte costituzionale e prospettive di riforma Maria Giulia Putaturo Donati Sommario: 1. – Sulla nozione di principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica e sulla competenza del legislatore statale a prevedere nei confronti delle Regioni (anche a statuto speciale) vincoli di riequilibrio della finanza pubblica; 2. – Sulla “naturale” incidenza di norme costituenti «principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica» sull’autonomia finanziaria e sulle altre competenze legislative delle Regioni a statuto speciale e delle Province autonome; 3. – Sulla tecnica dell’accordo nel regime dei rapporti finanziari tra StatoRegioni a statuto speciale e Province autonome; 4. – La materia del «coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario»: da competenza legislativa concorrente a competenza esclusiva dello Stato? 1. Sulla nozione di principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica e sulla competenza del legislatore statale a prevedere nei confronti delle Regioni (anche a statuto speciale) vincoli di riequilibrio della finanza pubblica Ai sensi dell’art. 117, terzo comma1, Costituzione tra le materie oggetto di competenza legislativa concorrente Stato-Regioni rientra quella del «coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario». Nelle materie di legislazione concorrente spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei princìpi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato. Da qui la ripartizione, in materia, della c.d. legislazione di principio allo Stato e di quella c.d. di dettaglio alle Regioni. Per giurisprudenza costante della Corte costituzionale, possono essere ritenute “principi fondamentali in materia di coordinamento della finanza pubblica”, ai sensi del terzo comma dell’art. 117 Cost., le norme che «si limitino a porre obiettivi di riequilibrio della finanza pubblica, intesi nel senso di un transitorio contenimento complessivo, anche se non generale, della spesa corrente e non prevedano in modo esaustivo strumenti o modalità per il perseguimento dei suddetti obiettivi» (sentenze n. 193 e n. 148 del 2012; conformi, ex pluriTemi Romana mis, sentenze n. 232 del 2011 e n. 326 del 2010; n. 297 del 2009; n. 237 del 2009) in modo che rimanga uno spazio aperto all’esercizio dell’autonomia regionale (sentenza n. 182 del 2011)2. Questi vincoli, perché possano considerarsi rispettosi dell’autonomia delle Regioni e degli enti locali, devono riguardare «l’entità del disavanzo di parte corrente oppure – ma solo “in via transitoria ed in vista degli specifici obiettivi di riequilibrio della finanza pubblica perseguiti dal legislatore statale” – la crescita della spesa corrente»3. In altri termini, la legge statale può stabilire solo un «limite complessivo, che lascia agli enti stessi ampia libertà di allocazione delle risorse fra i diversi ambiti e obiettivi di spesa» (sentenze n. 44 del 2014; 236 del 2013; n. 182 del 2011; n. 417 del 2005 e n. 36 del 2004; si vedano anche le sentenze n. 88 del 2006 e n. 449 del 2005) e non può fissare vincoli puntuali relativi a singole voci di spesa dei bilanci delle Regioni e degli enti locali, tali da ledere l’autonomia finanziaria di spesa garantita dall’art. 119 Cost. (sentenze n. 120 del 2008; n. 169 del 2007; n. 417 del 2005; n. 36 del 2004). Secondo quanto costantemente affermato dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, la previsione, da parte della legge statale, di un limite all’entità di una singola voce di spesa della Regione non può essere considerata un principio fondamentale in materia di 35 Saggi 2012, n. 135 – che impone alle Regioni la soppressione o la limitazione degli enti, agenzie ed organismi strumentali all’esercizio di funzioni fondamentali o di funzioni amministrative spettanti a Comuni, Province e Città metropolitane – ha posto in rilievo, al fine di qualificare la norma impugnata effettivamente come principio fondamentale di coordinamento della finanza pubblica, solo il requisito dell’intervento di “limite complessivo e globale ” alla spesa pubblica). Inoltre, la disciplina dettata dal legislatore non deve ledere il canone generale della ragionevolezza e proporzionalità dell’intervento normativo rispetto all’obiettivo prefissato (sentenza n. 236 del 2012). Nella giurisprudenza della Corte costituzionale è ormai consolidato l’orientamento secondo cui il legislatore statale può, con una disciplina di principio, legittimamente imporre alle Regioni e agli enti locali, per ragioni di coordinamento finanziario connesse ad obiettivi nazionali, condizionati anche dagli obblighi comunitari, vincoli alle politiche di bilancio, anche se questi si traducono, inevitabilmente, in limitazioni indirette all’autonomia di spesa degli enti territoriali (ex plurimis, sentenze n. 236 del 2013; n. 182 del 2011, n. 207 e n. 128 del 2010). La Corte ha avuto modo di affermare che non è contestabile «il potere del legislatore statale di imporre agli enti autonomi, per ragioni di coordinamento finanziario connesse ad obiettivi nazionali, condizionati anche dagli obblighi comunitari, vincoli alle politiche di bilancio, anche se questi si traducono, inevitabilmente, in limitazioni indirette all’autonomia di spesa degli enti», e che, «in via transitoria e in vista degli specifici obiettivi di riequilibrio della finanza pubblica perseguiti dal legislatore statale», possono anche imporsi limiti complessivi alla crescita della spesa corrente degli enti autonomi (sentenze n. 82 del 2007; n. 36 del 2004). Secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale, «la stessa nozione di principio fondamentale non può essere cristallizzata in una formula valida in ogni circostanza, ma deve tenere conto del contesto, del momento congiunturale in relazione ai quali l’accertamento va compiuto e della peculiarità della materia» (sentenze n. 23 del 2014; n. 16 del 2010 Inoltre, la specificità delle prescrizioni, di per sé, neppure può escludere il carattere “di principio” di una norma, qualora essa risulti legata al principio stesso da un evidente rapporto di coessenzialità e di necessaria integrazione (sentenze n. 23 del 2014; n. 16 del 2010; n. 237 del 2009 e n. 430 del 2007). La Corte ha sottolineato la legittimità di disposizioni di dettaglio in “rapporto di coessenzialità e di necessaria armonizzazione dei bilanci pubblici e di coordinamento della finanza pubblica ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost., perché pone un precetto specifico e puntuale sull’entità della spesa e si risolve, di conseguenza, in un’indebita invasione dell’area riservata dall’art. 119 Cost. all’autonomia finanziaria delle Regioni. Ad esse la legge statale può solo prescrivere obiettivi (ad esempio, il contenimento della spesa pubblica), ma non imporre nel dettaglio le modalità e gli strumenti concreti da utilizzare per raggiungere quegli obiettivi (ex multis, sentenze n. 95 del 2007; n. 88 del 2006, nn. 449 e 417 del 2005 e nn. 390 e 36 del 2004). In altre pronunce, la Corte costituzionale ha precisato che lo Stato può agire direttamente sulla spesa delle proprie amministrazioni con norme puntuali e, al contempo, dichiarare che le stesse norme sono efficaci nei confronti delle Regioni «a condizione di permettere l’estrapolazione, dalle singole disposizioni statali, di principi rispettosi di uno spazio aperto all’esercizio dell’autonomia regionale» (sentenza n. 182 del 2011). Quindi anche allorquando le disposizioni in esame (come per la disciplina dettata dall’articolo 6 del D.L. n. 78 del 2010 – come la Corte ha chiarito con la richiamata sentenza n. 182 del 2011 – prevedono puntuali misure di riduzione parziale o totale di singole voci di spesa, ciò non esclude che da esse possa desumersi un limite complessivo, nell’ambito del quale le Regioni restano libere di allocare le risorse tra i diversi ambiti e obiettivi di spesa (sentenza n. 139 del 20124). In caso contrario, la norma statale non può essere ritenuta di principio (sentenza n. 159 del 2008), a prescindere dall’auto-qualificazione operata dal legislatore (sentenza n. 237 del 2009). Può essere, in altri termini, imposto alle Regioni un «limite globale, complessivo, al punto che ciascuna Regione deve ritenersi libera di darvi attuazione, nelle varie leggi di spesa, relativamente ai diversi comparti, in modo graduato e differenziato, purché il risultato complessivo sia pari a quello indicato nella legge statale» (sentenze n. 229 del 2013; n. 36 del 2013; sentenza n. 211 del 2012). Il carattere della «transitorietà» o temporaneità dell’intervento legislativo di contenimento della spesa corrente sembrerebbe essere evidenziato dalla giurisprudenza della Corte costituzionale allorquando l’incidenza sulla spesa corrente sia immediata (da ultimo, sentenza n. 44 del 2014), non già quando si tratti di intervento con incidenza indiretta sulla spesa corrente (si veda, a tal proposito, la sentenza n. 236 del 2013 nella quale la Corte, nel valutare la legittimità costituzionale dell’art. 9, commi 1, 2, 3 e 4, del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 36 Temi Romana Saggi go indefettibile di tutti gli enti del settore pubblico allargato di cui anche le Regioni devono farsi carico attraverso un accollo proporzionato degli oneri complessivi conseguenti alle manovre di finanza pubblica (ex plurimis, sentenza n. 52 del 2010). La finanza delle Regioni a statuto speciale è, infatti, parte della “finanza pubblica allargata” nei cui riguardi lo Stato aveva e conserva poteri di disciplina generale e di coordinamento, nell’esercizio dei quali poteva e può chiamare pure le autonomie speciali a concorrere al conseguimento degli obiettivi complessivi di finanza pubblica, connessi anche ai vincoli europei (ex plurimis, sentenze n. 39 del 2014; n. 60 del 2013; n. 219 del 2013, n. 198 del 2012, n. 179 del 2007; n. 425 del 2004; n. 416 del 1995; n. 421 del 1998), come quelli relativi al cosiddetto patto di stabilità interno (cfr. sentenza n. 36 del 2004). La Corte costituzionale, perciò, ha già ritenuto che «nel nuovo assetto costituzionale scaturito dalla riforma, allo Stato sia pur sempre riservata, nell’ordinamento generale della Repubblica, una posizione peculiare desumibile non solo dalla proclamazione di principio di cui all’art. 5 della Costituzione, ma anche dalla ripetuta evocazione di un’istanza unitaria, manifestata dal richiamo al rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali, come limiti di tutte le potestà legislative (art. 117, primo comma) e dal riconoscimento dell’esigenza di tutelare l’unità giuridica ed economica dell’ordinamento stesso (articolo 120, secondo comma). E tale istanza postula necessariamente che nel sistema esista un soggetto, lo Stato appunto, avente il compito di assicurarne il pieno soddisfacimento» (sentenza n. 274 del 2003). (sentenza n. 219 del 2013). Il legislatore statale può legittimamente imporre agli enti autonomi vincoli alle politiche di bilancio (ancorché si traducano, inevitabilmente, in limitazioni indirette all’autonomia di spesa degli enti), ma solo, con «disciplina di principio», «per ragioni di coordinamento finanziario connesse ad obiettivi nazionali, condizionati anche dagli obblighi comunitari» (sentenza n. 417 del 2005; n. 36 del 2004; v. anche le sentenze n. 376 del 2003 e n.n. 4 e 390 del 2004). La Corte ha posto in rilievo che limiti finanziari per le Regioni e gli enti locali, volti al perseguimento degli obiettivi della finanza pubblica e del contenimento della spesa, sono in linea con la più recente interpretazione della nozione di «coordinamento della finanza pubblica» fatta propria dalla giurisprudenza costituzionale, ormai «costante nel ritenere che norme statali che fissano limiti alla spesa di enti pubblici regionali sono espressione della finalità di coordinamento finanziario», integrazione” con le norme di principio e, pertanto, inderogabili (sentenza n. 355 del 1993). In quest’ottica, sono state ricondotte «nell’ambito dei principi di coordinamento della finanza pubblica “norme puntuali adottate dal legislatore per realizzare in concreto la finalità del coordinamento finanziario, che per sua natura eccede le possibilità di intervento dei livelli territoriali sub-statali” (sentenza n. 237 del 2009 e già sentenza n. 417 del 2005). (sentenze n. 44 e n. 23 del 2014; n. 52 del 2010). La Corte ha affermato che, sebbene sia norma a contenuto specifico e dettagliato, «è da considerare per la finalità perseguita, in “rapporto di coessenzialità e di necessaria integrazione” con le norme-principio [che connotano il settore dell’organizzazione sanitaria locale, così da vincolare l’autonomia finanziaria regionale in ordine alla disciplina prevista per i “debiti” e i “crediti” delle soppresse unità sanitarie locali]». (sentenza n. 108 del 2010; n. 89 del 2000). La Corte ha messo pure in rilievo il carattere “finalistico” dell’azione di coordinamento e, quindi, l’esigenza che «a livello centrale» si possano collocare anche «i poteri puntuali eventualmente necessari perché la finalità di coordinamento» venga «concretamente realizzata» (sentenza n. 229 del 2011; n. 376 del 2003, già citata). La giurisprudenza della Corte costituzionale ha elaborato una nozione ampia di principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica, ed ha, altresì, precisato come la piena attuazione del coordinamento della finanza pubblica possa far sì che la competenza statale non si esaurisca con l’esercizio del potere legislativo, ma implichi anche «l’esercizio di poteri di ordine amministrativo, di regolazione tecnica, di rilevazione di dati e di controllo» (sentenza n. 229 del 2011; n. 376 del 2003; in senso conforme, sentenze n. 112 del 2011, n. 57 del 2010, n. 190 e n. 159 del 2008). Le norme che pongono un principio fondamentale di coordinamento della finanza pubblica attinente alla spesa, come più volte affermato dalla Corte costituzionale, devono ritenersi applicabili «anche alle autonomie speciali, in considerazione dell’obbligo generale di partecipazione di tutte le Regioni, ivi comprese quelle a statuto speciale, all’azione di risanamento della finanza pubblica» (sentenze n. 120 del 2008; 169 e n. 82 del 2007). La giurisprudenza della Corte è, infatti, costante nell’affermare che anche gli enti ad autonomia differenziata sono soggetti ai vincoli legislativi derivanti dal rispetto dei principi di coordinamento della finanza pubblica (da ultimo, sentenze n. 72 del 2014; n. 139 del 2012; n. 30 del 2012 e n. 229 del 2011). Il concorso agli obiettivi di finanza pubblica è un obbliTemi Romana 37 Saggi vinciale» (sentenza n. 159 del 2008)]. Dall’accertata natura di principio fondamentale [in materia «coordinamento della finanza pubblica] discende, in base alla giurisprudenza della Corte, la legittimità dell’incidenza della censurata disposizione sia sull’autonomia di spesa delle Regioni (si vedano, ex plurimis, sentenze n. 151 del 2012; n. 91 del 2011, n. 27 del 2010, n. 456 e n. 244 del 2005), sia su ogni tipo di potestà legislativa regionale, compresa quella residuale in materia di comunità montane (sentenze n. 326 del 2010 e n. 237 del 2009). La Corte ha precisato che il legittimo esercizio della competenza statale di coordinamento della finanza pubblica è limite all’autonomia finanziaria delle medesime Province autonome (sentenza n. 190 del 2008; n. 82 del 2007). Soltanto se il limite posto dalla legge statale non costituisce un principio di coordinamento esso si configura come “un illegittimo vincolo all’autonomia di spesa e finanziaria garantita dallo statuto speciale e con disposizioni non unilateralmente derogabili dalle norme di attuazione”. Ma se si tratta di principi statali di coordinamento della finanza pubblica essi si impongono nell’esercizio dell’autonomia finanziaria di cui allo statuto speciale (sentenza n. 190 del 2008) . La Corte ha, altresì, affermato che l’eventuale impatto di una norma, costituente principio fondamentale di coordinamento della finanza pubblica (art. 117, comma terzo, Cost.), [pertanto ascrivibile a tale titolo alla competenza legislativa concorrente dello Stato] sull’autonomia finanziaria (119 Cost.) ed organizzativa (117, comma quarto, e 118 Cost.) delle Regioni si traduce in una «circostanza di fatto come tale non incidente sul piano della legittimità costituzionale» (sentenze n. 236 del 2013; n. 40 del 2010, n. 169 del 2007 e n. 36 del 2004). Pertanto, la ormai consolidata giurisprudenza della Corte in materia di coordinamento della finanza pubblica, consente di fare arretrare i confini delle competenze statutarie (anche delle regioni speciali) ovvero di incidere anche su materie riconducibili a tali competenze. Pertanto, nessuna “dispensa” per le autonomie speciali: i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario (di cui all’art. 119 Cost.) costituiscono un limite inderogabile anche per le regioni ad autonomia differenziata. per cui il legislatore statale può «legittimamente imporre alle Regioni vincoli alla spesa corrente per assicurare l’equilibrio unitario della finanza pubblica complessiva, in connessione con il perseguimento di obiettivi nazionali, condizionati anche da obblighi comunitari» (così, sentenze n. 326 del 2010; n. 52 del 2010, nonché sentenze n. 237 e n. 139 del 2009). Tali vincoli, riconducibili ai “princípi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica”, si impongono alle autonomie speciali solo in ragione dell’imprescindibile esigenza di assicurare l’unitarietà delle politiche complessive di spesa che lo Stato deve realizzare – sul versante sia interno che comunitario e internazionale – attraverso la «partecipazione di tutte le Regioni [...] all’azione di risanamento della finanza pubblica» e al rispetto del cosiddetto “patto di stabilità”. (sentenza n. 102 del 2008). 2. Sulla “naturale” incidenza di norme costituenti «principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica» sull’autonomia finanziaria e sulle altre competenze legislative delle Regioni a statuto speciale e delle Province autonome Nell’ambito di una competenza concorrente quale è il coordinamento della finanza pubblica, ripetutamente la Corte costituzionale ha stimato recessiva la dimensione dell’autonomia finanziaria5 ed organizzativa della Regione, a fronte di misure necessariamente uniformi sull’intero territorio nazionale e costituenti principi fondamentali della materia (ex plurimis, sentenze n. 219 del 2013; n. 169 del 2007; n. 417 del 2005; n. 36 del 2004). La Corte ha sottolineato che «dinanzi ad un intervento legislativo statale di coordinamento della finanza pubblica riferito alle Regioni, e cioè nell’àmbito di una materia di tipo concorrente, è naturale che ne derivi una, per quanto parziale, compressione degli spazi entro cui possano esercitarsi le competenze legislative ed amministrative di Regioni e Province autonome (specie in tema di organizzazione amministrativa o di disciplina del personale), nonché della stessa autonomia di spesa loro spettante» (fra le molte, si vedano le sentenze n. 159 del 2008; n. 169 e n. 162 del 2007; n. 353 e n. 36 del 2004). La giurisprudenza costituzionale ha espressamente riconosciuto che disposizioni statali di principio in tema di coordinamento della finanza pubblica, ove costituzionalmente legittime, possono «incidere su una materia di competenza della Regione e delle Province autonome (sentenze n. 229 del 2013; 188 del 2007, n. 2 del 2004 e n. 274 del 2003) [come l’organizzazione ed il funzionamento dell’amministrazione regionale e pro- 3. Sulla tecnica dell’accordo nel regime dei rapporti finanziari tra Stato-Regioni a statuto speciale e Province autonome L’obbligo generale di partecipazione di tutte le Regioni, ivi comprese quelle a statuto speciale, 38 Temi Romana Saggi statuto speciale i cui livelli di reddito pro capite siano inferiori alla media nazionale» (comma 2, secondo periodo). La Corte costituzionale ha ritenuto che tale norma riportata possiede una portata generale ed esclude – ove non sia espressamente disposto in senso contrario per casi specifici da una norma successiva – che le previsioni finalizzate al contenimento della spesa pubblica possano essere ritenute applicabili alle Regioni a statuto speciale al di fuori delle particolari procedure previste dai rispettivi statuti. Tale principio è stato successivamente ribadito dalla normativa richiamata dalle parti ed, in particolare, dall’art. 8, comma 4, del D.Lgs. n. 216 del 2010, e dall’art. 1, commi 128 e 129, della legge n. 220 del 2010. L’estensione alle Regioni speciali delle disposizioni in materia di finanza deve essere espressamente dichiarata e circoscritta dal legislatore, salva naturalmente ogni valutazione sulla legittimità costituzionale di tale estensione, nei singoli casi in cui essa sia prevista. In caso di silenzio, resta valido il principio generale di cui al citato art. 27 della legge n. 42 del 2009. (sentenza n. 193 del 2012). L’art. 27, infatti, pone una vera e propria «riserva di competenza alle norme di attuazione degli statuti» speciali per la modifica della disciplina finanziaria degli enti ad autonomia differenziata (sentenza n. 71 del 2012), così da configurarsi quale autentico presidio procedurale della specialità finanziaria di tali enti.( in tal senso, si veda la sentenza n. 241 del 2012). Il punto di raccordo tra autonomia finanziaria delle Regioni a statuto speciale e delle Province autonome e coordinamento della finanza pubblica è dato dallo strumento dell’accordo ovvero dal principio bilaterale che caratterizza in maniera pregnante il rapporto tra regioni speciali e Stato. Pertanto, l’applicazione del metodo dell’accordo bilaterale 8 in riferimento al patto di stabilità interno, deve considerarsi un’espressione della descritta autonomia finanziaria e del contemperamento di tale principio con quello del rispetto dei limiti di spesa imposti dal cosiddetto patto di stabilità interno (“i limiti del coordinamento devono essere contemperati con la speciale autonomia in materia finanziaria”)9. A differenza delle regioni ordinarie, nel caso delle Regioni speciali l’adeguamento dell’ordinamento finanziario ai principi di coordinamento della finanza pubblica passa non solo per la via delle norme di attuazione, ma anche attraverso la modifica statutaria da attuarsi anche essa nel rispetto del metodo dell’accordo e secondo i procedimenti di collaborazione previsti dagli statuti.10 In particolare, ai sensi dell’art. 104 dello Statuto del all’azione di risanamento della finanza pubblica (sentenza n. 416 del 1995 e successivamente, anche se non con specifico riferimento alle Regioni a statuto speciale, le sentenze n. 417 del 2005 e nn. 353, 345 e 36 del 2004) deve essere contemperato e coordinato con la speciale autonomia in materia finanziaria di cui godono le predette Regioni, in forza dei loro statuti (sentenza n. 82 del 2007). In tale prospettiva, la Corte costituzionale ha avuto occasione di affermare, che la previsione normativa del metodo dell’accordo tra le Regioni a statuto speciale e il Ministero dell’economia e delle finanze, per la determinazione delle spese correnti e in conto capitale, nonché dei relativi pagamenti, deve considerarsi un’espressione della descritta autonomia finanziaria e del contemperamento di tale principio con quello del rispetto dei limiti alla spesa imposti dal cosiddetto “patto di stabilità” (sentenza n. 353 del 2004). La Corte nella sentenza n. 82 del 2007 ha affermato che il «metodo dell’accordo», introdotto per la prima volta dall’ [art. 48, comma 26] legge 27 dicembre 1997, n. 449 (Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica), seguito dall’art. 28, comma 15, della legge 23 dicembre 1998, n. 448 (Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo), e riprodotto in tutte le leggi finanziarie successivamente adottate [ dalla legge 23 dicembre 1999, n. 488 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2000), fino alla legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2007)], deve essere tendenzialmente preferito ad altri, dato che «la necessità di un accordo tra lo Stato e gli enti ad autonomia speciale nasce dall’esigenza di rispettare l’autonomia finanziaria di questi ultimi». L’art. 27 della legge 5 maggio 2009, n. 427 (Delega al governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell’art. 119 della Costituzione) prevede, in particolare, che le Regioni a statuto speciale e le Province autonome concorrono al conseguimento degli obiettivi di perequazione e di solidarietà ed all’esercizio dei diritti e doveri da essi derivanti, nonché al patto di stabilità interno ed all’assolvimento degli obblighi posti dall’ordinamento comunitario «nel rispetto degli statuti speciali» e «secondo criteri e modalità stabiliti da norme di attuazione dei rispettivi statuti, da definire, con le procedure previste dagli statuti medesimi» (comma 1); b) alle norme di attuazione statutaria è affidata la disciplina delle «specifiche modalità attraverso le quali lo Stato assicura il conseguimento degli obiettivi costituzionali di perequazione e solidarietà per le regioni a Temi Romana 39 Saggi za pubblica ha trovato sanzione legislativa, attraverso leggi ordinarie (rinforzate) volte a modificare le disposizioni statutarie in materia di ordinamento finanziario. In particolare, in attuazione del processo di riforma in senso federalista contenuto nella legge delega n. 42 del 2009, con legge ordinaria “rinforzata” (ovvero adottata ai sensi dell’art. 104 dello Statuto del Trentino-Alto Adige su concorde richiesta dello Stato e della Regione e delle Province) del 23 dicembre 2009, n. 191, art. 2, commi 106-126, si è proceduto a sostituire il Titolo VI (Finanza della regione e delle province) dello Statuto speciale della Regione Trentino-Alto Adige, delineando un nuovo sistema di relazioni finanziarie tra lo Stato, la Regione e le Province autonome. L’autonomia finanziaria della Regione Trentino-Alto Adige/Südtirol è disciplinata dal Titolo VI dello statuto speciale e, con disposizioni non unilateralmente derogabili dal legislatore statale, dalle relative norme di attuazione introdotte dai decreti legislativi n. 266 del 16 marzo 1992 (Norme di attuazione dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige concernenti il rapporto tra atti legislativi statali e leggi regionali e provinciali, nonché la potestà statale di indirizzo e coordinamento) e n. 268 del 16 marzo 1992 (Norme di attuazione dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige in materia di finanza regionale e provinciale) nonché dalla legge 30 novembre 1989, n. 386 (Norme per il coordinamento della finanza della Regione Trentino-Alto Adige e delle Province autonome di Trento e di Bolzano con la riforma tributaria). (sentenza n.190 del 2008). Negli articoli che vanno da 69 a 86 dello statuto speciale sono regolati i rapporti finanziari tra lo Stato, la Regione e le Province autonome, comprese le quote di compartecipazione ai tributi erariali. Inoltre, il primo comma dell’art. 104 dello stesso statuto stabilisce che « Fermo quanto disposto dall’articolo 103 le norme del titolo VI e quelle dell’art. 13 possono essere modificate con legge ordinaria dello Stato su concorde richiesta del Governo e, per quanto di rispettiva competenza, della regione o delle due province». Il richiamato art. 103 prevede, a sua volta, che le modifiche statutarie debbano avvenire con il procedimento previsto per le leggi costituzionali. Dalle disposizioni citate si deduce che l’art. 104 dello statuto speciale, consentendo una modifica delle norme relative all’autonomia finanziaria su concorde richiesta del Governo, della Regione o delle Province, introduce una deroga alla regola prevista dall’art. 103, che impone il procedimento di revisione costituzionale per le modifiche statutarie, abilitando la legge ordinaria a conseguire tale scopo, purché sia rispettato il principio consensuale. (sentenza n. 133 del 2010). Trentino-Alto Adige, « Fermo quanto disposto dall’art. 103 le norme del Titolo VI (Finanza della Regione e delle Province) e quelle dell’art. 13 possono essere modificate con legge ordinaria dello Stato su concorde richiesta del governo e, per quanto di rispettiva competenza, della regione o delle due province». L’art. 63, quinto comma, dello Statuto del FriuliVenezia Giulia recita: «Le disposizioni contenute nel titolo IV (Finanze, Demanio e patrimonio della Regione) possono essere modificate con leggi ordinarie, su proposta di ciascun membro delle Camere, del governo e della regione e in ogni caso, sentita la regione». L’art. 50, quinto comma, dello Statuto Valle d’Aosta «Entro due anni dall’elezione del Consiglio della Valle, con legge dello Stato, in accordo con la Giunta regionale, sarà stabilito, a modifica degli artt. 12 e 13 (disposizioni in materia di ordinamento finanziario) un ordinamento finanziario della regione». L’art. 54, quinto comma, dello Statuto Sardegna:«Le disposizioni del Titolo III (Finanze, Demanio e patrimonio) del presente statuto possono essere modificate con leggi ordinarie della Repubblica su proposta del governo o della regione; in ogni caso sentita la regione». Analoga disposizione non è contenuta nello statuto della Regione Sicilia. In questo quadro si collocano gli Accordi siglati tra tre delle Regioni speciali e lo Stato tra il 2009 e il 2010. Nello specifico, il primo ad essere siglato è stato il c.d. «Accordo di Milano» stipulato il 30 novembre 2009 tra il Governo e le Province autonome di Trento e di Bolzano. Successivamente, il 29 ottobre 2010, è stato siglato il protocollo d’intesa tra Governo e Regione Friuli-Venezia Giulia ed, infine, l’11 novembre dello stesso anno, quello con la Valle d’Aosta. Al di là dei contenuti (specifici per ciascuna regione), tali Accordi dal punto di vista procedurale seguono lo stesso percorso. I contenuti sono, infatti, confluiti , il primo (siglato dal Trentino-Alto Adige) nella legge n. 191 del 2009 (art. 2, commi 107 e 125) (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2010); gli altri due, nella legge n. 220 del 2010 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge di stabilità 2011), art. 1, commi 151-159 (Accordo siglato dal Friuli-Venezia Giulia) e commi 160-164 (il testo siglato dalla Valle d’Aosta). Dunque, prima ancora che tradursi nelle norme di attuazione, la definizione bilaterale delle misure da assumere per gli obiettivi di coordinamento della finan40 Temi Romana Saggi za legislativa concorrente a competenza esclusiva dello Stato? Il disegno di legge di revisione costituzionale (“Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del Titolo V della parte seconda della Costituzione”) – testo approvato dal Consiglio dei ministri del 31 marzo 2014 – reca – tra l’altro – disposizioni concernenti la revisione del Titolo V della Parte seconda della Costituzione. Il progetto di revisione del Titolo V – finalizzato a garantire un effettivo bilanciamento tra interessi nazionali, regionali e locali nonché politiche di programmazione territoriale coordinate con le ampie scelte strategiche a livello nazionale – prevede: 1) il superamento dell’attuale frammentazione delle competenze legislative tra Stato e Regioni; 2) l’introduzione di una “clausola di supremazia”, in base alla quale la legge statale, su proposta del Governo, può intervenire su materie o funzioni che non sono di competenza legislativa esclusiva dello Stato, se lo richiede la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica o lo rende necessario la realizzazione di programmi o di riforme economico-sociali di interesse nazionale; 3) l’introduzione della possibilità per lo Stato di delegare, anche temporaneamente, alle Regioni la funzione legislativa nelle materie di propria competenza esclusiva, salvo alcune eccezioni; 4) il riordino dei criteri di riparto della potestà regolamentare. Le linee direttrici del progetto di riforma contemplano – tra l’altro – l’eliminazione delle competenze legislative “concorrenti” nonché la conseguente ridefinizione delle competenze “esclusive” dello Stato e di quelle “residuali” delle Regioni. Con particolare riferimento alla materia del «coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario», la stessa andrebbe ad integrare l’elenco delle materie e delle funzioni di competenza statale “esclusiva”. Da qui, in prospettiva, la possibile fine di tutto quel contenzioso costituzionale volto a stabilire, in materia, i difficili margini tra legislazione c.d. di principio e legislazione c.d. di dettaglio. Nei rapporti finanziari tra lo Stato, le Regioni speciali e le Province autonome, la giurisprudenza costituzionale sembra essere orientata a ritenere il metodo dell’accordo non già come prima lo strumento tendenzialmente preferito ad altri (sentenza n. 82 del 2007) ma «ormai lo strumento consolidato (in quanto già presente nella legge 27 dicembre 1997, n. 449, recante «Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica» e poi confermato da tutte le disposizioni che si sono occupate successivamente della materia) per conciliare e regolare in modo negoziato il doveroso concorso delle Regioni a statuto speciale alla manovra di finanza pubblica e la tutela della loro autonomia finanziaria, costituzionalmente rafforzata (ex plurimis, sentenza n. 353 del 2004)» (sentenza n. 118 del 2012). In tal senso, si vedano anche le sentenze n. 241 del 2012; 215 del 2012 e n. 193 del 2012, n. 178 del 2012. Da ultimo, si è però precisato che la procedura concertata non è costituzionalmente necessitata e che può essere derogata in particolari contesti di grave crisi economica. In particolare, nella sentenza n. 23 del 2014, la Corte ha affermato che l’invocato art. 27 della legge n. 42 del 2009, di attuazione del federalismo fiscale previsto dall’art. 119 Cost., pur ponendo «una vera e propria “riserva di competenza alle norme di attuazione degli statuti” speciali per la modifica della disciplina finanziaria degli enti ad autonomia differenziata (sentenza n. 71 del 2012), così da configurarsi quale autentico presidio procedurale della specialità finanziaria di tali enti» (sentenza n. 241 del 2012), ha il rango di legge ordinaria, in quanto tale derogabile da atto successivo avente la medesima forza normativa. Ne consegue che, specie in un contesto di grave crisi economica [quale quello in cui si è trovato ad operare il legislatore] esso possa discostarsi dal modello consensualistico nella determinazione delle modalità del concorso delle autonomie speciali alle manovre di finanza pubblica (sentenza n. 193 del 2012), fermo restando il necessario rispetto della sovraordinata fonte statutaria (sentenza n. 198 del 2012). 4. La materia del «coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario»: da competen_________________ 1 Comma così modificato dalla lettera b) del comma 1 dell’art. 3, L.Cost. 20 aprile 2012, n. 1. Le disposizioni di cui alla citata L.Cost. n. 1/2012 si applicano, ai sensi di quanto disposto dal comma 1 dell’art. 6 Temi Romana della stessa, a decorrere dall’esercizio finanziario relativo all’anno 2014; in dottrina, da ultimo, G.L. TOSATO, La riforma Costituzionale sull’equilibrio di bilancio alla luce della normativa dell’unione: l’in- 41 terazione fra i livelli europeo e interno, in Rivista di Diritto Internazionale, fasc. 1, 2014, p. 5. 2 In dottrina, sul tema, M. BELLETTI, Forme di coordinamento della finanza pubblica e Saggi incidenza sulle competenze regionali. Il coordinamento per principi, di dettaglio e “virtuoso” ovvero nuove declinazioni dell’unità economica e dell’unità giuridica, in www.issirfa.cnr.it., 2013; M. BARBERO, Rassegna della giurisprudenza costituzionale in materia di diritto tributario, diritto pubblico dell’economia e finanza pubblica (gennaio-giugno 2013), in Rivista di Diritto Finanziario e Scienza delle Finanze, fasc. 2, 2013, p. 212; G. AMOROSO, Rassegna delle sentenze dichiarative di illegittimità costituzionale dell’anno 2012 - con particolare riguardo al paragrafo 22. Principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica (art. 117, terzo comma, Cost.), Giust. civ., fasc. 1, 2013, p. 3. 3 Nella sentenza n. 36 del 2004, la Corte ha affermato che «È ben vero che, stabilito il vincolo alla entità del disavanzo di parte corrente, potrebbe apparire superfluo un ulteriore vincolo alla crescita della spesa corrente, potendo il primo obiettivo conseguirsi sia riducendo le spese, sia accrescendo le entrate. Tuttavia il contenimento del tasso di crescita della spesa corrente rispetto agli anni precedenti costituisce pur sempre uno degli strumenti principali per la realizzazione degli obiettivi di riequilibrio finanziario, ed infatti esso è indicato fin dall’inizio fra le azioni attraverso le quali deve perseguirsi la riduzione del disavanzo annuo (cfr. art. 28, comma 2, lettera b, della legge n. 448 del 1998, nonché art. 28, comma 2 bis, della stessa legge, aggiunto dall’art. 30, comma 8, della legge n. 488 del 1999). Non può dunque negarsi che, in via transitoria ed in vista degli specifici obietti- vi di riequilibrio della finanza pubblica perseguiti dal legislatore statale, quest’ultimo possa, nell’esercizio non irragionevole della sua discrezionalità, introdurre per un anno anche un limite alla crescita della spesa corrente degli enti autonomi, tenendo conto che si tratta di un limite complessivo, che lascia agli enti stessi ampia libertà di allocazione delle risorse fra i diversi ambiti e obiettivi di spesa.». 4 Nella sentenza n. 139 del 2012, la Corte costituzionale, nel valutare la legittimità della disciplina dettata dall’art. 6 del D.L. n. 78 del 2010 ha affermato: «L’art. 6 citato «consente un processo di induzione che, partendo da un apprezzamento non atomistico, ma globale, dei precetti in gioco, conduce all’isolamento di un principio comune» (sentenza n. 182 del 2011). In base a tale principio, le Regioni devono ridurre le spese di funzionamento amministrativo di un ammontare complessivo non inferiore a quello disposto dall’art. 6 per lo Stato. Ne deriva che il medesimo articolo «non intende imporre alle Regioni l’osservanza puntuale ed incondizionata dei singoli precetti di cui si compone e può considerarsi espressione di un principio fondamentale della finanza pubblica» (sentenza n. 182 del 2011). 5 In dottrina, F. STRADINI, Autonomia impositiva delle Regioni a statuto speciale: il riconoscimento costituzionale e l’erosione del primato tra Corte costituzionale e diritto comunitario, in Rivista di Diritto Tributario, fasc. 12, 2013, p. 1201. 6 L’art. 48, comma 2, della legge n. 449 del 1997 ha previsto che le Regioni a statuto 42 speciale e le Province autonome concorressero agli obiettivi di stabilizzazione finanziaria secondo criteri e procedure stabilite d’intesa tra il Governo e i presidenti delle giunte regionali e provinciali nell’ambito delle procedure previste negli statuti e nelle relative norme di attuazione. 7 Sul tema, C. TUCCIARELLI, La legge n. 42/ 2009: oltre l’attuazione del federalismo fiscale, in Riv. dir. trib., fasc. 1, 2010, p. 61; A. GIOVANARDI, Il riparto delle competenze tributarie tra giurisprudenza costituzionale e legge delega in materia di federalismo fiscale, in Riv. dir. trib., fasc. 1, 2010, p. 29. 8 Si veda, la sentenza n. 353 del 2004, nella quale si afferma che il coinvolgimento delle Regioni speciali nel patto di stabilità interno avviene tenendo conto delle particolari modalità individuate dalle relative disposizioni legislative ovvero d’intesa tra il Governo e i presidenti delle Giunte. 9 In tal senso, L. CAVALLINI CADEDDU, “Indicazioni giurisprudenziali per il coordinamento dinamico della finanza pubblica”, in www. federalismi.it, 1; Corte costituzionale e coordinamento dinamico della finanza pubblica, in L. CAVALLINI CADEDDU (a cura di), Il coordinamento dinamico della finanza pubblica, Napoli 2012. 10 G. PERNICIARO, Le fonti dell’autonomia finanziaria delle regioni speciali. “Prima” dei decreti legislativi di attuazione: gli accordi bilaterali, in M. CARTABIA, E. LAMARQUE, P. TANZARELLA (a cura di), Gli atti normativi del Governo, tra Corte costituzionale e giudici, Torino 2011, pp. 427-436. Temi Romana Saggi Criteri d’individuazione del titolare della qualifica soggettiva nell’ambito delle organizzazioni complesse e operatività della delega di funzioni, con particolare riferimento alla responsabilità di Amministratori e Sindaci di società Parte I – Delega di funzioni, teorie e criteri Francesca Zignani Avvocato N ell’ambito delle c.d. organizzazioni complesse uno dei problemi di maggior rilievo, sotto il profilo del diritto penale, concerne l’accertamento in ordine ai criteri che presiedono all’attribuzione della responsabilità in capo alle persone fisiche, che al loro interno vi operano. La problematica trae origine dalla circostanza che tali organizzazioni (società, enti pubblici, le associazioni e ogni altra entità anche non personificata) sono caratterizzate da una complessa distribuzione e ripartizioni di compiti e funzioni, le quali possono essere attribuite in via originaria o a titolo derivativo, ed il cui omesso o inesatto assolvimento può determinare la lesioni di beni presidiati dalla sanzione penale. La soluzione del problema è contesa tra l’esigenza, da un lato, di evitare che la ripartizione dei compiti e delle funzioni suindicati si riverberi negativamente sul principio di inderogabilità del precetto penale – mediante l’oscuramento dei meccanismi di individuazione dei soggetti responsabili dei fatti di reato – e quella, dall’altro, tesa ad evitare l’adozione di soluzioni che implichino forme di responsabilità c.d. “di posizione”, contrarie al principio di legalità. In effetti, da alcuni si ritiene che la tematica della delega di funzioni si sovrapponga a quella della ripartizione di funzioni all’interno di organizzazioni articolate. In realtà, si tratta di un falso problema o di una prospettiva errata: un conto è individuare, infatti, le persone fisiche che, all’interno di questi organismi, sono titolari dei poteri, dai quali deriva la loro responsabiliTemi Romana tà in caso di violazione dei doveri inerenti la loro funzione. Altra cosa è la delega di funzioni, concernente un momento temporale successivo e, cioè, la facoltà dei titolari di attribuire, ad altre persone fisiche, le loro funzioni, da cui possono derivare, per le ipotesi di eventi di danno o di pericolo, forme di responsabilità. Nel primo caso, si parla di assunzione a “titolo originario”, mentre nel secondo, l’assunzione avviene a “titolo derivativo”; solo in questa ipotesi siamo in presenza di una delega o di un trasferimento di funzioni. La distinzione chiarisce anche la differenza, per gli enti collettivi, tra l’agire per conto dell’ente e l’agire per conto di altra persona fisica; sebbene, in entrambi i casi, colui che viene investito delle funzioni assume una posizione di garanzia e, perciò, l’obbligo giuridico di impedire eventi dannosi1. Un primo obiettivo è quello di individuare i soggetti sui quali, all’interno dell’organizzazione complessa, incombe in via originaria l’obbligo giuridico di attivarsi, al fine evitare eventi dannosi a beni penalmente tutelati. Successivamente occorrerà affrontare, invece, la tematica della delega di funzioni (in senso stretto) ossia, della procedura mediante la quale l’originario titolare della posizione di garanzia trasferisce tale posizione ad altro soggetto, operante all’interno della medesima struttura complessa. Con riferimento alla delega si è posto, soprattutto in passato, il problema: a) della ralativa ammissibilità, b) delle condizioni nonché c) degli effetti che l’atto determina sotto il profilo della respon43 Saggi sabilità penale. Attualmente, gli interrogativi predetti trovano, per vero, agevole soluzione interpretativa in virtù della disciplina normativa di cui al D.Lgs. 8-408, n. 812, sebbene settoriale, della delega di funzioni. Ulteriore elemento d’indagine è costituito dalla successione nella posizione di garanzia che si verifica quando il garante dismette la propria posizione di garanzia, non per effetto di delega, ma per vicende diverse come, ad esempio, l’ipotesi di avvicendamento dei ruoli di vertice, a seguito di cessione dell’azienda. In particolare, in tali contesti si pone il quesito se e a quali condizioni, al soggetto che abbandona la condizione di garante possa nondimeno essere mosso un addebito di responsabilità penale, per un evento occorso dopo la dismissione della relativa posizione di garanzia e l’avvenuta assunzione di questa da parte del subentrato. Prima di procedere nell’esame dei vari profili appena evidenziati, sono doverose alcune considerazioni di premessa. Deve darsi atto che, dopo alcuni decenni, nei quali da più parti è stata invocata l’introduzione di una regolamentazione normativa della delega (o del trasferimento) di funzioni, il legislatore ha provveduto con la normativa poco sopra menzionata, limitando il suo intervento al settore della sicurezza del lavoro: l’art. 16, del D.Lgs. 8-4-08, n. 81, ha contemplato una disciplina organica della delega di funzioni. Fino al 1996 l’analisi della tematica e della connessa regolamentazione applicativa erano frutto dell’elaborazione giurisprudenziale e dottrinale, che rifletteva la problematicità insita nelle ipotesi di trasferimento della responsabilità penale. La complessità dell’indagine si coglie nella circostanza che molto spesso i reati che vengono in rilievo (ad es., quelli concernenti la prevenzione antifortunistica), hanno carattere di reati “propri” e ciò pone problemi di non facile soluzione, soprattutto, per quanto riguarda la scissione tra titolarità della qualifica e svolgimento della funzione da parte di chi questa qualifica non possiede. Il titolare della qualifica, atta a configurare il “reato proprio”, assurge a garante dei beni, che con l’incriminazione s’intendono presidiare, nel senso che è tenuto, per non incorrere nella responsabilità penale ex art. 40, cpv, c.p., ad agire mediante la predisposizione di una serie di accorgimenti specifici, deputati ad evitare la lesione di quei beni o, comunque, ad evitare che ne aumenti il rischio di lesione, oltre la soglia del consentito. Inoltre, possono dirsi superati i contrasti sull’ammissibilità del concorso dell’estraneo nel reato proprio mentre perdura, tra gli studiosi, il contrasto tra chi propende per inquadrare il problema della delega (anche) a livello della tipicità del reato e quelli che lo risolvono (solo) sul piano della colpevolezza. Il settore nel quale la delega di funzioni ha avuto la più amplia applicazione è quello della sicurezza nei luoghi di lavoro, la cui tematica è stata per la prima volta presa in considerazione dall’art. 1, comma 4 ter del D.Lgs. 19-9-94, n. 6263; tuttavia, la reticenza del legislatore a disciplinare la materia emerge evidente dalla circostanza che la norma non indica le funzioni “delegabili”, bensì limita la statuizione solo a quelle “non delegabili”. Nella sfera della pubblica amministrazione l’istituto della delega ha trovato positivo riconoscimento con l’entrata in vigore del comma 1 bis4 dell’art. 17 D.Lgs.165/015, che ha espressamente previsto la facoltà, per i dirigenti, di delegare alcune competenze a dipendenti che ricoprano, nell’ambito degli uffici, le posizioni più elevate. La nuova disciplina, essendo limitata alla materia della tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, non può essere automaticamente estesa ad altri settori, nei quali la problematica qui in esame assume particolare rilievo – ai quali continueranno ad applicarsi, dunque, i principi che di seguito verranno illustrati – sebbene pare evidente che l’interprete debba comunque tener conto delle indicazioni del legislatore nel settore nel quale la delega di funzioni ha avuto maggiore applicazione. Va ancora precisato che l’indagine de qua concerne la sola responsabilità penale dei deleganti e dei delegati, non, invece, la responsabilità dell’ente introdotta dal D.Lgs. 8-6-01, n. 231 (ed estesa, dall’art. 9 l. 3-8-07, n. 123 ai reati di omicidio colposo e lesioni personali gravi e gravissime commessi con violazione della normativa antifortunistica). Su tale aspetto, deve soltanto osservarsi che, il titolo di riferibilità della responsabilità all’ente – previsto dagli artt. 6 (nel caso di reati commessi da persone che ricoprono posizioni apicali) e 7 (nel caso di reati commessi da soggetti sottoposti 44 Temi Romana Saggi all’altrui direzione) del D.Lgs. 231/01 – deve essere considerato, nel caso di delega di funzioni, quello previsto dall’art. 7, dovendo il delegato ordinariamente considerarsi sottoposto all’altrui direzione. Un’ultima premessa: la delega di funzioni si ha solo se al delegato vengono attribuiti poteri originariamente spettanti al delegante; non se il “delegato” era già titolare di tali obblighi. È salva la possibilità che al garante primario (per es. ad un dirigente) vengano attribuite, da parte di altro garante (per es. datore di lavoro), ulteriori funzioni con lo strumento della delega. Delineati gli aspetti più rilevati dell’indagine in argomento, conviene considerare analiticamente ciascuno di essi. Con riferimento al primo aspetto, quello cioè dell’originaria assunzione della posizione di garanzia, l’individuazione del garante, nell’ambito delle organizzazioni complesse, non è d’immediata percezione: può non essere semplice stabilire chi sia, in concreto, il datore di lavoro, chi l’amministratore e chi il dirigente preposto ad uno specifico settore. Ad un tal proposito sono tre le teorie elaborate dalla dottrina: la teoria “formale”, quella “funzionalista” e la teoria “organica”: ciascuna di esse tenta di individuare, all’interno della collettività indifferenziata, il soggetto in capo al quale addebitare la responsabilità per il reato omissivo improprio. La teoria formalista ritiene che occorra considerare il solo dato formale: sarà titolare della qualifica soggettiva della posizione di garanzia chi è nominalmente indicato come tale negli atti pubblici, aventi rilevanza esterna. La tesi è criticata in quanto rischia di generare ipotesi di responsabilità “di posizione”, da considerarsi estranee al nostro ordinamento giuridico, ispirato ad un “diritto penale del fatto”. La teoria funzionalista ritiene che le posizioni di garanzia siano individuate in base alla funzione effettivamente svolta nell’ambito della struttura dal soggetto titolare della qualifica soggettiva contemplata dalla norma incriminatrice. Rileva, non tanto l’attribuzione formale della qualità soggettiva, quanto lo svolgimento delle mansioni oggettive tipiche della qualifica apicale e/o dirigenziale ricoperta. Anche tale tesi, è stata oggetto di specifiche censure poiché, è stato osservato, è ben possibile che il soggetto, il quale svolga le funzioni tipiche di Temi Romana una determinata qualifica (astrattamente idonea ad integrare i presupposti del reato), non sia in possesso di poteri tali da impedire, di fatto, gli eventi dannosi che si pretende di addebitargli. Pertanto, non può essere gravato dall’obbligo di impedire un fatto, che egli non ha il potere (effettivo) di impedire. Alla luce di quanto sinora evidenziato, tende ad affermarsi la teoria organica, la quale attribuisce rilevanza alla ripartizione dei compiti, come effettuata dall’organigramma aziendale, ossia all’atto interno che delinea la struttura organizzativa dell’ente. Per tale teoria, il titolare della qualifica, non va individuato sulla base di un criterio formale o sostanziale puro, ma in base ad un criterio misto, che coniuga entrambi i criteri. La soluzione, soddisfa al meglio le esigenze sottese al principio della responsabilità penale personale sancito dall’art. 27 Cost.. Deve precisarsi, inoltre, che la problematica in argomento non si pone in tutti quei casi in cui il legislatore, nel tipizzare talune fattispecie di reato, identifica esattamente, ora sposando la teoria funzione ora quella organica, il titolare della posizione di garanzia. In materia di reati societari, ad esempio, è equiparato all’amministratore il soggetto che, pur senza esserlo da un punto di vista formale, esercita, di fatto, le funzioni tipiche di detta qualifica. Parimenti accade con riferimento al Testo Unico in materia di sicurezza sul lavoro, come modificato dal D.Lgs. 81/08, ove il datore di lavoro è identificato nel soggetto tenuto a garantire la sicurezza e la salute dei lavoratori, e specificando che è considerato tale, non solo chi risulta formalmente titolare del rapporto, ma anche chi abbia “poteri decisionali o di spesa”, che gli consentano di adottare tutte le misure necessarie ad impedire la verificazione di eventi dannosi o pericolosi a carico dei lavoratori. In sostanza, è il principio di effettività che consente di discriminare tra mera qualitas formale e sostanziale esercizio dei poteri discendenti dalla posizione di garanzia. Peraltro, il principio di effettività ha ricevuto un’importante riscontro normativo nell’art. 2 D.Lgs. 81/08 – che fa riferimento alla circostanza che il datore di lavoro esercita i poteri decisionali e di spesa – e, soprattutto, nell’art. 299 significativamente titolato “esercizio di fatto di poteri direttivi”, il quale ha espressamente disposto che le posizioni di garanzie relative ai sogget- 45 Saggi ri di quello originario; con la successione viene meno, invece, ogni potere del cedente, che non ha più alcun obbligo di protezione e controllo e perde, altresì, ogni potere impeditivo nonché pure gli obblighi di vigilanza. Pertanto, se il cedente, o precedente garante perde definitivamente la qualità, che fonda l’obbligo di garanzia, si fuoriesce dal tema della delega. Pure nel caso di successione nelle posizioni di garanzia si pongono problemi analoghi (per il cedente e cessionario) a quelli della coesistenza di responsabilità tra delegante e delegato. Può osservarsi che se il cedente ha eliminato le fonti di pericolo – o le ha adeguatamente contenute nel rispetto delle regole cautelari preventive – nessun addebito potrà essergli mosso, nel caso di eventi dannosi ricollegabili a violazioni, successivamente verificatesi, di regole cautelari. Se, al contrario, il cedente non ha eliminato le fonti di pericolo – o non le ha contrastate adeguatamente in violazione delle regole cautelari – si pone il problema del perdurare della sua responsabilità; problema che la giurisprudenza di legittimità ha sempre risolto positivamente, fin dalla sentenza sul disastro di Stava del 1990, con orientamento ribadito successivamente, escludendo che il cedente possa fare affidamento sulla condotta del cessionario diretta ad eliminare le fonti di pericolo. Al fine di escludere la continuità delle posizioni di garanzia, è necessario, dunque, che il garante sopravvenuto, abbia posto nel nulla le situazioni di pericolo create dal predecessore, eliminandole o modificandole, in modo tale che non possano essere più attribuite al precedente garante. Tale orientamento non è condiviso da parte della dottrina che, in particolare, evidenzia che il cedente non ha più il controllo sui mezzi impeditivi dell’evento e, quindi, l’evento medesimo non potrebbe essere da lui evitato. Permarrebbe, invece, in capo al cedente un obbligo informativo dell’esistenza delle fonti di pericolo che, se non adempiuto, determinerebbe la sua responsabilità colposa. Tuttavia, può osservarsi che il venir meno dei poteri impeditivi dell’evento non esclude, come è di intuitiva evidenza, il rapporto di causalità materiale, ove si accerti che la condotta ha avuto efficienza (con)causale sul verificarsi dell’evento. ti di cui all’art. 2, co. 1, lett. b), d) ed e) gravano pure su colui che, pur sprovvisto di regolare investitura, eserciti in concreto i poteri giuridici riferiti a ciascuno dei soggetti ivi definiti. I soggetti indicati nelle lettere b), d) ed e) sono il datore di lavoro, il dirigente ed il preposto. Individuato il garante primario, sulla base dei sopradetti criteri, è possibile, in presenza di tutti gli altri presupposti (anche soggettivi) del reato, compiuto nel contesto aziendale, muovergli un addebito, ai sensi dell’art. 40, cpv, c.p., di responsabilità penale, eventualmente anche a titolo di concorso omissivo. Tuttavia, la norma non esclude l’applicazione di principi formali per l’individuazione delle posizioni di garanzia, come è evidente dall’uso dell’avverbio “altresì”, che fa ritenere tenuti all’applicazione delle misure di prevenzione, anche coloro che sono investiti, originariamente o per delega espressa, dei relativi poteri e non solo coloro che di fatto dispongono di questi poteri. È da sottolineare che il principio di effettività è stato esteso anche alla responsabilità penale degli enti, poiché l’art. 6 D.Lgs. n. 231 del 2001 individua, per la responsabilità dell’ente, anche i reati commessi nel suo interesse, “da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo” dell’ente medesimo. Un’analoga evoluzione si è avuta anche nell’attività delle pubbliche amministrazioni, nelle quali la qualità di datore di lavoro può oggi essere assunta (art. 2, comma 1, lett. b, D.Lgs. n. 81 del 2008) dal “dirigente al quale spettano i poteri di gestione” ovvero dal “funzionario non avente qualifica dirigenziale ... dotato di autonomi poteri decisionali e di spesa”. Estranea all’istituto della delega di funzioni è anche la successione nelle posizioni di garanzia, che si verifica in presenza di un trasferimento del bene (per es. l’azienda), o della situazione giuridica (per es. una carica sociale) o di fatto (per es. l’affidamento della persona protetta), che fonda un obbligo di protezione o di controllo. Per vero, anche nel caso di successione, si pone il problema di individuare il destinatario degli obblighi nonché di accertare chi fosse tenuto al loro rispetto nel caso di obblighi perduranti nel tempo. Con la delega o trasferimento di funzioni s’individua, però, un nuovo garante oppure si incrementano i pote- 46 Temi Romana Saggi Quanto all’elemento soggettivo, l’esistenza dei requisiti per poter configurare la colpa va verificata con criterio ex ante e, quindi, anche l’esigibilità (come l’evitabilità o la prevedibilità dell’evento) deve essere riferita al momento in cui la condotta è posta in essere, con la conseguenza che non può interferire sulla sua esistenza una circostanza di fatto successivamente verificatasi. Non tutti i poteri dell’imprenditore, anche quando assuma la forma societaria, sono delegabili. È stato osservato, ad esempio, che non sono delegabili gli obblighi giuridici di impedire la consumazione dei reati fallimentari e societari, né è delegabile l’aspetto contabile della gestione dell’impresa (salvo gli incarichi meramente esecutivi, che non comportano trasferimento della posizione di garanzia). Più in generale si è affermato che, nel campo della normale attività di gestione dell’impresa, la delega non può incidere sulla titolarità dell’obbligo, dal momento che l’effetto totalmente liberatorio esonererebbe il datore di lavoro da responsabilità strettamente personali, indefettibilmente legate all’attività imprenditoriale, alle quali è possibile sottrarsi solo nel caso di accertata inesigibilità della condotta doverosa. Neppure sarebbero delegabili, secondo un orientamento dottrinale, gli obblighi tributari, in considerazione della natura pubblicistica del rapporto tributario e per la natura personale del suo adempimento. L’art. 17, D.Lgs. n. 81 del 2008, ha ribadito la non delegabilità della valutazione dei rischi, della redazione del relativo documento e della designazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione dai rischi Ciò non significa, però, che tali compiti debbano essere personalmente svolti dal datore di lavoro, il quale potrebbe anche non disporre (e solitamente non dispone) delle necessarie competenze nelle specifiche materie, spesso di elevata complessità tecnica. Pur non potendo delegare queste funzioni, ben potrà attribuire a terzi, idonei e competenti, un “incarico di esecuzione”, il quale, tuttavia, non lo spoglia della posizione di garanzia, essendo sempre a lui formalmente attribuita la funzione non delegabile. La responsabilità per l’atto “resta sua”, dovendo controllare in ogni caso l’operato dell’incaricato. In tal modo, non si perviene ad ipotizzare una responsabilità Temi Romana di tipo oggettivo, giacché sarà sempre necessario accertare la colpevolezza dell’agente. È discusso se la delega possa essere validamente conferita ad un terzo estraneo all’impresa, in possesso delle caratteristiche di idoneità per lo svolgimento dei compiti da cedere in affido. Ad una risposta positiva potrebbe pervenirsi sia perché un divieto in tal senso non è previsto da alcuna norma (ed in particolare dall’art. 16 D.Lgs. n. 81 del 2008), sia perché il divieto contrasterebbe con riconosciuti principi di autonomia dell’attività d’impresa. Tuttavia, il legislatore sembra mostrare una certa diffidenza nell’attribuzione a terzi estranei di compiti relativi alla sicurezza: per es., nel caso degli addetti al servizio di prevenzione e protezione, l’art. 31 D.Lgs. n. 81 del 2008 esclude la possibilità, in determinati casi (comma 6), di ricorrere a persone esterne e, ove consentito, esclude l’esonero di responsabilità del datore di lavoro (comma 5). In ordine alla questione concernente le dimensioni dell’impresa, con più specifico riferimento al tema della delega, la giurisprudenza è stata sino ad oggi prevalentemente orientata nel senso di ritenere valida la delega, solo se giustificata dalle dimensioni dell’impresa e dalla complessità della struttura aziendale. Non sono mancate, però, decisioni che hanno ritenuto valida la delega, anche se le dimensioni dell’impresa non avrebbero giustificato simile conclusione. È stata poi affermata la superfluità della delega nel caso di impresa operante su tutto il territorio nazionale e suddivisa in numerose unità produttive, a ciascuna delle quali erano preposti soggetti qualificati e idonei. L’orientamento giurisprudenziale che richiede, per la validità della delega, la sussistenza di grandi dimensioni dell’impresa è stato fortemente contrastato in dottrina; si è, anzi, sottolineato che proprio il riconoscimento normativo della possibilità di delega (che in precedenza si fondava esclusivamente su una ricostruzione giurisprudenziale) avrebbe implicitamente escluso la necessità di tale requisito. Peraltro, scarsamente razionale dal momento che non sono soltanto le dimensioni a rendere necessario un assetto organizzativo fondato sulla delega, ma, altresì, la natura dell’impresa, la sua dislocazione sul territorio nazionale o all’estero, la tipologia dell’attività d’impresa svolta e altre caratteristiche, che rendano non praticabile una gestione accentrata. 47 Saggi Il legislatore, sia pure solo in relazione al settore della tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, ha risolto il problema in senso negativo. L’art. 16, D.Lgs. n. 81 del 2008, come già più volte accennato, ha introdotto una disciplina completa dell’istituto della delega, richiedendo espressamente una serie di requisiti, anche di natura formale, ma senza che venisse fatta alcuna menzione al requisito delle dimensioni dell’impresa che dunque, in questo settore (ma non esistono ragioni giustificative per risolvere diversamente il problema anche negli altri), non sembra poter essere più preso in considerazione, proprio per la completezza della regolamentazione introdotta. Tra l’altro, in mancanza dell’indicazione dei criteri per individuare quando un’impresa sia da considerare di grandi dimensioni, si attribuirebbe al giudice un’eccessiva discrezionalità valutativa. Non sempre dottrina e giurisprudenza distinguono, in tema dei requisiti di validità ed efficacia della delega, tra caratteristiche che devono esistere inizialmente e quelle che possono influire successivamente sui requisiti anzidetti. Una delega può essere valida ed efficace, infatti, quando è conferita inizialmente. Ma in seguito può perdere la propria efficacia (ad esempio, se il delegante interrompe la corresponsione delle disponibilità necessarie per l’adempimento dell’obbligo di sicurezza o si ingerisce nello svolgimento dei compiti del delegato). Del resto, la delega può essere già inizialmente inefficace allorché, esemplificando ancora, non corrisponda ad un effettivo incarico di funzioni. In relazione, in primis, ai requisiti che devono esistere ab origine, deve osservarsi che il primo presupposto, affinché possa ritenersi valida ed efficace la delega (come già accennato), è costituito dalla necessità che al delegato siano attribuiti i poteri decisionali e di spesa indispensabili per adempiere al compito delegato, nell’ambito dello specifico settore di competenza, oggetto della delega. Il secondo presupposto, per l’esonero da responsabilità, è l’idoneità della persona prescelta. La culpa in eligendo, insita nella scelta della persona cui siano delegati i poteri, ha l’effetto di non esonerare il delegante da responsabilità: l’idoneità del delegato a svolgere i compiti delegati risponde all’esigenza di assicurare l’effettività della delega. Il delegante può fare affida- mento sulla corretta esecuzione dell’incarico solo se il delegato sia persona idonea e adeguata a svolgere il compito affidatogli. Della necessaria esistenza dei suindicati requisiti, richiesti ai fini della sussistenza di una delega valida ed efficace, il legislatore ha tenuto conto. L’art. 16 del D.Lgs. n. 81 del 2008, al comma 1 lett. b), richiede, infatti, che il delegato possegga tutti i requisiti di professionalità ed esperienza richiesti dalla specifica natura delle funzioni delegate. Tali caratteristiche devono perdurare nel tempo, poiché l’evoluzione tecnologica potrebbe condurre a ritenere superate le competenze specifiche del delegato. Da qui l’obbligo, oggi previsto dall’art. 30, comma 4 (espressamente richiamato dall’art. 16, comma 3), di aggiornare, anche per quanto attiene alle deleghe, le misure organizzative dell’impresa. Circa i requisiti di validità ed efficacia della delega, la lett. c) del medesimo comma 1, richiede, inoltre, che la delega “attribuisca al delegato tutti i poteri di organizzazione, gestione e controllo richiesti dalla specifica natura delle funzioni delegate”, mentre la lett. d) rende necessario, infine, che la delega “attribuisca al delegato l’autonomia di spesa necessaria allo svolgimento delle funzioni delegate”. Dunque, se il delegato è posto nell’impossibilità di adempiere ai suoi obblighi di prevenzione, perché il delegante non glielo consente (come avviene quando non gli attribuisce i necessari poteri di organizzazione o non gli fornisce le risorse per approntare le strutture impeditive necessarie, per esempio, per l’acquisto dei mezzi di prevenzione contro gli infortuni sul lavoro), viene meno l’efficacia della delega, con conseguente ri-attribuzione della responsabilità al delegante. I temi della forma della delega e della prova della sua esistenza sono tra di loro intrecciati, e riguardano aspetti sostanziali e processuali. La giurisprudenza è stata sino ad oggi orientata per una linea di rigore, derivante dalla necessità di evitare facili scappatoie dalla responsabilità penale, richiedendosi anche che l’esistenza e il contenuto della delega debbano essere provati da chi li deduce. Un orientamento ancor più rigido, da sempre oggetto di critica da parte della dottrina, è quello che richiede la forma scritta della delega, al fine di ritenere verificato il trasferimento di funzioni con esonero da 48 Temi Romana Saggi responsabilità del delegante. La pretesa della forma scritta era, peraltro, in via di superamento nella giurisprudenza di legittimità, sostanzialmente uniforme nel richiedere, non una sorta d’inversione dell’onere della prova, ma un accertamento rigoroso in ordine all’esistenza della delega. Anche il suesposto orientamento non è andato esente da censure, osservandosi che, inerendo la titolarità della funzione al fatto tipico, l’onere di provarla non può che incombere sull’accusa. Invero, pare più opportuno distinguere tra i casi di ripartizione di funzioni all’interno di organizzazioni aziendali complesse (per i quali effettivamente non sembra si possa discostare dagli usuali criteri di ripartizione dell’onere della prova nel processo penale), dai casi di vera e propria delega di funzioni a soggetti estranei ovvero a soggetti che, pur inseriti nell’organizzazione aziendale, non erano originariamente titolari di poteri impeditivi di eventi dannosi o pericolosi. Occorre, altresì, che la delega sia espressa e che il delegato ne accetti il conferimento. Si tratta di un negozio di natura contrattuale, per il quale è richiesto che il soggetto, sul quale viene trasferita la responsabilità (compresa quella penale), esprima coscientemente il suo consenso. La necessità che la delega sia conferita inequivocamente, deriva poi dalla circostanza che consentire deleghe implicite, o non espresse, significherebbe creare posizioni di garanzia “ambigue” non fondate su condotte inequivoche, con la conseguenza del verificarsi dell’incertezza nella traslazione di responsabilità. In quest’ottica, è necessario, inoltre, che pure i poteri delegati siano indicati in modo specifico, proprio per evitare incertezze ed elusioni. Pure sul tema della forma della delega il D.Lgs. n. 81 del 2008 è intervenuto in modo preciso e rigoroso, prevedendo che la delega debba risultare da atto scritto, recante data certa (art. 16 comma 1 lett. a)), e che la stessa sia accettata dal delegato per iscritto (lett. e)). La previsione della forma scritta, che sembra richiesta per la validità della delega (e quindi ad substantiam), potrebbe apparire, in prima battuta, non in linea con il recepimento espresso del principio di effettività operato dagli artt. 2 e 299 D.Lgs. n. 81 del 200. In realtà, non esiste contraddizione tra le due previsioni: una delega non valida, poiché priva dei requisiti di Temi Romana forma, non libera il delegante dai suoi obblighi; ma se il delegato ha operato esercitando, in concreto, i poteri invalidamente trasferitigli, risponderà delle sue condotte. È da precisare che la delega di funzioni non comporta l’automatico trasferimento della responsabilità penale derivante dall’inadempimento dell’incarico. Vi possono essere, infatti, casi nei quali la responsabilità del delegato si “aggiunge” a quella del delegante e può, quindi, parlarsi di responsabilità “concorrenti”. Tali ipotesi, che non riguardano il mero incarico d’esecuzione, possono essere predeterminate dalla legge (ad esempio, il dirigente cui sono attribuiti poteri in materia di prevenzione antinfortunistica che nomina il preposto), ovvero derivare dalla natura dell’incarico o dal contenuto di accordi negoziali. Il delegante continua ad essere titolare di doveri di vigilanza e controllo dell’attività delegata ed, anzi, è stato osservato che questi poteri non sono delegabili, giacché diversamente opinando – ritenendo che non sia obbligato ad intervenire nel caso di disfunzioni dell’organizzazione d’impresa da lui predisposta – l’imprenditore abdicherebbe alla sua stessa funzione. In altri termini, il titolare originario dei poteri impeditivi non può disinteressarsi, una volta che abbia conferito una valida delega, delle modalità con cui i poteri, inerenti a questa delega, vengono esercitati. Vi sono poi casi nei quali il delegante ha un dovere immediato di intervento: ciò si verifica quando abbia notizia dell’inosservanza dei doveri da parte del delegato. Se, al contrario, li tollera qualora costituiscano reato, potrà ipotizzarsi un concorso nel reato doloso e una cooperazione in quello colposo. Ed è stato chiarito che il sorgere dei doveri impeditivi in capo al delegante è ricollegato non alla conoscenza effettiva dell’inadempienza ma alla sua conoscibilità. Il principio di affidamento, cui deve farsi ricorso in queste circostanze, vale, infatti, fino a quando l’affidante non venga a conoscenza – o si crei una situazione in cui colpevolmente non sia venuto a conoscenza – delle inadempienze dell’affidato. Altra ipotesi in cui in capo al delegante può permanere o insorgere successivamente la responsabilità è quella nella quale egli continui (o inizi) ad ingerirsi nella gestione dei compiti attribuiti al delegato. Con l’ingerenza – che deve avere l’effetto di diminuire significa- 49 Saggi tivamente l’autonomia del delegato – il delegante manifesta, infatti, l’intenzione di annullare gli effetti della delega o di restringerne l’ambito applicativo. Anche in tal caso, in cui il delegante ha “riacquistato” le funzioni precedentemente delegate (intervento sostitutivo, omissione del conferimento di risorse, ingerenza), si verifica nei confronti del delegante una sorta di “riattribuzione” di tutti i poteri originariamente conferiti. In ordine ai residui poteri in capo al delegante è intervenuto l’art. 16 D.Lgs. n. 81 del 2008, il cui comma 3 – recependo sostanzialmente i risultati dei riferiti esiti giurisprudenziali – ha precisato che la delega di funzioni non esclude l’obbligo di vigilanza in capo al datore di lavoro circa il corretto espletamento, da parte del delegato, delle funzioni trasferite. La medesima norma impone, con il richiamo ai sistemi di verifica e controllo indicati nell’art. 30, comma 4, del medesimo D.Lgs., un idoneo controllo sull’attuazione del sistema di delega e sul mantenimento nel tempo delle condizioni di idoneità del modello organizzativo adottato. La nuova disciplina ha confermato, dunque, l’obbligo dell’intervento sostitutivo (conseguente a quello di vigilanza), nel caso d’inadempimento degli obblighi gravanti sul delegato. Nulla ha specificamente disposto sull’ingerenza, ma non sembra che possa pervenirsi su questo punto – anche per l’espresso recepimento del principio di effettività – a conclusioni diverse posto che l’ingerenza, come si è visto, pone nel nulla gli effetti della delega. Una delega valida ed efficace, avente ad oggetto funzioni delegabili e perdurante nel senso che non si è verificato alcun caso di inefficacia sopravvenuta, vale ad esonerare il delegante (salvo l’inosservanza del dovere di vigilanza) da ogni responsabilità penale: è il delegato ad assumersi la responsabilità, nel caso di violazione degli obblighi imposti dalla legge. Se la violazione è avvenuta per la ragione che il delegato non ha osservato le prescrizioni impartitegli, non sorge alcun problema: risponderà lui soltanto, nei limiti già indicati. Ci si può chiedere, invece, cosa accada nel caso in cui il delegato osservi le istruzioni del delegante. Trattasi d’ipotesi nella quale deve ritenersi perdurante la responsabilità del delegante: l’aver impartito direttive erronee o difformi da quanto normativamente pre- visto – o più semplicemente in contrasto con generiche regole cautelari – introduce una forma di compartecipazione (dolosa o colposa), da parte del delegante che diviene (o rimane), in prima persona, l’autore della violazione. Inoltre, non è da escludere la responsabilità del delegato. Sotto il profilo causale, vi è la presenza di una concausalità riferibile alla condotta di entrambi i soggetti e non sembra, se si tratta di omissioni, che possa escludersi la posizione di garanzia (derivata) del delegato. Posizione di garanzia che, in questo caso, ha origine contrattuale in virtù dell’accettazione della delega (che oggi deve avvenire per iscritto nelle materie disciplinate dal D.Lgs. n. 81 del 2008: v. art. 16 comma 1 lett. e). Per quanto concerne la colpevolezza varranno gli usuali criteri. In particolare, se la violazione è dolosa dovrà essere accertato che il delegato abbia quanto meno accettato le conseguenze della sua condotta, e non sembrano esistere ostacoli per ritenere l’esistenza del concorso dell’estraneo nel reato proprio. Più complessa è la soluzione nel caso di reati colposi: se si tratta di delitti, la compartecipazione è ipotizzabile nella forma della cooperazione nel delitto colposo (art. 113 c.p.); se trattasi di contravvenzioni – poiché l’art. 113 prevede la cooperazione nel reato colposo solo nel caso di delitti – il problema è di meno agevole soluzione, anche se, in questo caso, può farsi riferimento al concorso di cause colpose indipendenti. Naturalmente dovrà essere verificata l’esistenza – oltre che della violazione di una regola cautelare anche da parte del delegato – di tutti gli altri presupposti, per l’attribuzione della responsabilità a titolo di colpa (esigibilità della condotta; prevedibilità dell’evento; e relativa evitabilità). Un’ultima osservazione, in tema di responsabilità, va svolta in ordine alla posizione del delegato. Come sopra detto, nell’ipotesi di valida delega residua, in capo al delegante, un obbligo di vigilanza, che non è configurabile a carico del delegato. Nel caso di poteri impeditivi “ripartiti”, fra delegante e delegato, l’inosservanza dei medesimi da parte del primo non ha la conseguenza di rendere automaticamente responsabile dell’inadempimento anche il secondo. Il quale, però, qualora l’inadempimento da parte del delegante divenga conosciuto o conoscibile, dovrà rinunziare alla delega, se la situazione è tale da impedirgli 50 Temi Romana Saggi l’adempimento degli obblighi su di lui incombenti. Infine, come già precisato, l’idoneità del soggetto delegato è un presupposto di validità della delega. Ferma restando la responsabilità del delegante, per culpa in eligendo, nei confronti del delegato, potrà configurarsi, nel caso di inidoneità riconoscibile, una responsabilità del delegato per colpa c.d. “per assunzione”, ravvisabile nella condotta di chi assume un compito che non è in grado di svolgere. (FINE PRIMA PARTE – SEGUE) _________________ 1 Ex art. 40, co. 2, c.p.. sicurezza nei luoghi di lavoro. 5 Norme generali sull’ordinamento del 2 Attuazione dell’art. 1 delle l. 3-8-07, n. 127, in materia di tutela della salute e della 3 Aggiunto dall’art. 2, D.Lgs. 19-3-96, n. 242. lavoro alle dipendenze delle amministrazio- 4 Aggiunto dall’art. 2 l. 15-7-02, n. 145. ni pubbliche. Temi Romana 51 Osservatorio legislativo Sulla non equivalenza del credito per retribuzioni e quello di regresso per t.f.r. Antonio Caiafa Avvocato del Foro di Roma - Professore di Diritto Fallimentare Università L.U.M. “Jean Monnet” di Bari SOMMARIO: 1. Premessa – 2. La questione – 3. La soluzione. 1. Premessa La querelle relativa ad una possibile – ma negata dalla dottrina1 e dalla giurisprudenza2 – equivalenza del credito per retribuzioni rispetto a quello vantato dall’Inps, per regresso, per il trattamento di fine rapporto corrisposto, ai sensi dell’art. 2 della legge 29 maggio 1982, n. 297, ha avuto ad oggi una risposta univoca nel senso che la originaria diatriba è stata, per l’appunto, affrontata e risolta nel senso di ritenere, quante volte non sia possibile soddisfare integralmente i crediti collocati al medesimo grado, la concorrenza degli stessi sull’attivo in distribuzione secondo un criterio di proporzionalità. A tale risultato si è pervenuti nella convinzione che una siffatta regola risponde alla esigenza di creare un coordinamento organico tra le disposizioni sulla ripartizione dell’attivo tenendo conto del principio della unicità della graduatoria, sicché i crediti che partecipano al riparto devono rispettare l’ordine delle prelazioni, fissate nel codice civile e nelle relative disposizioni che le riconoscono, attraverso il riconoscimento che il credito ha avuto in sede di accertamento dello stato passivo, atteso che il curatore non può procedere operando alcuna rettifica se non tenendo conto di quel che può accadere successivamente alla intervenuta esecutività per le vicende che possono, in termini soggettivi, comportare delle rettifiche che possono derivare dalle pronunce intervenute in sede di opposizione allo stato passivo, di impugnazione ovvero di revocazione3. La novella non ha apportato particolari modifiche per quel attiene i privilegi se non attraverso la previsione che nel provvedimento, con il quale il giudice ammette un credito al passivo, deve essere anche indicato il relativo grado e, certamente, nel caso dei crediti di lavoro quelli per retribuzioni e per il trattamento di fine rapporto hanno una pari collocazione essendo ad essi rico- nosciuto un diritto di prelazione che si esercita su tutti i beni mobili del debitore per il capitale, le spese e gli interessi “…nei limiti di cui agli artt. 54 e 55 sul prezzo ricavato dalla liquidazione del patrimonio mobiliare, sul quale concorrono in un’unica graduatoria con i crediti garantiti da privilegio speciale mobiliare secondo il grado previsto dalla legge”. Per quanto riguarda il Fondo di garanzia, gestito dall’Inps, questo una volta effettuato il pagamento in favore del lavoratore, per il credito ammesso al passivo, delle ultime tre mensilità delle retribuzioni rimaste insoddisfatte, ovvero per il trattamento di fine rapporto, si surroga di diritto al lavoratore stesso o ai suoi aventi causa nel previlegio di cui all’art. 2751 bis cod.civ. e tale credito concorre con quelli di natura retributiva non garantiti, in quanto esso trova collocazione nella medesima posizione e nello stesso grado di privilegio (art. 2751 bis n. 1 art. 1203 cod.civ. e art. 2 legge n. 297 del 1982). A tale conclusione la dottrina e la giurisprudenza sono pervenute sul presupposto che, invero, i crediti sono previsti dall’art. 2751 bis n. 1, che non opera, con riferimento ad essi, alcuna graduazione e, pertanto, non prevede un ordine di precedenza, sicché i crediti per le retribuzioni dovute al pari di quelli relativi alle indennità maturate, per effetto della cessazione del rapporto di lavoro, non possono che concorrere sull’attivo in sede di ripartizione. 2. La questione Ebbene si tratta di dover verificare se un siffatto argomento possa ritenersi coerente con i principi discendenti dalla direttiva Ce n. 987 del 1980, che ha previsto l’intervento del Fondo di garanzia ed il pagamento dei crediti di lavoro relativi al t.f.r. ed alle ultime tre mensilità di retribuzione quante volte il datore di lavoro sia 52 Temi Romana Osservatorio legislativo stato assoggettato a procedura concorsuale, ovvero nel corso dell’esecuzione individuale il lavoratore non sia riuscito a soddisfare le proprie ragioni di credito. Ebbene, se si considera che la finalità della Direttiva Comunitaria è quella di assicurare, in caso di insolvenza o incampienza, la piena ed integrale attuazione del principio di tutela dei diritti dei lavoratori subordinati, appare logico e coerente ritenere che tale obiettivo deve essere garantito non solo grazie all’accesso, per il lavoratore, al Fondo di garanzia, ma, soprattutto, mediante la posticipazione della soddisfazione del Fondo a quella preventiva dei lavoratori. La soluzione offerta tiene conto della ratio della normativa comunitaria e la proposta interpretazione, a maggior ragione, non può non essere accolta in un ordinamento come quello italiano, nel quale la retribuzione è un diritto costituzionalmente garantito e, come tale, deve essere adeguatamente tutelato. Ne consegue che non è sufficiente una tutela meramente formale, assicurata attraverso l’istituzione del Fondo di garanzia, ma è necessario che, in concreto, i lavoratori subiscano il minor pregiudizio possibile dal dissesto del loro datore di lavoro, ed è in quest’ottica che la Comunità Europea ha vincolato gli Stati Membri ad attuare la richiamata Direttiva. Dunque, sebbene il legislatore italiano ha adempiuto a tale obbligo, il sistema rischierebbe di essere irrazionale, qualora garantisse, da una parte, il lavoratore del recupero, attraverso il Fondo di garanzia, del t.f.r. e delle somme dovute a titolo di retribuzione degli ultimi tre mesi del rapporto di lavoro, e, dall’altra, consentisse al Fondo di concorrere, anche in caso di insufficienza di attivo, con i crediti di lavoro (art. 2782 cod.civ.), creando così un serio e grave pregiudizio nei confronti del lavoratore che, in sostanza, verrebbe ad essere privato della possibilità di ottenere quanto in suo diritto. Tale effetto risulta, evidentemente, contrario alle esigenze di giustizia sociale, poiché verrebbe a fornire la medesima tutela per situazioni sostanzialmente diverse, atteso che non possono essere equiparate le esigenze del lavoratore a vedersi accreditata la somma per il lavoro svolto dal momento che la retribuzione deve assicurare un’esistenza dignitosa (art. 36 Cost.), sicché i crediti ammessi al passivo non possono concorrere con le somme che il Fondo di garanzia abbia erogato surrogandosi nei relativi diritti. Temi Romana Affinché il ragionamento svolto non risulti criptico, e possano essere compresi meglio gli effetti perniciosi derivanti dalla diversa interpretazione ad oggi data dalla giurisprudenza e dalla dottrina, appare sufficiente sottolineare che, nell’ipotesi in cui il Fondo si dovesse surrogare dopo la distribuzione parziale dell’attivo realizzato, per non avere il lavoratore ottenuto sino a quel momento il relativo ammontare, corrispondente al credito ammesso, la somma da questi riscossa, in sede di riparto, verrebbe detratta dall’intero importo riconosciuto indistintamente nello stato passivo e, quindi, verrebbero, attraverso la ripartizione, soddisfatte quelle ragioni creditorie non assicurate dal Fondo. In conclusione, qualora non si accettasse la prospettata soluzione, si rischierebbe di incorrere in una applicazione irragionevole della norma, che deve essere interpretata in modo costituzionalmente orientato. La giurisprudenza ha, a tal riguardo, più volte, riconosciuto che il principio di uguaglianza deve essere inteso come obbligo del legislatore di trattare in modo uguale situazioni in fatto uguali ed in modo non arbitrariamente diverso situazioni in fatto diverse, adeguando la disciplina giuridica ai differenti aspetti della vita sociale ed escludendo, in tale modo, che a situazioni diverse possa essere imposta una identica disciplina legislativa. È, dunque, evidente che al Fondo di garanzia non può essere applicato l’art. 2782 cod.civ., perché, sebbene l’Istituto è previsto possa surrogarsi ex lege al lavoratore nella medesima posizione e medesimo grado del privilegio, di cui all’art. 2751 bis n. 1 cod.civ., non è accettabile che esso concorra con il lavoratore e che venga soddisfatto contestualmente a quest’ultimo poiché tale soluzione risulterebbe essere contraria alle esigenze di giustizia sostanziale. 3. La soluzione La tesi che si intende proporre impone necessariamente una analisi degli argomenti svolti, in senso contrario, dalla giurisprudenza per riconoscere l’assoluta equiparazione processuale e sostanziale tra la posizione del Fondo di garanzia ed i lavoratori ammessi al passivo, attesa la esigenza, prima di ogni altra cosa, di comprendere se, in effetti, le pronunce che spesso vengono richiamate in modo acritico hanno colto la questione e, di conseguenza, se la soluzione che si intende proporre 53 Osservatorio legislativo in ragione di una lettura costituzionalmente orientata della relativa disciplina4, possa essere interpretata nel senso che essa non osta ad una normativa nazionale che abbia inteso garantire i crediti scaduti, per le causali espressamente previste, consentendo che ciò avvenga, qualora non risulta una completa capienza dell’attivo, attraverso la regola del riparto pro quota, e per grado corrispondente, nel rispetto delle rispettive cause di prelazione e del rango assegnato dalla legge, ponendoli in diretto confronto, sicché il risultato possa essere realizzato attraverso un soddisfacimento recessivo degli altri crediti in conseguenza della non ritenuta equiparazione processuale e sostanziale tra la posizione del Fondo di garanzia e quella dei dipendenti ammessi al passivo per altre voci di credito. Vengono richiamate a sostegno della tesi della equivalenza alcune decisioni della Suprema Corte che, come presto vedremo, non sono affatto significative perché possa essere ribaltato il principio discendente dalle modifiche apportate dalla Direttiva 2002/74, che ha attribuito ai legislatori nazionali la possibilità di fissare liberamente la data prima e/o eventualmente dopo la quale si colloca il periodo in cui il pagamento di crediti corrispondenti alle retribuzioni non pagate deve essere posto a carico dall’organismo di garanzia pur non impendendo – con riferimento alle retribuzioni – che il legislatore nazionale possa limitare la garanzia del credito fissando la data a partire dalla quale deve essere calcolato il periodo di riferimento, non avendo, certamente, inteso affermare che ciò possa e debba avvenire a danno degli altri lavoratori che risultino creditori per voci diverse o, altresì, per gli stessi lavoratori che pur vedendo garantito il credito da parte del Fondo nel concorrere con questo, ove l’attivo non consenta l’intero soddisfacimento, vedrebbero erosa quella quota di credito per la quale non è previsto l’intervento dell’organismo di garanzia, con la conseguenza che il Fondo verrebbe ad incidere sulla concreta possibilità di soddisfare i crediti diversi da quelli per i quali la legge 29 maggio 1982, n. 297, lo ha istituito, per il trattamento di fine rapporto, individuando le condizioni per il suo intervento, ed il D.Lgs. 27 novembre 1992, n. 80, lo ha esteso ai crediti di lavoro diversi, ovvero alle ultime tre retribuzioni maturate nell’anno anteriore all’apertura della procedura concorsuale, prevedendo l’art. 2, comma sette, la surroga di diritto “…nel privilegio spettante sul patrimonio del datore di lavoro ai sensi degli artt. 2751 bis e 2776 del codice civile per le somme da esso pagate”, disposizione questa poi espressamente richiamata dall’art. 1 comma tre, del D.Lgs. n.80/1992, a norma del quale “…per le somme corrisposte dal Fondo si applica il disposto di cui al comma settimo, secondo periodo dell’art. 2, legge citata”. Al riguardo, certamente, non è pertinente il richiamo che viene effettuato nei confronti della sentenza pronunciata dalla Suprema Corte con riferimento all’amministrazione straordinaria delle imprese insolventi che, invero, ha inteso affermare un principio relativamente ad una fattispecie – disciplinata dalla legge fallimentare, nel testo anteriore alla novella di cui al D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 – di riparto interno nell’ambito di quella procedura nella quale, correttamente, il giudice del merito aveva escluso che il soddisfacimento dei crediti prededucibili potesse avvenire alla stregua del criterio cronologico del “prior tempore potior in iure”5. La decisione richiamata, difatti, si è preoccupata di affermare un diverso principio volto a garantire che il Fondo, che ha anticipato il t.f.r. ad altri dipendenti ha diritto ad essere pagato, in prededuzione, se tale collocazione, nell’ambito della procedura, spettava al credito dei lavoratori da esso soddisfatta. Non può sfuggire, pertanto, ove si proceda ad una lettura meno acritica della decisione richiamata, che essa ha inteso affermare un diverso principio essendo stato posto all’attenzione della Corte se l’ammissione al passivo del credito del t.f.r., collocato in prededuzione, per effetto del riconoscimento derivante dalla sua equiparazione ai debiti di impresa – disposta dall’art. 4 del D.L. n. 414 del 1981, convertito nella legge n. 544 del 1981 – dovesse avere un trattamento preferenziale rispetto al credito del Fondo di garanzia, gestito dall’Inps, derivante dalla surroga dell’ente previdenziale per il credito pagato ad altri dipendenti ed il cui rapporto, proseguito senza soluzione di continuità con la procedura, era cessato in un momento antecedente. Del pari non può essere di ausilio la diversa decisione richiamata al fine di sostenere che, in caso di concorso dei crediti di lavoro non garantiti, con quelli maturati dal Fondo di garanzia, per le somme erogate in sostituzione del datore di lavoro, questi ultimi non vanno soddisfatti subordinatamente al preventivo soddisfacimen- 54 Temi Romana Osservatorio legislativo to dei primi. E difatti con la richiamata sentenza la Suprema Corte6, ha inteso ribadire un principio, ancora una volta, sostanzialmente diverso che attesta, peraltro, la erroneità della tesi che normalmente si sostiene proprio attraverso il richiamo a tale pronuncia. In tale decisione, nella parte motiva dedicata alla interpretazione della ratio legis, ci si accorge che la Suprema Corte ha cassato il decreto impugnato7 avendo il giudice delegato omesso di considerare il chiaro contenuto dell’art. 2276 cod.civ. che, nel testo sostituito dall’art. 1 della legge n. 297 del 1982, dispone che i crediti relativi al trattamento di fine rapporto, nonché all’indennità di cui all’art. 2118 cod.civ., sono collocati sussidiariamente, in caso di infruttuosa esecuzione sui beni mobili, sul prezzo degli immobili con preferenza rispetto ai crediti chirografari e che, pertanto, i crediti indicati dagli art. 2751 e 2751 bis cod.civ., ad eccezione di quelli indicati al precedente comma, sono anch’essi collocati sussidiariamente, nell’ipotesi in cui l’esito dell’esecuzione sui mobili risulti incampiente, sul prezzo degli immobili, con preferenza sempre rispetto ai crediti chirografari, ma dopo i crediti indicati al primo comma. La Suprema Corte, attraverso il richiamo dell’art. 12 delle preleggi – che stabilisce, al primo comma, che “nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole, secondo la connessione di esse e dalla intenzione del legislatore” – è pervenuta alla conclusione che l’interpretazione letterale costituisce il principale e fondamentale canone di ermeneutica, con la conseguenza, quindi, che quando la portata e l’ambito di applicazione di una norma giuridica siano fatti palesi dal significato proprio dei termini usati nel testo, non è consentito all’interprete discostarsi da esso, quante volte questi risulti chiaro ed inequivoco, attesa la impossibilità di ricorrere ad altri criteri ermeneutici sussidiari per giungere ad un risultato contrastante con il dato letterale e con la volontà del legislatore da esso desumibile. Ed infatti, con il provvedimento cassato, il tribunale non aveva considerato che il legislatore, attraverso la riformulazione dell’art. 2776 cod.civ. aveva inteso, da un lato, contemperare l’interesse dei lavoratori dipendenti a conseguire, in ogni caso, il trattamento di fine Temi Romana rapporto, istituendo a tal fine il Fondo di garanzia gestito dall’Inps e, dall’altro, l’interesse di quest’ultimo a recuperare le somme pagate in sostituzione dell’obbligato inadempiente prevedendo la surrogazione di diritto nei privilegi attribuiti dagli artt. 2751 bis e 2776 cod.civ. ai crediti relativi alle indennità di fine rapporto. La portata della norma è, dunque, estremamente chiara, atteso che, attraverso la disposizione codicistica, introdotta dall’art. 10 della legge 29 luglio 1975, n. 426, per come sostituita dall’art. 1 della legge 29 maggio 1982, n. 297, il legislatore ha inteso disporre che i crediti relativi al trattamento di fine, nel caso di infruttuosa esecuzione sui beni mobili, essi devono trovare collocazione sussidiaria sul prezzo degli immobili “con precedenza rispetto ai crediti chirografari” (in tal senso il primo comma), ma anche prima di tutti gli altri “crediti indicati degli artt. 2751 e 2751 bis” (in tal senso il secondo comma) e, quindi, prima dei crediti per le retribuzioni dovute sotto qualsiasi forma seppur assicurate dal n. 1 dell’art. 2751 bis cod.civ., con ciò dimostrando, in modo inequivoco, di aver inteso riconoscere al Fondo di garanzia il diritto di privilegio, di cui all’art. 2776 cod.civ. e, dunque, tutelare il credito dell’Inps riconoscendogli una particolare efficacia consentendo che ad esso vengano posposti gli altri crediti retributivi. Nel caso esaminato, dunque, dalla Suprema Corte il giudice del merito aveva ritenuto, erroneamente, dover essere l’attivo realizzato utilizzato al fine di soddisfare le ragioni creditorie retributive e, quindi, successivamente quelle del Fondo che aveva erogato il t.f.r. che, al contrario, con riferimento al ricavato dalla vendita dei beni immobili, una volta risultata infruttuosa la soddisfazione dell’attivo realizzato dalla alienazione di quelli mobili, in ragione della operata rivisitazione dell’art. 2776 cod.civ., doveva necessariamente prevalere sulla distribuzione degli altri crediti, derivanti dal rapporto di lavoro subordinato in quanto ad essi posposti. Ed allora è facile comprendere come da tale enunciazione non può ricavarsi alcuna indicazione per ritenere che il credito del Fondo, maturato per la erogazione del t.f.r., e gli eventuali crediti di natura retributiva dei lavoratori dipendenti dell’impresa fallita, siano collocati nella stessa posizione e nello stesso grado di privi- 55 Osservatorio legislativo legio, derivando dalla richiamata decisione l’esatto contrario ovvero che il credito per il t.f.r. anticipato debba essere soddisfatto attraverso il ricavato dalla vendita dei beni immobili, laddove si abbia una eccedenza che consenta, per l’appunto, il soddisfacimento di quelli di grado inferiore con preferenza, tuttavia, prima di tutti gli altri di quello relativo al t.f.r.. Non diverse le conclusioni laddove si consideri il principio enunciato, sempre della Suprema Corte, sul relativo tema8, con riferimento, ancora una volta, ad una particolare situazione. Ed infatti nel caso di specie il conflitto correlato alla regole che dovessero essere osservate nella attribuzione degli importi da ripartire non è stato risolto nel senso di ritenere logica la distribuzione proporzionale in favore del credito ammesso per surroga, maturato dall’Inps, con l’altro discendente dalle diverse rispettive ragioni di credito derivanti dal rapporto di lavoro subordinato, essendo stato caso sottoposto all’esame dei giudici di legittimità il diverso problema relativo al criterio di imputazione dei pagamenti, in presenza di più debiti verso la stessa persona ed in mancanza di diversa dichiarazione da parte del solvens, sul presupposto questi potesse imputarlo al debito più antico qualora i debiti risultassero tutti ugualmente scaduti, garantiti ed onerosi, in applicazione dell’art. 1193, secondo comma cod.civ. L’Inps, difatti, aveva denunciato la violazione e falsa applicazione degli artt. 1193 cod.civ., e 111 l.f., nel testo ante riforma, sul presupposto che l’imputazione di cui alla richiamata norma opera solo in assenza di altre regole, sicché essendo tutti i crediti per retribuzioni collocati sullo stesso piano ed assistiti, ai sensi dell’art. 2751 bis cod.civ., da un privilegio del medesimo grado, doveva trovare applicazione, l’art. 2782 cod.civ. che, in caso di insufficienza delle somme da ripartire, prevede il soddisfacimento dei crediti posti al medesimo grado di privilegio, in proporzione del rispettivo importo, sicché avendo i lavoratori ricevuto in precedenza un acconto prima dell’intervento questo avrebbe dovuto essere imputato a tutte le retribuzioni arretrate mentre a carico dell’Istituto avrebbero dovuto essere poste le retribuzioni previste dall’art. 2 del D.Lgs. n. 80 del 1992, ciò sul presupposto che i criteri di imputazione, di cui agli artt. 1193, 1194 cod.civ., si applicano esclusivamente ai pagamenti eseguiti volontariamente e non a quelli coattivi che hanno luogo in sede esecutiva o fallimentare. Ebbene, anche in tal caso il principio enunciato dalla Suprema Corte non può essere utilizzato al fine di far discendere da esso che, in caso di concorso dei crediti dei lavoratori subordinati e del Fondo di garanzia, per le somme da questo anticipate in sostituzione del datore di lavoro, si ha una collocazione nella medesima posizione e nello stesso grado di privilegio, senza alcuna graduazione o ordine di precedenza trovando il relativo principio saldo ancoraggio nella legge fallimentare9 e, altresì, nella corretta interpretazione dell’istituto della surrogazione, e dei criteri legali di imputazione, derivanti dall’art. 1193 cod.civ., atteso che la locuzione debito meno garantito, cui si riferisce il secondo dei criteri legali di imputazione previsti dalla norma, non può che essere interpretata10 nel senso che, attraverso l’espressione utilizzata, si è inteso far riferimento a quelle obbligazioni non assistite da una garanzia reale o personale (privilegio, pegno, ipoteca fideiussione). L’art. 1193 cod.civ., difatti, al secondo comma, allorché stabilisce che il pagamento va imputato al debito meno garantito, fa riferimento all’obbligazione che, fra quelle scadute o è assistita da una garanzia, per la sua natura giuridica o per estensione quantitativa e temporale o, ancora, per l’ordine che occupa nella graduatoria delle cause di prelazione, è meno efficace di altre o, infine, all’ipotesi di obbligazione, affatto, garantita. Discende da ciò che i criteri legali di imputazione hanno, quindi, la funzione di una dichiarazione esplicativa del solvens o, in subordine, dell’accepiens (come può argomentarsi dall’art. 1195 cod.civ.) a quali dei rapporti obbligatori della medesima specie devono essere riferiti i pagamenti eseguiti, di modo che ad ogni atto solutorio segua, puntualmente, l’effetto di estinguere in tutto, o in parte, una determinata obbligazione. Tale criterio è, però, estraneo al sistema concorsuale, dal momento che l’accertamento del passivo ha la funzione di individuare i creditori che partecipano al concorso, stabilendo, per ciascuno di questi, l’esistenza del diritto, l’ammontare dello stesso e la sua collocazione. Il rischio dell’insufficienza dell’attivo11, quindi, grava sul Fondo e non può essere limitato all’ipotesi in cui non vi sia attivo da ripartire tra i creditori privilegiati, di cui all’art. 2751 bis cod.civ., nel senso che, laddove vi è un attivo, questo non solo non può essere cor- 56 Temi Romana Osservatorio legislativo risposto, con preferenza al Fondo, fino all’integrale recupero di quanto da esso erogato – siccome in contrasto con i principi che disciplinano la surroga – e, al tempo stesso, deve lasciare ritenere esclusa la concorrenza del credito garantito con quello del lavoratore, già dipendente dell’impresa fallita, sul presupposto della collocazione nella medesima posizione e nell’identico grado di privilegio, senza alcuna graduazione o ordine di precedenza (artt. 2751 bis e 2782, primo comma, cod.civ.) dal momento che attraverso l’istituzione del Fondo di garanzia il legislatore non ha inteso assicurare il soddisfacimento di alcuni crediti a danno di altri quanto, piuttosto, ha inteso garantire determinati crediti in funzione della stessa possibilità di flessibilizzare gli obblighi discendenti dal rapporto di lavoro, nell’ipotesi di trasferimento dell’azienda dell’impresa fallita. L’art. 5 della Direttiva del Consiglio del 12 marzo 2001, n. 23, al secondo comma, espressamente prevede la possibile disapplicazione degli artt. 3 e 4, della medesima Direttiva, nel caso di trasferimento attuato nel corso di una procedura di insolvenza aperta nei confronti del cedente, quante volte gli obblighi di questi, risultanti da un contratto di lavoro pregressi e rimasti insoddisfatti, abbiano ricevuto una protezione almeno equivalente a quella prevista nelle situazioni contemplate dalla Direttiva 80/987 del Consiglio del 20 ottobre 1980 nel caso di insolvenza del datore di lavoro (art. 5 secondo comma lett.a). Ne consegue, quindi, che ove si operasse una diversa interpretazione essa risulterebbe, necessariamente, in contrasto con la Direttiva comunitaria in tema di mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di impresa nell’ambito di procedure che si svolgano sotto il controllo dell’Autorità pubblica compe- tente, atteso che verrebbe meno la stessa operatività dell’art. 105 l.f. e, nel caso del concordato preventivo liquidatorio, dell’art. 182 l.f., che richiama la prima norma nel senso che la conclusione degli accordi lì previsti non consentirebbero la flessibilizzazione degli obblighi che quelle norme hanno inteso assicurare al fine di favorire il trasferimento dell’azienda insolvente ovvero in crisi. Conclusivamente la garanzia non può avvenire a discapito della realizzazione degli altri crediti non assicurati dal Fondo ed una diversa lettura della relativa disciplina normativa risulta essere in contrasto con le Direttive comunitarie, oltre a non essere costituzionalmente orientata, sol che si considerino i differenti effetti che possano conseguire dal diverso momento in cui è intervenuto il Fondo. Ed infatti ove due o più lavoratori partecipino ad un primo riparto, senza aver richiesto l’intervento dell’organismo di garanzia, si vedranno attribuire una somma in proporzione dell’intero credito ammesso al passivo, mentre gli altri subirebbero la percentuale riduzione in ragione della partecipazione, in sede di distribuzione, anche del Fondo. Le irragionevoli conseguenze per tali creditori risulterebbero più che evidenti ove in un successivo riparto non fosse loro assicurato l’intero soddisfacimento del credito, atteso che, nella formulata ipotesi, quei lavoratori che non avevano ancora richiesto l’intervento del Fondo riuscirebbero a realizzare un maggior soddisfacimento dato dal credito riscosso, in occasione del piano di riparto, e dall’importo ricevuto dal Fondo, che surrogandosi rimarrebbe incapiente. Appare, dunque, evidente che una diversa conclusione non può essere condivisa perché in contrasto con i principi comunitari e costituzionali. _________________ 1 G. BOZZA, La ripartizione dell’attivo, in Il nuovo diritto fallimentare, a cura di A. JORIO - M. FABIANI, Bologna 2011, p. 591. 3 A. SILVESTRINI, in M. NIGRO - A. SANDULLI, La riforma della legge fallimentare, II, Torino 2006, p. 673. 2 Cass., 29 agosto 1996, n. 7933, in Il fallimento, 1997, p. 69; Tribunale Parma, 20 febbraio 2003, ivi, 2003, p. 901. 4 È emanata in attuazione della Direttiva 80/987 del Consiglio, del 20 ottobre 1980, relativa alla tutela dei lavoratori subordina- Temi Romana 57 ti in caso di insolvenza del datore di lavoro, poi modificata dalla Direttiva 2002/74 del Parlamento Europeo del Consiglio, del 23 settembre 2002 5 Cass., 3 marzo 2011, n. 5141, in Il fallimento, 2011, p. 1367. Osservatorio legislativo 6 Cass., 29 agosto 1996, n. 7933, in Il fallimento, 1997, p. 70; Tribunale Roma, 9 ottobre 1996, in Mass.giur.lav., 1997, p. 575. 7 Tribunale Viterbo, 4 giugno 1992. 8 Cass., 21 febbraio 1997, n. 1586, in Mass.giur.lav., 1998, p. 575, ripreso da Tribunale Roma, 9 ottobre 1996, con nota di A. CAIAFA, Fondo di garanzia ex l.n.297 del 1982, concorso di crediti e riparto. 9 Il decreto del giudice delegato che rende esecutivo lo stato passivo ne stabilisce, difatti, la intangibilità e consente di individuare i legittimati alla partecipazione al concorso, con la conseguenza che, in sede di ripartizione, non possono essere proposte questioni relative all’esistenza o all’ammontare dei crediti ammessi o, ancora, all’esistenza o all’ammontare dei crediti ammessi o, ancora, all’esi- stenza di distinte cause di prelazione: Cass., 19 marzo 1996, n. 2321, in Il fallimento, 1996, p. 973; Cass., 11 marzo 1996, n. 1982, ibidem, 1996, 666 Cass., 13 dicembre 1995, n. 12790, ibidem, 1996, p. 361; Cass., 11 gennaio 1995, n. 257, ibidem, 1995, p. 1098; Cass., 24 maggio 1994, n. 5073, ibidem, 1995, p. 247; Cass., 3 giugno 1993, n. 6228, ibidem, 1993, p. 1233; Cass., 19 novembre 1979, n. 6039, in Giust.civ., 1980, I, p. 1126. 10 Cass., 30 maggio 1983, n. 3708, in Giur.it., 1984, I, 1, p. 290, che propone una interpretazione diversa della espressione contenuta nell’art. 1193 cod.civ.; in senso contrario, Cass., 1 giugno 1974, n. 1572, ibidem 1975, I, 1, p. 266; Cass., 7 febbraio 1975, n. 474, ibidem 1975, I, 1, p. 836. 11 La giurisprudenza e la dottrina sono concordi nel ritenere che, qualora l’attivo falli- 58 mentare sia insufficiente a soddisfare, integralmente, gli stessi debiti di massa, occorre stabilire, tra questi, una graduazione secondo l’ordine dei privilegi fissati dal codice civile e che in assenza di questi lo stesso credito chirografario prevale su tutti gli altri non prededucibili, pure se privilegiati, Cass., 20 dicembre 1990, n. 12075, in Il fallimento, 1991, p. 670; Cass., 29 gennaio 1982, n. 569, in Dir. fall., 1982, II, p. 651. Per la dottrina si veda: G. ALESSI, I debiti di massa nelle procedure concorsuali, Milano 1987, p. 76; V. DEL VECCHIO, La gradualità dei crediti verso la massa nel fallimento, in Il fallimento, 1983, p. 1600; U. AZZOLINA, Il fallimento, Torino 1961, II, 885; R. PROVINCIALI, Trattato di diritto fallimentare, Milano 1974, III, p. 1656, A. CAIAFA, I rapporti di lavoro e le procedure concorsuali, Padova 1994, p. 56. Temi Romana Osservatorio legislativo La disciplina del contratto a termine dopo il decreto Poletti e la legge di conversione Andrea Lutri Avvocato del Foro di Roma N egli ultimi anni il Mercato del lavoro, complice la crisi o, più probabilmente, in conseguenza della crisi, è stato oggetto di una serie di interventi normativi che, complessivamente considerati, hanno attutato un processo di “liberalizzazione” della regolamentazione del rapporto di lavoro fino a qualche anno fà difficilmente ipotizzabile. Dapprima il Legislatore ha “delegato” alle parti sociali il compito di intervenire su un impianto normativo evidentemente troppo rigido per garantire alle imprese quella necessaria “flessibilità” divenuta, con il tempo, indispensabile per adattare la propria organizzazione alle mutevoli esigenze del mercato, individuando nella contrattazione di prossimità lo strumento più adeguato per tale processo di rinnovamento. Tale delega se non si può affermare che sia rimasta inattuata, sicuramente non ha realizzato in pieno i propri intenti. Di qui l’esigenza, avvertita come non più rimandabile da parte del Legislatore e dei governi che si sono succeduti, di intervenire in maniera incisiva sulla normativa del lavoro, ultimamente facendo sempre più ricorso alla decretazione d’urgenza, per garantire quella giusta dose di flessibilità, in entrata ed in uscita, che consenta alle imprese di investire sul personale o di intervenire sull’organico aziendale adattandolo alle esigenze della produzione, senza le temute ripercussioni in termini di sanzioni previste dall’ordinamento. In questo panorama di riforme il contratto a termine è l’istituto che ha registrato, nel breve periodo, il maggior numero di modifiche che, globalmente considerate, hanno sostanzialmente riscritto la normativa fondamentale che è e resta il D.Lgs. 368/01. È chiaro che il Legislatore non può non recepire quelle che sono le indicazioni provenienti dal Mercato del lavoro ed i dati ci dicono, oggi, che i due terzi delle assunzioni nel nostro Paese sono a tempo determinato. Non si tratta di una peculiarità soltanto italiana: in Temi Romana molti Paesi europei sono state adottate nel corso degli anni riforme volte a favorire la diffusione di forme contrattuali diverse dal contratto di lavoro “standard”, a tempo indeterminato, accomunate dal carattere della temporaneità nella prospettiva di garantire una maggiore flessibilità “in entrata”. Per comprendere a fondo questa tendenza basta fare un cenno all’esperienza del c.d. mini job tedesco. Si tratta di lavori retribuiti con uno stipendio massimo di 450 euro mensili e con un limite di ore (almeno formalmente) di 15 ore settimanali (il 1° di gennaio del 2013 è stato approvato l’aumento da 400 a 450 €). Tale strumento di lavoro flessibile garantisce, inoltre, alle aziende un regime tributario vantaggioso. L’imprenditore paga il 2% al fisco e il 28% alla previdenza sociale (il 15% al fondo pensioni e il 13% per la malattia), perciò il contributo totale assomma al 30%. Il lavoratore viene esonerato dal versamento di imposte ma può effettuare una contribuzione volontaria nella misura del 4,5% dei propri emolumenti destinandoli al fondo pensione ed inoltre ha diritto a ferie pagate, congedi per maternità ed all’accesso alla tutela approntata per il licenziamento. Tornando alla realtà italiana, negli ultimi anni abbiamo assistito ad una proliferazione indiscriminata di false partite IVA, di collaborazioni coordinate e continuative, anche a progetto, sospette, di associazioni in partecipazione con apporto lavorativo utilizzate dalle imprese con il solo scopo di ridurre il costo del lavoro mascherando dietro tale forme di collaborazione autonome, rapporti di lavoro in tutto e per tutto subordinati. Per contrastare tale fenomeno, il legislatore nazionale, attraverso la legge n. 92/2012, provò ad incentivare la “flessibilità in entrata” svincolando il contratto a termine dalla necessità di indicare la causa giustificatrice (che ha rappresentato nel tempo il principale motivo di contenzioso), ma per un periodo di tempo troppo breve 59 Osservatorio legislativo (dodici mesi e peraltro limitato solo al primo contratto a termine tra le parti, non prorogabile) e caricando questo istituto di una serie di fattori di rigidità (quali la previsione di un periodo di stacco tra un contratto e l’altro più lungo di quello previsto nella legislazione precedente, portato da 10 o 20 giorni a 60 o 90 giorni, gli accordi sindacali sulla “acausalità ” nella percentuale del 6%, l’obbligo di comunicazione al centro per l’impiego dello sforamento del termine), finalizzati ad evitarne un’utilizzazione abusiva, che, di fatto, hanno impedito a tale contratto di esplicare in pieno la funzione di ripresa dell’occupazione. Gli interventi normativi che si sono succediti dopo la legge Fornero hanno avuto il comune proposito di eliminare tali fattori di rigidità al fine di rendere il contratto a termine uno strumento realmente “flessibile” di reperimento della manodopera per le imprese, sulla considerazione che il contratto a termine oggi rappresenta il principale strumento di assunzione. In tale quadro di riferimento il D.L. n. 34/2014 è intervenuto sulla disciplina dei contratti a termine eliminando la causale, che, come anticipato, ha costituito fino ad oggi, il principale motivo di conversione del rapporto a termine in rapporto a tempo indeterminato e ha regolamentato in maniera più larga rispetto alla legge Fornero la percentuale consentita di assunzioni a tempo determinato, facendo salva la possibilità per le parti sociale di modificare questa percentuale rendendola aderente alle esigenze del mercato di riferimento. Come precisato dal Ministero del lavoro con i chiarimenti del 14 marzo 2014, con l’entrata in vigore del decreto legge il datore di lavoro può sempre instaurare rapporti di lavoro a tempo determinato senza causale, nel limite di durata di trentasei mesi. Viene così superata la precedente disciplina che limitava tale possibilità solo al primo rapporto di lavoro a tempo determinato. Inoltre, la possibilità di prorogare un contratto di lavoro a termine in corso di svolgimento è sempre ammessa, fino ad un massimo di 8 volte (oggi, con la legge di conversione, 5 volte) nei trentasei mesi. Rimane, quale unica condizione per le proroghe, il fatto che si riferiscano alla stessa attività lavorativa per la quale il contratto è stato inizialmente stipulato. Nell’introdurre il limite del 20% di contratti a termine che ciascun datore di lavoro può stipulare rispetto al proprio organico complessivo, il decreto fa comunque salvo quanto disposto dall’art. 10, comma 7, del D.Lgs. 368/2001, che da un lato lascia alla contrattazione collettiva la possibilità di modificare tale limite quantitativo e, dall’altro, tiene conto delle esigenze connesse alle sostituzioni e alla stagionalità. Infine, per tenere conto delle realtà imprenditoriali più piccole, è previsto che le imprese che occupano fino a 5 dipendenti possono comunque stipulare un contratto a termine. È, indubbiamente, una novità di grande portata, in linea con la Direttiva europea sul contratto a tempo determinato e che rompe con un passato ove il mancato rispetto delle stesse aveva avuto un forte impatto negativo sulla vita delle imprese. Il Decreto Poletti liberalizza i contratti a termine ma resta ancora la possibilità di superare i pochi limiti residui con accordi sindacali. Ancora una volta la formulazione del testo normativo (come è accaduto per le norme che lo hanno preceduto) ha prestato il fianco a dubbi ed incertezze in gran parte (ma non tutte) superate dalla legge di conversione. La legge n. 78 del 2014, che ha convertito con modifiche la disciplina approntata dal D.L. 34/2014, ha apportato novità di rilievo alla disciplina introdotto dalla decretazione di urgenza. Resta fermo il limite temporale di 36 mesi, così come resta ferma la percentuale del 20%. Tuttavia, il legislatore interviene disciplinando le modalità di computo, ai fini della determinazione del limite percentuale, precisando che si tiene conto del solo personale a tempo indeterminato in forza dal 1 gennaio dell’anno di stipulazione del contratto a termine. Inoltre il legislatore prevede che i datori di lavoro (l’espressione datori di lavoro ha sostituito la precedente formulazione che faceva riferimento alle imprese, creando in tal modo incertezza nell’individuazione del soggetto destinatario della norma in parola) che occupano fino a cinque dipendenti possono sempre stipulare un contratto a tempo determinato. Altra novità di notevole portata riguarda l’aspetto sanzionatorio. In caso di sforamento del limite percentuale è prevista soltanto una sanzione amministrativa per ciascun lavoratore eccedente (nella misura del 20 o 50% percento della retribuzione, a seconda che la violazione del limite percentuale riguardi uno o più lavoratori a tempo determinato). 60 Temi Romana Osservatorio legislativo Alla violazione del precetto non seguirà alcuna conseguenza sulla natura del rapporto, con esclusione, pertanto, della sanzione della conversione del rapporto a termine in un rapporto a tempo indeterminato. È previsto, tuttavia, un c.d. periodo di grazia entro il quale il datore di lavoro che abbia in corso rapporti a termine in misura superiore al limite fissato dalla legge deve provvedere a rientrare nel suddetto limite, salvo che un contratto collettivo applicabile all’azienda non disponga un limite percentuale o un termine più favorevole al datore di lavoro, e tale termine è fissato nel 31 dicembre del corrente anno. Nel caso di mancato adeguamento alla disposizione normativa al datore di lavoro inadempiente è preclusa la possibilità di stipulare nuovi contratti a termine dal 1 gennaio 2015, ma non trova applicazione la sanzione amministrativa sopra menzionata (né, ovviamente, si applica la sanzione della conversione). Premessa l’applicazione della normativa in esame soltanto ai contratti a termine stipulati successivamente alla sua entrata in vigore, viene fatta salva la vigenza dei limiti percentuali già previsti dalla contrattazione collettiva, in sede di prima applicazione, se diversi da quelli introdotti dalla norma in parola, fino alla loro scadenza. I contratti individuali definiti in attuazione della normativa previgente, inoltre, continuano a dispiegare i loro effetti fino alla scadenza. Restano fuori dal limite del contingentamento: a) i contratti a termine stipulati nella fase di avvio di nuove attività, per i periodi definiti dai contratti collettivi nazionali di lavoro; b) i contratti a termine stipulati per ragioni di carattere sostitutivo; c) i contratti a termine stipulati per specifici spettacoli o specifici programmi televisivi o radiofonici; d) i contratti a termine stagionali; e) i contratti a termine stipulati con lavoratori di età superiore ai 55 anni. Sono, inoltre, esclusi dalla normativa in esame il personale assunto a tempo determinato per lo svolgimento di attività di supplenza e ATA per il quale non si applica né il limite percentuale né quello temporale (36 mesi). Analogo discorso per i contratti a tempo determinato stipulati dagli enti, pubblici o privati, di ricerca, con lavoratori chiamati a svolgere attività di ricerca scientifica o tecnologica, di assistenza tecnica o coordinamen- Temi Romana to e direzione della stessa. In tali ipotesi i contratti a termine che abbiano ad oggetto in via esclusiva lo svolgimento di attività di ricerca potranno avere una durata pari a quella del progetto di ricerca cui si riferiscono. A tali ipotesi derogatorie della disciplina di cui alla normativa in esame si aggiungano i contratti a termine con i lavoratori in mobilità, per i quali non trovano applicazione né il limite percentuale né quello temporale (trentasei mesi). Come anticipato il legislatore interviene nuovamente sull’istituto della proroga dei contratti a termine, questa volta in senso peggiorativo rispetto alla disciplina prevista dal Decreto legge convertito. Il numero di proroghe consentito viene ridotto dalle originarie 8 a 5 e resta sempre condizionato al limite complessivo dei trentasei mesi. Le proroghe, inoltre, sono ammesse sempre che si riferiscano alla stessa attività lavorativa prevista dal contratto prorogato. Da ultimo si segnala che il legislatore della riforma interviene anche sul diritto di precedenza, già previsto nella precedente disciplina del contratto a termine, per i lavoratori occupati con contratto a termine per un periodo superiore ai sei mesi riguardo alle nuove assunzioni a tempo indeterminato effettuate dal datore di lavoro nei dodici mesi successivi alla cessazione del rapporto per l’espletamento delle stesse mansioni svolte dai lavoratori a termine, ampliando l’effettività e la portata del diritto di precedenza. Viene previsto, infatti, per le lavoratrici madri un diritto di precedenza sia per le assunzione a tempo indeterminato che a tempo determinato effettuate dal datore di lavoro nei successivi dodici mesi dalla cessazione del rapporto a termine (purché si tratti di assunzioni per l’espletamento delle stesse mansioni svolte da queste ultime). Inoltre il periodo di congedo per maternità intervenuto l’esecuzione di un contratto a termine con la medesima azienda, concorre a determinare il periodo di attività utile per il conseguimento del diritto di precedenza. Altra novità di rilievo è l’obbligo per il datore di lavoro di portare a conoscenza del lavoratore assunto a termine il diritto di precedenza, con la previsione che tale comunicazione formale sia espressamente richiamata nel contratto scritto di assunzione a tempo determinato. Non sono tuttavia previste specifiche sanzioni in caso di violazione del precetto normativo. 61 Note a sentenza La depenalizzazione della colpa lieve nell’attività medico-chirurgica La Cassazione applica la legge Balduzzi e depenalizza la colpa lieve Roberta Mencarelli Avvocato del Foro di Roma Sez. IV - Ud. 29 gennaio 2013 (Dep. 9 aprile 2013 n. 268) - Pres. Brusco - Rel. Blaiotta - P.M. D`Ambrosio È missiva ma riscontrava, altresì, la colpa anche per non aver preventivato la complicanza e per non aver organizzato l’esecuzione dell’intervento in una clinica attrezzata a far fronte alla possibile lesione di vasi sanguigni, profilo quest’ultimo, tuttavia, espressamente escluso dal Tribunale di prime cure e non oggetto di impugnazione. esclusa la rilevanza penale delle condotte connotate da colpa lieve, e quindi la conseguente responsabilità penale per omicidio colposo, del sanitario che nello svolgimento della propria attività si attenga alle linee guida ed alle buone pratiche terapeutiche accreditate. Il caso La sentenza in commento ripropone il dibattuto problema della responsabilità medica, affrontando in particolare il tema della rilevanza della c.d. colpa lieve ai fini della responsabilità penale dell’esercente una professione sanitaria. La vicenda in esame riguarda una paziente che si era recata presso una clinica privata per effettuare un intervento di ernia discale recidivante nel corso del quale, tuttavia, venivano lesionate da parte del chirurgo la vena e l’arteria iliaca. A causa della grave emorragia che ne seguiva, il chirurgo esecutore dell’intervento disponeva il ricovero della paziente presso nosocomio attrezzato per un urgente intervento vascolare riparatorio che tuttavia non consentiva di scongiurarne la morte. Il medico, esecutore dell’atto chirurgico, veniva quindi chiamato a rispondere di omicidio colposo per aver erroneamente eseguito l’intervento. Più precisamente, il Tribunale di Roma ne affermava la responsabilità per aver violato la regola precauzionale enunciata nella letteratura medica di non agire in profondità superiore a 3 centimetri e di non procedere ad una pulizia radicale del disco erniario per evitare la complicanza connessa alla lesione dei vasi che corrono nella zona dell’intervento. La Corte D`Appello di Roma non solo confermava la condanna del medico in relazione alla condotta com- La pronuncia della Suprema Corte di Cassazione Tra i motivi di ricorso addotti dal ricorrente è segnalata, ex art. 606 n. 1 lett. b), tra gli altri, l’inosservanza dell’art. 3 della legge 8 novembre 2012 n. 189 che ha operato una parziale abolizione della fattispecie di omicidio colposo attraverso l’esclusione della rilevanza della colpa lieve nel caso in cui il sanitario si attenga alle linee guida ed alle buone pratiche terapeutiche. Nel caso di specie, si tratta quindi di stabilire se esista una buona pratica chirurgica che imponga di non introdurre l’ago a più di 3 centimetri e se, con riguardo alle linee guida accreditate, vi sia colpa non lieve. Evidente è la portata innovativa della pronuncia che, sorta da controverse interpretazioni giurisprudenziali della colpa nell’esercizio della professione medica, richiama l’attenzione su due aspetti di nuovissima emersione: la distinzione tra colpa lieve e colpa grave ai fini della rilevanza penale della condotta medica e la valorizzazione delle linee guida e delle virtuose pratiche terapeutiche. Per ciò che concerne la colpa nell’esercizio della professione medica, il più antico orientamento giurisprudenziale prevedeva che la responsabilità penale dell’esercente la professione sanitaria si configurasse solo ed esclusivamente nei casi di colpa grave ossia nei casi in cui il sanitario avesse, nell’espletamento della sua attività professionale, commesso un errore inescusabi62 Temi Romana Note a sentenza le dovuto alla mancata applicazione delle cognizioni generali e fondamentali attinenti alla professione o alla carenza di quel minimo di abilità e perizia tecnica nell’uso dei mezzi operatori che il medico deve essere sicuro di poter gestire correttamente o, infine, nella mancanza di prudenza o di diligenza. Si trattava, in particolare, di quel costante indirizzo giurisprudenziale che riteneva possibile invocare, anche nell’ambito penale, l’applicazione dell’art. 2236 c.c. che limita il rilievo della colpa alle sole situazioni di colpa grave 1 attesa la presunta ordinarietà dei problemi tecnici di speciale difficoltà caratteristici dell’attività medica. Il suddetto orientamento scaturiva dalla necessità che venisse garantita, in tal modo, la coerenza del sistema giuridico che non avrebbe giustificato una responsabilità penale laddove non fosse stato ravvisabile, ai sensi dell’art. 2236 c.c., nemmeno un illecito civile. Ne era derivata da parte della giurisprudenza maggioritaria degli anni ’60 e ’70 un’ampia applicazione della clausola di cui all’art. 2236 c.c. con l’esclusione della responsabilità penale del medico nei casi di mera culpa levis senza che però venisse effettuato un effettivo vaglio circa la speciale difficoltà della concreta prestazione professionale2. Tuttavia, poiché i giudici avevano finito con l’assumere un atteggiamento di irragionevole indulgenza anche nei casi di grave leggerezza del medico con una evidente disparità di trattamento rispetto a tutti gli altri consociati responsabili di fatti colposi anche al limite della colpa lieve3, il citato orientamento aveva sollevato forti critiche tanto da parte della dottrina4 che della giurisprudenza che ne avevano eccepito il contrasto con il principio costituzionale di uguaglianza al punto dal richiedere un intervento della Consulta. La Corte Costituzionale5 rigettava tuttavia la sollevata illegittimità giustificando l’applicazione dell’art. 2236 c.c. nella sola ipotesi in cui la prestazione comportasse la soluzione di “problemi tecnici di particolare difficoltà”. L’applicazione di tale indulgente orientamento, peraltro, si limitava esclusivamente alla colpa derivante da imperizia laddove, invece, la Corte statuiva che per l’imprudenza e la negligenza, era richiesto un giudizio “improntato a criteri di normale severità”6. Nonostante fosse intervenuta anche la Consulta, l’orientamento appena illustrato continuava ad essere Temi Romana fonte di pressanti critiche soprattutto da parte della dottrina che lo riteneva troppo indulgente avendo, lo stesso, allargato a dismisura i casi di esclusione della responsabilità penale del medico. Conseguentemente, negli anni ’80 si affermava una nuova ed opposta corrente giurisprudenziale che recideva totalmente qualsiasi collegamento tra l’ambito penale e civile della colpa giungendo ad affermare che, ai fini della responsabilità penale del sanitario, alcun rilievo assumesse la distinzione tra colpa grave e colpa lieve, che poteva tutt’al più rilevare ai fini esclusivi della quantificazione della pena. In tal modo, l’art. 2236 c.c. ha perso qualsiasi rilievo nell’ambito penale atteso che, alla stregua del nuovo orientamento, la colpa professionale deve essere valutata sempre e comunque sulla base delle regole generali in tema di colpa contenute nell’art. 43 c.p.7 Nonostante l’affermazione di tale nuovo orientamento, tuttavia, la corrente giurisprudenziale più risalente nel tempo, ossia quella più “indulgente”, non è stata mai totalmente abbandonata, come dimostrano alcune sentenze richiamate dalla stessa Corte, sent. n. 39592/07, n. 16328/11 e n. 4391/12, che hanno fatto dell’art. 2236 c.c. una regola di esperienza cui il giudice può attenersi nel valutare la perizia del medico nei casi di emergenza o in quelli che implichino la soluzione di problemi di particolare difficoltà tecnica8. Dato il controverso panorama giurisprudenziale, a fare chiarezza è intervenuta la L. 189/12, il c.d. Decreto Balduzzi, la quale ha formalizzato l’orientamento giurisprudenziale c.d. più favorevole per il medico, prevedendo tuttavia limiti più stringenti all’operatività dello stesso. Più precisamente, il legislatore ha distinto colpa lieve e colpa grave ed ha statuito che non c’è responsabilità penale in caso di colpa lieve qualora il medico si sia attenuto alle linee guida e alle pratiche terapeutiche accreditate presso la comunità scientifica salvo che, tenuto conto delle peculiarità del caso concreto, lo stesso abbia commesso un errore rimarchevole. Vale a dire, come ribadito dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 35922 del 2012, che alla stregua della nuova legge, le linee guida accreditate operano come vademecum nella valutazione della responsabilità penale medica ma non esulano il sanitario dalla responsabilità penale derivante dalla commissione di 63 Note a sentenza un errore grave. Con riferimento al primo profilo ossia alla distinzione tra colpa lieve e colpa grave, va preliminarmente osservato che la novella non solo non ha dato una definizione delle due figure ma non ha nemmeno tratteggiato una linea di confine tra le stesse lasciando sostanzialmente invariato il panorama giuridico precedente ed anzi complicando non poco la situazione. Ed infatti, benché la valutazione della gravità della colpa non sia affatto estranea all’esperienza giuridica penalistica come risulta dall’art. 133 c.p. e dagli artt. 43 e 61 n.3 c.p. e benché il nostro ordinamento annoveri in numerose disposizioni l’istituto della colpa grave, inter alia, nel Codice Civile, nel Codice della Navigazione, nel Codice di Procedura Penale, nel codice di procedura Civile, nessuno di essi ne fornisce una espressa definizione. A ciò deve aggiungersi che nemmeno la giurisprudenza e la dottrina sono approdate ad una unanime nozione di “colpa grave” in quanto, in sede applicativa, la gravità della colpa non ha mai costituito un discrimen tra fatto punibile e fatto non punibile bensì un semplice fattore di gradazione della pena. Poiché per tali ragioni il grado della colpa è stato affrontato dalla prassi giudiziale solo tangenzialmente al pari degli altri parametri di commisurazione della pena, l’emanazione del nuovo art. 3 c.1 del decretosanità e la statuizione della pronuncia in commento che, sulla base della distinzione tra colpa grave e lieve, segnano l’essere e il non essere reato, sollevano non pochi problemi di natura interpretativa ed applicativa avendo il legislatore utilizzato la locuzione “colpa grave” senza che vi sia una distinzione con grandi rischi di arbitrio giudiziale. Ed infatti, non ci si può esimere dal rilevare che il nuovo riferimento alla colpa grave risulta assolutamente slegato a qualsivoglia profilo di speciale difficoltà tecnica a differenza di quanto previsto dall’art. 2236 c.c. che sì limitava e limita la responsabilità del professionista ai casi di dolo e colpa grave ma solo qualora la prestazione implichi la soluzione di problemi di speciale difficoltà. Ne consegue che la nuova disposizione legislativa potrebbe rivelarsi illegittima nella misura in cui prevede una limitazione della responsabilità colposa in capo al medico pur in assenza di adeguati presupposti di complessità e difficoltà della prestazione in violazione del principio di uguaglianza ex art. 3 Cost e del diritto alla salute (art. 32 Cost). Ed invero, potrebbero configurarsi molteplici fattispecie concrete in cui in assenza di problemi clinici di particolare complessità, risulti irragionevole limitare la punibilità alla sola colpa grave per il sol fatto che il sanitario abbia ottemperato alle linee guida. In definitiva, quindi, in caso di rispetto delle linee guida, potrebbe risultare ragionevole limitare la responsabilità penale ai soli casi di imperitia lata solo ove si dimostrasse che le linee guida siano idonee ad esaurire gli aspetti di “buona tecnica medica”. Ove, al contrario, si riconosca che la perizia medica possa esigere specifiche condotte, anche al di là delle linee guida accreditate, non potrà affermarsi che il rispetto delle stesse sia idoneo ad escludere, iuris et de iure, un residuo giudizio anche di imperitia levi, per violazione di altre regole di perizia ulteriori e differenti rispetto alle linee guida.9 Data la rischiosità della situazione così come appena illustrata, la Corte di Cassazione con la pronuncia in commento ha cercato di arginare il problema indicando i fattori di cui l’interprete deve tener conto ai fini della qualificazione della colpa ed ha, a tal fine, indicato: la misura della divergenza tra la condotta effettivamente tenuta e quella che era da attendersi sulla base della norma cautelare cui ci si doveva attenere, la misura del rimprovero personale sulla base delle specifiche condizioni dell’agente ed infine la consapevolezza da parte dell’agente di tenere o meno una condotta pericolosa. Venendo ora al secondo elemento, anch’esso di nuovissima emersione, ossia la valorizzazione delle linee guida e delle virtuose pratiche terapeutiche accreditate presso la comunità scientifica, la Suprema Corte stessa riconosce che attraverso il riferimento alle citate linee guida il legislatore ha dimostrato di aver compreso la delicatezza del problema e ne ha indicato la soluzione proponendo un modello di terapeuta attento la sapere scientifico, rispettoso delle direttive formatesi alla stregua di solide prove di affidabilità diagnostica e di efficacia terapeutica ed immune da tentazioni personalistiche giustificando, in tal modo, l’attribuzione di rilievo penale alle sole condotte connotate da colpa non lieve. Si tratta senza alcun dubbio di una importante enunciazione normativa che non solo pone il legislatore in piena 64 Temi Romana Note a sentenza sintonia con i più recenti approdi della giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione ma che grazie al riferimento all’accreditamento presso la comunità scientifica ha mostrato che il legislatore è ben consapevole del fatto che non trattandosi di vere e proprie norme cautelari, le stesse sono sottratte alla certezza e in quanto tali la loro osservanza non esime tout court il personale sanitario da una eventuale responsabilità colposa. Orbene, è opportuno in primo luogo fornire una definizione di linee guida al fine di consentire all’interprete di individuare quali regole possano essere definite tali. In proposito, una definizione ampiamente accreditata di “linee guida” è quella fornita dall’Institute of medicine degli stati Uniti d’America secondo cui “clinical practice guidelines are systematically developed statements to assist practitioner and patient decisions about appropriate health care for specific clinical circumstances”.10 La genericità di tale definizione mostra come il genus delle linee guida sia assolutamente vasto ed onnicomprensivo fino a comprendere al suo interno species del tutto eterogenee11 quali regole di carattere etico, direttive di natura deontologica e prescrizioni giuridiche12. Dalla circostanza che le la fonte, la struttura e le finalità delle linee guida possono essere le più disparate discende, come espressamente affermato anche dalla Suprema Corte nella pronuncia in commento, l’impossibilità di calarle de plano e in modo acritico all’interno del giudizio penale di colpa ma l’obbligo, al contrario, per l’interprete di adeguarle al caso concreto. Fondamentale conseguenza dell’appena citata statuizione è che, quindi, così come la violazione dei protocolli clinici non comporta automaticamente la responsabilità del medico, allo stesso modo il rispetto delle linee guida non esime il medico dalla responsabilità in caso di esito infausto del trattamento sanitario laddove si accerti che, in concreto, fosse esigibile e doveroso un trattamento alternativo seppur contrario ai protocolli clinici13. Ed infatti potrebbe ben accadere che il sanitario applichi correttamente le linee guida, inquadri correttamente il caso concreto ma commetta un errore nell’adattamento delle direttive al caso concreto. Ed ebbene, in tal caso la giurisprudenza di legittimità prevede che il sanitario incorrerà in responsabilità penale solo qualora l’errore commesso sia stato non lieve. Temi Romana Come è evidente ictu oculi, la valutazione della rilevanza penale o meno della condotta è tutt’altro che agevole. Si tratta infatti di verificare se, con riferimento al caso concreto, esistano meno direttive accreditate, se l’intervento medico sia stato eseguito entro i confini tracciati dalle linee guida e infine, qualora si versi in questa specifica situazione, se il medico nell’esecuzione dell’intervento abbia tenuto una condotta connotata da colpa lieve o grave configurandosi il reato solo in quest’ultimo caso. Dalle considerazioni sopra esposte emerge chiaramente quale fosse l’intento del legislatore quando ha introdotto la legge Balduzzi così come emergono, in modo altrettanto evidente, le difficoltà cui gli interpreti andranno incontro nell’applicazione delle nuove disposizioni. Con riferimento al primo profilo, palese è che la motivazione che ha spinto il legislatore a depenalizzare la colpa lieve del medico non può che essere legata alla volontà di evitare di penalizzare la più diligente delle prestazioni professionali. A tal fine, il legislatore ha esteso alla colpa medica per imperizia il favorevole regime previsto dall’articolo 2236 del Codice civile. Tale “estensione” è stata tuttavia effettuata facendo salvo un duplice profilo di differenziazione rispetto alla disciplina civilistica e cioè, da un lato, è stato mantenuto fermo il requisito del necessario rispetto da parte del medico dei precetti dettati dalla comunità scientifica (le linee guida o buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica), e dall’altro, non è stata richiesta, ai fini dell’applicazione della nuova regola penale di favore, la presenza del requisito della speciale difficoltà tecnica della prestazione eseguita dal medico (requisito che, come è noto, è espressamente richiamato nel già citato articolo 2236 del Codice civile). Per quanto riguarda invece le difficoltà che gli interpreti si troveranno ad affrontare, i problemi concernono l’individuazione delle c.d. linee guida accreditate, la scelta del medico se sia preferibile seguirle o meno ed infine ma soprattutto, l’individuazione delle ipotesi in cui la condotta del medico sia connotata da colpa grave e quindi integri gli estremi del reato. Orbene, a parere di chi scrive, da un’interpretazione non solo della norma bensì anche della pronuncia in commento, affinché vi sia illiceità penale con conse- 65 Note a sentenza guente punibilità, occorrerà che il grado della colpa sia tanto elevato da configurare una colpa macroscopica e grossolana in cui nessun altro medico dello stesso livello professionale, nella situazione data, sarebbe incorso. In altre parole, il sanitario non sarà punito a titolo di imperizia unicamente per il fatto di aver perseverato “indebitamente” nell’applicazione delle linee guida o delle pratiche accreditate dalla comunità scientifica a fronte di un quadro clinico del paziente che valutato esattamente secondo le leggi dell’arte avrebbe dovuto imporre di discostarsene, bensì solo allorquando tale perseveranza si manifesti in presenza di una situazione del malato che avrebbe immediatamente orientato qualsiasi altro sanitario verso un diverso approccio diagnostico o terapeutico. In conclusione, quindi, alla luce del nuovo panorama normativo e giurisprudenziale, sicuramente la diligenza ad oggi richiesta al medico non è più quella media del buon padre di famiglia bensì quella specifica dell’homo eiusdem professionis et condicionis che rende quindi più doveroso e puntuale l’atto medico ma, allo stesso tempo, il sanitario gode di una tutela molto maggiore che lo esonera dalla responsabilità penale qualora abbia agito nel rispetto delle nuove prescrizioni. _________________ 1 Sez. IV 21 ottobre 1970, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1973, p. 259 e sgg., Sez. IV 17 aprile 1971, MOLINARI, in Cass. pen., 1972, p. 1669, Sez. IV 15 febbraio 1978, VIOLANTE, in Cass. pen., 1980, p. 1559, Sez. IV 12 dicembre 1988, CAPAREZZA, in Giust Pen., 1989, II, c. 689. 2 G. CIVELLO, Responsabilità medica e rispetto delle linee guida tra colpa grave e colpa lieve, in Archivio penale, 2013, I, pp. 1-27. 6 G. IADECOLA, Colpa professionale, in S. CASSESE (a cura di), Dizionario di diritto pubblico, Milano 2006, p. 962. 7 Sez. IV 9 giugno 1981 n. 150650, FINI, in CED Cass.; Sez. IV 22 ottobre 1983 n.160826, ROVACCHI, in CED Cass., Sez. IV 2 giugno 1987, BOSCHI, in Cass. Pen. p.67, Sez. I, 21 marzo 1988, MONTALBANO, in Cass. pen., 1989, p. 1242, Sez. IV 8 novembre 1988, ANGELILLI, in Cass. Pen. 1990, p. 245. pazienti nel decidere quali siano le modalità di assistenza più appropriate in specifiche circostanze cliniche”, Institute of medicine, Guidelines for clinical practice: from developement to use, Washington D.C., 1992; E. TERROSI VAGNOLI, Le linee guida per la pratica clinica: valenze e problemi medico-legali, in Riv. It. med. leg., 1999, p. 189 e sgg. 11 M. BILANCETTI, La responsabilità civile e penale del medico, Padova 2006, p. 744. 3 A. CRESPI, La colpa grave nell’esercizio dell’attività medico chirurgica, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1973, p. 255. 8 Principio recentemente ribadito in Cass. Sez. IV 22 novembre 2011, GRASSO et. al., in Cass. Pen. 2012, 6, p. 2069. M. BONA – G. IADECOLA, in La responsabilità dei medici e delle strutture sanitarie. Profili penali e civili, Milano 2009, p. 81. 4 Per una definizione dei vari gradi della colpa F. CARRARA, Programma del corso di diritto criminale, p. gen. IX,. Firenze 1902, p. 88, 119 e sgg. 9 CIVELLO, Responsabilità medica cit., p. 20. 12 M. PORTIGLIATTI BARBOS, Le linee guida nell’esercizio della pratica clinica, in Dir. pen. proc., 1996, p. 891. 5 Cfr. Corte cost. n. 166/1973. 10 “Raccomandazioni di comportamento clinico prodotte attraverso un processo sistematico allo scopo di assistere medici e 66 13 Si veda a titolo esemplificativo della consolidata giurisprudenza in merito Cass Temi Romana Note a sentenza Quando il potere diventa arbitrio Angelo Miele Avvocato del Foro di Roma A vrei voluto occuparmi della Corte di cassazione penale e – sicuramente – non per tesserne l’elogio, ma mi è parso più urgente trattare una vicenda che ha dell’allucinante e, oltretutto, attiene al corretto agire delle istituzioni e, in definitiva, della democrazia nel nostro Paese. Intendo, cioè trattare un aspetto della sentenza costituzionale n. 1/2014 del 4 dicembre 2013, pubblicata in G.U. il 15 gennaio del corrente anno, che ha dichiarato incostituzionale la vigente legge elettorale (il c.d. Porcellum) nelle parti in cui prevedeva il premio di maggioranza e le liste bloccate. Preciso subito che i rilievi che appresso farò non riguardano la decisione dichiarativa d’illegittimità e non perché quest’aspetto della sentenza fosse del tutto esente di un qualche rilievo ma perché la critica sarebbe inutile in quanto la decisione è inoppugnabile (art. 136 Cost.). Mi occuperò, quindi, solo di quella parte della sentenza nella quale la Corte si lascia andare (è proprio il caso di dire così, ancorché l’espressione sia un tantino irriguardoso) ad un post dictum che invade un campo ad Essa non pertinente, quale l’effetto retroattivo della decisione. Ha affermato, cioè, che la dichiarazione d’incostituzionalità di alcune norme della legge elettorale (come detto, premio di maggioranza e liste bloccate) produrrà i suoi effetti esclusivamente in occasione di una nuova consultazione elettorale e, quindi, non tocca in alcun modo gli atti posti in essere durante il vigore delle norme annullate, compresi gli esiti delle elezioni svoltesi e gli atti adottati dal Parlamento eletto; e ciò perché – dice la Corte – il principio di retroattività (che pure riconosce connesso alle sentenze di annullamento) vale soltanto per i rapporti tuttora pendenti, con conseguente esclusione di quelli esauriti. Ed il rapporto – sempre secondo la Corte – si è esaurito, nel caso di specie, con la proclamazione degli eletti, che avviene a conclusione della consultazione elettorale. Temi Romana Tuttavia, a prescindere dalla contraddizione nella quale la Corte è caduta (ha ritenuto, cioè, rilevante la questione d’incostituzionalità sollevata nel 2013 dalla Cassazione nel maggio 2013 quando si erano addirittura concluse le legislature del 2006 e 2008 sotto la vigenza del Porcellum) resta il rilievo fondamentale secondo cui le norme annullate non possono vivere ancora nei suoi effetti, allorché si svolgano le votazioni parlamentari, perché, secondo dottrina e giurisprudenza ormai pacifiche, la cessazione di efficacia delle norme dichiarate incostituzionali vale come divieto assoluto di farne comunque applicazione, anche a situazioni e rapporti pregressi, purché non esauriti (nel nostro caso finché dura la legislatura). Ed è incontestabile, infatti, che l’accertamento della esistenza di una maggioranza, che legittimi ogni volta il provvedimento parlamentare, è necessario non solo – come invece ha ritenuto la Corte – ai fini della proclamazione degli eletti ma sempre che si tratti di deliberare, vuoi per l’adozione del regolamento interno, vuoi per qualsiasi provvedimento da adottare a maggioranza semplice o a maggioranza qualificata (art. 64 della Costituzione): onde riemerge continuamente la necessità di non tener conto di maggioranze calcolate secondo le norme annullate. Forse la Corte si è accorta della erroneità della sua opinione (ripeto: è mera opinione che esula dalla portata del decisum), perché, traendo il classico coniglio dal cilindro, ha fatto ricorso al principio della continuità dello Stato e dei relativi organi, anche del Parlamento, i quali non possono essere posti nel nulla, né smettere di funzionare. Ma, si tratta, questa della continuità, di una troppa, che non conferisce alcuna forza argomentativa all’opinione, anzi, mette maggiormente in risalto l’errore nel quale la Corte è incorsa: invero, non è in contestazione l’esistenza del Parlamento, si tratta, invece, del regolare funzionamento di esso, posto che i suoi componenti sono in parte (non è una bazzecola) il risultato di nomina illegittima. 67 Note a sentenza Si dirà che il Parlamento potrebbe subire una specie di cosmesi, cioè vedersi eliminata dal computo della maggioranza la componente relativa al premio di maggioranza; esemplificando si potrebbe dire che il Pd, invece che 340 seggi potrebbe contare solo di quelli depurati dal premio di maggioranza. Ammesso che ciò sia possibile, della qual cosa dubito, resta però il fatto che – tenuto conto della posizione del Movimento grillino, dichiaratosi contrario a partecipare a qualunque alleanza con coloro che dovrebbero andare “tutti a casa”, e tenuto conto altresì che è fallito il progetto delle larghe intese – il Parlamento non è in grado di funzionare regolarmente, per difetto di una stabile maggioranza, tanto più che l’attuale Governo a direzione Renzi ambisce a promuovere la riforma costituzionale che, com’è noto, postula maggioranze qualificate e, com’è altrettanto noto, postula tra tutte le forze politiche una condivisione di valori e di principi, allo stato mancante (ne fa prova il fatto storico che la revisione della Costituzione è stata all’ordine del giorno da oltre un trentennio, più volte tentata sempre fallita). Forse qualcosa si potrebbe attuare ma all’insegna di compromessi al ribasso, se non addirittura facendo ricorso a pratiche gattopardesche (tutto cambia, affinché tutto resti come prima). Il presidente della Repubblica, ostinandosi a non fare l’unica cosa che è necessario fare siccome il Parlamento non è in grado di funzionare regolarmente, cioè sciogliere le Camere a sensi dell’art. 88 della Costituzione, non fa certamente l’interesse del Paese. Per altro non è chiaro il motivo di questo comportamento di Napolitano: mantenere al potere i suoi compagni, ovvero usare questo Governo per tener fede agli impegni assunti personalmente con Angela Merkel? (come non è chiaro l’atteggiamento di Berlusconi nel sostenere la continuità di questa legislatura). Ai posteri svelare il mistero. Ma, nell’una o nell’altra ipotesi, è evidente che il Presidente della Repubblica ha recepito l’assistenza della Corte costituzionale, la quale, come si è sopra evidenziato, ha mostrato ancora una volta di avere una propensione a invadere il campo, non suo, della politica. Quello che, però, qui mi preme dire – e concludo – è che si sta esponendo il Paese a un grave pericolo, quello dell’annullamento, per illegittimità costituzionale, dei provvedimenti che il Parlamento ha emesso e continua ad emettere dopo la pubblicazione su G.U. della sentenza d’incostituzionalità del Porcellum. Usando una nota metafora statunitense: l’albero avvelenato non può che dare frutti marci. Sia chiaro: ho affrontato questo tema – per me doloroso perché rivelatore della pochezza culturale o dell’arbitrio degli attuali detentori del potere, di qualunque potere – per obbedire alla mia coscienza di cittadino di questa, nonostante tutto, amata, cara e bella Italia. 68 Temi Romana Cronache e attualità L’Avvocatura Pubblica quale strumento per la realizzazione dei principi di legalità, economicità, efficacia ed efficienza dell’attività amministrativa Stefania Ricci Avvocato dell’Avvocatura Regione Lazio 1. L’avvocato pubblico: professionista e funzionario pubblico Nell’ambito della professione forense, l’avvocato pubblico rappresenta un’eccezione. Una norma specifica, l’articolo 23 della legge professionale n. 247/2012, disciplina gli avvocati degli enti pubblici per garantirne caratteristiche identiche a quelle dei liberi professionisti. Il rispetto dei principi e delle garanzie professionali è anche l’obiettivo che persegue il regolamento degli uffici legali pubblici, approvato dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma nell’adunanza del 13 dicenbre 2013, che prevede presupposti e requisiti per la creazione di tali uffici nonché per l’iscrizione degli avvocati negli elenchi speciali. La figura dell’avvocato pubblico è particolare perché al ruolo di avvocato professionista affianca quello di pubblico funzionario. Questa duplice veste di professionista e funzionario pubblico dipendente, se da un lato pone problemi contrattuali e organizzativi nel rapporto avvocato/amministrazione-“datore di lavoro”, dall’altro connota in modo particolare il rapporto avvocato/amministrazione-“cliente”. L’avvocato pubblico, infatti, ha quale unico ed esclusivo “cliente” l’ente di cui è dipendente e che è chiamato a difendere ed assistere legalmente nel momento in cui entra in conflitto con altri soggetti. Essendo un dipendente, quindi incardinato nell’ente, non è soggetto solamente agli obblighi derivanti dal contratto di lavoro e dai doveri posti dal codice deontologico, ma partecipa della funzione dell’ente ed è chiamato a curare l’interesse pubblico attributo dalla legge all’ente. La cura di un interesse pubblico, impone all’ente di indirizzare tutta l’attività, amministrativa, tecnica, contabile, organizzativa, contrattuale, e tutti i rapporti sia Temi Romana pubblicistici che privatistici, a perseguire quell’interesse, e ciò anche quando l’attività o i rapporti diventano patologici e generano contenzioso. Quando accade ciò al funzionario subentra l’avvocato, la cui attività è in continuità con quella del funzionario. In tutto il contenzioso, anche se di diversa natura, civile, amministrativa o penale, l’interesse pubblico rimane una costante, pur spostandosi sullo sfondo della fattispecie dedotta in giudizio. Sicché, nel momento in cui l’avvocato pubblico difende l’attività svolta dal funzionario, nel difendere la specifica situazione, sostanzialmente difende in modo diretto o indiretto l’interesse pubblico. Questa è la caratteristica della sua attività che la rende del tutto peculiare. Infatti, diversamente dall’avvocato libero professionista che è chiamato a tutelare i diritti del privato cittadino o a dimostrare che non ha leso diritti altrui, l’avvocato pubblico deve far valere le ragioni dell’amministrazione per dimostrare che l’interesse pubblico è stato soddisfatto. Mentre il primo difende un soggetto che cura il proprio interesse, il secondo difende il funzionario che cura l’interesse altrui, ossia quello della collettività. 2. Il principio di legalità come obiettivo dell’attività dell’avvocato pubblico La difesa dell’attività del funzionario non è fine a se stessa ma è finalizzata a dimostrare il perseguimento degli interessi della collettività e la legittimità dell’azione e, quindi, a dimostrare il rispetto del principio di legalità. Il punto di riferimento dell’attività dell’avvocato quindi è il principio di legalità inteso come limite esterno all’attività, ossia rispetto del fine e dei limiti del potere stabiliti dalla legge (conformità formale alla legge), e come limite interno all’attività, cioè conformità delle modalità di esercizio del potere alla disciplina sostan69 Cronache e attualità ziale (conformità sostanziale dell’attività alla legge). In realtà, anche l’avvocato libero professionista, quando difende l’ente pubblico, deve seguire la stessa logica dell’avvocato pubblico e difendere la situazione dedotta in giudizio in funzione della difesa dell’interesse pubblico, tuttavia, esegue una prestazione contrattuale e professionale in base ad un contratto d’opera intellettuale (species del genus contratto di lavoro autonomo) che lo lega all’ente e nei cui confronti, quindi, risponde a titolo di responsabilità contrattuale. La sua attività è sganciata da quella del funzionario. L’avvocato pubblico, invece, sebbene con modalità e su piani diversi, svolge un’attività di cura dell’interesse pubblico che è in continuità con quella del funzionario, perché essendo dipendente dell’ente, così come il funzionario, è tenuto al rispetto delle norme che vincolano il fine dell’ente stesso e stabiliscono le modalità d’azione. Ciò comporta che per l’attività specificatamente professionale, ferma restando la responsabilità contrattuale, risponde anche a titolo di responsabilità amministrativo-contabile, qualora non abbia agito nell’interesse dell’ente provocando in tal modo un danno erariale. Se l’avvocato pubblico non svolge un’adeguata o tempestiva difesa dell’ente, per esempio non propone opposizione ad un decreto ingiuntivo nei termini di legge, essendo un pubblico dipendente, può incorrere in un’azione di responsabilità amministrativo-contabile, oltre che in provvedimenti disciplinari o di tipo economico scaturenti dalla responsabilità contrattuale, mentre l’avvocato libero professionista risponde solo nei confronti dell’ente per inadempimento contrattuale. Obiettivo dell’attività di difesa in giudizio, quindi, è dimostrare che l’amministrazione ha rispettato il principio di legalità perché ha perseguito l’interesse pubblico attribuito dalla legge ed ha seguito, nelle modalità di azione, le regole ed i parametri dettati dalle norme per l’esercizio del potere. Mentre nel contenzioso amministrativo, dove si discute dell’esercizio del potere, la difesa dell’interesse pubblico è immediata, nel contenzioso civile avviene in via indiretta attraverso la difesa degli interessi propri e strumentali dell’ente che si configurano nell’attività privatistica. Nei giudizi amministrativi la legittimità dell’azione può essere messa in discussione per violazioni di regole procedimentali, cioè per vizi formali. In tal caso l’av- vocato, in ossequio all’art. 21 octies L. 241/90, deve dimostrare che quei vizi non inficiano la sostanza del provvedimento perché la scelta dell’amministrazione non avrebbe potuto essere diversa. Altre volte, invece, si contesta la correttezza della scelta discrezionale, sicché, sulla base di motivazioni scarne, si prospettano vizi sostanziali, quali il difetto di motivazione o l’eccesso di potere. L’avvocato allora, senza incorrere in una motivazione postuma, deve replicare evidenziando, attraverso la produzione documentale che l’iter logico-giuridico seguito ha portato ad una scelta corretta, satisfattiva dell’interesse pubblico. Nel contenzioso civile, invece, in primo piano compaiono gli interessi propri dell’organizzazione, cioè dell’ente che si avvale della posizione di autonomia negoziale, mentre l’interesse pubblico attribuito rimane sullo sfondo. In questi giudizi l’avvocato deve rappresentare che l’amministrazione nei rapporti privatistici ha rispettato le norme civilistiche che disciplinano proprietà, obbligazioni, contratti, e tuttavia nel fare ciò, evidenzia che l’interesse pubblico è stato perseguito perché anche gli strumenti privatistici vengono utilizzati dall’ente per la cura dell’interesse pubblico affidatogli, come sancisce l’art. 1 della L. 241/90. L’attività dell’avvocato pubblico però non consiste solo nella difesa giudiziale ma anche nell’assistenza legale finalizzata a superare criticità nell’azione dell’ente, che si possono determinare fin dalla fase procedimentale. È questo forse l’ambito in cui l’avvocato pubblico collabora maggiormente al rispetto del principio di legalità perché può orientare operato dell’amministrazione suggerendo percorsi alternativi a quello giudiziario e più garanti dell’interesse pubblico, come l’adozione di provvedimenti di autotutela o integrativi o confermativi ma con una motivazione più articolata o la riedizione corretta del potere piuttosto che l’impugnazione di sentenze sfavorevoli o, ancora, in campo civilistico, segnalando l’inopportunità di opposizioni a ingiunzioni di pagamento quando il debito sussiste o predisponendo schemi di transazioni che prevengano sentenze di condanna. 3. La realizzazione dei principi fondamentali di economicità efficacia ed efficienza La duplice veste di avvocato e pubblico dipendente non è rilevante solo per gli aspetti di legalità ma anche per 70 Temi Romana Cronache e attualità il buon andamento dell’attività stessa i cui corollari sono l’economicità l’efficacia e l’efficienza. A partire dalla Legge n. 241/1990 “buon andamento” dell’attività amministrativa ha assunto il significato di raggiungimento del miglior risultato possibile. In questa accezione rientrano pienamente le così dette tre “E”, cioè l’economicità, l’efficacia e l’efficienza, criteri mutuati dal mondo aziendale per essere applicati alla gestione delle pubbliche amministrazioni in modo da avvicinarla ad un modello più snello, quale è quello privatistico. La legge sul procedimento espressamente sancisce i criteri di economicità ed efficacia, da cui quello di efficienza si ricava. L’economicità consiste nell’utilizzare la minore quantità di risorse possibili in modo che i costi della gestione amministrativa, non solo non superino i benefici previsti, ma siano anche adeguati ad essi. Il principio di economicità, quindi, deve essere coniugato con quello di proporzionalità, nella sua valenza economica, poiché richiede che i costi della gestione non siano mai superiori a quelli necessari al perseguimento delle finalità pubbliche. Il principio di efficacia misura il rapporto tra risultati ottenuti ed obiettivi prestabiliti. L’efficacia, quindi, attesta la capacità della P.A. di raggiungere gli obiettivi programmati. L’efficienza non è sinonimo di efficacia poiché mette in relazione la quantità di risorse impiegate con il risultato raggiunto e scaturisce, perciò, dalla combinazione di efficacia ed economicità. L’attività della P.A., infatti, può essere efficace, perché raggiunge i risultati previsti, ma inefficiente perché utilizza troppe risorse oppure, viceversa, inefficace, per il mancato raggiungimento dell’obiettivo, ma efficiente perché il risultato è comunque adeguato alle risorse impiegate. Essendo inseriti nel novero dei principi fondamentali dell’azione amministrativa, efficacia economicità ed efficienza sono parametro di valutazione (in termini di legittimità) dell’attività dell’amministrazione e, quindi, anche dell’attività dell’avvocatura interna ad un ente. Dal punto di vista dell’economicità (rapporto tra risorse utilizzate e risultati ottenuti) non v’è dubbio che, nei casi in cui il contenzioso dell’ente non sia occasionale ma abbia frequenza e consistenza elevate, l’avvocatura pubblica, essendo una struttura dell’ente, Temi Romana consente di contenere i costi della difesa giudiziale che sarebbero sicuramente più alti se fosse affidata ad avvocati del libero foro. Infatti, da un lato i costi di gestione della singola struttura (utenze, servizi, attrezzature informatiche) incidono in modo proporzionale alle dimensioni dell’ente per cui, tanto più l’ente è grande tanto più sono ammortizzate, dall’altro lato, i costi degli avvocati, essendo dipendenti dell’ente, sono limitati agli stipendi previsti dai contratti collettivi. Per stabilire se l’avvocatura pubblica assicura o meno l’economicità occorre, quindi, verificare i risultati ottenuti con le risorse impiegate. Non è superfluo chiarire che per risultato non può intendersi l’esito favorevole del giudizio perché è noto che l’obbligazione dell’avvocato è un’obbligazione di mezzi e, quindi, il punto di riferimento per la verifica del risultato è il rapporto tra il costo generale sostenuto per la gestione del contenzioso e la quantità di contenzioso gestito. La quantità di contenzioso dell’ente è fondamentale per valutare se l’avvocatura interna risponde al criterio di economicità. Sicuramente in un ente di piccole dimensioni - come per esempio un comune con un basso numero di abitanti in cui è raro che si crei un contenzioso giudiziario non è economico dedicare una struttura unicamente all’attività legale perché i costi non verrebbero ammortizzati. In tal caso può essere più conveniente incaricare all’occorrenza un avvocato del libero foro. Quando, invece, l’ente ha dimensioni grandi, un ufficio dedicato come un’avvocatura interna diventa una soluzione economicamente vantaggiosa. L’analisi dei costi, sebbene sia la prima operazione da compiere è, tuttavia, un’analisi superficiale, che potrebbe non essere sufficiente per stabilire se per l’ente avere un’avvocatura interna è economicamente utile. Occorre verificare, infatti, anche se le cause sono state effettivamente trattate o solamente prese in carico dall’avvocatura, se quindi l’avvocatura ha un ruolo attivo o solo di intermediario con i professionisti esterni. Sicché, all’analisi dei costi va associata l’analisi dei risultati raggiunti. Più significativa è la verifica dell’efficacia dell’avvocatura pubblica, ossia se sia stata capace di raggiungere gli obiettivi programmati e, quindi, il rapporto tra 71 Cronache e attualità risultati ottenuti e gli obiettivi prestabiliti sia positivo. L’obiettivo dell’ente che istituisce una propria avvocatura è assicurare la trattazione al proprio interno degli affari legali. L’avvocatura, infatti, è una struttura “dedicata” alla cura dei giudizi in cui l’amministrazione è attore o convenuto. Si può dire, quindi, che l’obiettivo è raggiunto al massimo grado se tutti i giudizi presi in carico vengono poi assegnati, studiati, seguiti, conclusi, senza lasciare priva di attenzione alcuna vicenda controversa. L’efficacia dell’avvocatura si può misurare proprio nella quantità di affari legali concretamente trattati rispetto a quelli complessivamente entrati. Sicché, un’avvocatura si può ritenere tanto più efficace quanto più riesca a controllare gli affari legali presi in carico. Per ottenere questo risultato è necessario innanzitutto un ufficio adeguatamente organizzato, composto da personale qualificato e mezzi idonei, per poter materialmente esaminare, valutare, schedare, conservare tutti gli atti, giudiziari e non, che entrano al protocollo. Gli affari, in base all’oggetto, possono essere assegnati ad un legale oppure al personale amministrativo o trattati come affari generali o archiviati, ciò che conta ai fini dell’efficacia è che a ognuno sia data la corretta destinazione e possano essere conosciuti e monitorati al fine di avere il controllo di tutto il contenzioso. Fondamentale, per assicurare l’efficacia di un’organizzazione di persone e mezzi, è il coordinamento. Nell’avvocatura pubblica tale attività compete all’avvocato preposto alla sua direzione il quale deve organizzare la struttura ottimizzando le risorse umane e strumentali disponibili. A tal fine il coordinatore deve valutare l’importanza della questione e l’interesse dell’ente, stabilire come deve essere trattata, se è necessaria l’attività difensiva o di solo studio o è sufficiente il monitoraggio, oppure se rientra tra le ipotesi di difesa da parte dei funzionari (controversie tributarie o le opposizione alle ordinanze-ingiunzioni ed ai verbali di accertamento di violazione al codice della strada) deve assegnare gli affari legali in base alle competenze e attitudini del personale e distribuire i compiti in modo razionale così da ottenere, con le professionalità e i mezzi a disposizione, il miglior risultato possibile in termini di efficacia. Una buona organizzazione è garanzia di efficacia, ma poiché le avvocature pubbliche fanno parte della pub- blica amministrazione soffrono degli stessi suoi mali e spesso non sono adeguatamente organizzate rispetto alle competenze e al carico di lavoro che sopportano. Accade però che alle disfunzioni organizzative pongono rimedio gli avvocati e i dipendenti amministrativi che, proprio per la peculiarità dell’attività, scandita dai termini perentori, si fanno carico personalmente di adempimenti e di attività che esulano dalle loro competenze pur di portare a compimento la pratica assegnata. Quasi sempre, quindi, l’efficacia dell’avvocatura, ossia il raggiungimento dei risultati attesi, anche quando manca un’organizzazione adeguata, è comunque garantita dagli avvocati e dai funzionari. L’ultimo e più importante passaggio dell’analisi dell’attività dell’avvocatura interna all’ente è quello relativo all’efficienza che scaturisce dalla combinazione dell’efficacia e dell’economicità poiché indica il rapporto tra risorse impiegate e risultato raggiunto. L’analisi mostra l’impegno economico dell’ente per l’effettiva trattazione al suo interno degli affari legali. Efficienza dell’avvocatura significa, quindi, adeguatezza dei costi sostenuti alla quantità e qualità del contenzioso concretamente trattato. Il risultato positivo o negativo emerge dal confronto con i presumibili costi delle cause calcolati con le tariffe forensi, ossia il parametro ufficiale per la quantificazione del compenso degli avvocati del libero foro. Perché l’analisi sia rappresentativa della realtà occorre considerare non solo la quantità delle cause trattate ma anche la qualità. Sicché l’avvocatura pubblica è efficiente quando riesce a provvedere complessivamente alla difesa dell’ente a costi inferiori a quelli di mercato. In linea generale si dovrebbe poter dire che tanto più l’ente è articolato per struttura e competenze, e quindi produce un contenzioso ingente e diversificato, tanto più l’avvocatura interna è potenziale strumento di efficienza dell’azione amministrativa, fermo restando che sia ben organizzata ed adeguatamente fornita di risorse umane e strumentali altrimenti la complessità e quantità di affari trattati potrebbe essere al contrario causa di inefficienza. Certamente l’efficienza dell’azione è favorita dal rapporto che l’avvocatura pubblica, essendo una struttura dell’ente, ha con le altre strutture amministrative. Gli avvocati interni, infatti, facendo parte dell’ammini- 72 Temi Romana Cronache e attualità strazione ne conoscono meccanismi e procedure, spesso conoscono personalmente i colleghi funzionari, il che snellisce le relazioni, semplifica i contatti e crea le condizioni per poter ottenere in modo rapido e utile le informazioni e i documenti necessari allo studio del caso e alla predisposizione degli atti difensivi. D’altro canto anche i funzionari, nei rapporti con gli avvocati interni possono omettere alcune formalità, necessarie, invece, nei rapporti con l’esterno. La collaborazione che si può creare tra colleghi dello stesso ente, sebbene con ruoli diversi, ottimizza le risorse ed al tempo stesso migliora il risultato inteso Temi Romana come trattazione complessiva delle cause ma incide anche sulla crescita professionale del personale perché determina uno scambio di esperienze utile sia all’avvocato che al funzionario. Questo aspetto è molto importante perché la collaborazione tra avvocatura interna e le altre strutture dell’ente nella gestione del contenzioso migliora la professionalità del personale e la qualità del lavoro e, quindi, dimostra ancora le potenzialità dell’avvocatura pubblica come strumento di garanzia del principio di legalità e dei criteri di economicità, efficacia ed efficienza dell’azione amministrativa. 73 Cronache e attualità Convegno Roma – Camera dei Deputati Complesso di Vicolo Valdina Sala del Cenacolo 16 gennaio 2014 – Relazione La mediazione in Europa e in Italia Esperienze a confronto in uno studio del Parlamento Europeo Il ruolo della mediazione nel sistema giudiziario italiano Giorgio Santacroce Primo Presidente della Corte di Cassazione 1. Parto da alcuni dati confortanti, dai quali è possibile trarre delle considerazioni utili a inquadrare e approfondire il senso e la portata del ripristino (ma c’è chi ha parlato di una vera e propria “resurrezione” o addirittura di un “blitz del governo”) della mediazione obbligatoria attuato dal c.d. decreto del fare (D.L. 21 giugno 2013, n. 69, convertito con modificazioni dalla legge 9 agosto 2013, n. 98), dopo la battuta d’arresto impressa all’istituto dalla Corte costituzionale con la sentenza del 23 ottobre 2012, n. 272. La quale – dichiarando l’illegittimità costituzionale del D.Lgs. 4 marzo 2010, n. 28 per essere andato oltre il perimetro fissato nell’art. 60 della legge delega del 18 giugno 2009, n. 69 – aveva sì cancellato dall’ordinamento l’obbligatorietà del ricorso alla mediazione assunta dal legislatore delegato quale profilo caratterizzante della disciplina in un numerus clausus di controversie civili, ma non aveva toccato il merito della scelta della mediazione e del suo ruolo, essendo l’obbligatorietà venuta meno solo perché non trovava riscontro nei principi e criteri direttivi enunciati dalla legge delega, ispirati alla volontarietà dell’iniziativa e all’intento di promuoverne la diffusione mediante la previsione di incentivi di carattere fiscale. Considerato che ora l’obbligatorietà non fa più perno su una delega, parrebbe di poter escludere che la nuova mediazione obbligatoria sia in conflitto con le conclusioni del giudice delle leggi, anche se non sarebbe stato male che la nuova disciplina, dopo il maquillage che ha subito, fosse stata condensata in un testo normativo sganciato dalla precedente delega e disancorato quindi dalla medesima collocazione topografica, così da apparire frutto di una scelta autonoma e nuova del legislatore. Il primo dato positivo è che, passata la tempesta, la mediazione riprende slancio e, a confermarlo, sono le Camere di commercio, secondo le quali nel solo mese di ottobre gli organismi di mediazione camerali iscritti di diritto al registro tenuto dal Ministero della Giustizia hanno registrato un vero e proprio boom di richieste con il deposito di 1.537 procedure. Un aumento dell’84% rispetto alle 835 procedure depositate fino al 21 settembre scorso, quando il ricorso preventivo alla mediazione era rimasto solo facoltativo. Considerato che il totale delle procedure iscritte nel periodo di non obbligatorietà (tra il dicembre 2012 e il settembre 2013) è stato pari a 5.635, le 1.537 depositate nel mese di ottobre rappresentano il 27,3% di tutti i procedimenti depositati nei nove mesi di mediazione “solo” volontaria. Insomma, dopo il crollo verificatosi a seguito della sentenza della Corte costituzionale, che aveva bocciato l’obbligatorietà della mediazione, il numero delle richieste torna a crescere. Un secondo elemento positivo è che il TAR del Lazio ha respinto il 10 dicembre scorso la richiesta di sospensiva dell’obbligatorietà della nuova disciplina avanzata dall’Organismo Unitario dell’Avvocatura (OUA). Anche se non si è in presenza di una declaratoria di rigetto per manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’obbligatorietà della mediazione, che pure è stata risollevata dall’OUA dinanzi al TAR del Lazio negli stessi termini e con le stesse censure dedotte prima della decisione della Consulta dell’ottobre del 2012, il rigetto della richiesta di sospensiva e il rinvio al giudizio di merito della questione di costituzionalità fanno ben sperare. Dalla Corte di appello di Milano giunge poi la notizia 74 Temi Romana Cronache e attualità zione professionale”. L’attenzione degli ispettori è stata puntata, quindi, da un lato, sulla verifica dei requisiti certificati o autocertificati (tranne la polizza assicurativa, che va presentata in copia), accertando l’effettiva corrispondenza della documentazione prodotta alla realtà e, dall’altro, si è soffermata sui corsi e sui tirocini per l’aggiornamento biennale, obbligatorio per la permanenza nell’elenco ministeriale, tenuto conto che lo svolgimento dei corsi e dei tirocini è stato piuttosto problematico nel periodo in cui la mediazione ha perso il carattere dell’obbligatorietà. Ma non è tutto. Le indicazioni della direttiva ministeriale investono anche la corretta applicazione delle norme regolamentari in ordine alla designazione del mediatore, irrigidite ora dal D.M. n. 145 del 2011 che ha modificato il D.M. n. 180 del 2010, prevedendo che gli affari di mediazione siano assegnati con criteri “inderogabili” fissati dal regolamento dell’organismo e “rispettosi” della competenza professionale del mediatore, in base anche al suo titolo di studio. del primo via libera alla mediazione c.d. endoprocessuale. Con ordinanza del 29 ottobre 2013, la Corte distrettuale ha disposto il rinvio delle parti davanti a un organismo per il tentativo di conciliazione. L’oggetto della lite riguarda un credito contestato nel suo ammontare derivante dall’assegno di mantenimento di divorzio. Nel provvedimento si precisa che la materia familiare non preclude ex se l’accesso alla mediazione quando si controverte di situazioni patrimoniali e, quindi, di diritti disponibili. È interessante notare come l’ordinanza faccia riferimento a un contesto relazionale nel quale il giudice punta su un rapporto “destinato a proiettarsi nel tempo, in quanto i litiganti, non più coniugi [perché divorziati], sono tuttavia ancora genitori”: il che spinge il giudice a orientarsi verso il perseguimento dell’interesse “preminente” dei figli minori, valorizzando le opportunità mediative offerte dal sistema. Ma le notizie buone non sono finite. Sono partiti finalmente i controlli sugli organismi di mediazione, sia a campione che su sollecitazione e, ancora, sia per l’accreditamento che sulla professionalità dei mediatori. Il Ministero della Giustizia ha stretto la vigilanza sugli organismi di mediazione per garantirne la qualità, l’imparzialità e l’economicità del servizio. E lo ha fatto nel solco delle linee guida individuate con una direttiva del 5 novembre scorso e precisate con una circolare del 27 novembre successivo. Ora è noto a tutti che la previsione del tentativo di mediazione come condizione di procedibilità della domanda giudiziale per la risoluzione di determinati gruppi di controversie ha provocato un’impennata del numero degli organismi di mediazione (che sono arrivati a 1.009) e degli enti di formazione per i mediatori (che alla fine di novembre erano 403). Una crescita che era andata avanti senza controlli, trattandosi di strutture iscritte nei registri tenuti dal Ministero della Giustizia in base al possesso di determinati requisiti (adeguata capacità organizzativa e finanziaria, polizza assicurativa di importo non inferiore a 500 mila euro, requisiti di onorabilità dei soci e degli amministratori, garanzie di indipendenza e riservatezza nello svolgimento della mediazione, possesso di una laurea triennale, ecc.). La giusta preoccupazione del Ministero è sempre stata che il procedimento di mediazione si svolga in modo da assicurare ai cittadini che debbano o intendano avvalersene “un elevato livello di prepara- Temi Romana 2. Fin qui la cronaca di questi ultimi mesi. Ma le indicazioni che si traggono da queste notizie – nel segnalare emblematicamente una ripartenza della mediazione per i tratti di novità che la caratterizzano e per l’attenuarsi di quel clima di preconcetta ostilità che aveva accolto il suo debutto nel marzo 2010 – consentono di entrare nel vivo di quella che è stata ribattezzata la fase 2 dell’istituto, in vigore dal 21 settembre scorso (ma c’è chi dice dal 20, non essendoci accordo sulla sua data di decorrenza) e di mettere in luce le potenzialità effettive dell’istituto. Un fenomeno, la mediazione, che trae origine da quella law explosion che si è registrata all’improvviso in tutta Europa e che si è avvertita in misura massiccia in Italia, nel momento in cui si è passati da una giustizia d’élite a una giustizia di massa, caratterizzata dall’emergere e dal riconoscimento di una pluralità di nuovi diritti (tutela delle minoranze, questioni di genere, ecc.), fonte di un numero illimitato di controversie dalla durata incontrollabile, e si è stati costretti a prendere atto che l’impegno dei giudici statali non poteva spingersi più in là di tanto, né si potevano aumentare le risorse per farvi fronte. È da questo momento che si è cominciato a parlare di ADR (Alternative Dispute Resolutions). La CEPEJ le 75 Cronache e attualità ha individuate come metodo generale di composizione delle controversie, al pari della conciliazione e dell’arbitrato, “alternative” al processo di cognizione dinanzi al giudice statale. Le ADR hanno trovato un esplicito riconoscimento nelle istituzioni dell’Unione europea, per effetto della direttiva del Consiglio d’Europa del 21 maggio 2008, relativa alla mediazione delle controversie transfrontaliere: la quale – precisa espressamente – può fornire una risoluzione extragiudiziale conveniente e rapida delle controversie in materia civile e commerciale. È da qui che si è fatta lentamente strada in Italia la mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali, come canale privilegiato per chiudere le liti e strumento centrale per l’efficienza del sistema giudiziario civile, che è uno degli elementi in base ai quali si misura l’affidabilità di un Paese nel panorama internazionale. Essendo chiamata a svolgere questo ruolo propulsivo la mediazione ha il sapore – come qualcuno ha detto – di una vera e propria rivoluzione di qualitá etica. Perché essa, come metodo negoziale di composizione delle controversie, non va vista solo e prevalentemente come uno strumento di commodus discessus dalla giustizia civile statale, cioè come un innegabile mezzo deflattivo atto a decongestionare il carico di lavoro dei giudici professionali, ma rappresenta anche uno strumento di accesso alla giustizia, in quanto espressione tangibile di “quel movimento mondiale per rendere i diritti effettivi”, che è stato alla base del grande progetto di Access to justice di matrice nordamericana, promosso da Mauro Cappelletti alla fine degli anni settanta e ripreso piú recentemente da Varano. La flessibilità dello strumento, favorendo la composizione delle controversie in modo semplice, rapido e informale, svolge una funzione di rete di contenimento rispetto all’abuso del processo, ma opera anche di sponda per ampliare l’accesso a soluzioni del conflitto che dispongano di plurime vie d’uscita, non limitate all’arbitrato o all’innesco dei procedimenti giudiziari, consentendo alla mediazione di dimensionarsi rispetto a contrasti che la logica del processo potrebbe non riuscire a mettere completamente a fuoco. La stessa Commissione europea non ha mancato di rilevare come i programmi di Alternative Dispute Resolutions siano nati “per creare una forma di pacificazione sociale su base più consensuale e appropriata di un ricorso al giudice”, spingendo le parti verso una soluzione amichevole e bonaria. È quindi estremamente riduttivo confinare le forti potenzialità di sviluppo sociale della mediazione al mero sfoltimento dei processi civili, oppure fare i conti sul numero di liti che alleggeriranno i nostri tribunali, senza dare evidenza alla portata avanguardista dell’istituto. Anche se forse è la meno valorizzata, la pacificazione è sicuramente la più importante funzione che la mediazione è chiamata ad assolvere dal punto di vista antropologico e culturale, perché essa guarda fondamentalmente in avanti e agisce sul rapporto complessivo tra le parti, puntando a far riscoprire, attraverso l’accordo tra esse, le virtù del consenso e della negoziazione paritaria. La mediazione, insomma, fa scoprire un modo diverso di porsi dinanzi alle dinamiche del conflitto che contrappone le parti. Ancor prima di assumere rilievo giuridico, il contrasto tra le parti – si fa osservare – va analizzato a livello psicologico, puntando sulle caratteristiche comportamentali e le competenze psicologiche che il mediatore deve possedere per una gestione ottimale del contrasto stesso. L’opera del mediatore non può essere, quindi, frutto di improvvisazione. Donde una valorizzazione della sua neutralità, come ferma volontà di sviscerare tutti i più segreti risvolti del conflitto, senza emettere giudizi. Al mediatore si richiede di essere qualcosa di diverso dal giudice, il quale ha spesso una visione parziale della controversia che è chiamato a dirimere perché vede solo la punta di un iceberg, laddove al mediatore è richiesto di cogliere tutto l’iceberg, di capire cioè tutti i veri bisogni, spesso non manifesti, delle persone coinvolte nella controversia. Per meglio addentrarsi nella deontologia del mediatore, è utile prendere le mosse dalle competenze che il mediatore deve possedere per aiutare le parti a raggiungere un accordo. Quella del mediatore – si sa – è una figura professionale trasversale rispetto alle competenze sia giuridiche che tecniche. Il decreto legislativo del marzo 2010 ha previsto per chi riveste il ruolo del mediatore che questi non debba necessariamente essere un giurista, così come in una lite di tipo tecnico non deve necessariamente essere un esperto della materia oggetto della lite, anche se le conoscenze giuridiche e tecniche possono indubbiamente facilitargli il compito. L’attività del mediatore, insomma, può essere definita come un’atti- 76 Temi Romana Cronache e attualità vità meta-giuridica, perché coinvolge competenze tipiche di un “diplomatico” di carriera, dovendo spaziare dalla comunicazione alla psicologia, dal diritto all’economia e a molti altri ambiti di interesse. A parte le garanzie di indipendenza, imparzialità e riservatezza richieste agli organismi di mediazione per l’iscrizione nel registro, è risaputo che il procedimento di mediazione può avere inizio soltanto dopo la sottoscrizione della dichiarazione di imparzialità da parte del mediatore designato. A stabilirlo è l’art. 14 comma 2 lett. a) del decreto legislativo n. 28 del 2010. Va da sé che l’adempimento di quest’obbligo, che appare meramente formale, mira in realtà a responsabilizzare contestualmente gli organismi di mediazione e la scelta dei mediatori. Si richiede cioè una particolare cura agli organismi nella scelta del mediatore (e non soltanto con riferimento al profilo dell’imparzialità), rifuggendo da semplicistici meccanismi di turnazione automatica. Il mediatore deve saper condurre la mediazione in modo non solo trasparente, ma anche scrupoloso e coscienzioso e deve gestire la stessa, facendo rispettare alle parti obblighi di correttezza e di rispetto reciproco, in modo che il procedimento possa avere il più alto grado di probabilità di riuscita. Da qui l’obbligo di migliorare le proprie capacità tecniche attraverso un continuo aggiornamento teorico e pratico, anche attraverso un continuo confronto con i colleghi mediatori, possibilmente anche di altri Paesi. della sperimentazione e valutare il da farsi. Ma molte altre sono le novità introdotte. Mi limito a indicare le principali in rapida sintesi, non solo per inquadrare meglio l’esatta portata delle modifiche intervenute, ma anche per far capire che certe modifiche, pur in assenza di una cultura della mediazione, possono assicurare una certa effettività al sistema, responsabilizzando le parti sull’utilità della ricerca di una soluzione consensuale nella risoluzione di una certa tipologia di cause. La prima novità rilevante è la centralità del ruolo degli avvocati, cui viene riconosciuto lo status di mediatori di diritto. Le parti dovranno usufruire dell’assistenza tecnica di un legale lungo tutto il corso della procedura e, in caso di accordo, si stabilisce che gli avvocati, sottoscrivendo il verbale di accordo, possano attestare e certificare la sua conformità a norme imperative e di ordine pubblico. Così facendo, il verbale di conciliazione costituisce titolo esecutivo per l’espropriazione forzata, l’esecuzione per consegna e rilascio, l’esecuzione degli obblighi di fare e di non fare, e per l’iscrizione di ipoteca giudiziale. L’assistenza legale, bisogna aggiungere, scatta per la conciliazione obbligatoria e quella disposta dall’Autorità giudiziaria, ma non per i casi di mediazione facoltativa Al Guardasigilli bisogna dare atto di aver insistito molto opportunamente nella sua direttiva del novembre scorso sulle “priorità operative” da osservare in materia di mediazione, identificate essenzialmente nella centralità del ruolo dei mediatori e nella trasparenza di chi amministra la mediazione. Il riferimento accennato al possesso di “un elevato livello di preparazione professionale” è pienamente condivisibile. Così come è opportuno che si assicuri “l’effettiva imparzialità e terzietà degli organismi di mediazione e dei loro mediatori rispetto alle parti coinvolte nel procedimento”, verificando la sussistenza di eventuali commistioni di interessi nella gestione degli organismi di mediazione, che spesso non hanno sedi proprie e, quindi, condividono a diverso titolo, gli spazi di altre attività (da quelle professionali a quelle associative). Non è un caso che agli avvocati sia stato fatto divieto, con la modifica del codice deontologico forense, di fissare la sede dell’ente presso lo studio legale (e viceversa), e che sia stata richiamata l’attenzione sul fenomeno delle convenzioni e degli accordi stipulati fra organismi, avvocati o consulenti, stabilendo nella 3. Chiarito il ruolo della mediazione e del mediatore, giova far notare che le nuove disposizioni seguono in via generale le indicazioni contenute nel capitolo V dedicato all’amministrazione della giustizia contenuto nella Relazione Finale del Gruppo di Lavoro sulle riforme istituzionali istituito lo scorso 30 marzo dal Presidente della Repubblica. Ed è un segnale di strategia positivo che si sia puntato, sotto l’aspetto della cura, più su misure organizzative che solo processuali, incidendo sia sulle controversie in entrata che su quelle per così dire “storiche” perché risalenti nel tempo. Caratteristica della nuova mediazione è, in ogni caso, la sua versione sperimentale. Essa è infatti a tempo. L’obbligo di passare per il tentativo di accordo amichevole sarà in vigore per quattro anni. A stretto giro di boa, già al termine del secondo anno, il Ministero della Giustizia dovrà attivare un monitoraggio degli esiti Temi Romana 77 Cronache e attualità circolare del 27 novembre che queste convenzioni “devono ritenersi non consentite”. Anche le tempistiche della procedura risultano cambiate. Il primo incontro, che opera come una sorta di filtro a scopo esplorativo, è totalmente gratuito e deve avvenire entro 30 giorni dalla ricezione della domanda da parte dell’organismo di mediazione. In questo incontro di esordio (da molti ribattezzato come “incontro informativo”) il mediatore è tenuto a chiarire alle parti la funzione e le modalità di svolgimento della mediazione e a invitare le stesse e i loro avvocati a esprimersi sulla possibilità di iniziare e avviare la procedura di mediazione. Già dal primo incontro, pertanto, qualora fosse dichiarata l’indisponibilità delle parti a proseguire la mediazione, il tentativo sperimentato e fallito consentirà alle parti di adire il giudice, senza che esse siano tenute a versare alcun compenso all’organismo di mediazione. Peraltro, in assenza di giustificato motivo per la mancata partecipazione al procedimento di mediazione, il giudice può desumere argomenti di prova al momento della decisione nel successivo giudizio (art. 8 comma 4 bis). Il giudice, inoltre, se la parte costituita, nei casi in cui è previsto obbligatoriamente l’esperimento del procedimento di mediazione (art. 5) non vi ha partecipato senza giustificato motivo, è tenuto a condannarla al versamento di una somma corrispondente all’importo del contributo unificato che sarebbe dovuto per la presentazione della medesima domanda in giudizio. Indipendentemente dalla fondatezza o meno della domanda proposta in mediazione dal ricorrente, insomma, la mancata partecipazione all’incontro fissato per esperire il tentativo di mediazione si traduce automaticamente in una sanzione che verrà applicata dal giudice nel successivo, eventuale giudizio di merito. Resta da stabilire se il giudice debba formulare la condanna già dalla prima udienza o debba procedervi all’interno del provvedimento con cui definisce il procedimento davanti a lui. L’idea di questo previo incontro di programmazione è apparsa a molti un po’ macchinosa e forse inutile per chi ha già una cultura dell’istituto ed è apparsa, in ogni caso, defatigatoria, sia perché la verifica della mediabilità della controversia non necessita di un ulteriore subprocedimento, sia per i tempi contenuti nei quali deve pervenirsi al risultato della procedura, positivo o negativo che sia. Se però si parte dalla constatazione che molte persone non sanno che cosa sia la mediazione né a che cosa serva, l’incontro può rivelarsi senz’altro utile. L’intero procedimento non può andare poi oltre tre mesi, a fronte dei quattro mesi precedenti (art. 6 comma 1), che aveva suscitato polemiche fra quanti ritenevano di essere costretti ad attendere un tempo troppo lungo dopo il deposito della domanda di mediazione per poter adire l’Autorità giudiziaria ordinaria. L’aver ridotto questo periodo di un solo mese però non è che abbia risolto granché. L’art. 4 prevede inoltre un limite geografico all’operatività degli organismi di mediazione, visto che la relativa domanda deve essere presentata depositando un’istanza presso un ente del luogo del giudice territorialmente competente per la controversia (si noti che una norma analoga è stata inserita in materia di liti condominiali con la riforma del condominio in vigore dal 18 giugno scorso). Si tratta di un’autentica novità. Per la prima volta trova accesso nella procedura di mediazione un criterio di competenza per territorio, attingendo dalla previsione del codice di rito, nel senso che chi presenta la domanda di mediazione è tenuto a individuare innanzitutto il luogo dove andare a ricercare l’organismo di mediazione da adire. In questo modo vengono incentivate le adesioni e sono destinate a diminuire le mancate adesioni motivate da una collocazione territoriale non di gradimento della parte chiamata in mediazione. Nello stesso art. 4 si prevede anche che, in caso di più domande relative alla stessa controversia, la mediazione si svolga davanti all’organismo territorialmente competente presso il quale è stata presentata la prima domanda. Un’altra novità riguarda il catalogo delle controversie che debbono essere oggetto di mediazione, che si è allargato fino a comprendere l’estensione dell’obbligatorietà anche al risarcimento dei danni derivanti dalle professioni sanitarie e non più soltanto mediche. Restano fuori, invece, le controversie relative al risarcimento danni derivante dalla circolazione dei veicoli e dei natanti, così come è stata esclusa la pregiudizialità anche nell’ambito dei procedimenti sommari di accertamento tecnico preventivo. Una mancanza, quella delle cause di risarcimento derivanti da incidenti stradali, che è stata rimarcata da tutti gli operatori del settore, i quali hanno evidenziato come in molti casi rela- 78 Temi Romana Cronache e attualità tivi a istanze di questo tipo le compagnie assicuratrici fossero propense a non presentarsi. È anche vero però che queste controversie, spesso di modesto valore economico, sono quelle che sembrerebbero prestarsi, più di altre, a essere definite con soluzioni transattive o conciliative, per cui la loro esclusione lascia francamente perplessi. Nuovo e per più versi rafforzato è, invece, il ruolo del giudice, al quale è stato attribuito il potere di effettuare nel corso del processo l’esperimento del previo tentativo di mediazione anche nelle cause per le quali esso non è previsto come obbligatorio, individuando così nuovi e più generalizzati spazi di composizione delle controversie. Modificando la locuzione “il giudice può invitare le parti” in “il giudice può disporre l’esperimento del tentativo di mediazione”, l’invito del giudice diviene oggi un vero e proprio obbligo per le parti, senza alcuna possibilità per loro di declinare cortesemente l’invito e di proseguire nel giudizio ordinario, come avveniva in passato. Si introduce così, attraverso la mediazione delegata, una condizione di procedibilità sopravvenuta per ordine del giudice che si affianca alle altre tre forme di mediazione previste dalla legge: il tentativo volontario, quello obbligatorio in tutte le materie di cui all’art. 5 comma 1 bis, e quella delle clausole di mediazione statutarie o contrattuali fondata sul fair-play negoziale, che contengano un patto stipulato tra le parti per vincolarsi reciprocamente nella scelta di un percorso mediativo per l’eventuale ipotesi di una controversia. La scelta del legislatore del 2013 di introdurre una forma di mediazione endoprocessuale rimessa al potere discrezionale del giudice può diventare così un’ulteriore spinta alla diffusione dell’istituto, facendo assumere al magistrato un ruolo rilevante e strategico nella gestione delle cause a lui assegnate. Il secondo comma dell’art. 5 prevede espressamente che “Fermo restando quanto previsto dal comma 1 bis e salvo quanto disposto dai commi 3 e 4, il giudice, anche in sede di appello, valutata la natura della causa, lo stato di istruzione e il comportamento delle parti, può disporre l’esperimento del tentativo del procedimento di mediazione”, aggiungendo che “in tal caso l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale anche in sede di appello”. La nuova normativa, insomma, allarga gli orizzonti della Temi Romana mediazione, collocando il giudice in una posizione di sostanziale “facilitatore” di accordi conciliativi, con chiari intenti deflativi del contenzioso arretrato, considerato che i nuovi meccanismi sono immediatamente applicabili a tutti i processi civili pendenti. L’obbligatorietà della mediazione è destinata a correre, dunque, su due binari: il primo prevede l’obbligatorietà per legge, ristretta solo ad alcune materie e limitata nel tempo per una fase di sperimentazione; l’altro si affida alla valutazione discrezionale del giudice e, per questo, non è vincolato né nei contenuti né nei tempi della sperimentazione, ma viene inserito strutturalmente nei poteri istruttori del giudice. Inutile dire che, grazie alle novità introdotte, ci si augura che il ripristino della mediazione/conciliazione non susciti più le critiche che hanno accompagnato la sua previsione originaria, sminuendo il senso e la portata dell’istituto: che sono realisticamente quelli di prestarsi ad allargare la prospettiva del giudice e a preservare le future relazioni tra le parti, visto che la mediazione si colloca a metà strada tra i metodi negoziali che non coinvolgono terzi (come la transazione) e i metodi in cui il terzo coinvolto ricalca, quanto a qualità soggettiva e a tipo di attività, la figura di un giudice sui generis (come avviene nell’arbitrato). 4. Due parole ancora, prima di concludere, sulla obbligatorietà e sui rischi paventati di una nuova pronuncia di illegittimità costituzionale da parte del giudice delle leggi. Non credo, francamente, che questi rischi ci siano. La direttiva comunitaria del 21 maggio 2008, relativa alla mediazione delle controversie transfrontaliere, non manca di evidenziare l’inesistenza di ostacoli nel diritto comunitario “a una legislazione nazionale che preveda il ricorso alla mediazione obbligatoria oppure soggetto a incentivi o sanzioni, purché tale legislazione non impedisca alle parti di esercitare il loro diritto di accesso al sistema giudiziario” (considerando n. 14 e art. 5, comma 2). Ma nello stesso ordine di idee si colloca anche una sentenza della Corte di Giustizia (quella del 18 marzo 2010, in cause riunite C-317/08, C318/08 e C-320/08) dove, sia pure con riferimento ai servizi di comunicazioni elettroniche, si avverte espressamente che “l’imposizione di una procedura extragiudiziale non deve considerarsi… sproporzionata rispet- 79 Cronache e attualità ad onta della sua natura obbligatoria, dipenderà essenzialmente dall’atteggiamento delle parti verso l’istituto e, più ancora dall’atteggiamento degli avvocati. A scanso di apparire un po’ retorico, la strada da intraprendere e da perpetuare non può seguitare ad essere quella di una preconcetta ostilità verso un istituto che è utilizzato e sta prendendo piede in tutto il mondo (due mesi fa, ricevendo una delegazione di alti magistrati del Bangladesh, ho appreso che anche in quella nazione lontana ci si sta orientando verso la mediazione come modo di risoluzione alternativo delle controversie civili) ma deve essere quella della reciproca rispettosa considerazione e della valutazione dei reali interessi di ciascuna delle parti in conflitto. to agli obiettivi perseguiti allorché, da un lato, non esiste un’alternativa meno vincolante alla predisposizione di una procedura obbligatoria, dato che l’introduzione di una procedura di risoluzione extragiudiziale meramente facoltativa non costituisce uno strumento altrettanto efficace per la realizzazione di detti obiettivi, e dall’altro non sussiste una sproporzione manifesta tra tali obiettivi e gli eventuali inconvenienti causati dal carattere obbligatorio della procedura di conciliazione extragiudiziale”. Quel che conta, insomma, è che non sia impedito alle parti di esercitare il loro diritto di accedere al sistema giudiziario. Va da sé, comunque, che il successo della mediazione, 80 Temi Romana Passeggiata in libreria n° 1-2 Rassegna di dottrina e giurisprudenza a cura dell’Ordine degli Avvocati di Roma In libreria “CODICE DELL’UDIENZA FALLIMENTARE” Antonio Caiafa DIKE GIURIDICA EDITRICE, ROMA pp. 660, euro 25,00 Nell’epoca della “nevrosi” del legislatore si pone all’interprete l’esigenza di avere, per ciascuna materia di riferimento, un quadro legislativo chiaro e puntuale delle norme di applicazione quotidiana. La collana degli Oscar Dike vuole offrire al giurista una serie ben ordinata di testi legislativi di facile e maneggevole consultazione, arricchita, per le norme più importanti, dai testi storici delle disposizioni. Per conseguire l’auspicato fine, gli Oscar Dike sono curati da Maestri indiscussi del diritto italiano e presentano la comodissima veste del codice tascabile. Direttore Responsabile: Mauro VAGLIO Direttore Scientifico: Alessandro CASSIANI Capo Redattore: Samantha LUPONIO Comitato Scientifico: Paola BALDUCCI, Antonio BRIGUGLIO, Luigi CANCRINI, Pierpaolo DELL’ANNO, Antonio FIORELLA, Giovanni Maria FLICK Giorgio LOMBARDI, Carlo MARTUCCELLI, Ugo PETRONIO Eugenio PICOZZA, Giulio PROSPERETTI, Giorgio SPANGHER Alfonso STILE, Federico TEDESCHINI, Roberta TISCINI, Giancarlo UMANI RONCHI, Romano VACCARELLA Comitato di Redazione: Mauro VAGLIO, Pietro DI TOSTO, Antonino GALLETTI Riccardo BOLOGNESI, Fabrizio BRUNI, Antonio CAIAFA Alessandro CASSIANI, Domenico CONDELLO, Antonio CONTE Mauro MAZZONI, Aldo MINGHELLI, Roberto NICODEMI Matteo SANTINI, Mario SCIALLA, Isabella Maria STOPPANI “PROCESSO AMMINISTRATIVO E TUTELA CAUTELARE” Maria Vittoria Lumetti CEDAM, ASSAGO pp. 736, euro 60,00 Si tratta della prima opera, dopo l’entrata in vigore del codice processuale amministrativo, che affronta in maniera sistematica e globale tutta la problematica del processo cautelare amministrativo in ogni fase e grado del giudizio, compresi il processo di ottemperanza, la revocazione, l’accesso, il silenzio, il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, il giudizio risarcitorio, la sospensione della sentenza pendente ricorso in Cassazione e in Adunanza plenaria, la rimessione alla Corte di giustizia e alla Corte costituzionale. Il libro, alimentato dalla passione che il processo amministrativo è ancora in grado di suscitare ed arricchito dall’esperienza quotidiana nelle aule giudiziarie, si propone di offrire una visuale completa della tutela cautelare nel processo amministrativo, anche in raffronto con altri processi e alla luce delle innovazioni recate dal codice e dal diritto comunitario. “ABUSO SESSUALE SUI MINORI. SCENARI, DINAMICHE, TESTIMONIANZE” Giuliana Olzai ANTIGONE, TORINO pp. 375, euro 28,00 Coordinatori: Antonio ANDREOZZI, Andrea BARONE, Camilla BENEDUCE Domenico BENINCASA, Marina BINDA, Ersi BOZEKHU Francesco CASALE, Francesco CIANI, Benedetto CIMINO, Irma CONTI Antonio CORDASCO, Alessandro CRASTA, Carmelita DE FINIS Annalisa DI GIOVANNI, Ruggero FRASCAROLI, Maria Vittoria FERRONI Fabrizio GALLUZZO, Alessandro GENTILONI SILVERI, Mario LANA Paola LICCI, Andrea LONGO, Giuseppe MARAZZITA, Franco MARCONI Alessandra MARI, Gabriella MAZZEI, Arturo MEGLIO, Chiara PACIFICI Ginevra PAOLETTI, Chiara PETRILLO, Tommaso PIETROCARLO Aurelio RICHICHI, Sabrina RONDINELLI, Serafino RUSCICA Marco Valerio SANTONOCITO, Massimiliano SILVETTI, Luciano TAMBURRO Federico TELA, Antonio TESTA, Federica UMANI RONCHI, Clara VENETO Segretario di redazione: Natale ESPOSITO L’orrore degli orrori, quello che nessuno ha voglia di scoprire. L’abuso sessuale sui bambini e le bambine è forse l’ultimo tabù rimasto, quello su cui gravano ancora una forte condanna da parte dell’opinione pubblica e una pesante sanzione di mass media e rappresentanti politici. Su questo reato odioso cerca di far luce il volume di Giuliana Olzai, laureata in Statistica e specializzata in Metodi e tecniche per la ricerca sociale, che ha analizzato i 288 procedimenti giudiziari del Tribunale penale di Roma nel quadriennio 2000-2003 riguardanti proprio gli abusi sui minori di 14 anni. Con un lavoro accurato, l’autrice ha seguito i percorsi processuali delle denunce, ha ripercorso l’iter giudiziario compiuto dalle vittime che denunciano una violenza, perpetrata quasi sempre da persone che conoscono bene, con le quali hanno spesso un legame affettivo. Un’analisi che cerca di aiutare il lettore a comprendere come questo stretto legame fra vittima e carnefice abbia un effetto diretto sull’invasività e la gravità degli abusi, sulla ripetizione delle violenze così come sul tempo che trascorre prima che il bambino o la bambina abbia il coraggio di denunciare. “MANUALE PRATICO DEI MARCHI E BREVETTI” (CON CD ROM) Andrea Sirotti Gaudenzi MAGGIOLI EDITORE, SANTARCANGELO DI ROMAGNA pp. 666, euro 74,00 Progetto grafico: Alessandra GUGLIELMETTI Disegno di copertina: Rodrigo UGARTE ____________ Temi Romana - Autorizzazione Tribunale di Roma n. 320 del 17 luglio 2001 - Direzione, Redazione: P.zza Cavour - Palazzo di Giustizia - 00193 Roma Impaginazione e stampa: Infocarcere scrl - Via C. T. Masala, 42 - 00148 Roma L’opera, aggiornata al D.L. 1/2012 convertito con modifiche in L. 27/2012 che modifica il codice della proprietà industriale (D.Lgs. 30/2005) e alla recente giurisprudenza, caratterizzata da un’impostazione sistematica degli argomenti, ripercorre con taglio agile tutti i principali temi legati alla proprietà industriale, offrendo all’operatore tutti i necessari strumenti pratici. Il testo è suddiviso in sette parti con i rispettivi capitoli e paragrafi che analizzano in modo completo ed esaustivo le materie di “marchi, segni distintivi e brevetti per invenzioni e modelli”. 2014 n° 1-2 Temi Romana n° 1-2 Rassegna di dottrina e giurisprudenza a cura dell’Ordine degli Avvocati di Roma ANNO LXII GENNAIO – GIUGNO 2014